Medicine alternative: una iattura per la sinistra (e non solo)


Riposto questo vecchio post del 2009 anche se mi farò molti nemici e farò arricciare il naso a molti amici. 

L’articolo contiene argomentazioni che oggi non ripeterei, ma in buona sostanza i concetti di fondo rimagono inalterati

di Franco Cilli

Come possano persone raziocinati credere nelle stravaganze e nelle assurdità delle cosiddette medicine alternative, è per me motivo di sorpresa ed anche di preoccupazione. Lo so, non dovrei sorprendermi, le spiegazioni ci sono, ma evidentemente il mio lobo limbico non si arrende e continua a produrre emozioni in risposta a stimoli stereotipati. Amici che conosco da una vita, medici, professionisti che lavorano col cervello, persone ragionevoli, credono che esista una “medicina alternativa”, cioè una scienza che la medicina ufficiale ripudia, oscura, mette all’angolo, ostacola scientemente per biechi motivi di profitto, censura o semplicemente ignora. Lo credono perché vogliono crederci. Per me è una sorta di dissociazione psicotica, di delirio: una parte del loro ego non è disposta ad accettare le evidenze della ragione, malgrado le infinite confutazioni che ridicolizzano le loro credenze. La cosa buffa è che ci credono per una sorta di dover essere, a scatola chiusa, senza neanche preoccuparsi di quale sia la materia del contendere, quella pratica deve essere buona. Punto. Se citi, ad esempio, il dottor Andrew Still e le sue bizzarre teorie, che hanno dato origine all’osteopatia, rimangono a bocca aperta. Andrew Still chi? Ti chiedono. Non conoscono né lui, né le sue teorie: anatomia, anatomia, e poi ancora anatomia (sembra di sentire Lenin)! La patologia che deriva da un’interruzione dell’integrità dell’organo, le manipolazioni, il movimento delle ossa craniche, hai presente? Boh! Nessuna reazione da parte dell’interlocutore fedele. Una mia carissima amica mi spiega pazientemente, con un sorriso di compatimento, che “loro”, gli osteopati, manipolano, ergo fanno qualcosa di pratico, non sono fantasie. Manipolano? E allora? Questa sarebbe una prova di efficacia? Chiunque è capace di manipolare. In base a questa logica i ceramisti ed i fornai sarebbero degli eccellenti terapeuti. Ma loro hanno studiato, e pure tanto! Studiato che?

Questo è il punto. Si può studiare qualcosa per secoli, ma ciò non significa che l’oggetto di studio sia una vera scienza, e che tale presunta scienza dia risultati concreti. Guardate la psicoanalisi. Bisogna provarlo. Non solo, ma le ipotesi di partenza, ciò che costituisce, diciamo così, la parte creativa della ricerca, devono essere anch’esse credibili: se ipotizzo che lo zinco può interferire in determinati meccanismi cellulari che portano poi allo sviluppasi del morbo di Alzheimer, faccio un’ipotesi fondata su una mole di studi precedenti che avvalorano la mia ipotesi di partenza e mi consentono di elaborare un progetto di studio e di ricerca, non dico una cosa campata per aria. Se ipotizzo invece, che un dato fiore, solo perchè assomiglia a un mio cugino grasso e un po’ allegrotto, sia in grado di risintonizzare la mia energia vitale con quella dell’universo, dico solo una patente assurdità (i fiori di Bach! Altra bella chicca).

L’idea in sé di “medicina alternativa” appare, a ben pensarci, alquanto balzana. Oggi medici cosiddetti allopatici e cosiddetti olistici, concordano sulla necessità di un superamento del concetto di “medicina alternativa”, in quanto, come è logico supporre, non esiste una “medicina alternativa”, almeno fino a quando non esisteranno “malattie alternative”. Esiste, si dice, una medicina efficace ed una non efficace, una medicina basata sulle evidenze ed una che poggia su basi poco solide. Vero, sebbene l’idea di una conoscenza alternativa, che si ponga al di fuori dei paradigmi della scienza ufficiale, permane. Questa idea ha radici lontane ed ha rappresentato in passato la necessità di tenere in vita una cultura ed una scienza, come quella tramandata attraverso lo gnosticismo prima ed il movimento delle streghe successivamente, che proclamavano una visione alternativa a quella totalizzante della chiesa ufficiale, decisa a recidere qualunque legame con forme di conoscenza tradizionale ancorate a retaggi precristiani. Secondo uno schema storico di sfida/risposta, il movimento alternativo delle streghe rappresenterebbe una sfida all’avanzare del cristianesimo ed alle sue pretese totalizzanti. Il temine “alternativo”, in relazione alle streghe, evoca quindi una reazione al dispotismo ed alla autorità che è apparso molto suggestivo in epoca recente, soprattutto se agli aspetti esoterici ed antiautoritari si mescolano forti elementi di libertà sessuale e di eguaglianza della donna.

Gli echi di questa cultura sono pervenuti nella nostra epoca, riproponendo in forme nuove la dinamica della sfida/risposta. Ma la società aperta di oggi non è quella della chiesa istituzionalizzata di ieri, e riproporre quella sfida tradotta in termini antiscientifici ed esoterici appare una totale assurdità. Seppure ci rappresentassimo come classe separata e contrapposta ad una classe dominante, sarebbe difficile considerarci estranei ad un sistema di produzione della scienza e del pensiero che ci pongano al di fuori della scienza e del sapere “istituzionale”. La “socializzazione” della produzione e del sapere ci rende tutti “complici” ad un certa maniera del sistema. La cultura alternativa diviene quindi una delle forme di produzione alternativa fra le tante, che non hanno alcun aggancio con la scienza vera e propria.

A questo punto, anche se non amo farlo, vista la mole di pubblicazioni in merito, è necessario parlare di omeopatia, esempio paradigmatico, per le persone razionali, dell’inconsistenza delle medicine alternative e della loto totale assenza di basi scientifiche. Conosciamo tutti (almeno spero), la storia del Dott. Hahnemann, il quale si convinse del principio divenuto famoso del similia similibus curantur dopo aver assunto ripetute volte dosi di Cinchona succirubra, la fonte del chinino, che gli aveva provocato sintomi quali: mani e piedi freddi, stanchezza e sonnolenza, ansia, tremore, prostrazione, mal di testa pulsante, arrossamento delle guance e sete, ma senza innalzamento della temperatura, una febbre senza febbre insomma. Quella che secondo alcuni, con ogni probabilità, non fu nient’altro che una reazione di natura allergica a detta pianta, divenne la fonte di ispirazione di una rivoluzione nel campo della medicina, rivoluzione che Hannemann stesso paragonò alla riforma protestante in campo religioso: per guarire una malattia bisogna creare una malattia artificiale che scacci la vera malattia.

Facciamo un breve riassunto. Forse risulterà pedante, considerato il numero di insigni giornalisti e studiosi che da anni ormai ci spiegano il significato delle diluizioni omeopatiche, ma un po’ di ripetizione non guasta. Il Prof Hahnemann era convinto, come abbiamo già accennato, che una quantità infinitesimale di quella stessa sostanza che provoca i sintomi nel sano, era in grado di curare quegli stessi sintomi nella persona malata. Le diluizioni centesimali per Hannemann, in base alla sua esperienza personale, rappresentavano la soluzione del problema. In pratica 1CH corrisponde ad un grammo di tintura madre diluita cento volte, 2CH ad una diluizione centesimale della prima diluizione, 3CH ad un ulteriore diluizione centesimale e così via, fino ad arrivare ad una diluizione di 30CH, una di quelle preferite da Hahnemann. Tradotto in numeri, 30 CH corrisponde ad 1 diviso 1 con 60 zeri. Qualcuno ha stimato che un grammo di sostanza iniziale a una diluizione centesimale di 30CH, finisce diluito ad un volume pari a 714 milioni di miliardi il volume del sole. Ai tempi di Hahnemann il principio di Avogadro formulato solo nel 1860 era sconosciuto (Hahnemann muore nel 1843). Tale principio stabilisce che una grammomecola o mole (peso molecolare espresso in grammi) contiene un numero fisso di molecole pari a 6,022×10²³. Una diluizione pari a 12CH non contiene praticamente neanche una molecola del composto originario e successive diluizioni non fanno che diluire una soluzione idroalcolica con altra soluzione idroalcolica. A questo punto sembrerebbe tutto risolto. Quella che poteva essere una teoria interessante per i tempi si rivela del tutto infondata alla prova dei fatti. Non è così semplice. Il motivo del persistere dell’omeopatia, come delle altre medicine alternative infatti non risiede nella loro validità comprovata e nemmeno nei loro fondamenti scientifici, il motivo risiede, come ho già detto, nel tasso di dissociazione psicotica presente nella popolazione di un società umana. Sappiamo benissimo che il delirio ha come principale caratteristica l’impermeabilità dei propri contenuti a qualsiasi confutazione, e nel momento in cui una tesi non è più sostenibile, il delirio permane ma in forme mutate. Ora sarebbe interessante fare una dissertazione sul significato di verità e sull’arbitrarietà del concetto di delirio, che non sarebbe altro che una convinzione non condivisa dalla maggioranza delle persone, ma bisogna ammettere che se la società è andati avanti nelle sue conquiste questo non è stato grazie alle paralogie del pensiero primitivo o al potere del pensiero magico e né all’evocazione di oscure divinità che animano il cielo durante i temporali o all’animismo che considerava la malattia un perturbazione dell’anima. Il progresso è avvenuto nel momento in cui si è affermato un procedimento empirico, un metodo di indagine della realtà e di ragionamento basato sulle evidenze dell’osservazione. Il delirio come pure il pensiero magico sono parte di una visione delle cose che misura la realtà di un fenomeno in base alla pura percezione soggettiva del vero e del falso.

Parlando di dati empirici, occorre sottolineare che il metodo non va confuso con la filosofia che da tale metodo trae origine, cioè con una visione del mondo che considera il dato empirico come elemento fondante della realtà e come criterio atto a raggiungere la verità. La confusione è derivata dall’identificazione, almeno inizialmente, della figura dello scienziato con quella del filosofo. Tale identificazione ha fornito poi il pretesto in epoche recenti per accomunare scienza e filosofia della scienza, facendo confusione fra chi usa la zappa per coltivare l’orto e chi fa discorsi sul significato e il valore della zappa. Oggi il valore euristico di un qualsivoglia metodo di ricerca, per uno scienziato, è solo funzionale al risultato della scoperta e non certo alla ricerca della verità o all’asservimento al paradigma di turno. La filosofia della scienza rappresenta spesso un campo per intellettuali che conoscono poco la puzza dei laboratori e che sanno poco o niente dei problemi degli scienziati.

In tutto questo contesto il pensiero paralogico e delirante rimangono sussunti all’interno del corpo sociale e ne rappresentano una costante storica.

Intendiamoci, non c’è nulla di male di per sé nel delirio, esso può essere l’epifenomeno di una malattia psichica, oppure come accennato un’attitudine del pensiero umano. Il problema nasce quando un tale pensiero assume una rilevanza tale da indurre a comportamenti aberranti e pericolosi, come quelli che rifiutano le terapie convenzionale contro il cancro e costringono i governi a dare credito a ciarlatani in buona e cattiva fede.

Tornando all’omeopatia, una volta screditato l’empirismo ingenuo del dottor Hahnemann, i seguaci dell’omeopatia non sono affatto scomparsi e per nulla scoraggiati hanno atteso pazientemente che emergessero nuove scoperte le quali potessero supportare le loro convinzioni con un background più solido e un aggancio scientifico più moderno. In definitiva il problema non è la ricerca della verità o di qualcosa che ci somigli, bensì l’affermazione delle proprie credenze aldilà di ogni discorso sull’evidenza. L’aiuto è giunto da un immunologo d’oltralpe, il Dott. Benveniste, il quale in un lavoro pubblicato su Nature nel 1998, affermò di aver dimostrato la proprietà dell’acqua di conservare la memoria di sostanze con le quali era venuta precedentemente a contatto, conservandone anche gli effetti terapeutici. Abbiamo già esaurientemente trattato l’affaire Benveniste in un post precedente e non mi dilungherò nei dettagli. È sufficiente dire che anche questa teoria è stata screditata aldilà di ogni ragionevole dubbio, sebbene l’entusiasmo degli omeopati fosse stato a mio avviso, in ogni caso, del tutto immotivato. Seppure la teoria si fosse dimostrata valida, infatti, da ciò non ne sarebbe conseguita una reale attività terapeutica dei preparati omeopatici, ma solo il principio che l’acqua conserva memoria, e non si sa quanto a lungo, di una determinata sostanza con la quale è venuta precedentemente a contatto. La dimostrazione della presunta attività dell’antianticorpo IgE messa in evidenza da Benveniste, riguarda infatti quel singolo caso specifico e non si presta a generalizzazioni. Ad ogni buon conto, nemmeno il discredito di questa ennesima teoria è stato sufficiente a far capitolare gli omeopati ed anche in questo caso sono spuntate altre teorie ancora più suggestive delle precedenti a soccorso dei seguaci del Dott. Hahnemann. Citiamo fra tutte quella di due scienziati italiani, due fisici, Giuliano Preparata ed Emilio Del Giudice, studiosi ben addentro a fenomeni complessi come la fusione fredda e le onde gravitazionali. Del Giudice e Preparata sostengono la teoria della “coerenza dell’acqua” in base alla quale, passando incessantemente da uno stato eccitato ad uno stato di base e poi di nuovo a quello eccitato, le molecole di acqua emetterebbero dei fotoni, fenomeno che ricorderebbe il comportamento dei fotoni nel caso di un raggio laser. In pratica secondo questa teoria il solvente acquoso risulterebbe “attivato” dal preparato omeopatico e dalle successive succussioni, generando una energia peculiare attiva anche quando ogni molecola del preparato iniziale non è più presente a causa dell’estrema diluizione. L’energia in questione sarebbe alla base dell’effetto dei composti omeopatici. Questa fantasiosa teoria è stata messa in crisi da molti fisici ed in particolare da Gianfranco Rocco dell’Università La Sapienza di Roma, che hanno tutti allo stesso modo segnalato un errore di fondo nella stessa teoria, in quanto l’acqua ha una probabilità molto minore di trovarsi spontaneamente nello stato eccitato rispetto a quello fondamentale e non sarebbe possibile una sua altalenante inversione da una condizione all’altra. Lo stesso Del Giudice sembra abbia recentemente ammesso l’errore e non parli più di fotoni sebbene insista nell’affermare che il concetto di fondo della proprietà dielettrica dell’acqua rimane. Come gli è stato fatto notare, però, questa proprietà non richiede l’ausilio di cervellotiche teorie che fanno ricorso alla fisica quantistica, sono sufficienti le teorie tradizionali per spiegarla.

Tempo fa ho avuto modo di discutere di questi argomenti in un sito famoso di sinistra e sono rimasto colpito dal credito che i pasdaran dell’omeopatia davano agli studi di questi due scienziati, ridicolizzando chiunque non avesse letto i loro lavori e tagliando di netto ogni contestazione che prescindesse dalla conoscenza del verbo di Preparata. Ora, è evidente che non tutti possono perdere il loro tempo per documentarsi su ogni oscura teoria di scarso impatto, per il semplice fatto che nessuno, tranne alcuni scienziati molto pazienti, che dedicano il loro tempo a contrastare fenomeni irrazionali, è motivato a farlo, visto che l’omeopatia non ha mai dato nessuna prova concreta della sua efficacia e che il mondo accademico è unanimemente concorde nel considerare l’omeopatia soltanto un ottimo placebo. L’opposizione a questa osservazione è scontata: il fatto stesso che il mondo accademico sia concorde in maniera compatta sull’omeopatia, è la dimostrazione della sua cattiva fede. Come è stato già affermato da più parti il sottofondo paranoicale dei cultori delle medicine alternative esclude ogni possibilità di argomentazione, dato che qualsiasi lavoro o studio che smentisca la credibilità delle medicine alternative è di per se la riprova dell’inganno delle case farmaceutiche guidate unicamente da interessi legati al profitto. Inutile sottolineare che questi interessi esistono davvero, ma gli sforzi di Big Pharma non sono certo concentrati a screditare fandonie che si screditano di per sé. Supporre che ci sia una congiura internazionale per nascondere al mondo questa panacea universale rappresentata dall’omeopatia è francamente assurdo, considerando il fatto che il fatturato dell’omeopatia non è affatto trascurabile e che esistono ovviamente anche le multinazionali omeopatiche.

Al di là di interessanti quanto impervie dissertazioni sulla fisica quantistica e sull’elettromagnetismo, vorrei sottolineare alcuni concetti chiave che a mio avviso rendono l’omeopatia e le medicine alternative in generale per nulla credibili.

Il primo punto riguarda l’idea appunto di un fronte compatto, capeggiato dalle multinazionali del farmaco, che cospirerebbero contro le medicine alternative. Quello che i fanatici di tali pratiche ignorano o fingono di ignorare è che questo fronte è in larghissima parte costituito, nelle sue articolazioni medio basse, da un ceto politico sociale, e sottolineo politico, che forma l’ossatura di quel ceto intellettuale o General Intellect o cognitariato che dir si voglia, il quale rappresenterebbe il nuovo soggetto politico, frutto della società post-fordista, che è portatore di istanze radicali di cambiamento. Per farla breve, la nuova classe su cui la prassi rivoluzionaria dovrebbe fare perno. Lino Rossi ed altri accaniti sostenitori di Preparata e Del Giudice, convinti assertori della teoria del complotto, si stupirebbero nel conoscere la percentuale di votanti e simpatizzanti della cosiddetta sinistra radicale presente fra i ricercatori e gli addetti alla ricerca, e guarda caso sono proprio questi soggetti che portano avanti ricerche sul piano statistico-epidemiologico che gettano discredito sull’omeopatia. La metanalisi di Lancet, prestigiosa scientifica medica che ha dimostrato dati alla mano l’inconsistenza dell’omeopatia in tutti quegli studi condotti con metodi rigorosi, non è stata certo portata avanti dai colletti bianchi di Big Pharma, ma da ricercatori che ingrossano le file del General Intellect odierno. Sono tutti venduti, tutti seguaci della dottrina del profitto?

Il secondo punto riguarda la curiosa rincorsa degli alternativi a nuove teorie che di volta in volta siano in grado di supportare le loro credenze, ogniqualvolta le precedenti crollano come birilli.

Non voglio dilungarmi oltre su tematiche che si addentrano in maniera troppo specifica in terreni complessi come quello della fisica dei quanti, vorrei solo far notare un fatto che salta agli occhi: la teoria inizialmente espressa da Hahnemann si basava sul concetto, come ho già evidenziato, del similia sumilibus curantur, e cioè una parte infinitesimale di quella sostanza che produce sintomi nel sano può curare gli stessi sintomi nella persona malata. Ora, dal momento che abbiamo appurato che i preparati omeopatici non contengono nulla, se siamo omeopati convinti dobbiamo dedurre che il Dott. Hahnemann abbia fatto la classica scoperta per serendipity, cioè a dire ha scoperto accidentalmente, partendo da ipotesi rivelatesi errate, un principio poi risultato valido ed in grado di supportare la sua teoria. Vi sembra credibile tutto ciò? A me non lo sembra affatto, soprattutto perché appare molto improbabile che le varie teoria sull’acqua si accordino poi con tutto l’insieme della teoria di Hahnemann, la quale difficilmente può essere scomposta in singoli tronconi indipendenti. Come concorda la teoria dell’acqua con quella dei miasmi o delle varie tipologie costituzionali con relativi rimedi omeopatici ? Non è strano poi che il Dott. Hahnemann con l’idea delle succussioni abbia incidentalmente trovato il sistema per dinamizzare l’acqua, che guarda caso si dinamizzerebbe proprio sottoponendo i contenitori a quei determinati movimenti verticali? E perché infine proprio quei rimedi dovrebbero funzionare in base alle predette teorie e non altri? In conclusione, l’idea della rincorsa alla spiegazione che disvela ciò che gli infedeli si rifiutano di vedere, da’ il senso del totale rovesciamento della logica più elementare, che esigerebbe che la scoperta venga prima dell’enunciazione dei principi.

Il terzo ed ultimo punto riguarda a mio avviso il carattere di fissità dei principi che sono alla base dell’omeopatia. Come ha fatto giustamente notare il Prof. Dobrilla, la scienza medica si evolve continuamente e determinate certezze o ipotesi ritenute alla base di certe malattie sono smentite da nuove scoperte. Il Prof. cita il caso dell’ulcera duodenale, attribuita per anni quasi esclusivamente all’aggressività dell’acido cloridrico prodotto in eccesso dallo stomaco e/o alla diminuita capacità difensiva della mucosa duodenale, secondarie allo stress. In pratica una malattia psicosomatica. Oggi con la scoperta del ruolo ulcerogeno dell’Helicobacter pylori abbiamo scoperto una causa che sta portando alla quasi totale estinzione delle patologie ulcerogene e delle sue complicanze. Ebbene, vent’anni dopo questa scoperta, di questa rivoluzionaria acquisizione non c’è traccia nella letteratura omeopatica e i rimedi continuano ad essere gli stessi. Questo fatto di per se sarebbe da solo sufficiente a dimostrare l’infondatezza dell’omeopatia. Teorie statiche non sono adatte alla scienza, che per definizione si evolve di continuo e il cui sapere, sebbene per alcuni versi sia cumulativo, procede su una linea discontinua, che comporta spesso la negazione ed il superamento delle fasi precedenti. 

Medicine alternative: una iattura per la sinistra (e non solo)


Riposto questo vecchio post del 2009 anche se mi farò molti nemici e farò arricciare il naso a molti amici. 

L’articolo contiene argomentazioni che oggi non ripeterei, ma in buona sostanza i concetti di fondo rimagono inalterati

di Franco Cilli

Come possano persone raziocinati credere nelle stravaganze e nelle assurdità delle cosiddette medicine alternative, è per me motivo di sorpresa ed anche di preoccupazione. Lo so, non dovrei sorprendermi, le spiegazioni ci sono, ma evidentemente il mio lobo limbico non si arrende e continua a produrre emozioni in risposta a stimoli stereotipati. Amici che conosco da una vita, medici, professionisti che lavorano col cervello, persone ragionevoli, credono che esista una “medicina alternativa”, cioè una scienza che la medicina ufficiale ripudia, oscura, mette all’angolo, ostacola scientemente per biechi motivi di profitto, censura o semplicemente ignora. Lo credono perché vogliono crederci. Per me è una sorta di dissociazione psicotica, di delirio: una parte del loro ego non è disposta ad accettare le evidenze della ragione, malgrado le infinite confutazioni che ridicolizzano le loro credenze. La cosa buffa è che ci credono per una sorta di dover essere, a scatola chiusa, senza neanche preoccuparsi di quale sia la materia del contendere, quella pratica deve essere buona. Punto. Se citi, ad esempio, il dottor Andrew Still e le sue bizzarre teorie, che hanno dato origine all’osteopatia, rimangono a bocca aperta. Andrew Still chi? Ti chiedono. Non conoscono né lui, né le sue teorie: anatomia, anatomia, e poi ancora anatomia (sembra di sentire Lenin)! La patologia che deriva da un’interruzione dell’integrità dell’organo, le manipolazioni, il movimento delle ossa craniche, hai presente? Boh! Nessuna reazione da parte dell’interlocutore fedele. Una mia carissima amica mi spiega pazientemente, con un sorriso di compatimento, che “loro”, gli osteopati, manipolano, ergo fanno qualcosa di pratico, non sono fantasie. Manipolano? E allora? Questa sarebbe una prova di efficacia? Chiunque è capace di manipolare. In base a questa logica i ceramisti ed i fornai sarebbero degli eccellenti terapeuti. Ma loro hanno studiato, e pure tanto! Studiato che?

Questo è il punto. Si può studiare qualcosa per secoli, ma ciò non significa che l’oggetto di studio sia una vera scienza, e che tale presunta scienza dia risultati concreti. Guardate la psicoanalisi. Bisogna provarlo. Non solo, ma le ipotesi di partenza, ciò che costituisce, diciamo così, la parte creativa della ricerca, devono essere anch’esse credibili: se ipotizzo che lo zinco può interferire in determinati meccanismi cellulari che portano poi allo sviluppasi del morbo di Alzheimer, faccio un’ipotesi fondata su una mole di studi precedenti che avvalorano la mia ipotesi di partenza e mi consentono di elaborare un progetto di studio e di ricerca, non dico una cosa campata per aria. Se ipotizzo invece, che un dato fiore, solo perchè assomiglia a un mio cugino grasso e un po’ allegrotto, sia in grado di risintonizzare la mia energia vitale con quella dell’universo, dico solo una patente assurdità (i fiori di Bach! Altra bella chicca).

L’idea in sé di “medicina alternativa” appare, a ben pensarci, alquanto balzana. Oggi medici cosiddetti allopatici e cosiddetti olistici, concordano sulla necessità di un superamento del concetto di “medicina alternativa”, in quanto, come è logico supporre, non esiste una “medicina alternativa”, almeno fino a quando non esisteranno “malattie alternative”. Esiste, si dice, una medicina efficace ed una non efficace, una medicina basata sulle evidenze ed una che poggia su basi poco solide. Vero, sebbene l’idea di una conoscenza alternativa, che si ponga al di fuori dei paradigmi della scienza ufficiale, permane. Questa idea ha radici lontane ed ha rappresentato in passato la necessità di tenere in vita una cultura ed una scienza, come quella tramandata attraverso lo gnosticismo prima ed il movimento delle streghe successivamente, che proclamavano una visione alternativa a quella totalizzante della chiesa ufficiale, decisa a recidere qualunque legame con forme di conoscenza tradizionale ancorate a retaggi precristiani. Secondo uno schema storico di sfida/risposta, il movimento alternativo delle streghe rappresenterebbe una sfida all’avanzare del cristianesimo ed alle sue pretese totalizzanti. Il temine “alternativo”, in relazione alle streghe, evoca quindi una reazione al dispotismo ed alla autorità che è apparso molto suggestivo in epoca recente, soprattutto se agli aspetti esoterici ed antiautoritari si mescolano forti elementi di libertà sessuale e di eguaglianza della donna.

Gli echi di questa cultura sono pervenuti nella nostra epoca, riproponendo in forme nuove la dinamica della sfida/risposta. Ma la società aperta di oggi non è quella della chiesa istituzionalizzata di ieri, e riproporre quella sfida tradotta in termini antiscientifici ed esoterici appare una totale assurdità. Seppure ci rappresentassimo come classe separata e contrapposta ad una classe dominante, sarebbe difficile considerarci estranei ad un sistema di produzione della scienza e del pensiero che ci pongano al di fuori della scienza e del sapere “istituzionale”. La “socializzazione” della produzione e del sapere ci rende tutti “complici” ad un certa maniera del sistema. La cultura alternativa diviene quindi una delle forme di produzione alternativa fra le tante, che non hanno alcun aggancio con la scienza vera e propria.

A questo punto, anche se non amo farlo, vista la mole di pubblicazioni in merito, è necessario parlare di omeopatia, esempio paradigmatico, per le persone razionali, dell’inconsistenza delle medicine alternative e della loto totale assenza di basi scientifiche. Conosciamo tutti (almeno spero), la storia del Dott. Hahnemann, il quale si convinse del principio divenuto famoso del similia similibus curantur dopo aver assunto ripetute volte dosi di Cinchona succirubra, la fonte del chinino, che gli aveva provocato sintomi quali: mani e piedi freddi, stanchezza e sonnolenza, ansia, tremore, prostrazione, mal di testa pulsante, arrossamento delle guance e sete, ma senza innalzamento della temperatura, una febbre senza febbre insomma. Quella che secondo alcuni, con ogni probabilità, non fu nient’altro che una reazione di natura allergica a detta pianta, divenne la fonte di ispirazione di una rivoluzione nel campo della medicina, rivoluzione che Hannemann stesso paragonò alla riforma protestante in campo religioso: per guarire una malattia bisogna creare una malattia artificiale che scacci la vera malattia.

Facciamo un breve riassunto. Forse risulterà pedante, considerato il numero di insigni giornalisti e studiosi che da anni ormai ci spiegano il significato delle diluizioni omeopatiche, ma un po’ di ripetizione non guasta. Il Prof Hahnemann era convinto, come abbiamo già accennato, che una quantità infinitesimale di quella stessa sostanza che provoca i sintomi nel sano, era in grado di curare quegli stessi sintomi nella persona malata. Le diluizioni centesimali per Hannemann, in base alla sua esperienza personale, rappresentavano la soluzione del problema. In pratica 1CH corrisponde ad un grammo di tintura madre diluita cento volte, 2CH ad una diluizione centesimale della prima diluizione, 3CH ad un ulteriore diluizione centesimale e così via, fino ad arrivare ad una diluizione di 30CH, una di quelle preferite da Hahnemann. Tradotto in numeri, 30 CH corrisponde ad 1 diviso 1 con 60 zeri. Qualcuno ha stimato che un grammo di sostanza iniziale a una diluizione centesimale di 30CH, finisce diluito ad un volume pari a 714 milioni di miliardi il volume del sole. Ai tempi di Hahnemann il principio di Avogadro formulato solo nel 1860 era sconosciuto (Hahnemann muore nel 1843). Tale principio stabilisce che una grammomecola o mole (peso molecolare espresso in grammi) contiene un numero fisso di molecole pari a 6,022×10²³. Una diluizione pari a 12CH non contiene praticamente neanche una molecola del composto originario e successive diluizioni non fanno che diluire una soluzione idroalcolica con altra soluzione idroalcolica. A questo punto sembrerebbe tutto risolto. Quella che poteva essere una teoria interessante per i tempi si rivela del tutto infondata alla prova dei fatti. Non è così semplice. Il motivo del persistere dell’omeopatia, come delle altre medicine alternative infatti non risiede nella loro validità comprovata e nemmeno nei loro fondamenti scientifici, il motivo risiede, come ho già detto, nel tasso di dissociazione psicotica presente nella popolazione di un società umana. Sappiamo benissimo che il delirio ha come principale caratteristica l’impermeabilità dei propri contenuti a qualsiasi confutazione, e nel momento in cui una tesi non è più sostenibile, il delirio permane ma in forme mutate. Ora sarebbe interessante fare una dissertazione sul significato di verità e sull’arbitrarietà del concetto di delirio, che non sarebbe altro che una convinzione non condivisa dalla maggioranza delle persone, ma bisogna ammettere che se la società è andati avanti nelle sue conquiste questo non è stato grazie alle paralogie del pensiero primitivo o al potere del pensiero magico e né all’evocazione di oscure divinità che animano il cielo durante i temporali o all’animismo che considerava la malattia un perturbazione dell’anima. Il progresso è avvenuto nel momento in cui si è affermato un procedimento empirico, un metodo di indagine della realtà e di ragionamento basato sulle evidenze dell’osservazione. Il delirio come pure il pensiero magico sono parte di una visione delle cose che misura la realtà di un fenomeno in base alla pura percezione soggettiva del vero e del falso.

Parlando di dati empirici, occorre sottolineare che il metodo non va confuso con la filosofia che da tale metodo trae origine, cioè con una visione del mondo che considera il dato empirico come elemento fondante della realtà e come criterio atto a raggiungere la verità. La confusione è derivata dall’identificazione, almeno inizialmente, della figura dello scienziato con quella del filosofo. Tale identificazione ha fornito poi il pretesto in epoche recenti per accomunare scienza e filosofia della scienza, facendo confusione fra chi usa la zappa per coltivare l’orto e chi fa discorsi sul significato e il valore della zappa. Oggi il valore euristico di un qualsivoglia metodo di ricerca, per uno scienziato, è solo funzionale al risultato della scoperta e non certo alla ricerca della verità o all’asservimento al paradigma di turno. La filosofia della scienza rappresenta spesso un campo per intellettuali che conoscono poco la puzza dei laboratori e che sanno poco o niente dei problemi degli scienziati.

In tutto questo contesto il pensiero paralogico e delirante rimangono sussunti all’interno del corpo sociale e ne rappresentano una costante storica.

Intendiamoci, non c’è nulla di male di per sé nel delirio, esso può essere l’epifenomeno di una malattia psichica, oppure come accennato un’attitudine del pensiero umano. Il problema nasce quando un tale pensiero assume una rilevanza tale da indurre a comportamenti aberranti e pericolosi, come quelli che rifiutano le terapie convenzionale contro il cancro e costringono i governi a dare credito a ciarlatani in buona e cattiva fede.

Tornando all’omeopatia, una volta screditato l’empirismo ingenuo del dottor Hahnemann, i seguaci dell’omeopatia non sono affatto scomparsi e per nulla scoraggiati hanno atteso pazientemente che emergessero nuove scoperte le quali potessero supportare le loro convinzioni con un background più solido e un aggancio scientifico più moderno. In definitiva il problema non è la ricerca della verità o di qualcosa che ci somigli, bensì l’affermazione delle proprie credenze aldilà di ogni discorso sull’evidenza. L’aiuto è giunto da un immunologo d’oltralpe, il Dott. Benveniste, il quale in un lavoro pubblicato su Nature nel 1998, affermò di aver dimostrato la proprietà dell’acqua di conservare la memoria di sostanze con le quali era venuta precedentemente a contatto, conservandone anche gli effetti terapeutici. Abbiamo già esaurientemente trattato l’affaire Benveniste in un post precedente e non mi dilungherò nei dettagli. È sufficiente dire che anche questa teoria è stata screditata aldilà di ogni ragionevole dubbio, sebbene l’entusiasmo degli omeopati fosse stato a mio avviso, in ogni caso, del tutto immotivato. Seppure la teoria si fosse dimostrata valida, infatti, da ciò non ne sarebbe conseguita una reale attività terapeutica dei preparati omeopatici, ma solo il principio che l’acqua conserva memoria, e non si sa quanto a lungo, di una determinata sostanza con la quale è venuta precedentemente a contatto. La dimostrazione della presunta attività dell’antianticorpo IgE messa in evidenza da Benveniste, riguarda infatti quel singolo caso specifico e non si presta a generalizzazioni. Ad ogni buon conto, nemmeno il discredito di questa ennesima teoria è stato sufficiente a far capitolare gli omeopati ed anche in questo caso sono spuntate altre teorie ancora più suggestive delle precedenti a soccorso dei seguaci del Dott. Hahnemann. Citiamo fra tutte quella di due scienziati italiani, due fisici, Giuliano Preparata ed Emilio Del Giudice, studiosi ben addentro a fenomeni complessi come la fusione fredda e le onde gravitazionali. Del Giudice e Preparata sostengono la teoria della “coerenza dell’acqua” in base alla quale, passando incessantemente da uno stato eccitato ad uno stato di base e poi di nuovo a quello eccitato, le molecole di acqua emetterebbero dei fotoni, fenomeno che ricorderebbe il comportamento dei fotoni nel caso di un raggio laser. In pratica secondo questa teoria il solvente acquoso risulterebbe “attivato” dal preparato omeopatico e dalle successive succussioni, generando una energia peculiare attiva anche quando ogni molecola del preparato iniziale non è più presente a causa dell’estrema diluizione. L’energia in questione sarebbe alla base dell’effetto dei composti omeopatici. Questa fantasiosa teoria è stata messa in crisi da molti fisici ed in particolare da Gianfranco Rocco dell’Università La Sapienza di Roma, che hanno tutti allo stesso modo segnalato un errore di fondo nella stessa teoria, in quanto l’acqua ha una probabilità molto minore di trovarsi spontaneamente nello stato eccitato rispetto a quello fondamentale e non sarebbe possibile una sua altalenante inversione da una condizione all’altra. Lo stesso Del Giudice sembra abbia recentemente ammesso l’errore e non parli più di fotoni sebbene insista nell’affermare che il concetto di fondo della proprietà dielettrica dell’acqua rimane. Come gli è stato fatto notare, però, questa proprietà non richiede l’ausilio di cervellotiche teorie che fanno ricorso alla fisica quantistica, sono sufficienti le teorie tradizionali per spiegarla.

Tempo fa ho avuto modo di discutere di questi argomenti in un sito famoso di sinistra e sono rimasto colpito dal credito che i pasdaran dell’omeopatia davano agli studi di questi due scienziati, ridicolizzando chiunque non avesse letto i loro lavori e tagliando di netto ogni contestazione che prescindesse dalla conoscenza del verbo di Preparata. Ora, è evidente che non tutti possono perdere il loro tempo per documentarsi su ogni oscura teoria di scarso impatto, per il semplice fatto che nessuno, tranne alcuni scienziati molto pazienti, che dedicano il loro tempo a contrastare fenomeni irrazionali, è motivato a farlo, visto che l’omeopatia non ha mai dato nessuna prova concreta della sua efficacia e che il mondo accademico è unanimemente concorde nel considerare l’omeopatia soltanto un ottimo placebo. L’opposizione a questa osservazione è scontata: il fatto stesso che il mondo accademico sia concorde in maniera compatta sull’omeopatia, è la dimostrazione della sua cattiva fede. Come è stato già affermato da più parti il sottofondo paranoicale dei cultori delle medicine alternative esclude ogni possibilità di argomentazione, dato che qualsiasi lavoro o studio che smentisca la credibilità delle medicine alternative è di per se la riprova dell’inganno delle case farmaceutiche guidate unicamente da interessi legati al profitto. Inutile sottolineare che questi interessi esistono davvero, ma gli sforzi di Big Pharma non sono certo concentrati a screditare fandonie che si screditano di per sé. Supporre che ci sia una congiura internazionale per nascondere al mondo questa panacea universale rappresentata dall’omeopatia è francamente assurdo, considerando il fatto che il fatturato dell’omeopatia non è affatto trascurabile e che esistono ovviamente anche le multinazionali omeopatiche.

Al di là di interessanti quanto impervie dissertazioni sulla fisica quantistica e sull’elettromagnetismo, vorrei sottolineare alcuni concetti chiave che a mio avviso rendono l’omeopatia e le medicine alternative in generale per nulla credibili.

Il primo punto riguarda l’idea appunto di un fronte compatto, capeggiato dalle multinazionali del farmaco, che cospirerebbero contro le medicine alternative. Quello che i fanatici di tali pratiche ignorano o fingono di ignorare è che questo fronte è in larghissima parte costituito, nelle sue articolazioni medio basse, da un ceto politico sociale, e sottolineo politico, che forma l’ossatura di quel ceto intellettuale o General Intellect o cognitariato che dir si voglia, il quale rappresenterebbe il nuovo soggetto politico, frutto della società post-fordista, che è portatore di istanze radicali di cambiamento. Per farla breve, la nuova classe su cui la prassi rivoluzionaria dovrebbe fare perno. Lino Rossi ed altri accaniti sostenitori di Preparata e Del Giudice, convinti assertori della teoria del complotto, si stupirebbero nel conoscere la percentuale di votanti e simpatizzanti della cosiddetta sinistra radicale presente fra i ricercatori e gli addetti alla ricerca, e guarda caso sono proprio questi soggetti che portano avanti ricerche sul piano statistico-epidemiologico che gettano discredito sull’omeopatia. La metanalisi di Lancet, prestigiosa scientifica medica che ha dimostrato dati alla mano l’inconsistenza dell’omeopatia in tutti quegli studi condotti con metodi rigorosi, non è stata certo portata avanti dai colletti bianchi di Big Pharma, ma da ricercatori che ingrossano le file del General Intellect odierno. Sono tutti venduti, tutti seguaci della dottrina del profitto?

Il secondo punto riguarda la curiosa rincorsa degli alternativi a nuove teorie che di volta in volta siano in grado di supportare le loro credenze, ogniqualvolta le precedenti crollano come birilli.

Non voglio dilungarmi oltre su tematiche che si addentrano in maniera troppo specifica in terreni complessi come quello della fisica dei quanti, vorrei solo far notare un fatto che salta agli occhi: la teoria inizialmente espressa da Hahnemann si basava sul concetto, come ho già evidenziato, del similia sumilibus curantur, e cioè una parte infinitesimale di quella sostanza che produce sintomi nel sano può curare gli stessi sintomi nella persona malata. Ora, dal momento che abbiamo appurato che i preparati omeopatici non contengono nulla, se siamo omeopati convinti dobbiamo dedurre che il Dott. Hahnemann abbia fatto la classica scoperta per serendipity, cioè a dire ha scoperto accidentalmente, partendo da ipotesi rivelatesi errate, un principio poi risultato valido ed in grado di supportare la sua teoria. Vi sembra credibile tutto ciò? A me non lo sembra affatto, soprattutto perché appare molto improbabile che le varie teoria sull’acqua si accordino poi con tutto l’insieme della teoria di Hahnemann, la quale difficilmente può essere scomposta in singoli tronconi indipendenti. Come concorda la teoria dell’acqua con quella dei miasmi o delle varie tipologie costituzionali con relativi rimedi omeopatici ? Non è strano poi che il Dott. Hahnemann con l’idea delle succussioni abbia incidentalmente trovato il sistema per dinamizzare l’acqua, che guarda caso si dinamizzerebbe proprio sottoponendo i contenitori a quei determinati movimenti verticali? E perché infine proprio quei rimedi dovrebbero funzionare in base alle predette teorie e non altri? In conclusione, l’idea della rincorsa alla spiegazione che disvela ciò che gli infedeli si rifiutano di vedere, da’ il senso del totale rovesciamento della logica più elementare, che esigerebbe che la scoperta venga prima dell’enunciazione dei principi.

Il terzo ed ultimo punto riguarda a mio avviso il carattere di fissità dei principi che sono alla base dell’omeopatia. Come ha fatto giustamente notare il Prof. Dobrilla, la scienza medica si evolve continuamente e determinate certezze o ipotesi ritenute alla base di certe malattie sono smentite da nuove scoperte. Il Prof. cita il caso dell’ulcera duodenale, attribuita per anni quasi esclusivamente all’aggressività dell’acido cloridrico prodotto in eccesso dallo stomaco e/o alla diminuita capacità difensiva della mucosa duodenale, secondarie allo stress. In pratica una malattia psicosomatica. Oggi con la scoperta del ruolo ulcerogeno dell’Helicobacter pylori abbiamo scoperto una causa che sta portando alla quasi totale estinzione delle patologie ulcerogene e delle sue complicanze. Ebbene, vent’anni dopo questa scoperta, di questa rivoluzionaria acquisizione non c’è traccia nella letteratura omeopatica e i rimedi continuano ad essere gli stessi. Questo fatto di per se sarebbe da solo sufficiente a dimostrare l’infondatezza dell’omeopatia. Teorie statiche non sono adatte alla scienza, che per definizione si evolve di continuo e il cui sapere, sebbene per alcuni versi sia cumulativo, procede su una linea discontinua, che comporta spesso la negazione ed il superamento delle fasi precedenti. 

Letta e il falso problema del debito pubblico

L’elevato debito pubblico italiano costituisce un problema, per il presidente Letta, perché danneggia le generazioni future, che saranno gravate da ulteriori imposte nel caso in cui il debito dovesse ulteriormente crescere. Sono tesi che si basano sulla fallace equiparazione del debito di una famiglia con il debito di uno Stato. E che devono essere superate, se davvero si vuole andare oltre il disastroso dogma dell’austerità.

di Guglielmo Forges Davanzati da Micromega
 Per l’ex premier Mario Monti, il (presunto) elevato debito pubblico italiano costituiva un problema dal momento che avrebbe incentivato attacchi speculativi, così che occorreva porre in essere misure di austerità, riducendo la spesa pubblica e soprattutto aumentando l’imposizione fiscale. Due i risultati ottenuti: le misure di austerità messe in atto per ridurre il rapporto debito pubblico/PIL hanno prodotto l’esito esattamente opposto, determinandone un aumento di circa 7 punti percentuali in un anno, anche in considerazione dell’errore di stima del moltiplicatore fiscale, come evidenziato dal Fondo Monetario Internazionale. In più, proprio in quella fase, all’aumentare del debito pubblico non hanno fatto seguito attacchi speculativi, o almeno non di entità e durata paragonabili a quelli sperimentati nell’estate del 2011, quando l’indebitamento pubblico rispetto al PIL era inferiore ai valori assunti nel corso del 2012.

Per il neo-Presidente del Consiglio, Enrico Letta, il (presunto) elevato debito pubblico italiano costituisce un problema perché danneggia le generazioni future, che, inevitabilmente, a suo dire, saranno gravate da ulteriori imposte nel caso in cui il debito dovesse ulteriormente crescere.

E’ bene chiarire che queste convinzioni si basano sulla fallace equiparazione del debito di una famiglia con il debito di uno Stato, e soprattutto si basano sull’assunto – non dimostrato né dimostrabile – secondo il quale il nostro debito pubblico è eccessivamente elevato. Si tratta di un’assunzione opinabile dal momento che, allo stato attuale delle conoscenze, non esiste alcun criterio “scientifico” per definire il limite di sostenibilità del debito: sul piano empirico, può essere qui sufficiente richiamare il caso giapponese, laddove, con un rapporto debito pubblico/PIL che oscilla intorno al 240%, non sussistono problemi di sostenibilità dello stesso. Si può, inoltre, ricordare che il rapporto debito pubblico/PIL italiano è sostanzialmente in linea con la media dei Paesi appartenenti all’Unione Monetaria Europea e che, stando a studi recenti relativi alla quantificazione del c.d. debito pubblico “implicito”, sembrerebbe che il debito italiano in rapporto al PIL sia inferiore a quello di tutti i Paesi dell’eurozona, Germania inclusa.

La convinzione del Presidente Letta, secondo la quale le politiche di rigore si giustificano per ragioni di equità intergenerazionale, è del tutto priva di fondamento, per le seguenti ragioni.

1) Non è chiaro chi, perché e quando dovrebbe accrescere l’imposizione fiscale a danno delle generazioni future. E non è chiaro a quale futuro si fa riferimento, dal momento che l’aumento della tassazione a seguito di un aumento del debito pubblico non è affatto un automatismo, e rinvia a una decisione puramente politica. Né è dato sapere di quanto la pressione fiscale aumenterà e a danno di quali gruppi sociali. In altri termini, il Presidente Letta ritiene di poter persuadere i contribuenti italiani rendendoli disponibili a impoverirsi oggi per evitare di impoverire i posteri, ovvero ritiene che li si possa far diventare a tal punto altruisti in senso intergenerazionale da far loro desiderare il benessere di individui che potrebbero non conoscere mai, accettando ulteriori sacrifici certi, oggi.

2) Si può, per contro, argomentare che è semmai l’aumento del debito pubblico a non impoverire le generazioni future, dal momento che maggiore spesa pubblica oggi comporta maggiori redditi disponibili e maggiore disponibilità per lasciti ereditari. Il fatto che, particolarmente nel caso italiano, la spesa pubblica possa in parte generare corruzione, “sprechi”, inefficienze non legittima affatto la tesi che essa non contribuisca a generare crescita economica. La spesa pubblica (all’estremo, anche se “improduttiva”) ha effetti espansivi per almeno due ragioni, ben note. In primo luogo, per l’attivarsi del meccanismo keynesiano stando al quale la spesa pubblica, accrescendo la domanda aggregata, accresce l’occupazione e la produzione, con effetti moltiplicativi. In secondo luogo, perché, in quanto amplia i mercati di sbocco, migliora le aspettative imprenditoriali e incentiva gli investimenti privati.

3) Anche ammesso che la crescita del debito pubblico comporti un trasferimento dell’onere fiscale a danno delle generazioni future, ciò non costituisce un danno irreversibile, come è, con ogni evidenza, il danno ambientale. Mentre, infatti, nel caso del danno ambientale vi è distruzione di risorse non riproducibili, nel caso dell’aumento delle imposte ciò non accade: fatta eccezione per le risorse naturali, gli altri fattori produttivi sono riproducibili, non essendo soggetti a vincoli di scarsità.

L’esperienza italiana degli ultimi decenni mostra, in effetti, che quanto più si è cercato di ridurre il rapporto debito pubblico/PIL, tanto più questo rapporto è aumentato e tanto più – per decisioni puramente politiche – si è trasferito l’onere dell’aggiustamento sulle generazioni successive, in una spirale perversa che ha generato il progressivo inarrestabile impoverimento (in ordine di tempo) dei lavoratori, delle classi medie, delle piccole e medie imprese e, infine, della forza-lavoro giovanile.

Ciò è accaduto sostanzialmente a ragione del fatto che si è cercato di ridurre il rapporto debito pubblico/PIL agendo esclusivamente sul numeratore della frazione, e dunque riducendo la spesa pubblica e/o aumentando la tassazione. Ne è seguita la caduta della domanda e dell’occupazione, con conseguenti inevitabili effetti negativi sul tasso di crescita. La conseguente riduzione della base imponibile ha reso sempre più difficile reperire risorse per pagare il debito. Non si è trovata altra strada se non aumentare la pressione fiscale, peraltro rendendo sempre meno progressiva la tassazione e, dunque, facendo gravare l’onere sempre più sulle fasce di reddito più basse. In tal senso, dovrebbe essere ormai chiaro che è la riduzione del tasso di crescita ad accrescere il debito, non il contrario.

Si riconosca almeno che le politiche di austerità non sono un “imperativo categorico”, valide in ogni circostanza di tempo e di luogo, e che altre vie sono percorribili, peraltro con maggiore efficacia. La c.d. “Abenomics” giapponese – ovvero l’attuazione di un’aggressiva politica fiscale (e monetaria) espansiva, nell’ordine di 85 miliardi di euro come primo stanziamento, con una stima di crescita del 2% su base annua – costituisce la conferma più recente del fatto che il deficit spending può essere ancora considerato una strategia pienamente efficace almeno in funzione anti-ciclica.

Avendo sperimentato l’inoppugnabile fallimento delle politiche di austerità, non si vede ragione per la quale reiterare l’errore, soprattutto se il rispetto del vincolo del rigore finanziario viene motivato con argomentazioni che intendono legittimare una recessione politicamente indotta appellandosi a discutibili argomenti etici. Gli argomenti etici dovrebbero essere, al più, utilizzati per far fronte all’insostenibile disuguaglianza distributiva che queste stesse politiche hanno contribuito a produrre. 


Letta e il falso problema del debito pubblico

L’elevato debito pubblico italiano costituisce un problema, per il presidente Letta, perché danneggia le generazioni future, che saranno gravate da ulteriori imposte nel caso in cui il debito dovesse ulteriormente crescere. Sono tesi che si basano sulla fallace equiparazione del debito di una famiglia con il debito di uno Stato. E che devono essere superate, se davvero si vuole andare oltre il disastroso dogma dell’austerità.

di Guglielmo Forges Davanzati da Micromega
 Per l’ex premier Mario Monti, il (presunto) elevato debito pubblico italiano costituiva un problema dal momento che avrebbe incentivato attacchi speculativi, così che occorreva porre in essere misure di austerità, riducendo la spesa pubblica e soprattutto aumentando l’imposizione fiscale. Due i risultati ottenuti: le misure di austerità messe in atto per ridurre il rapporto debito pubblico/PIL hanno prodotto l’esito esattamente opposto, determinandone un aumento di circa 7 punti percentuali in un anno, anche in considerazione dell’errore di stima del moltiplicatore fiscale, come evidenziato dal Fondo Monetario Internazionale. In più, proprio in quella fase, all’aumentare del debito pubblico non hanno fatto seguito attacchi speculativi, o almeno non di entità e durata paragonabili a quelli sperimentati nell’estate del 2011, quando l’indebitamento pubblico rispetto al PIL era inferiore ai valori assunti nel corso del 2012.

Per il neo-Presidente del Consiglio, Enrico Letta, il (presunto) elevato debito pubblico italiano costituisce un problema perché danneggia le generazioni future, che, inevitabilmente, a suo dire, saranno gravate da ulteriori imposte nel caso in cui il debito dovesse ulteriormente crescere.

E’ bene chiarire che queste convinzioni si basano sulla fallace equiparazione del debito di una famiglia con il debito di uno Stato, e soprattutto si basano sull’assunto – non dimostrato né dimostrabile – secondo il quale il nostro debito pubblico è eccessivamente elevato. Si tratta di un’assunzione opinabile dal momento che, allo stato attuale delle conoscenze, non esiste alcun criterio “scientifico” per definire il limite di sostenibilità del debito: sul piano empirico, può essere qui sufficiente richiamare il caso giapponese, laddove, con un rapporto debito pubblico/PIL che oscilla intorno al 240%, non sussistono problemi di sostenibilità dello stesso. Si può, inoltre, ricordare che il rapporto debito pubblico/PIL italiano è sostanzialmente in linea con la media dei Paesi appartenenti all’Unione Monetaria Europea e che, stando a studi recenti relativi alla quantificazione del c.d. debito pubblico “implicito”, sembrerebbe che il debito italiano in rapporto al PIL sia inferiore a quello di tutti i Paesi dell’eurozona, Germania inclusa.

La convinzione del Presidente Letta, secondo la quale le politiche di rigore si giustificano per ragioni di equità intergenerazionale, è del tutto priva di fondamento, per le seguenti ragioni.

1) Non è chiaro chi, perché e quando dovrebbe accrescere l’imposizione fiscale a danno delle generazioni future. E non è chiaro a quale futuro si fa riferimento, dal momento che l’aumento della tassazione a seguito di un aumento del debito pubblico non è affatto un automatismo, e rinvia a una decisione puramente politica. Né è dato sapere di quanto la pressione fiscale aumenterà e a danno di quali gruppi sociali. In altri termini, il Presidente Letta ritiene di poter persuadere i contribuenti italiani rendendoli disponibili a impoverirsi oggi per evitare di impoverire i posteri, ovvero ritiene che li si possa far diventare a tal punto altruisti in senso intergenerazionale da far loro desiderare il benessere di individui che potrebbero non conoscere mai, accettando ulteriori sacrifici certi, oggi.

2) Si può, per contro, argomentare che è semmai l’aumento del debito pubblico a non impoverire le generazioni future, dal momento che maggiore spesa pubblica oggi comporta maggiori redditi disponibili e maggiore disponibilità per lasciti ereditari. Il fatto che, particolarmente nel caso italiano, la spesa pubblica possa in parte generare corruzione, “sprechi”, inefficienze non legittima affatto la tesi che essa non contribuisca a generare crescita economica. La spesa pubblica (all’estremo, anche se “improduttiva”) ha effetti espansivi per almeno due ragioni, ben note. In primo luogo, per l’attivarsi del meccanismo keynesiano stando al quale la spesa pubblica, accrescendo la domanda aggregata, accresce l’occupazione e la produzione, con effetti moltiplicativi. In secondo luogo, perché, in quanto amplia i mercati di sbocco, migliora le aspettative imprenditoriali e incentiva gli investimenti privati.

3) Anche ammesso che la crescita del debito pubblico comporti un trasferimento dell’onere fiscale a danno delle generazioni future, ciò non costituisce un danno irreversibile, come è, con ogni evidenza, il danno ambientale. Mentre, infatti, nel caso del danno ambientale vi è distruzione di risorse non riproducibili, nel caso dell’aumento delle imposte ciò non accade: fatta eccezione per le risorse naturali, gli altri fattori produttivi sono riproducibili, non essendo soggetti a vincoli di scarsità.

L’esperienza italiana degli ultimi decenni mostra, in effetti, che quanto più si è cercato di ridurre il rapporto debito pubblico/PIL, tanto più questo rapporto è aumentato e tanto più – per decisioni puramente politiche – si è trasferito l’onere dell’aggiustamento sulle generazioni successive, in una spirale perversa che ha generato il progressivo inarrestabile impoverimento (in ordine di tempo) dei lavoratori, delle classi medie, delle piccole e medie imprese e, infine, della forza-lavoro giovanile.

Ciò è accaduto sostanzialmente a ragione del fatto che si è cercato di ridurre il rapporto debito pubblico/PIL agendo esclusivamente sul numeratore della frazione, e dunque riducendo la spesa pubblica e/o aumentando la tassazione. Ne è seguita la caduta della domanda e dell’occupazione, con conseguenti inevitabili effetti negativi sul tasso di crescita. La conseguente riduzione della base imponibile ha reso sempre più difficile reperire risorse per pagare il debito. Non si è trovata altra strada se non aumentare la pressione fiscale, peraltro rendendo sempre meno progressiva la tassazione e, dunque, facendo gravare l’onere sempre più sulle fasce di reddito più basse. In tal senso, dovrebbe essere ormai chiaro che è la riduzione del tasso di crescita ad accrescere il debito, non il contrario.

Si riconosca almeno che le politiche di austerità non sono un “imperativo categorico”, valide in ogni circostanza di tempo e di luogo, e che altre vie sono percorribili, peraltro con maggiore efficacia. La c.d. “Abenomics” giapponese – ovvero l’attuazione di un’aggressiva politica fiscale (e monetaria) espansiva, nell’ordine di 85 miliardi di euro come primo stanziamento, con una stima di crescita del 2% su base annua – costituisce la conferma più recente del fatto che il deficit spending può essere ancora considerato una strategia pienamente efficace almeno in funzione anti-ciclica.

Avendo sperimentato l’inoppugnabile fallimento delle politiche di austerità, non si vede ragione per la quale reiterare l’errore, soprattutto se il rispetto del vincolo del rigore finanziario viene motivato con argomentazioni che intendono legittimare una recessione politicamente indotta appellandosi a discutibili argomenti etici. Gli argomenti etici dovrebbero essere, al più, utilizzati per far fronte all’insostenibile disuguaglianza distributiva che queste stesse politiche hanno contribuito a produrre. 


Per fermare la crisi serve una rivolta, ma anche un’idea

di Franco Cilli
Ha ragione Revelli per fermare la crisi ci vuole una rivolta, ma non basta, ci vogliono idee chiare e passione. 
Il dato fondamentale di questa crisi è il ricatto, una bestia nera che trae le sue energie dalla paura. Siamo ricattati dalla menzogna di chi ci dice : “ non ci sono più soldi”, quindi dovete accettare tutto o morirete. Questo messaggio ha un valore assoluto, perché è l’unico apparentemente logico. Non puoi sperare in qualcosa che non c’è, non ci sono i soldi, devi solo sperare che di quei pochi rimasti te ne spetti una parte, è una logica primordiale, che può essere sconfitta solo dalla forza del miracolo, quello che può moltiplicare il pane e i pesci. Ma in economia nessuno crede ai miracoli, né il ricco né il povero, né il savio, né l’ignorante, quelli fanno parte di una sfera distinta dalla mondanità, sebbene si compenetri con essa. In economia si crede solo al dato concreto, anche se suona come una moneta di rame. L’unica è mettere il mondo a testa in giù, una rivoluzione copernicana in grado di modificare radicalmente la percezione della realtà e rendere attuale l’inattuabile, ma per farlo abbiamo bisogna di una grande forza evocativa. In parole povere occorre creare un think tank di persone in grado di elaborare una proposta organica e vincente per uscire da questa crisi, sulla base di un nuovo paradigma e di una logica che utilizza codici interpretativi diversi da quelli abituali. Questo trust di cervelli deve essere capace di coniugare nuove visioni della realtà con lo sviluppo di un movimento sociale di massa, a forte impronta egualitaria, che agisce e pensa dentro l’idea del bene comune, sfatando i dogmi con i quali siamo stati allevati, gli stessi che ci hanno indotto a credere che esiste una sola idea di economia. Un movimento capace di connettersi a realtà analoghe in Europa e nel mondo, perché è l’Europa delle banche che dobbiamo cambiare, mordere il mondo intero e attraverso le nostre grida di dolore cambiare la percezione del mondo che ci hanno inculcato.

Il nodo gordiano è l’economia. Abbiamo bisogno di sapere che esiste una via diversa dall’austerità, perché l’austerità ci sta uccidendo e sta uccidendo il nostro futuro. I tanti intellettuali, economisti, politici, devono smetterla di pensare in piccolo, aspettando di essere corteggiati dal partito o movimento di turno, con la promessa di uno scranno da cui lanciare suggestioni che si sbriciolano a contatto con l’aria. Le intelligenze funzionano meglio quando agiscono in sinergia e quando si dedicano ad un progetto di ampio respiro, capace di smuovere le coscienze. Non possiamo attardarci su proposte minoritarie, dobbiamo aspirare alla maggioranza e prendere il potere, noi tutti, sperimentando nuove forme di rappresentanza e di politica economica. Questo Grillo lo ha capito da tempo, ma la sua forza è anche la sua debolezza, perché non riesce a separare il potere dall’ambiguità, ed è costretto a mascherare messaggi ambigui dietro un lessico corrotto e falsamente universale. Noi dobbiamo parlare una lingua prurale per dire cose semplici e senza concessioni al razzismo o all’ansia di sicurezza come fa Grillo.

Èparadossale pensare che una proposta di democrazia avanzata e di rivoluzione economica, possa essere partorita da un manipolo di “illuminati”, lo so, ma è sempre stato così, quelli che hanno dato il via alle rivoluzioni nella storia, sono sempre stati gruppi di persone facenti parte di un’élite culturale che si è auto-attribuita una missione, non c’è verso. Èstato così per le rivoluzioni liberali ed è stato così per quelle marxiste. Persone in grado di padroneggiare gli strumenti della scienza del potere senza farsi distrarre dalla banalità del quotidiano o dai morsi del bisogno.

Persone del genere ne abbiamo, aspettiamo solo che trovino il momento giusto per mettersi insieme.

Per fermare la crisi serve una rivolta, ma anche un’idea

di Franco Cilli
Ha ragione Revelli per fermare la crisi ci vuole una rivolta, ma non basta, ci vogliono idee chiare e passione. 
Il dato fondamentale di questa crisi è il ricatto, una bestia nera che trae le sue energie dalla paura. Siamo ricattati dalla menzogna di chi ci dice : “ non ci sono più soldi”, quindi dovete accettare tutto o morirete. Questo messaggio ha un valore assoluto, perché è l’unico apparentemente logico. Non puoi sperare in qualcosa che non c’è, non ci sono i soldi, devi solo sperare che di quei pochi rimasti te ne spetti una parte, è una logica primordiale, che può essere sconfitta solo dalla forza del miracolo, quello che può moltiplicare il pane e i pesci. Ma in economia nessuno crede ai miracoli, né il ricco né il povero, né il savio, né l’ignorante, quelli fanno parte di una sfera distinta dalla mondanità, sebbene si compenetri con essa. In economia si crede solo al dato concreto, anche se suona come una moneta di rame. L’unica è mettere il mondo a testa in giù, una rivoluzione copernicana in grado di modificare radicalmente la percezione della realtà e rendere attuale l’inattuabile, ma per farlo abbiamo bisogna di una grande forza evocativa. In parole povere occorre creare un think tank di persone in grado di elaborare una proposta organica e vincente per uscire da questa crisi, sulla base di un nuovo paradigma e di una logica che utilizza codici interpretativi diversi da quelli abituali. Questo trust di cervelli deve essere capace di coniugare nuove visioni della realtà con lo sviluppo di un movimento sociale di massa, a forte impronta egualitaria, che agisce e pensa dentro l’idea del bene comune, sfatando i dogmi con i quali siamo stati allevati, gli stessi che ci hanno indotto a credere che esiste una sola idea di economia. Un movimento capace di connettersi a realtà analoghe in Europa e nel mondo, perché è l’Europa delle banche che dobbiamo cambiare, mordere il mondo intero e attraverso le nostre grida di dolore cambiare la percezione del mondo che ci hanno inculcato.

Il nodo gordiano è l’economia. Abbiamo bisogno di sapere che esiste una via diversa dall’austerità, perché l’austerità ci sta uccidendo e sta uccidendo il nostro futuro. I tanti intellettuali, economisti, politici, devono smetterla di pensare in piccolo, aspettando di essere corteggiati dal partito o movimento di turno, con la promessa di uno scranno da cui lanciare suggestioni che si sbriciolano a contatto con l’aria. Le intelligenze funzionano meglio quando agiscono in sinergia e quando si dedicano ad un progetto di ampio respiro, capace di smuovere le coscienze. Non possiamo attardarci su proposte minoritarie, dobbiamo aspirare alla maggioranza e prendere il potere, noi tutti, sperimentando nuove forme di rappresentanza e di politica economica. Questo Grillo lo ha capito da tempo, ma la sua forza è anche la sua debolezza, perché non riesce a separare il potere dall’ambiguità, ed è costretto a mascherare messaggi ambigui dietro un lessico corrotto e falsamente universale. Noi dobbiamo parlare una lingua prurale per dire cose semplici e senza concessioni al razzismo o all’ansia di sicurezza come fa Grillo.

Èparadossale pensare che una proposta di democrazia avanzata e di rivoluzione economica, possa essere partorita da un manipolo di “illuminati”, lo so, ma è sempre stato così, quelli che hanno dato il via alle rivoluzioni nella storia, sono sempre stati gruppi di persone facenti parte di un’élite culturale che si è auto-attribuita una missione, non c’è verso. Èstato così per le rivoluzioni liberali ed è stato così per quelle marxiste. Persone in grado di padroneggiare gli strumenti della scienza del potere senza farsi distrarre dalla banalità del quotidiano o dai morsi del bisogno.

Persone del genere ne abbiamo, aspettiamo solo che trovino il momento giusto per mettersi insieme.

Dalla protesta alla proposta, l’alternativa democratica


di Daniela Passeri
 

Se la fiducia degli italiani nei partiti politici è arrivata alla soglia minima dell’1,5% (Rapporto Istat 2013), dopo il tradimento del voto delle politiche, come si andrà a votare negli oltre 700 comuni che rinnovano sindaco e consiglio comunale domenica 26 e lunedì 27? Con il naso turato, le dita incrociate, in punta di piedi, a occhi chiusi? E soprattutto, quanti andranno a votare?
Alle amministrative l’offerta sfugge agli schemi della cosiddetta pacificazione nazionale del patto transgenico PD-PDL e al monopolio del voto di protesta firmato M5S. Qui la politica, nel senso più autentico di governo della polis, ritrova i suoi connotati più veri. Che, a dispetto della pacificazione, oggi sono di frantumazione, deflagrazione dell’offerta politica nella quale possiamo però scorgere una discreta vitalità.
Il metro e mezzo di scheda-lenzuolo che i romani si porteranno in cabina elettorale (45 liste, 19 candidati, tutti uomini) basta a descrivere questa polverizzazione. Ma come orientarsi nella selva di liste di cittadinanza che in questa primavera piovosa sono sorte come funghi all’ombra dei campanili?
Come discernere tra le macerie fumanti dei partiti che si scompongono in varie affiliazioni nel tentativo di ricomporsi nei ballottaggi, e le espressioni più genuine di quei cittadini che si sono rimboccati le maniche e sporcati le mani nelle strade, nelle piazze e nei luoghi di lavoro, per dire molti no, ma soprattutto per proporre un modello di sviluppo del territorio più sostenibile (piccole opere diffuse a maggiore intensità di lavoro al posto di grandi opere inutili e imposte; riqualificazione energetica degli edifici, politiche di rifiuti zero, etc); per proporre modelli di gestione dei servizi pubblici diversi da quelli privatistici dove anche i rappresentanti dei lavoratori e delle associazioni siedono nei consigli di amministrazione; per proporre la valorizzazione dei beni comuni, cioè delle risorse di una comunità e sottrarli alla dittatura del privato; per proporre un modello di uguaglianza che affermi diritti civili irrinunciabili (ius soli, unioni civili); per proporre il riscatto del lavoro svilito, sfruttato e ricattato con la riformulazione di un’idea di impresa con una visione più ampia di quella del profitto; per proporre e rendere possibile una maggiore partecipazione dei cittadini alla politica e creare un sistema che veda i cittadini affiancare i propri rappresentanti, continuare con loro il dialogo dopo aver apposto una croce su un simbolo; per proporre la difesa della scuola pubblica e laica, come la mobilitazione che ha portato al referendum di Bologna di domenica.
Dunque, è nella capacità di proposta, oltre che di protesta, che troviamo una bussola. Un altro indicatore è poi la capacità di fare rete con altre realtà, di rendere queste proposte tanto più credibili quanto sono replicabili. Sfuggire dunque alla tentazione dell’autosufficienza allargando l’orizzonte ad uno scambio di pratiche, esperienze e proposte che si rafforzano a vicenda.
Un’esperienza in questo senso, un laboratorio significativo, è quello delle liste di cittadinanza, diverse di loro unite nella “Rete dei Comuni Solidali” (la lista “Repubblica Romana” a Roma che candida a sindaco Sandro Medici; “Una città in comune” a Pisa che candida Ciccio Auletta; “Sinistra per Siena” per Laura Vigni; “Brescia solidale e libertaria” per Giovanna Giacopini; “ABC: Ancona Bene Comune” per Stefano Crispiani; “Cambiamo Messina dal basso” per Renato Accorinti.
A queste liste è affidato un passo piccolo ma importante su una strada difficile ma irrinunciabile: essere e mostrare che esiste un’alternativa alla riproposizione di una prospettiva ormai non più in campo quale quella di condizionare “in qualche modo” il PD.
Sono candidati sindaci, liste ed esperienze che costruiscono un’alternativa legata dal filo rosso della democrazia radicale, come scriviamo noi di ALBA con Marco Revelli, lontano da Bisanzio e “fuori dalle mura” di quello che fu il centro-sinistra.
L’intento è quello di proseguire il dialogo anche dopo le elezioni, dagli scranni dei consigli comunali e ancora e sempre nelle piazze e nelle strade come nei luoghi di lavoro. A declinare e testimoniare un sistema di valori comuni là dove invece le liste effimere della mera tattica elettorale scompariranno.
Dietro le liste autentiche di cittadinanza attiva – altro indicatore importante – c’è un elemento soggettivo che non viene mai abbastanza sottolineato che è la passione per la politica che crea e trasforma i legami personali; c’è la condivisione della fatica di giornate passate a volantinare, fotocopiare, scrivere, intensificare il tam tam del social network anche (ma non solo) per uscire dall’oscuramento mediatico e supplire alla carenza di mezzi economici che le liste di cittadinanza, quelle vere, per scelta non posseggono. 


Dalla protesta alla proposta, l’alternativa democratica


di Daniela Passeri
 

Se la fiducia degli italiani nei partiti politici è arrivata alla soglia minima dell’1,5% (Rapporto Istat 2013), dopo il tradimento del voto delle politiche, come si andrà a votare negli oltre 700 comuni che rinnovano sindaco e consiglio comunale domenica 26 e lunedì 27? Con il naso turato, le dita incrociate, in punta di piedi, a occhi chiusi? E soprattutto, quanti andranno a votare?
Alle amministrative l’offerta sfugge agli schemi della cosiddetta pacificazione nazionale del patto transgenico PD-PDL e al monopolio del voto di protesta firmato M5S. Qui la politica, nel senso più autentico di governo della polis, ritrova i suoi connotati più veri. Che, a dispetto della pacificazione, oggi sono di frantumazione, deflagrazione dell’offerta politica nella quale possiamo però scorgere una discreta vitalità.
Il metro e mezzo di scheda-lenzuolo che i romani si porteranno in cabina elettorale (45 liste, 19 candidati, tutti uomini) basta a descrivere questa polverizzazione. Ma come orientarsi nella selva di liste di cittadinanza che in questa primavera piovosa sono sorte come funghi all’ombra dei campanili?
Come discernere tra le macerie fumanti dei partiti che si scompongono in varie affiliazioni nel tentativo di ricomporsi nei ballottaggi, e le espressioni più genuine di quei cittadini che si sono rimboccati le maniche e sporcati le mani nelle strade, nelle piazze e nei luoghi di lavoro, per dire molti no, ma soprattutto per proporre un modello di sviluppo del territorio più sostenibile (piccole opere diffuse a maggiore intensità di lavoro al posto di grandi opere inutili e imposte; riqualificazione energetica degli edifici, politiche di rifiuti zero, etc); per proporre modelli di gestione dei servizi pubblici diversi da quelli privatistici dove anche i rappresentanti dei lavoratori e delle associazioni siedono nei consigli di amministrazione; per proporre la valorizzazione dei beni comuni, cioè delle risorse di una comunità e sottrarli alla dittatura del privato; per proporre un modello di uguaglianza che affermi diritti civili irrinunciabili (ius soli, unioni civili); per proporre il riscatto del lavoro svilito, sfruttato e ricattato con la riformulazione di un’idea di impresa con una visione più ampia di quella del profitto; per proporre e rendere possibile una maggiore partecipazione dei cittadini alla politica e creare un sistema che veda i cittadini affiancare i propri rappresentanti, continuare con loro il dialogo dopo aver apposto una croce su un simbolo; per proporre la difesa della scuola pubblica e laica, come la mobilitazione che ha portato al referendum di Bologna di domenica.
Dunque, è nella capacità di proposta, oltre che di protesta, che troviamo una bussola. Un altro indicatore è poi la capacità di fare rete con altre realtà, di rendere queste proposte tanto più credibili quanto sono replicabili. Sfuggire dunque alla tentazione dell’autosufficienza allargando l’orizzonte ad uno scambio di pratiche, esperienze e proposte che si rafforzano a vicenda.
Un’esperienza in questo senso, un laboratorio significativo, è quello delle liste di cittadinanza, diverse di loro unite nella “Rete dei Comuni Solidali” (la lista “Repubblica Romana” a Roma che candida a sindaco Sandro Medici; “Una città in comune” a Pisa che candida Ciccio Auletta; “Sinistra per Siena” per Laura Vigni; “Brescia solidale e libertaria” per Giovanna Giacopini; “ABC: Ancona Bene Comune” per Stefano Crispiani; “Cambiamo Messina dal basso” per Renato Accorinti.
A queste liste è affidato un passo piccolo ma importante su una strada difficile ma irrinunciabile: essere e mostrare che esiste un’alternativa alla riproposizione di una prospettiva ormai non più in campo quale quella di condizionare “in qualche modo” il PD.
Sono candidati sindaci, liste ed esperienze che costruiscono un’alternativa legata dal filo rosso della democrazia radicale, come scriviamo noi di ALBA con Marco Revelli, lontano da Bisanzio e “fuori dalle mura” di quello che fu il centro-sinistra.
L’intento è quello di proseguire il dialogo anche dopo le elezioni, dagli scranni dei consigli comunali e ancora e sempre nelle piazze e nelle strade come nei luoghi di lavoro. A declinare e testimoniare un sistema di valori comuni là dove invece le liste effimere della mera tattica elettorale scompariranno.
Dietro le liste autentiche di cittadinanza attiva – altro indicatore importante – c’è un elemento soggettivo che non viene mai abbastanza sottolineato che è la passione per la politica che crea e trasforma i legami personali; c’è la condivisione della fatica di giornate passate a volantinare, fotocopiare, scrivere, intensificare il tam tam del social network anche (ma non solo) per uscire dall’oscuramento mediatico e supplire alla carenza di mezzi economici che le liste di cittadinanza, quelle vere, per scelta non posseggono. 


Euro, un referendum contro la fabbrica delle bugie

Giorgio Cremaschi da Micromega
 
Adesso che la potenza mediatica di Grillo spinge il referendum sulla Europa, è solo sperabile che questa giusta proposta non finisca nel tritacarne mediatico e nel teatrino della politica.
Noi del movimento No Debito l’abbiamo chiesto da quasi due anni e ne discutiamo sabato prossimo a Roma con, tra gli altri, Luciano Vasapollo e Gianni Ferrara.
Una consultazione popolare sui trattati europei c’è già stata nel 1989, abbinata alle europee. Ora sarebbe giusto indire un referendum non tanto sull’Euro in quanto tale, ma su quei trattati che, come il fiscal compact, ci vincolano alle politiche di austerità.
Un referendum come quelli che si sono tenuti in altri paesi europei avrebbe un pregio di fondo: almeno per qualche momento e con un minimo di par condicio romperebbe la barriera di propaganda, chiacchiere e bugie che oggi impediscono ai cittadini italiani di farsi una propria idea su quanto sta davvero accadendo in Europa. Poi si potrebbe affrontare davvero la questione di come rompere la cappa dell’Euro, che produce da noi 40000 disoccupati al mese, centinaia di migliaia in tutta l’Europa del Sud.
Di un vero e pubblico confronto su questi temi ce ne sarebbe davvero bisogno, visto anche come è andato il dibattito al Senato sul vertice europeo e visto come ne sono stati informati i cittadini.
Il presidente del consiglio ha fatto un discorsetto sulla necessità di farsi valere e di far capire, immagino alla Germania che però per paura non è stata citata, che bisogna aggiungere la crescita alla austerità. Come ha detto la destra, bisogna andare in Europa a battere i pugni sul tavolo.
Tutto questo in concreto non vuol dire nulla, assolutamente nulla. Ma oggi su diversi quotidiani si esalta il successo del governo italiano perché a luglio ci sarà un summit dei ministri del lavoro sulla disoccupazione giovanile, ridicolo.
Intanto il ministro italiano fa capire che i soldi non ci sono, e avanti così.
Ma torniamo al Senato. Lì alla fine si è votato e non un solo grande telegiornale ha spiegato chi e come. Con il governo dei pugni sul tavolo ha votato anche la Lega, 5 stelle ha votato contro e SEL si è astenuta. Perché? Questo partito aveva presentato un ordine del giorno che chiedeva al governo di rinegoziare il fiscal compact. Letta l’ha seccamente respinto, ma ciononostante SEL non è riuscita a votare contro.
Penso che la notizia vera sia questa: il governo accetta in toto il fiscal compact, la Lega lo sostiene e solo il 5 stelle si oppone.
Questa notizia è stata invece ignorata dal regime informativo. Meglio parlare delle solite sceneggiate piuttosto che far capire ai cittadini che cosa è il fiscal compact e cosa vuol dire accettarlo.
Il 29 maggio si spera che l’Italia sia perdonata dalla procedura europea di infrazione per deficit pubblico eccessivo. Così, fanno capire governo e stampa, si potrà ricominciare ad investire… Falso.
Il vecchio parlamento ha inserito in Costituzione il pareggio di bilancio. Il che vuol dire che, consumati tutti i margini possibili, ogni anno bisogna togliere al paese circa 80 miliardi di euro solo per pagare gli interessi sul debito pubblico.
A questo il fiscal compact aggiunge dal prossimo anno la riduzione a rate ventennali dell’ammontare stesso del debito per la sua metà. Sono nuove cambiali di oltre 50 miliardi all’anno che si aggiungono a quelle sugli interessi. Insomma 130 miliardi che vengono tolti al paese, ai suoi servizi pubblici, ai suoi investimenti per uno scopo finanziario assolutamente improduttivo.
Se si pagano questi soldi tutti gli anni, non ce ne sono altri per il lavoro e dunque si faranno solo giochi di prestigio. Taglio qui e spendo là, prendo due e pago uno, tutto questo abbonderà, ancora di più nella propaganda, ma certo non ci saranno veri piani per il lavoro per la ripresa economica.
Se si accetta il regime del fiscal compact tutto il resto sono solo chiacchiere magari  ben alimentate dal regime informativo.
Ben venga dunque un referendum, a causa del quale la fabbrica della disinformazione sia costretta almeno per poco a misurarsi con il pensiero e le notizie che ignora. I cittadini avranno qualche elemento in più per capire, organizzarsi, lottare, come avviene in tutto il resto d’Europa.

Euro, un referendum contro la fabbrica delle bugie

Giorgio Cremaschi da Micromega
 
Adesso che la potenza mediatica di Grillo spinge il referendum sulla Europa, è solo sperabile che questa giusta proposta non finisca nel tritacarne mediatico e nel teatrino della politica.
Noi del movimento No Debito l’abbiamo chiesto da quasi due anni e ne discutiamo sabato prossimo a Roma con, tra gli altri, Luciano Vasapollo e Gianni Ferrara.
Una consultazione popolare sui trattati europei c’è già stata nel 1989, abbinata alle europee. Ora sarebbe giusto indire un referendum non tanto sull’Euro in quanto tale, ma su quei trattati che, come il fiscal compact, ci vincolano alle politiche di austerità.
Un referendum come quelli che si sono tenuti in altri paesi europei avrebbe un pregio di fondo: almeno per qualche momento e con un minimo di par condicio romperebbe la barriera di propaganda, chiacchiere e bugie che oggi impediscono ai cittadini italiani di farsi una propria idea su quanto sta davvero accadendo in Europa. Poi si potrebbe affrontare davvero la questione di come rompere la cappa dell’Euro, che produce da noi 40000 disoccupati al mese, centinaia di migliaia in tutta l’Europa del Sud.
Di un vero e pubblico confronto su questi temi ce ne sarebbe davvero bisogno, visto anche come è andato il dibattito al Senato sul vertice europeo e visto come ne sono stati informati i cittadini.
Il presidente del consiglio ha fatto un discorsetto sulla necessità di farsi valere e di far capire, immagino alla Germania che però per paura non è stata citata, che bisogna aggiungere la crescita alla austerità. Come ha detto la destra, bisogna andare in Europa a battere i pugni sul tavolo.
Tutto questo in concreto non vuol dire nulla, assolutamente nulla. Ma oggi su diversi quotidiani si esalta il successo del governo italiano perché a luglio ci sarà un summit dei ministri del lavoro sulla disoccupazione giovanile, ridicolo.
Intanto il ministro italiano fa capire che i soldi non ci sono, e avanti così.
Ma torniamo al Senato. Lì alla fine si è votato e non un solo grande telegiornale ha spiegato chi e come. Con il governo dei pugni sul tavolo ha votato anche la Lega, 5 stelle ha votato contro e SEL si è astenuta. Perché? Questo partito aveva presentato un ordine del giorno che chiedeva al governo di rinegoziare il fiscal compact. Letta l’ha seccamente respinto, ma ciononostante SEL non è riuscita a votare contro.
Penso che la notizia vera sia questa: il governo accetta in toto il fiscal compact, la Lega lo sostiene e solo il 5 stelle si oppone.
Questa notizia è stata invece ignorata dal regime informativo. Meglio parlare delle solite sceneggiate piuttosto che far capire ai cittadini che cosa è il fiscal compact e cosa vuol dire accettarlo.
Il 29 maggio si spera che l’Italia sia perdonata dalla procedura europea di infrazione per deficit pubblico eccessivo. Così, fanno capire governo e stampa, si potrà ricominciare ad investire… Falso.
Il vecchio parlamento ha inserito in Costituzione il pareggio di bilancio. Il che vuol dire che, consumati tutti i margini possibili, ogni anno bisogna togliere al paese circa 80 miliardi di euro solo per pagare gli interessi sul debito pubblico.
A questo il fiscal compact aggiunge dal prossimo anno la riduzione a rate ventennali dell’ammontare stesso del debito per la sua metà. Sono nuove cambiali di oltre 50 miliardi all’anno che si aggiungono a quelle sugli interessi. Insomma 130 miliardi che vengono tolti al paese, ai suoi servizi pubblici, ai suoi investimenti per uno scopo finanziario assolutamente improduttivo.
Se si pagano questi soldi tutti gli anni, non ce ne sono altri per il lavoro e dunque si faranno solo giochi di prestigio. Taglio qui e spendo là, prendo due e pago uno, tutto questo abbonderà, ancora di più nella propaganda, ma certo non ci saranno veri piani per il lavoro per la ripresa economica.
Se si accetta il regime del fiscal compact tutto il resto sono solo chiacchiere magari  ben alimentate dal regime informativo.
Ben venga dunque un referendum, a causa del quale la fabbrica della disinformazione sia costretta almeno per poco a misurarsi con il pensiero e le notizie che ignora. I cittadini avranno qualche elemento in più per capire, organizzarsi, lottare, come avviene in tutto il resto d’Europa.

DOPPIOCIECO

Per una Razionalità Moderatamente Pluralista