Thomas Fazi è l’autore di The Battle for Europe (Pluto, 2014) e co-autore di Reclaiming the State (Pluto, 2017).
dello stesso autore: Per una Sinistra di Nuovo Grande
Tag: Elezioni
La mia prima reazione al volto USA
di Giorgio Cremaschi
Trump mi disgusta ma la guerrafondaia Clinton mi faceva paura, quindi non piango. Mi fa ridere invece il totale fallimento dei sondaggi, che evidentemente oramai sono tutti falsi e parte del gioco di palazzo. Il che mi fa preoccupare sui sondaggi italiani che danno vincente di poco il NO. Da che parte sono falsi, perché il NO è molto più forte o perchè vogliono dare false sicurezze al NO aiutando il SI? A questo punto è bene non fidarsi di nulla ed andare avanti ventre a terra per il NO. Che comunque ha perso il suo sostenitere negli USA, così come forse succederà anche al TTIP. Due buone notizie se confermate, che dimostrano che la globalizzazione è oramai in crisi totale e che i tutti tromboni che continuano a giustificare il liberismo con essa devono solo smettere il loro fastidioso concerto. La globalizzazione va in crisi e con essa l’establisment finaziario che la dirige, ma non facciamoci illusioni, va in crisi da destra, Trump è destra pura. Una destra che ha saputo raccogliere la rabbia popolare contro la devastazione della crisi ed indirizzarla ai suoi fini. Questo mentre la sinistra ufficiale si vendeva alle banche. Penso che contro Sanders Trump avrebbe fatto molta più fatica a vincere, ma il partito democratico ha preferito perdere con l’impresentabile Clinton che vincere con il populsta Sanders, che ha fatto male ad arrendersi di fronte alla sinistra di Wall Street.
E qui c’è la prima urgente conclusione politica. La sinistra può riprendere a svolgere un ruolo utile solo se si batte per contendere alla destra il lavoro e il popolo sfruttati e depredati, invece che cercare il favore delle banche. Per questo per me il primo insegnamento del voto USA, che segue altri come la Brexit, è che la sinistra ha un fututro solo se abbandona tutte le famiglie Clinton, cioé in Italia ed Europa se riparte mandando aff.. Renzi, Hollande, Tsipras e compagnia. Il NO serve solo per cominciare.
Elezioni USA: neoconservatives VS neo-bizantini?
Bisogna capire che lo scontro in atto in USA in questo momento è un vero e proprio tornante della storia al pari dei tragici eventi del Settembre 2001. Al di là dell’antipatia personale o la simpatia per uno dei due concorrenti principali e senza lasciarci intossicare il pensiero dalla terrificante campagna elettorale in corso che è una enorme macchina del fango tesa a screditare l’avversario con ogni mezzo e con ogni sorta di notizia manipolata.
In realtà stiamo assistendo ad uno scontro tra due fazioni dell’élite americana. Fazioni che hanno trovato nei due contendenti i loro front-man elettorali.
La posta in gioco è cosa deve essere l’Impero americano nei prossimi decenni e come uscire o almeno stabilizzare la sua evidente crisi. Le visioni in lotta sono le seguenti:
1) I neoconservatives che hanno in Hillary la loro bandiera e vogliono continuare nell’esperienza della “guerra al terrorismo” ovvero nella guerra imperialista tendente a far guadagnare agli USA l’uscita dalla crisi allargando a tutto il mondo la loro sfera d’influenza. Anche con l’utilizzo delle armi, oltre che con le rivoluzioni colorate. Dunque il programma è semplice e ormai ben oleato sulla falsariga del Project for the New American Century : allargare la sfera d’influenza economica con i due trattati transoceanici di libero commercio; quello atlantico con l’UE e quello del pacifico con il Giappone e tutti i paesi rivieraschi dalla Corea alla Malesia. Usare lo strumento militare contro tutto il blocco antagonista. Dunque contro la Cina e la Russia nella speranza che questi crollino a causa di una nuova guerra fredda come crollò l’URSS ma senza disdegnare l’utilizzo diretto della forza se necessario.
2) Alla visione neoconservativa che ha dominato dai tempi di Bush Junior si contrappone un’altra fazione al momento più magmatica e non venuta alla luce in tutti i suoi uomini. Questa è la visione isolazionista e trattativista con il blocco antagonista nascente. Tra i punti finora conosciuti del progetto – di cui Trump è solo il front-man – elettorale vi è la rottura dei trattati TTIP e il TPP. Rinegoziazione in senso isolazionista anche del NATFA e dei trattati WTO. Minor interesse militare per l’Europa e per l’Asia a patto che gli alleati non accettino di pagare la protezione. Trattativa con la Russia e forse anche con la Cina (ma c’è chi parla in realtà di portare la Russia dalla parte degli USA al fine di scardinare l’alleanza russo-cinese). Tra le teste pensanti che appoggiano questa visione vi è Luttwak (che alcuni anni fa scrisse un testo importantissimo nella quale teorizzava un impero americano come nuovo Impero Romano d’Oriente, e quindi come Primus Inter Pares anziché come Dominus mondiale), Woolsey ex direttore CIA e Pieczenik, dottor stranamore al Ministero dell’Interno ai tempi del caso Moro e braccio destro di Kissinger. Peraltro Kissinger non si è esposto sull’elezione ma più di una volta ha ammonito che è l’ora di trattare con la Russia.
Questa è la vera posta in gioco in queste elezioni presidenziali USA. Me ne scuso se l’ho esposta per sommi capi ma spero si capisca che la fanghiglia schifosa che sta traboccando dai mass-media è solo roba per allocchi.
PS Nell’immagine il testo di Luttwak che spiega la strategia trattativista “neo-bizantina” che sostiene Trump (e che ripeto, non è manco detto che Trump comprenda. Lui ha il compito di arringare le masse, mica di capire). Il testo è disponibile in formato Kindle. Il cartaceo è introvabile.
La follia nelle elezioni americane
di Tonino D’Orazio
Per la prima volta sono stupito dalle folle dichiarazioni dei due maggiori candidati alla presidenza degli Stati Uniti. Dalla virulenza xenofoba e guerrafondaia, in modo prevalente, del repubblicano miliardario Trump. E dallo sguardo allucinato e sorriso largo della Clinton che sembra non avere un cognome proprio.
Due candidati che non hanno nulla a che vedere con il popolo né tantomeno con i semplici cittadini. Dalla terminologia usata si può intravvedere una vera paura da parte dell’etnia bianca, vista la manipolazione e l’utilizzo elettorale del colore della pelle degli individui e una strategia di odio e di xenofobia impressionante. Che non fosse più l’immagine del sogno americano e della democrazia, veicolata e potenziata culturalmente, ma falsamente, nel mondo intero per decenni, molti se ne sono accordi da tempo. Oggi tra guerre coloniali, sopraffazione di popoli e di religioni, anche amici spiati come noi, l’immagine si è persa per sempre. Esistono solo loro e basta.
Abbiamo di fronte una Clinton che gioca alla mamma gentile e un cattivo cowboy, Trump, con la pistola puntata contro tutti, e un filo di follia nelle smorfie facciali. Una vera scena hollywoodiana, manca il governatore Schwarzenegger. Insomma una stupidità disarmante.
Per la Clinton, guerrafondaia ebbra (viso raggiante indimenticabile) dell’assassinio di Ghedaffi in Libia, oltre allo slogan “E’ l’ora di una donna”, è quasi altrettanto ricca del miliardario Trump. E’ sostenuta da Barclays, Barclays Capitol, Goldman Sachs, de Citi, de Citigroup, dall’UBS, da Bank of California, da Bank of America (famiglia Rothchild e probabilmente la maggioranza della potente lobby ebraica), e bisogna aggiungere anche la fondazione, addirittura, Victor Pinchuk di Kiev. Un fiume di soldi oltre alla propria Fondazione Clinton già milionaria. Dietro, a sostegno ulteriore ci sono l’industria degli armamenti, Wall Street e la famosa diramazione con caratteristica mondiale chiamata la Trilaterale, nella quale sono presenti non pochi politici nostrani di rilievo. Il disagio sta nel simbolo, l’asinello.
Trump è il cattivo nazionalista yankee, ricco già di eredità, uomo di affari nell’immobiliare già del padre, politico, personaggio televisivo (Fox News) famoso da 15 anni (alla Bruno Vespa). Prima un periodo democratico, poi repubblicano. I voltagabbana esistono dappertutto, sono il sale delle nostre democrazie. Sostiene apertamente il Ku Klux Klan e rilancia la supremazia della razza bianca, soprattutto anglosassone. Uomo scandalo, da gossip, travolge tutto e tutti sul suo passaggio. Il simbolo è l’elefante. Razzista dichiarato minaccia soprattutto i messicani (“stupratori e criminali”), i neri, i musulmani, le minoranze e anche le donne. (Però spera anche nel loro voto. Conosce l’anomalia masochista che a volte pervade il popolo quando sbaglia obiettivo). Propone per gli Stati Uniti un ritorno a maggiore potenza mondiale (“Render l’America ancora grande, in realtà lapsus di una evidente difficoltà odierna), minaccia soprattutto la Russia (per i cinesi ci va cauto ma è pronto a barricate doganali mondiali), e in Europa di dare maggiore forza alla Nato. Dichiara di voler bombardare la “merda Isis”. Stimola un odio maggiore tra bianchi e neri, rilancia il conflitto razziale, e quello religioso verso l’islam, elementi che tra l’altro, stanno trovando spazio anche in Europa.
Due candidati che viaggiano con il 40% della popolazione americana iscritta nelle liste elettorali e poi, in realtà, con una percentuale inferiore, a volte di molto, di quelli che effettivamente votano.
Ma che succede nel ventre molle del popolo statunitense per avere di fronte questi due candidati. Intanto l’innovazione sta proprio nell’ascesa di Bernie Sanders, il candidato “socialdemocratico” del partito democratico. Sconfitto, ovviamente, il sistema pre-elettorale non permette altro, ma questa volta con grande onore e consenso. Soprattutto dei giovani, su tre concetti: sanità per tutti, abolizione delle tasse universitarie (si può spendere anche 100.000 dollari per un corso di diploma-laurea, per cui si è indebitati, spesso con le banche, prima ancora di poter guadagnare), servizi social allargati con ridistribuzione della ricchezza (tassando i super ricchi). Esiste forse un frutto del “Occupy Wall Street”? Oppure il numero dei poveri aumenta fortemente tra la classe media?
Allora questa scelta di migliaia di giovani, di lavoratori, di strati sociali deboli, indica che devono attraversare un vero momento di grande difficoltà. Se è vero che in genere una massa monetaria non varia molto, per osmosi, se va verso l’alto diminuisce sicuramente in basso. Al super arricchimento di taluni risulta l’impoverimento di molti. Il neoliberismo feroce deve aver colpito anche molti americani per rivolgersi ad un socialista, parola quasi proibita in quel paese, visto che corrisponde quasi a comunista, cioè terrorista del capitalismo.
Ha sicuramente ragione l’acuto Noam Chomsky che nell’analizzare la situazione indica nell’etnia bianca soprattutto un senso di grave assenza di speranza e una allarmante percentuale di mortalità negli individui meno acculturati. Trova che nel voto a Trump si mischiano sentimenti profondi di collera, di paura nell’avvenire, di frustrazione se non di disperazione. Dice che in realtà, con tutti i mezzi eccezionali e tecnologici che hanno, per la sanità, l’aspettativa di vita di un americano bianco (non ricco) è di gran lunga inferiore a tanti altri paesi. Mentre altri gruppi etnici vivono più a lungo. Non si muore più tradizionalmente di infarto o di diabete, ma in una epidemia di suicidi, di malattie del fegato dovute all’abuso di alcool, di overdose di eroina e di oppiacei ottenuti anche con ricette. Tra l’altro la povertà attuale la si può paragonare a quella della grande depressione del ’29, e degli anni ’30, negli effetti devastanti. Ma oggi senza vera luce nel tunnel. Trump, infatti, promette di ripristinare: un mondo in cui i bianchi siano al centro di tutte le cose negli Stati Uniti (nella misura in cui già non lo sono), e la loro posizione dominante, affinché i loro privilegi e poteri siano incontrastati. Tanto è vero che il sociologo Seymour Lipset parla di “autoritarismo della classe operaia bianca” in una situazione precisa di “teoria del terrore” che Trump sta gestendo alla grande. Questa gestione del terrore suggerisce che i conservatori sono autoritari e particolarmente inclini ad amare “la bandiera, le pistole, Dio e la religione”. Un sondaggio nel South Carolina di elettori alle primarie sul probabile candidato repubblicano, condotto dal Public Policy Polling e rilasciato il 16 febbraio scorso, ha rivelato che il 10 % crede che i bianchi siano una razza superiore; il 20 % crede che i gay e le lesbiche non dovrebbe essere consentito vivere nello Stato; Il 60% crede che i musulmani debbano essere banditi dal paese; e il 29% pensa che gli schiavisti del Sud abbiano vinto la guerra civile americana. L’ascesa del miliardario Trump sta però creando grandi perplessità nel popolo americano in generale e nel partito repubblicano in particolare. Eliminare la pericolosa “Trumpmania” diventa di loro responsabilità. Ma, in realtà, non hanno chiaramente il coraggio e i mezzi per farlo. I conglomerati finanziari sono preoccupati dalla demagogia radicale del loro rappresentante, anche se “vincente”, ma impresentabile al mondo. Gli affari, soprattutto peggiori, si fanno nelle segrete stanze delle lobby, non in piazza, e non strombazzando. In periodi di crisi l’uomo forte e autoritario viene sollecitato dal populismo e tutti sono propensi a credere, e ve ne sono le premesse, che sia giunta anche l’ora degli Stati Uniti. Per ripristinare un impero in sfacelo ci vuole un condottiere, con il culto della personalità. Alla direzione repubblicana si rendono conto che l’ascesa dell’uomo veramente solo al comando potrebbe avere implicazioni minacciose per il loro sistema democratico, dove sono ristrette lobby e oligarchie a comandare, non il presidente, e poco il Congresso, se non tra mediazioni varie e di spartizione. Solo così si spiega che alle elezioni del middle term, se il presidente è repubblicano molto spesso il Congresso è a maggioranza democratica e viceversa. A noi non resta che stare a guardare, senza grande tifo e illusioni, perché tra i due candidati il punto in comune che nessuno può toccare sono gli interessi vitali degli statunitensi contro tutti, ma sperando che questa nuova zuppa autoritaria non travasi culturalmente anche in Europa. Però noi, in genere, ormai siamo segugi dell’ideologia socio-economica transatlantica e facciamo parte integrale di questo patto.
Il due contro uno elettorale
di Tonino D’Orazio
Brancaccio:«Tsipras farebbe bene a preparare comunque la Grexit»
L’economista Emiliano Brancaccio commenta la nascita del secondo governo di Syriza. «Quelli del memorandum sono obiettivi insostenibili», dice, e punta il dito sulle privatizzazioni: «Ne guadagneranno solo gli acquirenti». Tra cui la Germania
di Luca Sapino da espresso.repubblica
Il nuovo esecutivo farebbe bene a prepararsi comunque all’eventualità di un’uscita dall’euro». Ottimista non è, la conclusione di Emiliano Brancaccio, economista dell’Università del Sannio. Lui però dice di applicare solo logica ed esperienza: «Syriza può mitigare alcune misure, ma la direzione che seguirà il parlamento greco – svuotato di ogni potere – è stata decisa altrove, a Bruxelles, ed è la solita: austerity e attacco ai salari. La conseguenza è che gli obiettivi di bilancio risulteranno insostenibili». Il problema, allora, è capire come attrezzarsi, e se arriverà «un finanziatore estero» capace di sostenere il Paese in caso di uscita dall’Euro. Ma andiamo con ordine.
Alexis Tsipras vince le elezioni e continua nel suo obiettivo dichiarato: governare da sinistra il memorandum siglato con le autorità europee. È un’impresa possibile?
«Temo di no. Tsipras ha compiuto un capolavoro tattico che ha sbaragliato il dissenso interno, ma controllerà un parlamento che è stato ancor più svuotato delle sue funzioni. Il memorandum imposto dai creditori stabilisce fin nei minimi dettagli l’agenda politica alla quale la Grecia dovrà attenersi: dal taglio ulteriore della spesa pensionistica, all’aumento delle tasse in caso di sforamento degli obiettivi di bilancio, fino all’ulteriore indebolimento della contrattazione collettiva. Le tranches dei finanziamenti europei necessari a pagare i debiti in scadenza e a ricapitalizzare le banche greche sono condizionate al tassativo rispetto di questo programma. Il governo di Atene cercherà di rallentare il ritmo di marcia, ma la direzione è stata già decisa a Bruxelles, ed è la solita di sempre: liberismo, austerity e deflazione salariale».
Juncker e Merkel sostengono che il nuovo programma consentirà finalmente di risanare i conti della Grecia. Anche il ministro Padoan si è espresso in questo senso. Sono previsioni attendibili?
«Sono mistificazioni. La ricetta del memorandum è la stessa che ha contribuito negli ultimi cinque anni al crollo dell’occupazione in Grecia e all’esplosione del rapporto tra debito e reddito. Questa volta, oltretutto, il governo greco è chiamato a realizzare un’ondata senza precedenti di svendite all’estero di patrimonio pubblico. In un articolo di prossima pubblicazione sul Cambridge Journal of Economics, mostriamo che queste dismissioni rientrano in un processo di “centralizzazione forzata” dei capitali che aggrava la deflazione e può peggiorare la posizione finanziaria del Paese debitore: nel giro di un anno scopriremo che gli obiettivi di bilancio imposti alla Grecia sono insostenibili e che dal memorandum hanno tratto vantaggio solo gli acquirenti esteri di asset greci».
Potrebbe cambiare tutto il concretizzarsi della proposta di taglio del debito, che sembra sostenuta anche dal Fondo Monetario Internazionale?
«Sempre che ci siano le condizioni per un accordo di questo tipo – e non mi sembra – per avere qualche effetto macroeconomico dovrebbe trattarsi di un taglio di notevoli proporzioni e dovrebbe esser pensato in modo da abbattere fin da subito l’ammontare dei rimborsi annui. In generale, comunque, la proposta presenta un limite logico che gli economisti ben conoscono: fino a quando i tassi d’interesse restano al di sopra dei tassi di crescita del reddito, tu puoi anche cancellare una parte del debito ma poi quello rischia di esplodere di nuovo. Per affrontare questo problema bisognerebbe orientare le politiche monetarie e fiscali verso l’obiettivo di far crescere il reddito al di sopra dei tassi d’interesse: ma nel quadro europeo questa semplice constatazione logica suona come un’eresia keynesiana e non verrà presa in considerazione».
Lei descrive una situazione molto critica ma alternative politiche non se ne vedono. Nonostante il sostegno dell’ex ministro Varoufakis, i fuoriusciti di Syriza sono rimasti fuori dal parlamento greco…
«Assieme a larga parte della sinistra europea, Tsipras ha contribuito ad alimentare la speranza che una vittoria in Grecia avrebbe creato condizioni favorevoli per cambiare la politica economica dell’Unione. Fin dal 2012 in tanti abbiamo segnalato che questa era un’illusione, che non teneva conto dei reali rapporti di forza interni al capitalismo europeo. I fuoriusciti di Syriza hanno sollevato apertamente questo enorme problema solo nelle ultime settimane, quando sapevano di esser già stati messi alla porta».
Forse – soprattutto – è mancato il fantomatico “piano B”, oggi auspicato anche dal nostrano Stefano Fassina, con il francese Mélenchon, già leader del Front de Gauche, e il tedesco Oskar Lafontaine, l’ex ministro delle finanze tedesco, fondatore della Linke. Mancano gli aspetti tecnici che lo rendano credibile. In cosa potrebbe consistere? Monete complementari, crediti fiscali…
«Il “piano B” non è per nulla fantomatico, ormai fa parte persino dei documenti ufficiali dell’Eurogruppo. Il problema è che per il momento sul tappeto c’è solo la versione elaborata dal governo tedesco, favorevole ai creditori e con una chiara matrice di “destra”. A sinistra anche su questo tema vedo enormi ritardi. In caso di nuove crisi dell’eurozona sarebbe opportuno che anche da quelle parti maturasse un’idea su come gestire la situazione. Le opzioni sono tante, tra cui il rilancio della “clausola della valuta scarsa” tuttora presente nello statuto del Fondo monetario internazionale».
Pur non essendo mai stato tenero con Tsipras, in un recente convegno alla Camera lei ha contestato l’appellativo “traditore” con cui gli oppositori lo additano, alludendo all’esito referendario. Perché?
«Perché ancora non sappiamo se Tsipras avesse un’alternativa credibile. Le analisi di cui disponiamo indicano che se il governo greco avesse deciso di uscire dall’euro e attuare un minimo di politica espansiva, per qualche anno il Paese avrebbe avuto bisogno di un finanziatore estero che lo aiutasse a coprire l’eccesso di importazioni sulle esportazioni. Quel finanziatore esisteva? Tsipras ha dichiarato che nessuno si è fatto avanti, mentre altri hanno affermato il contrario. Questo punto solleva rilevanti questioni economiche e geopolitiche: finché non verrà chiarito sarà difficile dare una valutazione definitiva sulle mosse del Premier greco».
La vittoria elettorale di Tsipras chiude definitivamente la controversia sull’uscita dall’euro, dibattito che ultimamente ha investito anche la sinistra europea?
«No. Le politiche europee non attenuano gli squilibri tra Paesi debitori e Paesi creditori dell’eurozona ma al contrario tendono ad accentuarli. Questa forbice ricade sui bilanci bancari e preannuncia nuove crisi, che non potranno esser gestite con le esigue risorse della neonata Unione bancaria europea. Il problema della insostenibilità della moneta unica resta dunque attuale. Se le forze di sinistra intendono restare al passo con i tempi farebbero bene a non dividersi e ad assumere un approccio laico alla questione, che conoscono poco e ancor meno controllano».
Salvo imprevisti Euclid Tsakalotos verrà confermato alla guida del ministero delle finanze greco. Se lei fosse al suo posto quali provvedimenti riterrebbe urgente attuare?
«Sono stato educato al realismo politico ma non sono al suo posto e non vorrei esserci. Ad ogni modo, se dovessi esprimere un parere sulla politica greca ventura, direi che le svendite di capitale pubblico e la riforma della contrattazione salariale rappresentano le “bestie nere” dell’accordo con i creditori. Piuttosto che attuare quelle, la priorità macroeconomica dovrebbe consistere nel preservare e rafforzare i controlli sui capitali e prepararsi comunque all’eventualità di una “Grexit”, riprendendo anche la ricerca di finanziatori esterni al memorandum europeo».
Colpo di stato in Svezia
Veronica Teodoro, l’assessore più giovane d’Italia: storie di famiglia e di familismo
Considerazioni sui dati elettorali 2014
di Tonino D’Orazio
L’elettore fantasma e il suo movimento sono maggioranza nazionale in quasi tutti i paesi europei.
Rinnovo il mio articolo sulla questione di democrazia e astensione. Intanto perché stupito dalla dichiarazione della Commissione Europea che pur notando che la media europea dei votanti è stata del 43,1% (senza le nulle e le bianche) titolava:”sconfitta l’astensione”. Eppure in molti paesi l’astensione ha superato tranquillamente il 50%. La partecipazione alle votazioni è passata dal 61,9% del 1979, al 58,9% del 1984, al 58,4% del 1989, al 49,5% del 1999, 45,4% del 2004 fino al 43% del 2009. Si può parlare di fallimento della rappresentanza politica in tutta la UE quando nell’arena si presentano ormai meno della metà degli aventi diritto? Lo si può ritenere uno “sciopero bianco” di cittadinanza? Esiste un concetto diverso, non sufficientemente esplorato, tra un’astensione apatica e un’astensione critica?
La crescita degli euroscettitici, parola già morbida se si confronta i loro programmi, è esponenziale. Diventa difficile, se si continua a ragionare solo di destra/e pseudo-sinistra, capire che in realtà il “populismo” complessivo è piuttosto una risposta del basso verso l’alto e verso le ingiustizie sociali che questa Europa sta tranquillamente determinando.
In Italia per le europee 2014: Elettori: 49.256.169 – Votanti: 28.908.004 (58,68 %). Schede bianche 577.856 (1,99%). Schede nulle 954.718 (3,30%) sono quelle “sporcate” dall’elettore. Schede contestate, non assegnate 3.683 (0,01%). Totale 5,29% che vanno aggiunti agli astensionisti. I dati sono del Ministero dell’Interno.
Anche quelli delle europee del 2009: Elettori 49.135.080 – Votanti 32.659.162 (66,46%). Schede bianche 984.156 (3,01%). Schede nulle addirittura 1.134.572 (3,47). Totale 6,48%. Che vanno aggiunti agli astensionisti perché pur sempre di protesta si tratta.
Si registra quindi una diminuzione notevole dei votanti del 7.74%. Cioè grosso modo 3.750.000 di cittadini in più, in rapporto al 2009, che hanno deciso di non andare a votare. Ma in molte regioni e comuni, soprattutto nelle isole e nel meridione sono andati a votare poco più del 40%.
Le percentuali ottenute dai partiti sono in realtà, a questo punto, la metà se tenuto conto di tutti gli elettori. Solo gli Olandesi e i Danesi le danno in quest’ordine. Per cui il PD rappresenta 20,4 cittadini italiani, M5S 10.5; FI 8.4; Lega Nord 3; NCD 2,15; Lista Tsipras 2; Fratelli d’Italia 1,8. Diciamo che c’è poco da rallegrarsi soprattutto pensando che 20/25 cittadini decideranno tramite il loro partito “vincitore” di monopolizzare la vita e il futuro degli altri 75 (25 votanti e 50 no)
Una riflessione sulla politicità del voto va fatta, soprattutto se come ha scritto il Corriere della sera, Renzi (o il PD?) «è votabile da chi non solo non è di sinistra ma è anche contro la sinistra (o il sindacato)». Indubbiamente l’effetto del ceffone alla Cgil, (ma anche agli altri sindacati oggi smarriti perché pensano di non meritarselo essendo stati sempre assecondabili), comunque paradossalmente e indubbiamente gran serbatoio dei suoi voti, sembra aver procurato voti presi alla destra o a FI, non tanto al M5S. Oppure Renzi ha indovinato che parte della popolazione, in catarsi di colpevolezza, ritiene inutili, vecchi e settari i sindacati? Sono colpevoli della perdita dei diritti dei lavoratori, della loro “inamovibilità” e della falsa autonomia ai partiti?
Il poker calato sembra rappresentare al meglio il jobact, altro che “centralità del lavoro”. I lavoratori vengono “regalati” ai padroni senza contropartita. Quindi centralità del mercato e dell’impresa, nella pura continuità del neoliberismo e con il plebiscito dei lavoratori stessi, magari pure del pubblico impiego già deciso alla mattanza (sempre richiesta dalla Confindustria) di Sant’Antonio del 13 giugno prossimo. Quando si dice la sindrome di Stoccolma! O meglio “l’alienazione operaia” già descritta un secolo e mezzo fa da Marx nel Capitale. Forse i famosi 80€ presi a loro stessi, non per tutti ma altri sperano ancora, rappresentano anche la mercificazione del voto, non certamente la sua dignità, ma soprattutto la subalternità ormai ben definita dei lavoratori alla classe dominante. Non basta parlare quindi dello spauracchio Grillo, che pur, media dirigens, a finito per prevalere, malgrado Mediaset (da oggi, piano piano all’opposizione mediatica a Renzie ma non di voto parlamentare garantito dal patto di ferro PD-FI). E se il concetto di o l’uno o l’altro era ben presente a rimetterci è stato soprattutto FI e le destre disunite in genere. Chi di bipolarismo vive di bipolarismo può morire (a proposito dell’Italicum).
Un discorso spurio va fatto sul M5S. E’ un movimento che, volente o nolente, in 18 mesi ha portato 17 parlamentari in Europa oltre ai 130 tra senatori e deputati nel nostro parlamento. Era dato come movimento di semplice protesta con il suo 25%. Bene, scremato dai protestatari (4%) rimane al 21%, secondo solo dopo il PD. E’ un movimento di opposizione, e che questo esista è sempre un bene per la democrazia, checché ne pensino i vari tribuni e talebani dei partiti attuali, e di denuncia di malefatte anche legali dei poteri forti ai danni dei cittadini e dei beni pubblici, che altri, pur non essendone proprietari hanno e stanno svendendo. Rappresentano in gran parte i giovani, né destra né sinistra in termini storici (andava bene per Blair?), ma basso verso l’alto, anche se confusamente. Tutti lodano, nel PD (che usurpa ormai il termine di sinistra) e in FI, il superamento delle ideologie ad uso e consumo proprio, ma per il M5S non vale. Vengono qualificati di fascisti allorché, con il consenso popolare, i veri fascisti (anche se hanno cambiato nome) sono stati al governo per almeno 15 anni (Lega compresa). E se nella mia cultura (Gramsci dixit) i fascisti sono “tutti quelli che tendono a ridurre i diritti e la qualità della vita dei lavoratori, ad impoverirli con le loro famiglie e a soggiogarli”, ognuno, tenuto conto della disastrosa realtà, faccia i conti con la propria coscienza. Il passaggio epocale delle socialdemocrazie europee su posizioni di politiche economiche neoliberiste insieme ai conservatori (sempre Blair e Schröder e non sarà da meno Schulz), in realtà alle destre comprese quelle nord americane immanenti e nascoste, rappresenta la fascistizzazione dell’Europa tramite oligarchie di poteri non elette e quindi antidemocratiche. Straordinariamente se ne lamentano anche le destre europee estreme. Perché il M5S, alternativo, dovrebbe essere buono e unirsi al “grande patto della fame”, che ritengo scellerato per il futuro del mondo del lavoro, per diventare “democratici” come loro, tendenti al partito unico? Perché hanno un leader come tutti gli altri? Il resto sono chiacchiere e sassi di parole lanciate per la gioia degli “incolpevoli”, o chi si ritiene tale, puro e di parte, anche contro se stesso. L’aspetto critico nella fenomenologia della realtà rimane l’unico elemento di onestà intellettuale.
Non sparate sulla scheda bianca o sull’astensione
di Tonino D’Orazio
La scheda elettorale bianca non può essere considerata nulla, al pari di quella “sporcata”. Nulla come se l’elettore fosse incapace di votare. E’ un voto vero che indica un atto democratico di rifiuto sia degli uni che degli altri. Deve essere considerato una scelta consapevole, non un’astensione.
Finché le schede bianche non saranno considerate come voto espresso rimarranno inutili e non aumenteranno sensibilmente. Anche se vengono semplicemente conteggiate non intervengono in nessun modo sul risultato. L’elettore vuole “pesare” e una scheda bianca non contabilizzata non pesa nulla. Il computo della percentuale ottenuta dai candidati rimane sempre sul numero dei voti “validi”. In verità le schede bianche, così come l’astensione, rappresentano però una vera scelta elettorale e un vero malessere nell’ambito della democrazia. Soprattutto se la rappresentanza politica è percepita come semplice alternanza (espressione “sono tutti uguali”). E il prodotto offerto, in realtà, è sempre identico.
In un libro straordinario Lucidità, José Saramago sottolineava il potenziale sovversivo della scheda bianca. In una capitale immaginaria le elezioni amministrative danno un risultato sconcertante: “ destra 8 %, centro 8%, sinistra 1%, astenuti 0, nulle 0, schede bianche 83%”. Annunciando il risultato, con il viso livido, il primo ministro ha capito che “queste bianche hanno dato un colpo brutale alla normalità democratica e che 83% degli elettori della città, con una mano poco patriottica, le hanno deposte nelle urne.” (per il seguito il libro vale la pena di essere letto, è lucidissimo e anche divertente).
E’ vero che l’astensione attiva è una posizione politica più coerente, più chiara, con nessuna richiesta di essere considerata dalla politica, alla quale, d’altronde, sembra interessare poco, l’importante è governare con quelli che vogliono esserlo. In realtà l’astensione agisce evitando di partecipare a questa organizzazione politica fondata sull’annullamento totale della rappresentatività e del potere popolare e la presa di possesso delle istituzioni e degli strumenti di democrazia da parte delle oligarchie partitiche. Non voglio votare per qualcuno che mi viene imposto o essere preso costantemente in giro. E’il giusto argomento dell’astensionista, non c’è che dire. Né si può a cuor leggero citare in termini dispregiativi di “populismo” il 50% dei cittadini che non vogliono più votare, che se aggiunti al 25% di altri “populisti” (M5S) e al 3-4% di schede bianche e nulle, il resto democratico fa ridere, nei contenuti e nella rappresentanza. Possiamo dire che la “maggioranza” è una vera “minoranza”. Ma anche se gli astensionisti fossero solo il 30% (cifra endemica e quasi naturale nei paesi a democrazia occidentale) rimarrebbero comunque il “movimento” più rappresentativo dei cittadini.
A livello europeo la paura montante delle destre, soffiata sia dal Partito Popolare che dal PSE in coalizione obbligatoria per sempre contro il “populismo” o il “popolo”, non dovrebbe spaventarci. Per quello che stanno facendo ai lavoratori, tedeschi compresi, più destra di così, nei fatti e nell’abbattimento del welfare, elemento di solidarietà e di dignità di vita del sociale, e nell’impoverimento di milioni di persone, si muore. Anzi, a mio avviso, avranno bisogno di queste destre per continuare il loro deleterio cammino, teatrino a recita dove si stenta a riconoscere le parti vere. I neonazisti ucraini stanno mostrando da che parte sono contro chi non vuole morire o farsi derubare dal, e nel, “migliore dei mondi possibili”, (a ragion veduta e esperienze esposte), sotto i diktat di gruppuscoli non eletti e lobbisti, come nella “normalità democratica” della troika internazionale e dei governi imposti e servi. Né per questi vale l’autodeterminazione dei popoli né i loro referendum “bulgari” che vengono dichiarati “illegali”. Ma da chi? Quando non conviene (di nuovo a chi?) il voto diventa illegale. Sembra esserci una democrazia giusta e una no. Esiste il diritto a resistere a un colpo di stato? Dire che Putin fa il furbo per addossargli la colpa della loro sottovalutazione geopolitica significa che Obama e l’Europa satellite sono proprio degli stupidi. Con il colpo di stato “pacifici” (anzi parecchi) gli occidentali hanno messo in crisi il concetto di democrazia anche a casa loro.
Mentre la scheda bianca significa comunque partecipazione e quindi legittimare queste istituzioni e rimanere nel quadro costituito. Astenersi invece è come superare la linea della disubbidienza del “dovere” del voto in vista di una massa critica, di una grande e vera folla di individui, che intravvede solo idee “sovversive” di cambiamento. Anche se le motivazioni vengono rappresentate più come disinteresse e come disgusto della politica in atto.
In una democrazia, è normale che l’opposizione non si trovi d’accordo con la maggioranza, è normale che non si facciano accordi con chi non condivide il tuo pensiero o azione politica e possa esprimerlo. Il succo della democrazia sta tutto qua. Senza vera opposizione si può tranquillamente dire di essere in “dittatura dolce”.
Chi non vota non ha necessariamente torto; rifiuta democraticamente ciò che gli viene offerto. Ne ha “diritto”? O votare è un “dovere” verso chi ormai ha piegato tutte le istituzioni al proprio comando e resa una scelta possibile una farsa? Tra il popolo e l’elezione dei suoi rappresentanti nelle sedi legislative c’è un passaggio costituzionale. I partiti, tramite i loro segretari, hanno scelto prima loro, e imposto in questo modo due passaggi obbligando il cittadino a un voto subordinato. Diciamo in modo “non ti preoccupare, ci penso prima io a sceglierti i tuoi rappresentanti, tu basta che ci voti”.
Allora non sparate sulle schede bianche e sull’astensione. Come movimento sono la maggioranza vera in tutti i paesi a democrazia occidentale. Pensare di esportarla non vi sembra presunzione?