di Tonino D’Orazio 2 febbraio 2017. da altervista
Posseggono tutte le più grandi banche mondiali (fra le prime dieci, otto sono americane) e fanno il bello e cattivo tempo “monopolizzando e manovrando abusivamente le Borse” (D. Trump dixit in campagna elettorale). Posseggono le Agenzie di rating, collegate alle loro banche, che decidono della vita o della morte di un paese.
I vassalli del gruppetto si riuniscono in gruppi semi-segreti: Committee of 300; Illuminati; Bildeberg Group; Skull&Bones; New World Order (Bush, Ratzinger …). I valvassini in ulteriori gruppi continentali, politici e nazionali tramite lo strumento facilitato delle fondazioni. Confrontate i think tank italiani (65) e a cosa servono.
Ha messo le mani sull’umanità intera. In cima alla piramide, cioè all’occhio, c’è un gruppetto oligarchico che ci possiede tutti. Non si tratta di complottismo ma di ricerca ragionata che tutti possono fare e confrontare, pezzo per pezzo, ogni mattone e incrocio citati. I nomi e le sigle sono tutti su Wikipedia, compreso gli intrecci azionari più vistosi. (Con tempo, pazienza e onestà intellettuale). E’ la cupola formata da manipolatori con “partecipazioni” e flussi finanziari in tutti i tentacoli di controllo dei bisogni e delle attività umane: Rothchilds, Rockfeller, Carnegie, Morgan, Harrisson, Schiff, Warburg.
I tentacoli possidenti del gruppetto, tramite denaro, “partecipazioni” e “investimenti”, sono:
– Controllo del denaro (Banca Centrale, Riserva Federale, Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, controllo mascherato della BCE.Euro) e dei metalli e pietre preziose che possono garantire la carta straccia.
– Controllo dell’energia (petrolio, gas, carbone,energia nucleare, green energia).
– Controllo dell’alimentazione (Agribusiness e Ogm, Word Trade, Water Sources).
– Controllo della sanità, World Healt Org., (farmaceutica, facoltà di medicina, ricerca, alternative naturali).
– Controllo del commercio tramite WTO e controllo del denaro con metro-misura dollaro e banche, finché non diventerà più facile con la sola moneta elettronica anche individuale.
– Indottrinamento (standard educativi, mass media, industria del cinema e dei divertimenti, attacco ai media liberi internet, controllo Fb …).
– Controllo delle politiche tramite G8, G10, G20… cioè Global (Governance) Control.
– Controllo del dissenso tramite leggi (Patriotic act, organismi sorveglianza, RFID Chips o monitoraggio della nostra vita privata, cfr Grande Fratello, Prisma, Echelon…), con espansione in tutti i paesi amici e non. Controllo politico del Tribunale Penale Internazionale contro tutti i “nemici”. Regolamenti internazionali favorevoli.
Gran parte di questi controlli sono demandati ad Organismi Internazionali, più facili da dirigere dall’alto, diretti da persone assolutamente non elette,( a parte i G…), ma designate.
Organi politici continentali: American Union; Pacific Union; African Union; European Union.
In Europa, Trichet (pres. Central Bank), Junker (pres. Commissione), Van Rompuy (pres. Del
Consiglio Europeo). Organi con stesse regole e stessa maniera. Servi non eletti.
Organi con ramificazioni in Nations States and Regions, dove viene praticamente “impedito” il più possibile al popolo di partecipare pienamente. (“riforma” delle Costituzioni democratiche e parlamenti a legislazione limitata, per la forma, come quello Europeo, pur se eletto a suffragio universale).
Organi tecnici pubblici o semi-pubblici (ma da “privatizzare”, o già fatto; operazione in atto da decenni che indica un piano ben preciso): banche (già disgiunte dal potere politico e dal controllo popolare e tutte in mano alla cupola, per debiti o scambio azionario, che le affonda, le deruba e i cittadini pagano), commercio (tentativi TTIP, Ceta,TTP trans Pacifico,Nafta, Unasur … da ricondurre ad interesse preminente e pensiero unico), militare (es. Nato e armamenti), partiti politici dipendenti (“sostegno” o corruzione), educazione e formazione (organismi che ne decidono metodo e qualità a “partecipazione” e interessi privati), mass media (agenzie di stampa che inviano “informazioni” pilotate che tutti ripetono ad ogni livello più basso come grancassa o banditori medievali), religione (quanto ci sarebbe da dire!), agenzie di intelligence (semi-coordinate quasi nel mondo intero dalla CIA,- per noi ancora funzionanti come Gladio o Stay Behind -, con Awarres Office, M15 inglese, Corte Suprema di Israele gestita direttamente dai Rothchilds), medicina e farmaceutica, Ong a “caschi bianchi”, persino organizzazioni criminali (droghe illegali, scandali dell’Agenzia Food and Drug Administration,) e riciclaggio mondiale del denaro sporco che “non ha odore”, tramite banche (sempre le stesse) offshore, illegali e fuori controllo.
Curiosità? La cima della piramide non si nasconde, anzi si presenta chiaramente con il simbolo dell’occhio nel triangolo, “che vede tutto”, come Dio. Lo potete notare sul semplice dollaro, ma anche su tanti e vari organismi Corporates, AOL (Time Warner/Cable), CBS … Basta avere occhio.
Tecnica comune di vampirizzazione, o impoverimento di un paese. (J. Perkins)
1) Si va in paesi che posseggono risorse naturali.
2) Accordo su enorme prestito, tramite il coccodrillo che piange, cioè il FMI, per lo sfruttamento delle risorse.
3) Le infrastrutture per lo sfruttamento vanno alle imprese americane (o occidentali), non a quelle del paese, se non i subappalti poveri.
4) Si aggiungono mega progetti infrastrutturali, strade, porti, ferrovie, centrali elettriche, autostrade, zone industriali. Si muove tutta la piovra. Il popolo ripaga prestiti e interessi (eliminando i pochi servizi sociali esistenti, spesso già miseri). Tralasciamo la corruzione, legale per le tasse americane, basta più o meno dichiararla.
5) Il paese viene lasciato in grande debito, ringraziato per le risorse a basso prezzo, e fomentato da ovvie rivolte sociali. Allora si aggiungono prestiti per le armi, le guerre e i medicinali. Se non possono pagare sono costretti a privatizzare tutto, beni, acqua e cibo compresi.
Gli esempi più vistosi sono in tutti i paesi africani e sud americani. Ma guardando bene intanto al cosiddetto “indebitamento” pubblico dei paesi occidentali e soprattutto di quelli mediterranei … non siamo lontani.
Il concetto di complotto è stato spesso ridicolizzato pur di nascondere delle così macro evidenze. Tanto l’auto-informazione costa troppo, sia in tempo che in caparbia curiosità. Questa è una ricerca onesta. Ogni parola o nomi propri citati sono un tassello controllabile del mosaico.
Si può uscire da una trappola così ben costruita? Difficile in questo contesto politico-culturale globale senza alternative forti e in associazione ad altri “prigionieri”, almeno dello stesso campo.
Anche per questo Trump sarà uguale a tutti gli altri presidenti americani e ci farà solo divertire. America e neoliberismo first.
Categoria: FMI
Dino Greco sull’Euro
Rifondazione dovrebbe ascoltare la parole di persone come Dino Greco, Emiliano Brancaccio e Mimmo Porcaro e sbrigarsi ad assumere una linea chiara e coerente su euro ed Europa.
A mio modestissimo parere una forza politica come quella di rifondazione comunista ha come unica possibilità di rilancio dell’iniziativa politica, quella di rappresentare un ampio fronte politico-sociale che da sinistra si pone in posizione critica su euro ed Europa. Parlo di realtà come quelle che si riconoscono nel sindacalismo di Giorgio Cremaschi, dei vari partiti e movimenti sovranisti (malgrado il dileggio di certuni fra di loro vi sono persone serie e competententi), del Movimento Essere Sinistra, di cui non conosco la consistenza numerica, ma del quale conosco la serietà e l’impegno, e molte altre realtà locali che è persino difficile ricordare, realtà che prese isolatamente non hanno alcuna possibilità di emergere in un panorama mediatico dominato dal liberismo e dalle sue diverse declinazioni, ma che potrebbero raggiungere la fatidica massa critica una volta unite. Forse è utopia, forse queste realtà non hanno alcuna voglia di dialogare fra loro, ma vale comunque la pena di tentare.
Rifondazione può essere il fattore x in grado di coagulare realtà diverse e non comunicanti fra loro. Deve solo decidersi a sciogliere le sue ambiguità e smettere di dare retta agli europeisti senza sè e senza senno. Poi, una volta acquisito forza e credibilità potrà tornare a confrontarsi con loro. Se proprio non può farne a meno.
La Lega cerca – con preoccupante successo – di egemonizzare il movimento antieuropeista su una linea di populismo reazionario, xenofobo, di marca dichiaratamente lepenista.
Assistiamo persino al tentativo di capitalizzare a destra lo stesso straordinario successo di Syriza nelle elezioni greche oscurandone l’imprinting radicalmente anti-liberista.
Anche il M5S cavalca l’onda, sebbene con un profilo più basso e confuso, esibendo come distintivo identitario la pura e semplice propagandistica uscita dall’euro (il referendum).
L’agognato ritorno alla moneta nazionale non è tuttavia auspicato da costoro per restaurare diritti espropriati (welfare, diritto del lavoro), o per proteggere i salari, o per ostacolare il processo di privatizzazione selvaggio, o per definire nuove regole per il commercio e controllare la circolazione dei capitali, o per pubblicizzare banche e asset nazionali.
Tutto il contrario.
Si tratta di un nazionalismo autarchico e reazionario che si sdraia su un senso comune sempre più diffuso e sulla crescente disperazione di un popolo che non sa più a che santo votarsi, per lucrarne un vantaggio politico-elettorale a buon mercato.
E noi?
Noi comunisti nel congresso abbiamo detto: “disobbediamo ai trattati!”, facciamo leva sulle contraddizioni del monetarismo Ue a trazione tedesca, sottraiamoci al ricatto del moderno “Mago di Oz”, di un’Unione europea che gioca con carte truccate.
Ma cosa vuol dire, in concreto, disobbedienza?
Come si declina questa linea, al centro ed in periferia, vale a dire nelle regioni, nei comuni, nelle politiche di bilancio e fiscali?
Ancora: cosa vuol dire opporsi al patto di stabilità che impedisce persino ai comuni “virtuosi” di spendere risorse disponibili?
Ebbene, noi non l’abbiamo ancora detto, col risultato che la nostra proposta rimane chiusa in quella parola, non si traduce in una politica e in una mobilitazione.
Dunque “non morde”, “non si vede”, “non seduce”. E rimane in una “terra di mezzo”, priva di realtà, vaso di coccio fra vasi di ferro.
L’analisi da cui dovrebbe in realtà prendere le mosse ogni scelta politica razionale ed efficace non può accontentarsi di una critica rivolta al liberismo “in generale” e ad un processo di unificazione europea che non avrebbe portato a compimento il suo più ambizioso progetto politico perché rimasta a metà del guado e perché diventata, via via, preda degli spiriti animali del capitalismo. Per cui oggi si tratterebbe di costringere il manovratore a venire a più equi patti, introducendo qualche variante negli ingranaggi esistenti, qualche artifizio economicistico, qualche espediente di tecnica monetaria capace di mutarne l’indirizzo di fondo.
Per capire compiutamente di fronte a cosa ci troviamo non sarà inutile partire…da noi, vale a dire dalla Costituzione italiana del’48.
Ebbene, la C.I. non accoglie né il modello dell’economia di mercato, né il generale principio della libera concorrenza. Anzi: l’articolo 41 dice con chiarezza che la libertà d’azione dei soggetti economici privati trova il suo limite nei “programmi” e nei “controlli” necessari affinché tanto l’attività economica pubblica quanto quella privata “possano essere indirizzate a fini sociali”.
Dunque, la C.I. – in termini di principio e prescrittivi – affida alla legge (e dunque all’autorità pubblica) il disegno globale dell’economia, esattamente per la ragione che Palmiro Togliatti espose nel dibattito alla prima sottocommissione dell’Assemblea Costituente (1947) intorno al tema delle “Relazioni economico-sociali” e a quello che diventerà poi il Titolo III della Carta. E cioè che “il non intervento dello Stato in una società capitalistica equivale ad un intervento a favore della classe dominante”. Vale a dire “al riconoscimento che chi è più forte economicamente può dettare le condizioni di vita di chi è economicamente più debole”.
Ciò di cui si incarica la C.I. è di porre un limite cogente all’asimmetria di forza fra capitale e lavoro.
Ebbene, la decisione di sistema enunciata dall’ordinamento comunitario è radicalmente opposta (antinomica, direbbe il filosofo) rispetto a quella contenuta nella nostra Costituzione.
Perché i trattati sottoscritti a Maastricht nel 1992 e tutto quello che ne è seguito mirano a costruire uno spazio economico senza frontiere interne ispirato al “principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza”.
Aderendovi e applicandone i dispositivi in via esecutiva il parlamento italiano ha sovvertito la gerarchia delle fonti del diritto, generando “norme distruttive ed eversive della stessa Costituzione”.
Non occorre essere fini costituzionalisti per capire che l’antinomia fra le due architetture di sistema condurranno ben presto alla totale liquidazione dell’articolo 41 della Costituzione, trasformandolo nel suo rovescio.
L’esigenza di una nuova lettura della Costituzione nel senso del primato del mercato non può non risolversi nello spostamento delle finalità dell’intervento pubblico “dalla funzione programmatoria alla funzione di rimozione degli ostacoli al funzionamento del mercato, nella subordinazione dei fini sociali a quelli della remunerazione del capitale (cioè del profitto).
Esattamente come nella teoria liberale classica, lo Stato ha la funzione di assicurare e proteggere da ogni e qualsiasi turbativa la proprietà e il modo capitalistico dell’accumulazione privata.
Così stando le cose, tutti i diritti sociali storicamente conquistati dalle classi lavoratrici diventano, nella loro integralità – primo fra tutti il diritto al lavoro – come altrettanti limiti all’esercizio stesso del diritto di proprietà.
Il diritto alla tutela contro il licenziamento ingiustificato, a condizioni di lavoro sane, sicure, dignitose, la protezione in caso di perdita del posto di lavoro cessano di essere “giuridicamente vincolanti”.
Si spiega così la vicenda ormai famosa della lettera che il presidente entrante e quello uscente della Bce indirizzarono al governo italiano il 5 agosto 2011 (un vero memorandum) in cui si subordinava il sostegno ai nostri titoli del debito all’adozione di varie misure fra cui, in particolare, una riforma della contrattazione collettiva che permettesse di “ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende” e “un’accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti (…) in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e i settori più competitivi”.
Ogni diversa soluzione implicherebbe infatti un’interferenza inammissibile rispetto all’obiettivo di “un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza” che è l’unico possibile assetto compatibile con le finalità stabilite dall’articolo 3 del TUE.
In conclusione: mentre la nostra costituzione rifondeva le tradizioni cattolica-comunista-socialista allo scopo di collocare lo Stato – e in esso il lavoro – in una posizione di primazia, attribuendogli potestà rilevantissime in ordine alle decisioni circa cosa, come e per chi produrre, i trattati europei, secondo il dogma liberista, hanno inteso costruire uno spazio retto dalla libera concorrenza.
La C.I. pretendeva di stabilire un proprio ordine entro il quale costringere la libertà degli affari, l’Ue impone un ordine di libertà per il compimento degli affari.
Il fatto è che l’Unione europea è prima di tutto la forma politica di un rapporto sociale e, precisamente, di un rapporto sociale imperniato sul dominio del capitale finanziario: l’architettura monetaria che esso ha posto al suo fondamento (e che trova nell’euro non già un sottoprodotto fenomenico, ma il proprio funzionale apparato strumentale) serve appunto a stabilizzare il potere dell’oligarchia liberista che governa l’Europa.
La complessa impalcatura monetarista si configura cioè come la specifica risposta strategica del capitalismo continentale (a egemonia tedesca) alla caduta del saggio di profitto e la condizione, dentro un quadro politico-sociale in rapida mutazione reazionaria, per riplasmare l’economia nella conservazione di rapporti capitalistici di produzione fortemente compromessi dalla crisi.
L’ambizioso progetto è quello di liquidare in radice il welfare novecentesco, ridurre strutturalmente i salari a livello di sussistenza, consegnare alla marginalità le forme di aggregazione sociale e politica di impronta classista, con l’obiettivo di rendere strutturale l’estrazione di plusvalore assoluto dal lavoro vivo, condizione necessaria in una fase storica in cui la composizione organica e la stupefacente concentrazione del capitale hanno raggiunto un livello tale da non riuscire ad offrire agli investimenti un adeguato rendimento.
Siamo cioè di fronte ad una vera e propria ristrutturazione della formazione economico-sociale capitalistica (nell’accezione marxiana) che coinvolge la struttura economica, cioè il modello di accumulazione, i rapporti sociali e di proprietà, la sovrastruttura politica, i modelli istituzionali ed elettorali e l’ideologia che tiene insieme l’impasto:
il modello di accumulazione: attraverso la costruzione di un paradigma che produce e riproduce il capitale finanziario, parassitario e speculativo;
i rapporti di proprietà: attraverso la spoliazione della proprietà pubblica, la privatizzazione integrale, la messa a profitto di tutto ciò che può assumere i caratteri della merce, la reductio ad unum delle 4 forme di proprietà previste dalla Costituzione repubblicana (statale, privata, comunitaria, cooperativa);
la superstruttura politica e giuridica: attraverso la sterilizzazione del parlamento e l’annichilimento della democrazia rappresentativa in favore della concentrazione di tutto il potere negli esecutivi; lo stravolgimento del modello elettorale in funzione maggioritaria, bipartitica e in forma tendenzialmente presidenziale;
la superstruttura culturale e ideologica: sostenuta da un imponente apparato mediatico, che ha sradicato nella coscienza di larghe masse ogni anelito solidaristico per sostituirvi la concezione individualistica e iper-competitiva della borghesia liberale classica.
L’Europa odierna è dunque tutto meno che uno spazio neutro, più efficace per la lotta nello stato nazionale.
Non è vero che lo spazio statuale più grande, quello europeo, sia il modo migliore per sviluppare la controffensiva di classe al livello del capitale; esso lo è solo quando consente alla classe dominata di esprimere la propria autonomia politica. Quando il dominio di classe assume forma nazionalistica si deve essere internazionalisti, europeisti e in qualche caso autonomisti. Quando invece, come succede in Europa, quel dominio passa proprio attraverso la distruzione dello stato nazionale, si deve elaborare un nazionalismo democratico orientato verso una nuova Europa confederale.
L’Europa non è un soggetto politico che aiuta il multipolarismo e contiene l’espansione Usa, considerato che siamo alla vigilia della sottoscrizione del devastante trattato di libero scambio transatlantico che consegnerà alle multinazionali, ai più rapaci players economici internazionali il potere – con tanto di legittimazione giuridica e tribunali al seguito – di subordinare all’attesa di profitto ogni aspetto delle legislazioni nazionali, mettendo la mordacchia ad intere Costituzioni nazionali.
L’Europa non è neppure un’entità sovranazionale che riequilibra le legislazioni e prepara un assetto federativo.
La costruzione forzosa di un’unica area valutaria aumenta la divaricazione fra i paesi perché impone una moneta unica ad economie del tutto diverse. E perché questa moneta “incorpora” le “virtù” del marco: deflazione, indipendenza della Bce e stabilità monetaria, i tre dogmi su cui è costruito l’euro, le tre cause, o concause, della distruzione dell’unità europea.
L’euro serve anche a rendere stabile la gerarchia fra nord e sud, fra paesi creditori e paesi debitori.
Il comportamento del creditore nord-europeo è solo apparentemente illogico. Perché incaponirsi in politiche che riducendo la domanda dei paesi debitori, riducono il mercato per i prodotti del nord, considerato che il 70% delle esportazioni di quei paesi avvengono nell’area europea?
Per due motivi: perché diminuire il salario dei lavoratori del sud, in buona parte terzisti del nord, significa diminuire i prezzi dei prodotti del nord stesso; e perché la generale deflazione del sud abbatte il costo del patrimonio industriale ed immobiliare dei paesi colpiti. La logica che guida queste scelte è una logica semi-coloniale, che punta a costruire un sistema industriale ed un mercato del lavoro duali, concentrando la proprietà nelle mani del nord e trasformando il sud in un mare di mano d’opera a basso costo.
La logica dell’euro è la più cocente smentita di chi crede che l’Unione europea sia terreno più favorevole per la lotta di classe.
L’Europa è oggi un meccanismo non democratizzabile perché distrugge deliberatamente, con metodo, il solo soggetto che potrebbe democratizzarla: il lavoro.
Non è forse superfluo ricordare la lettera a firma congiunta con cui alla fine del 2011 Draghi e Trichet intimavano all’Italia di mettere mano a pensioni, salari, diritti del lavoro e privatizzazioni e come Napolitano abbia investito poi Mario Monti del ruolo di esecutore testamentario di queste direttive; o il documento con cui J.P. Morgan, nel maggio del 2012, ribadiva lo stesso concetto, con un “taglio”, per così dire, più sistemico, dove ad essere messe all’indice erano le costituzioni antifasciste troppo venate di socialismo; o – per tornare a casa nostra – la determinazione con cui il compito demolitore del giuslavorismo moderno è stato mirabilmente interpretato da Matteo Renzi.
Uno sguardo alla situazione della Grecia
Ha ragione Emiliano Brancaccio: le ricette della troika saranno ricordate come uno dei più colossali inganni nella storia della politica europea.
La Grecia le applica già da 4 anni con enormi (e crescenti) sacrifici per la popolazione.
Rispetto al 2010 la pressione fiscale è aumentata di 8 punti percentuali rispetto al pil e la spesa pubblica è diminuita di quasi 4 punti, corrispondenti ad un crollo di 30 mld;
i salari monetari sono caduti di 12 punti percentuali e il loro potere d’acquisto è precipitato in media di 14 punti, con picchi negativi di oltre 30 punti in alcuni comparti.
La Commissione europea ha sempre sostenuto che queste politiche non avrebbero depresso l’economia. Ma le sue previsioni sull’andamento del pil greco sono state totalmente smentite: per il 2011 la Commissione previde un pil stazionario, che in realtà crollò di 7 punti; per il 2012 annunciò addirittura una crescita di un punto, e fu sconfessata da una caduta di 6 punti e mezzo; nel 2013 la previsione fu di crescita zero, e invece il pil greco precipitò di altri 4 punti.
Anche per il 2014 si registra uno scarto fra le rosee previsioni di Bruxelles e la realtà dei fatti ad Atene.
La verità, che ormai riconoscono a denti stretti persino al Fmi, è che le ricette della Troika rappresentano la causa principale del crollo della domanda e della conseguente distruzione di produzione e occupazione avvenuta in Grecia: negli ultimi 5 anni, ben 800.000 posti di lavoro in meno.
Né si può dire che tali ricette abbiano stabilizzato i bilanci: il crollo della produzione ha implicato un esplosione del rapporto fra debito pubblico e pil, aumentato in 5 anni di 30 punti percentuali.
“Questi soggetti – osserva ancora Brancaccio – stanno ottenendo quello che volevano: perché dovrebbero mutare la loro posizione a seguito di una vittoria di Tsipras? Al limite offriranno un’austerità appena un po’ mitigata, un piatto avvelenato che – se accettato – condannerebbe Syriza alla stessa agonia che ha ridotto ai minimi termini il Pasok di Papandreu.”
Il rigetto di una parte del debito accumulato sarebbe una soluzione logicamente razionale. Un problema, tuttavia, esiste: la disapplicazione unilaterale del Memorandum, il ripudio anche solo di una parte del debito indurrebbe la Bce a bloccare le erogazioni e determinerebbe una nuova crisi di liquidità.
A quel punto la Grecia e il suo nuovo governo di sinistra sarebbero costretti ad abbandonare l’euro per tornare a stampare moneta nazionale.
Ora, il Qe varato dalla Bce è stato rappresentato come il tentativo di correggere – di fronte al generale scivolamento deflattivo – lo sciovinismo economico rigorista di marca tedesca.
La Banca centrale si è sì decisa – sia pure in una forma edulcorata, cioè scaricando la parte di gran lunga più cospicua dei rischi sulle banche centrali dei paesi membri – a stampare moneta per l’acquisto massiccio di titoli del debito nazionali. Peccato che gli acquisti di titoli di Stato non avverranno – a differenza di quanto avvenuto negli Usa e in Giappone – rastrellandoli sul mercato primario, direttamente dagli organi emittenti, cioè dai ministeri del Tesoro dei singoli stati. Gli acquisti saranno fatti sul mercato secondario, cioè dalle grandi banche della zona euro. “Si tratta, quindi – come osserva Domenico Moro – dello stesso meccanismo già deciso da Draghi nel 2011, e basato sull’offerta di liquidità a tassi ridottissimi alle banche affinché acquistassero titoli di Stato. Una mossa che non ha sortito alcun effetto positivo sull’economia e sull’occupazione, che hanno continuato a peggiorare. Infatti, la liquidità erogata dalla Bce non si tradusse in prestiti alle famiglie dei salariati, agli artigiani e alle piccole imprese, ma rimase nelle banche”.
“Ad avvantaggiarsene – continua Moro – furono le banche stesse che guadagnarono sul differenziale tra i finanziamenti a tasso zero della Bce e gli interessi pagati dallo Stato. Il risultato fu che i bilanci delle banche, gravati dalle perdite della crisi del 2007-2008, migliorarono notevolmente, grazie alla crescita degli utili.
Un meccanismo simile si verificherà anche questa volta. Di fatto, l’operazione è a carico delle singole nazioni. Insomma, dove sta la svolta, dov’è la solidarietà e l’azione finalmente combinata a livello europeo?
Il rischio sovrano si è internalizzato ancora di più, con sollievo della Germania.
In terzo luogo, gli acquisti verranno effettuati non selettivamente, in base alle difficoltà dei singoli Stati nel finanziare il proprio debito, ma in modo proporzionale alle quote di capitale detenute dai singoli stati nella Bce. Dunque, la Germania, che paga già interessi reali già negativi sul suo debito, verrà “beneficiata” da questa operazione in proporzione come la Grecia che paga alti tassi d’interesse”.
“Dunque – conclude Moro – l’obiettivo di Draghi non è quello di rilanciare il Pil, cioè la produzione, e l’occupazione, ma di tenere alti i profitti delle banche e delle grandi imprese soprattutto multinazionali.
Il Qe ha come obiettivo il contrasto alla deflazione, perché questa riduce i profitti o ne inibisce l’aumento, in quanto il calo dei prezzi erode i margini operativi delle imprese. Una inflazione troppo forte beneficia i debitori rispetto ai creditori e questo è eresia in un ambiente capitalistico, soprattutto per le banche. Ma l’inflazione troppo bassa o peggio la deflazione erodono i profitti. Inoltre, il Qe ha già cominciato a svalutare l’euro rispetto al dollaro e altre valute, facilitando le esportazioni che sono pressoché di esclusiva pertinenza delle imprese di grandi dimensioni e multinazionali”.
Si tratta di segni piuttosto evidenti che l’ingranaggio è in crisi, che le misure adottate non fanno che confermare il carattere organico della crisi capitalistica e, ancora, che la diga eretta per scongiurarne il cedimento rischia di rivelarsi alquanto fragile poiché la manovra rimane pur sempre incardinata sull’impalcatura monetaria che ha prodotto l’austerity e non è arduo prevedere che i suoi effetti si riveleranno del tutto modesti.
Allora, tornando al tema iniziale, attenzione a spiegare che se si mette in discussione l’euro significa essere anti-europei;
attenzione a dire che la rivendicazione della sovranità popolare (che, non dimentichiamolo, sta scritta nell’articolo 1 della Costituzione) significa, “necessariamente”, portare acqua ai nazionalismi xenofobi e fascistoidi;
attenzione a dire che chi vuole fare saltare questo ingranaggio infernale non fa che “lavorare per il re di Prussia”, altrimenti si corre il rischio che qualcuno il re di Prussia lo invochi davvero e magari che lo scontro si concluda non con una restaurazione della democrazia ma proprio con l’avvento dei populismi reazionari.
Del resto, non ci sono evidenze empiriche – come ci spiegano Emiliano Brancaccio e Nadia Garbellini – che l’uscita dall’euro provocherebbe una svalutazione delle proporzioni che si paventano e, soprattutto, che lo scenario sarebbe in quel caso peggiore della drammatica deriva in corso.
Lo dico perché il “diavolo” capitalista fa le pentole, ma non sempre riesce a trovare i coperchi e fra non molto, potremmo trovarci di fronte alla caduta dell’euro per…autocombustione…, cioè per autonoma decisione del potere finanziario, una volta condotti a termine lo sventramento del welfare, il processo di privatizzazione integrale, la riduzione a simulacro della democrazia rappresentativa, l’annichilimento del potere di contrasto del soggetto lavoro.
Il punto, allora, è cosa fare per impedire che si intraprenda questa strada, proprio per l’incapacità delle classi dominanti di perseguire una rotta diversa.
Allora tocca a noi dire in modo chiaro che all’uscita dall’euro dovrà corrispondere una nuova politica economica e sociale:
proteggendo i salari attraverso un rilancio delle lotte e del ruolo contrattuale dei sindacati;
reintegrando i diritti del lavoro espropriati dalla crociata anti-operaia in corso;
rilanciando l’indicizzazione delle retribuzioni al costo della vita;
ricostruendo un regime previdenziale che così com’è precluderà il diritto alla pensione a due generazioni di italiani;
riducendo su scala nazionale e in tutti i settori l’orario di lavoro;
varando nuove politiche fiscali che restituiscano progressività all’imposta sul reddito e prevedendo una tassa strutturale sui grandi patrimoni;
ponendo un tetto alle retribuzioni e alle pensioni;
nazionalizzando le banche e i principali asset industriali a partire dalla siderurgia;
ridefinendo le regole che disciplinano gli scambi commerciali e i movimenti di capitale.
Si tratta insomma di costruire le premesse per un’uscita da sinistra dalla crisi e riscattare l’Europa dal giogo della finanza e dei proprietari universali che stanno succhiando il sangue dei popoli.
Certo, per fare queste cose occorrono altri rapporti di forza, e si può a buon titolo obiettare che siamo lontani dalla capacità di mettere in campo una forza d’urto quale sarebbe necessaria, ma con questa piattaforma potremo rivolgerci sul serio ai proletari di questo paese e alle forze intellettuali non compromesse con la vulgata corrente, usando argomenti, parole, programmi, proposte che nessun altro può, sa, vuole utilizzare. Proposte che abbiano in sé la forza di rilanciare le lotte e dare il senso di una mobilitazione nazionale, ma non nazionalista, solidale, ma non corporativa, europeista, ma non prigioniera dei dogmi del monetarismo liberista.
Ne abbiamo la forza? Nella situazione presente, no. Ma avere una linea chiara oppure non averla non è la stessa cosa.
Del resto, una posizione attendista produrrebbe tre effetti massimamente negativi:
consegnerebbe la protesta contro l’austerity alla demagogia parafascista di Matteo Salvini, consentendo alla destra più reazionaria di riscuotere la rappresentanza di ampi strati popolari e di ridurre la dialettica politica italiana ad un duello fra la “nuova” Lega in versione lepenista e il partito democratico organico al liberismo europeo;
genererebbe, di fronte ad una deflagrazione dell’euro, la peggiore delle condizioni, perché il ritorno alla moneta nazionale – senza adeguate contromisure – rovescerebbe sui lavoratori, sui disoccupati, sugli strati più deboli della popolazione uno tsunami sociale di proporzioni devastanti;
contribuirebbe all’isolamento della Grecia di Syriza, che invece di schiudere le porte di un’altra Europa si ritroverebbe sola, stritolata fra le ganasce della tenaglia dei poteri forti europei.
Dino Greco sull’Euro
Rifondazione dovrebbe ascoltare la parole di persone come Dino Greco, Emiliano Brancaccio e Mimmo Porcaro e sbrigarsi ad assumere una linea chiara e coerente su euro ed Europa.
A mio modestissimo parere una forza politica come quella di rifondazione comunista ha come unica possibilità di rilancio dell’iniziativa politica, quella di rappresentare un ampio fronte politico-sociale che da sinistra si pone in posizione critica su euro ed Europa. Parlo di realtà come quelle che si riconoscono nel sindacalismo di Giorgio Cremaschi, dei vari partiti e movimenti sovranisti (malgrado il dileggio di certuni fra di loro vi sono persone serie e competententi), del Movimento Essere Sinistra, di cui non conosco la consistenza numerica, ma del quale conosco la serietà e l’impegno, e molte altre realtà locali che è persino difficile ricordare, realtà che prese isolatamente non hanno alcuna possibilità di emergere in un panorama mediatico dominato dal liberismo e dalle sue diverse declinazioni, ma che potrebbero raggiungere la fatidica massa critica una volta unite. Forse è utopia, forse queste realtà non hanno alcuna voglia di dialogare fra loro, ma vale comunque la pena di tentare.
Rifondazione può essere il fattore x in grado di coagulare realtà diverse e non comunicanti fra loro. Deve solo decidersi a sciogliere le sue ambiguità e smettere di dare retta agli europeisti senza sè e senza senno. Poi, una volta acquisito forza e credibilità potrà tornare a confrontarsi con loro. Se proprio non può farne a meno.
La Lega cerca – con preoccupante successo – di egemonizzare il movimento antieuropeista su una linea di populismo reazionario, xenofobo, di marca dichiaratamente lepenista.
Assistiamo persino al tentativo di capitalizzare a destra lo stesso straordinario successo di Syriza nelle elezioni greche oscurandone l’imprinting radicalmente anti-liberista.
Anche il M5S cavalca l’onda, sebbene con un profilo più basso e confuso, esibendo come distintivo identitario la pura e semplice propagandistica uscita dall’euro (il referendum).
L’agognato ritorno alla moneta nazionale non è tuttavia auspicato da costoro per restaurare diritti espropriati (welfare, diritto del lavoro), o per proteggere i salari, o per ostacolare il processo di privatizzazione selvaggio, o per definire nuove regole per il commercio e controllare la circolazione dei capitali, o per pubblicizzare banche e asset nazionali.
Tutto il contrario.
Si tratta di un nazionalismo autarchico e reazionario che si sdraia su un senso comune sempre più diffuso e sulla crescente disperazione di un popolo che non sa più a che santo votarsi, per lucrarne un vantaggio politico-elettorale a buon mercato.
E noi?
Noi comunisti nel congresso abbiamo detto: “disobbediamo ai trattati!”, facciamo leva sulle contraddizioni del monetarismo Ue a trazione tedesca, sottraiamoci al ricatto del moderno “Mago di Oz”, di un’Unione europea che gioca con carte truccate.
Ma cosa vuol dire, in concreto, disobbedienza?
Come si declina questa linea, al centro ed in periferia, vale a dire nelle regioni, nei comuni, nelle politiche di bilancio e fiscali?
Ancora: cosa vuol dire opporsi al patto di stabilità che impedisce persino ai comuni “virtuosi” di spendere risorse disponibili?
Ebbene, noi non l’abbiamo ancora detto, col risultato che la nostra proposta rimane chiusa in quella parola, non si traduce in una politica e in una mobilitazione.
Dunque “non morde”, “non si vede”, “non seduce”. E rimane in una “terra di mezzo”, priva di realtà, vaso di coccio fra vasi di ferro.
L’analisi da cui dovrebbe in realtà prendere le mosse ogni scelta politica razionale ed efficace non può accontentarsi di una critica rivolta al liberismo “in generale” e ad un processo di unificazione europea che non avrebbe portato a compimento il suo più ambizioso progetto politico perché rimasta a metà del guado e perché diventata, via via, preda degli spiriti animali del capitalismo. Per cui oggi si tratterebbe di costringere il manovratore a venire a più equi patti, introducendo qualche variante negli ingranaggi esistenti, qualche artifizio economicistico, qualche espediente di tecnica monetaria capace di mutarne l’indirizzo di fondo.
Per capire compiutamente di fronte a cosa ci troviamo non sarà inutile partire…da noi, vale a dire dalla Costituzione italiana del’48.
Ebbene, la C.I. non accoglie né il modello dell’economia di mercato, né il generale principio della libera concorrenza. Anzi: l’articolo 41 dice con chiarezza che la libertà d’azione dei soggetti economici privati trova il suo limite nei “programmi” e nei “controlli” necessari affinché tanto l’attività economica pubblica quanto quella privata “possano essere indirizzate a fini sociali”.
Dunque, la C.I. – in termini di principio e prescrittivi – affida alla legge (e dunque all’autorità pubblica) il disegno globale dell’economia, esattamente per la ragione che Palmiro Togliatti espose nel dibattito alla prima sottocommissione dell’Assemblea Costituente (1947) intorno al tema delle “Relazioni economico-sociali” e a quello che diventerà poi il Titolo III della Carta. E cioè che “il non intervento dello Stato in una società capitalistica equivale ad un intervento a favore della classe dominante”. Vale a dire “al riconoscimento che chi è più forte economicamente può dettare le condizioni di vita di chi è economicamente più debole”.
Ciò di cui si incarica la C.I. è di porre un limite cogente all’asimmetria di forza fra capitale e lavoro.
Ebbene, la decisione di sistema enunciata dall’ordinamento comunitario è radicalmente opposta (antinomica, direbbe il filosofo) rispetto a quella contenuta nella nostra Costituzione.
Perché i trattati sottoscritti a Maastricht nel 1992 e tutto quello che ne è seguito mirano a costruire uno spazio economico senza frontiere interne ispirato al “principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza”.
Aderendovi e applicandone i dispositivi in via esecutiva il parlamento italiano ha sovvertito la gerarchia delle fonti del diritto, generando “norme distruttive ed eversive della stessa Costituzione”.
Non occorre essere fini costituzionalisti per capire che l’antinomia fra le due architetture di sistema condurranno ben presto alla totale liquidazione dell’articolo 41 della Costituzione, trasformandolo nel suo rovescio.
L’esigenza di una nuova lettura della Costituzione nel senso del primato del mercato non può non risolversi nello spostamento delle finalità dell’intervento pubblico “dalla funzione programmatoria alla funzione di rimozione degli ostacoli al funzionamento del mercato, nella subordinazione dei fini sociali a quelli della remunerazione del capitale (cioè del profitto).
Esattamente come nella teoria liberale classica, lo Stato ha la funzione di assicurare e proteggere da ogni e qualsiasi turbativa la proprietà e il modo capitalistico dell’accumulazione privata.
Così stando le cose, tutti i diritti sociali storicamente conquistati dalle classi lavoratrici diventano, nella loro integralità – primo fra tutti il diritto al lavoro – come altrettanti limiti all’esercizio stesso del diritto di proprietà.
Il diritto alla tutela contro il licenziamento ingiustificato, a condizioni di lavoro sane, sicure, dignitose, la protezione in caso di perdita del posto di lavoro cessano di essere “giuridicamente vincolanti”.
Si spiega così la vicenda ormai famosa della lettera che il presidente entrante e quello uscente della Bce indirizzarono al governo italiano il 5 agosto 2011 (un vero memorandum) in cui si subordinava il sostegno ai nostri titoli del debito all’adozione di varie misure fra cui, in particolare, una riforma della contrattazione collettiva che permettesse di “ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende” e “un’accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti (…) in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e i settori più competitivi”.
Ogni diversa soluzione implicherebbe infatti un’interferenza inammissibile rispetto all’obiettivo di “un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza” che è l’unico possibile assetto compatibile con le finalità stabilite dall’articolo 3 del TUE.
In conclusione: mentre la nostra costituzione rifondeva le tradizioni cattolica-comunista-socialista allo scopo di collocare lo Stato – e in esso il lavoro – in una posizione di primazia, attribuendogli potestà rilevantissime in ordine alle decisioni circa cosa, come e per chi produrre, i trattati europei, secondo il dogma liberista, hanno inteso costruire uno spazio retto dalla libera concorrenza.
La C.I. pretendeva di stabilire un proprio ordine entro il quale costringere la libertà degli affari, l’Ue impone un ordine di libertà per il compimento degli affari.
Il fatto è che l’Unione europea è prima di tutto la forma politica di un rapporto sociale e, precisamente, di un rapporto sociale imperniato sul dominio del capitale finanziario: l’architettura monetaria che esso ha posto al suo fondamento (e che trova nell’euro non già un sottoprodotto fenomenico, ma il proprio funzionale apparato strumentale) serve appunto a stabilizzare il potere dell’oligarchia liberista che governa l’Europa.
La complessa impalcatura monetarista si configura cioè come la specifica risposta strategica del capitalismo continentale (a egemonia tedesca) alla caduta del saggio di profitto e la condizione, dentro un quadro politico-sociale in rapida mutazione reazionaria, per riplasmare l’economia nella conservazione di rapporti capitalistici di produzione fortemente compromessi dalla crisi.
L’ambizioso progetto è quello di liquidare in radice il welfare novecentesco, ridurre strutturalmente i salari a livello di sussistenza, consegnare alla marginalità le forme di aggregazione sociale e politica di impronta classista, con l’obiettivo di rendere strutturale l’estrazione di plusvalore assoluto dal lavoro vivo, condizione necessaria in una fase storica in cui la composizione organica e la stupefacente concentrazione del capitale hanno raggiunto un livello tale da non riuscire ad offrire agli investimenti un adeguato rendimento.
Siamo cioè di fronte ad una vera e propria ristrutturazione della formazione economico-sociale capitalistica (nell’accezione marxiana) che coinvolge la struttura economica, cioè il modello di accumulazione, i rapporti sociali e di proprietà, la sovrastruttura politica, i modelli istituzionali ed elettorali e l’ideologia che tiene insieme l’impasto:
il modello di accumulazione: attraverso la costruzione di un paradigma che produce e riproduce il capitale finanziario, parassitario e speculativo;
i rapporti di proprietà: attraverso la spoliazione della proprietà pubblica, la privatizzazione integrale, la messa a profitto di tutto ciò che può assumere i caratteri della merce, la reductio ad unum delle 4 forme di proprietà previste dalla Costituzione repubblicana (statale, privata, comunitaria, cooperativa);
la superstruttura politica e giuridica: attraverso la sterilizzazione del parlamento e l’annichilimento della democrazia rappresentativa in favore della concentrazione di tutto il potere negli esecutivi; lo stravolgimento del modello elettorale in funzione maggioritaria, bipartitica e in forma tendenzialmente presidenziale;
la superstruttura culturale e ideologica: sostenuta da un imponente apparato mediatico, che ha sradicato nella coscienza di larghe masse ogni anelito solidaristico per sostituirvi la concezione individualistica e iper-competitiva della borghesia liberale classica.
L’Europa odierna è dunque tutto meno che uno spazio neutro, più efficace per la lotta nello stato nazionale.
Non è vero che lo spazio statuale più grande, quello europeo, sia il modo migliore per sviluppare la controffensiva di classe al livello del capitale; esso lo è solo quando consente alla classe dominata di esprimere la propria autonomia politica. Quando il dominio di classe assume forma nazionalistica si deve essere internazionalisti, europeisti e in qualche caso autonomisti. Quando invece, come succede in Europa, quel dominio passa proprio attraverso la distruzione dello stato nazionale, si deve elaborare un nazionalismo democratico orientato verso una nuova Europa confederale.
L’Europa non è un soggetto politico che aiuta il multipolarismo e contiene l’espansione Usa, considerato che siamo alla vigilia della sottoscrizione del devastante trattato di libero scambio transatlantico che consegnerà alle multinazionali, ai più rapaci players economici internazionali il potere – con tanto di legittimazione giuridica e tribunali al seguito – di subordinare all’attesa di profitto ogni aspetto delle legislazioni nazionali, mettendo la mordacchia ad intere Costituzioni nazionali.
L’Europa non è neppure un’entità sovranazionale che riequilibra le legislazioni e prepara un assetto federativo.
La costruzione forzosa di un’unica area valutaria aumenta la divaricazione fra i paesi perché impone una moneta unica ad economie del tutto diverse. E perché questa moneta “incorpora” le “virtù” del marco: deflazione, indipendenza della Bce e stabilità monetaria, i tre dogmi su cui è costruito l’euro, le tre cause, o concause, della distruzione dell’unità europea.
L’euro serve anche a rendere stabile la gerarchia fra nord e sud, fra paesi creditori e paesi debitori.
Il comportamento del creditore nord-europeo è solo apparentemente illogico. Perché incaponirsi in politiche che riducendo la domanda dei paesi debitori, riducono il mercato per i prodotti del nord, considerato che il 70% delle esportazioni di quei paesi avvengono nell’area europea?
Per due motivi: perché diminuire il salario dei lavoratori del sud, in buona parte terzisti del nord, significa diminuire i prezzi dei prodotti del nord stesso; e perché la generale deflazione del sud abbatte il costo del patrimonio industriale ed immobiliare dei paesi colpiti. La logica che guida queste scelte è una logica semi-coloniale, che punta a costruire un sistema industriale ed un mercato del lavoro duali, concentrando la proprietà nelle mani del nord e trasformando il sud in un mare di mano d’opera a basso costo.
La logica dell’euro è la più cocente smentita di chi crede che l’Unione europea sia terreno più favorevole per la lotta di classe.
L’Europa è oggi un meccanismo non democratizzabile perché distrugge deliberatamente, con metodo, il solo soggetto che potrebbe democratizzarla: il lavoro.
Non è forse superfluo ricordare la lettera a firma congiunta con cui alla fine del 2011 Draghi e Trichet intimavano all’Italia di mettere mano a pensioni, salari, diritti del lavoro e privatizzazioni e come Napolitano abbia investito poi Mario Monti del ruolo di esecutore testamentario di queste direttive; o il documento con cui J.P. Morgan, nel maggio del 2012, ribadiva lo stesso concetto, con un “taglio”, per così dire, più sistemico, dove ad essere messe all’indice erano le costituzioni antifasciste troppo venate di socialismo; o – per tornare a casa nostra – la determinazione con cui il compito demolitore del giuslavorismo moderno è stato mirabilmente interpretato da Matteo Renzi.
Uno sguardo alla situazione della Grecia
Ha ragione Emiliano Brancaccio: le ricette della troika saranno ricordate come uno dei più colossali inganni nella storia della politica europea.
La Grecia le applica già da 4 anni con enormi (e crescenti) sacrifici per la popolazione.
Rispetto al 2010 la pressione fiscale è aumentata di 8 punti percentuali rispetto al pil e la spesa pubblica è diminuita di quasi 4 punti, corrispondenti ad un crollo di 30 mld;
i salari monetari sono caduti di 12 punti percentuali e il loro potere d’acquisto è precipitato in media di 14 punti, con picchi negativi di oltre 30 punti in alcuni comparti.
La Commissione europea ha sempre sostenuto che queste politiche non avrebbero depresso l’economia. Ma le sue previsioni sull’andamento del pil greco sono state totalmente smentite: per il 2011 la Commissione previde un pil stazionario, che in realtà crollò di 7 punti; per il 2012 annunciò addirittura una crescita di un punto, e fu sconfessata da una caduta di 6 punti e mezzo; nel 2013 la previsione fu di crescita zero, e invece il pil greco precipitò di altri 4 punti.
Anche per il 2014 si registra uno scarto fra le rosee previsioni di Bruxelles e la realtà dei fatti ad Atene.
La verità, che ormai riconoscono a denti stretti persino al Fmi, è che le ricette della Troika rappresentano la causa principale del crollo della domanda e della conseguente distruzione di produzione e occupazione avvenuta in Grecia: negli ultimi 5 anni, ben 800.000 posti di lavoro in meno.
Né si può dire che tali ricette abbiano stabilizzato i bilanci: il crollo della produzione ha implicato un esplosione del rapporto fra debito pubblico e pil, aumentato in 5 anni di 30 punti percentuali.
“Questi soggetti – osserva ancora Brancaccio – stanno ottenendo quello che volevano: perché dovrebbero mutare la loro posizione a seguito di una vittoria di Tsipras? Al limite offriranno un’austerità appena un po’ mitigata, un piatto avvelenato che – se accettato – condannerebbe Syriza alla stessa agonia che ha ridotto ai minimi termini il Pasok di Papandreu.”
Il rigetto di una parte del debito accumulato sarebbe una soluzione logicamente razionale. Un problema, tuttavia, esiste: la disapplicazione unilaterale del Memorandum, il ripudio anche solo di una parte del debito indurrebbe la Bce a bloccare le erogazioni e determinerebbe una nuova crisi di liquidità.
A quel punto la Grecia e il suo nuovo governo di sinistra sarebbero costretti ad abbandonare l’euro per tornare a stampare moneta nazionale.
Ora, il Qe varato dalla Bce è stato rappresentato come il tentativo di correggere – di fronte al generale scivolamento deflattivo – lo sciovinismo economico rigorista di marca tedesca.
La Banca centrale si è sì decisa – sia pure in una forma edulcorata, cioè scaricando la parte di gran lunga più cospicua dei rischi sulle banche centrali dei paesi membri – a stampare moneta per l’acquisto massiccio di titoli del debito nazionali. Peccato che gli acquisti di titoli di Stato non avverranno – a differenza di quanto avvenuto negli Usa e in Giappone – rastrellandoli sul mercato primario, direttamente dagli organi emittenti, cioè dai ministeri del Tesoro dei singoli stati. Gli acquisti saranno fatti sul mercato secondario, cioè dalle grandi banche della zona euro. “Si tratta, quindi – come osserva Domenico Moro – dello stesso meccanismo già deciso da Draghi nel 2011, e basato sull’offerta di liquidità a tassi ridottissimi alle banche affinché acquistassero titoli di Stato. Una mossa che non ha sortito alcun effetto positivo sull’economia e sull’occupazione, che hanno continuato a peggiorare. Infatti, la liquidità erogata dalla Bce non si tradusse in prestiti alle famiglie dei salariati, agli artigiani e alle piccole imprese, ma rimase nelle banche”.
“Ad avvantaggiarsene – continua Moro – furono le banche stesse che guadagnarono sul differenziale tra i finanziamenti a tasso zero della Bce e gli interessi pagati dallo Stato. Il risultato fu che i bilanci delle banche, gravati dalle perdite della crisi del 2007-2008, migliorarono notevolmente, grazie alla crescita degli utili.
Un meccanismo simile si verificherà anche questa volta. Di fatto, l’operazione è a carico delle singole nazioni. Insomma, dove sta la svolta, dov’è la solidarietà e l’azione finalmente combinata a livello europeo?
Il rischio sovrano si è internalizzato ancora di più, con sollievo della Germania.
In terzo luogo, gli acquisti verranno effettuati non selettivamente, in base alle difficoltà dei singoli Stati nel finanziare il proprio debito, ma in modo proporzionale alle quote di capitale detenute dai singoli stati nella Bce. Dunque, la Germania, che paga già interessi reali già negativi sul suo debito, verrà “beneficiata” da questa operazione in proporzione come la Grecia che paga alti tassi d’interesse”.
“Dunque – conclude Moro – l’obiettivo di Draghi non è quello di rilanciare il Pil, cioè la produzione, e l’occupazione, ma di tenere alti i profitti delle banche e delle grandi imprese soprattutto multinazionali.
Il Qe ha come obiettivo il contrasto alla deflazione, perché questa riduce i profitti o ne inibisce l’aumento, in quanto il calo dei prezzi erode i margini operativi delle imprese. Una inflazione troppo forte beneficia i debitori rispetto ai creditori e questo è eresia in un ambiente capitalistico, soprattutto per le banche. Ma l’inflazione troppo bassa o peggio la deflazione erodono i profitti. Inoltre, il Qe ha già cominciato a svalutare l’euro rispetto al dollaro e altre valute, facilitando le esportazioni che sono pressoché di esclusiva pertinenza delle imprese di grandi dimensioni e multinazionali”.
Si tratta di segni piuttosto evidenti che l’ingranaggio è in crisi, che le misure adottate non fanno che confermare il carattere organico della crisi capitalistica e, ancora, che la diga eretta per scongiurarne il cedimento rischia di rivelarsi alquanto fragile poiché la manovra rimane pur sempre incardinata sull’impalcatura monetaria che ha prodotto l’austerity e non è arduo prevedere che i suoi effetti si riveleranno del tutto modesti.
Allora, tornando al tema iniziale, attenzione a spiegare che se si mette in discussione l’euro significa essere anti-europei;
attenzione a dire che la rivendicazione della sovranità popolare (che, non dimentichiamolo, sta scritta nell’articolo 1 della Costituzione) significa, “necessariamente”, portare acqua ai nazionalismi xenofobi e fascistoidi;
attenzione a dire che chi vuole fare saltare questo ingranaggio infernale non fa che “lavorare per il re di Prussia”, altrimenti si corre il rischio che qualcuno il re di Prussia lo invochi davvero e magari che lo scontro si concluda non con una restaurazione della democrazia ma proprio con l’avvento dei populismi reazionari.
Del resto, non ci sono evidenze empiriche – come ci spiegano Emiliano Brancaccio e Nadia Garbellini – che l’uscita dall’euro provocherebbe una svalutazione delle proporzioni che si paventano e, soprattutto, che lo scenario sarebbe in quel caso peggiore della drammatica deriva in corso.
Lo dico perché il “diavolo” capitalista fa le pentole, ma non sempre riesce a trovare i coperchi e fra non molto, potremmo trovarci di fronte alla caduta dell’euro per…autocombustione…, cioè per autonoma decisione del potere finanziario, una volta condotti a termine lo sventramento del welfare, il processo di privatizzazione integrale, la riduzione a simulacro della democrazia rappresentativa, l’annichilimento del potere di contrasto del soggetto lavoro.
Il punto, allora, è cosa fare per impedire che si intraprenda questa strada, proprio per l’incapacità delle classi dominanti di perseguire una rotta diversa.
Allora tocca a noi dire in modo chiaro che all’uscita dall’euro dovrà corrispondere una nuova politica economica e sociale:
proteggendo i salari attraverso un rilancio delle lotte e del ruolo contrattuale dei sindacati;
reintegrando i diritti del lavoro espropriati dalla crociata anti-operaia in corso;
rilanciando l’indicizzazione delle retribuzioni al costo della vita;
ricostruendo un regime previdenziale che così com’è precluderà il diritto alla pensione a due generazioni di italiani;
riducendo su scala nazionale e in tutti i settori l’orario di lavoro;
varando nuove politiche fiscali che restituiscano progressività all’imposta sul reddito e prevedendo una tassa strutturale sui grandi patrimoni;
ponendo un tetto alle retribuzioni e alle pensioni;
nazionalizzando le banche e i principali asset industriali a partire dalla siderurgia;
ridefinendo le regole che disciplinano gli scambi commerciali e i movimenti di capitale.
Si tratta insomma di costruire le premesse per un’uscita da sinistra dalla crisi e riscattare l’Europa dal giogo della finanza e dei proprietari universali che stanno succhiando il sangue dei popoli.
Certo, per fare queste cose occorrono altri rapporti di forza, e si può a buon titolo obiettare che siamo lontani dalla capacità di mettere in campo una forza d’urto quale sarebbe necessaria, ma con questa piattaforma potremo rivolgerci sul serio ai proletari di questo paese e alle forze intellettuali non compromesse con la vulgata corrente, usando argomenti, parole, programmi, proposte che nessun altro può, sa, vuole utilizzare. Proposte che abbiano in sé la forza di rilanciare le lotte e dare il senso di una mobilitazione nazionale, ma non nazionalista, solidale, ma non corporativa, europeista, ma non prigioniera dei dogmi del monetarismo liberista.
Ne abbiamo la forza? Nella situazione presente, no. Ma avere una linea chiara oppure non averla non è la stessa cosa.
Del resto, una posizione attendista produrrebbe tre effetti massimamente negativi:
consegnerebbe la protesta contro l’austerity alla demagogia parafascista di Matteo Salvini, consentendo alla destra più reazionaria di riscuotere la rappresentanza di ampi strati popolari e di ridurre la dialettica politica italiana ad un duello fra la “nuova” Lega in versione lepenista e il partito democratico organico al liberismo europeo;
genererebbe, di fronte ad una deflagrazione dell’euro, la peggiore delle condizioni, perché il ritorno alla moneta nazionale – senza adeguate contromisure – rovescerebbe sui lavoratori, sui disoccupati, sugli strati più deboli della popolazione uno tsunami sociale di proporzioni devastanti;
contribuirebbe all’isolamento della Grecia di Syriza, che invece di schiudere le porte di un’altra Europa si ritroverebbe sola, stritolata fra le ganasce della tenaglia dei poteri forti europei.
Un nuovo Maggio 68
Un nuovo Maggio 68
Europa anti-costituzionale: "Per la riconquista dell’autonomia politica ed economica del nostro paese". Un appello.
da Politica&Economia
Appello originale qui
“Perché votare NO nel referendum costituzionale di ottobre – per la riconquista dell’autonomia politica ed economica del nostro paese contro la tirannia tecnocratica sovranazionale e dei trattati europei”.
Siamo di fronte a una delle più grandi mistificazioni politiche e culturali dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
La contro-riforma costituzionale adottata dal governo Renzi, il c.d. DDL Boschi, viene presentata, dal governo e dalla quasi totalità dei media nazionali, come la più importante razionalizzazione delle istituzioni mai realizzata nel nostro paese, dopo decenni di politica degenerata e corrotta, da parte di una classe politica “nuova”, giovane e risoluta. In realtà, con questo disegno di legge costituzionale, di cui va considerata la sinergia con la “nuova” legge elettorale, l’Italicum, siamo di fronte ad una delle più grandi mistificazioni, politiche e culturali, a partire dalla fine della II Guerra Mondiale, pari se non peggiore della stessa “riforma” costituzionale di Berlusconi, Bossi e Fini del 2005, sonoramente battuta col voto referendario del 25-26 giugno 2006 dalla maggioranza del popolo italiano.
L’attuale classe politica non appare certo migliore di quella del recente passato, soltanto perché giovane e, nella propria autorappresentazione, nuova. Essa agisce con grande determinazione e sfrontatezza, verbale e legislativa, oltre a scontare un vuoto culturale e del rispetto delle regole democratiche senza precedenti nel periodo repubblicano. Con questo atto il governo Renzi intende realizzare un progetto davvero ambizioso quanto pericoloso: esautorare il parlamento dalle sue fondamentali prerogative e porre il nostro paese, definitivamente, sotto il diretto controllo politico ed economico del capitale finanziario transnazionale, di cui l’Europa dell’Unione monetaria è parte integrante.
Avalla e consolida le “riforme” imposte dai trattati europei che esautorano le politiche economiche nazionali ed erodono i principi democratici costituzionali
1. A partire dalla seconda metà degli anni ’80 del secolo scorso, con l’Atto Unico europeo, prima, ed il Trattato di Maastricht, adottato nel 1992 ma con particolare accentuazione negli anni successivi, a partire dall’ingresso dell’Italia nell’area della moneta unica, le più importanti istituzioni europee e mondiali (Commissione europea, Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale, Organizzazione Mondiale del Commercio, G-8) insieme ai governi più forti e influenti dell’occidente hanno a più riprese auspicato e poi imposto al nostro paese le tanto sbandierate “riforme”, cioè: – le riduzioni delle tutele e del potere di acquisto del lavoro e delle pensioni; – l’esautoramento di ogni autonoma politica economica nazionale; – l’adozione e la ratifica dei successivi e formidabili trattati europei, tanto invasivi quanto scellerati (fiscal compact, six pack accolto questo con l’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione, passo che non era affatto imposto, ma che entra nell’indirizzo politico di governo con il PNR 2011, deliberato dal Consiglio dei ministri il 13 aprile 2011, al punto 2.2 a). In tal modo sono poste le premesse per la distruzione dell’apparato produttivo industriale, pubblico e privato, del paese e il conseguente impoverimento generale, ed è preclusa al paese l’adozione di sue proprie politiche di sviluppo a tutto vantaggio dei paesi più forti dell’Europa, Germania in testa, che in questi anni hanno goduto, anche grazie a ciò, di un ulteriore vantaggio competitivo.
Ma ciò, evidentemente, non era ancora sufficiente.
Diventava, infatti necessario (come raccomandato da J.P. Morgan Chase nel maggio 2013 con un suo Paper) mutare la cornice generale della convivenza civile e politica all’interno di ciò che rimane della residua sovranità popolare degli stati europei, specie nei paesi più fragili e periferici, e dunque attuare un superamento definitivo delle Costituzioni nazionali ove ancora è presente il riconoscimento dei diritti sociali, ed in particolare della nostra Costituzione repubblicana del ’47, essendo tutto ciò visto e additato quale portato “ideologico” novecentesco di compromesso tra capitale e lavoro da superare secondo il volere dei ” mercati” dei capitali (finanziari).
I Governi che negli ultimi anni si sono succeduti alla guida del paese hanno tutti attuato politiche controproducenti sul versante dello sviluppo quanto improntate alla più arcaica diseguaglianza, secondo il canone dell’austerità; con gradazioni diverse tra l’uno e l’altro, si sono dimostrati i più diligenti esecutori dei voleri del capitale transnazionale e, così facendo, hanno aggravato la crisi, tuttora in corso, oltre che reso ancora più lontane le condizioni fondamentali di convergenza tra i paesi centrali e periferici dell’eurozona, spingendo questi ultimi in una posizione di crescente “mezzogiornificazione”, ossia sempre più nelle retrovie dello sviluppo. 2. Negli ultimi 25 anni i trattati europei si erano del resto già progressivamente sovrapposti alle costituzioni novecentesche, con particolare accentuazione nei confronti della nostra Carta fondamentale, imbalsamandola nella sua intera prima parte e nei principi fondamentali, con la conseguenza pratica della disapplicazione nei suoi stessi principi supremi (a cominciare dal principio di uguaglianza, riconoscimento e tutela dei diritti sociali e del lavoro, ripudio della guerra, limitazioni di sovranità in condizioni di parità) che, al contrario, per consolidata giurisprudenza costituzionale sono considerati immodificabili. Queste due fonti hanno origini e programmi politici e culturali profondamente diversi e sotto certi aspetti antitetici. I trattati traducono in economia un programma liberale-liberista e consolidano una tecnocrazia a-democratica sul versante politico.
Le Costituzioni, in particolare la nostra, mirano invece ad una democrazia sociale con un’economia mista e con una significativa presenza del pubblico nei settori nevralgici per l’economia e la società quali industria, scuola, salute, credito, energia. In questo si traduce la forte affermazione di un principio di eguaglianza formale e sostanziale, di diritti e libertà nella I parte della Carta, che fu ad un tempo la novità storica della Costituzione del 1947 e la chiave per la sintesi delle diverse culture politiche che in essa si ritrovarono. Ma la I parte della Costituzione chiede di essere attuata e presuppone, a tal fine, politiche appropriate. Ma gli indirizzi di governo si definiscono nelle forme che assumono le istituzioni e ne sono decisivamente condizionati. L’attuazione della I Parte della Costituzione presuppone una forma di governo parlamentare incardinata su assemblee elettive ampiamente rappresentative. Come ha statuito la Corte costituzionale dichiarando la illegittimità costituzionale del Porcellum con la sent. 1/2014, rappresentanza politica, partecipazione democratica, voto libero e uguale sono le pietre angolari della nostra democrazia, e ne definiscono la forma e la sostanza. Questo assetto è radicalmente negato dalla riforma della Costituzione ora proposta, con la soppressione del Senato elettivo e la concentrazione del potere su Palazzo Chigi. Parimenti stravolgente è la legge elettorale già approvata, per la previsione di un altissimo premio di maggioranza a un solo partito, l’eventualità di un ballottaggio senza soglia, parlamentari in prevalenza sottratti alla scelta degli elettori con il voto bloccato sui capilista. “Riforme” devastanti, poste in essere da un parlamento sostanzialmente delegittimato per la certificata incostituzionalità del suo fondamento elettorale, e da maggioranze posticce alimentate dai cambi di casacca e pronte a ogni forzatura delle norme costituzionali e regolamentari. “Riforme” che non si giustificano certo con gli esili argomenti di una governabilità che rimane solo apparente e di irrisori risparmi nei costi delle istituzioni.
Questo contrasto deve essere sciolto opponendo per via referendaria alle politiche in atto la voce del popolo, e anzitutto vincendo il referendum costituzionale.
E ciò deve essere il primo passo per ripristinare la democrazia sociale costituzionale; a seguito del quale rivedere l’aberrante modifica dell’art.81 della Costituzione.
Votare NO nel referendum costituzionale significa, dunque, votare contro la tecnocrazia sovranazionale che, grazie alla presente manomissione della Costituzione potrà appoggiarsi ad una monocrazia nazionale, ancor più vassalla delle oligarchie europee e del capitale transnazionale, che continuerà ad affossare lo sviluppo del paese con ancor più risolutezza.
Il NO nel referendum è un SI’ al rilancio della democrazia prevista nella nostra Costituzione fondata sulla sovranità popolare. Primi firmatari: Bruno Amoroso, Paolo Bagnoli, Patrizia Bernardini, Lanfranco Binni, Michelangelo Bovero, Nicola Capone, Antonio Caputo, Francesco Cattabrini, Sergio Cesaratto, Angelo Raffaele Consoli, Anna Fava, Thomas Fazi, Gianni Ferrara, Guglielmo Forges Davanzati, Roberto Lamacchia, Gerardo Marotta, Massimiliano Marotta, Siliano Mollitti, Tomaso Montanari, Daniela Palma, Andrea Panaccione, Marco Veronese Passarella, Roberto Passini, Marcello Rossi, Mario G. Rossi, Luca Rovai, Cesare Salvi, Gianpasquale Santomassimo, Francesco Sylos Labini, Stefano Sylos Labini, Paolo Solimeno, Lanfranco Turci, Massimo Villone. Questo documento è stato elaborato all’interno dell’Associazione Hyperpolis, (www.Hyperpolis.it) in vista del referendum costituzionale che verrà indetto nel corrente anno. Per adesioni: redazione@Hyperpolis.it
Europa anti-costituzionale: "Per la riconquista dell’autonomia politica ed economica del nostro paese". Un appello.
da Politica&Economia
Appello originale qui
“Perché votare NO nel referendum costituzionale di ottobre – per la riconquista dell’autonomia politica ed economica del nostro paese contro la tirannia tecnocratica sovranazionale e dei trattati europei”.
Siamo di fronte a una delle più grandi mistificazioni politiche e culturali dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
La contro-riforma costituzionale adottata dal governo Renzi, il c.d. DDL Boschi, viene presentata, dal governo e dalla quasi totalità dei media nazionali, come la più importante razionalizzazione delle istituzioni mai realizzata nel nostro paese, dopo decenni di politica degenerata e corrotta, da parte di una classe politica “nuova”, giovane e risoluta. In realtà, con questo disegno di legge costituzionale, di cui va considerata la sinergia con la “nuova” legge elettorale, l’Italicum, siamo di fronte ad una delle più grandi mistificazioni, politiche e culturali, a partire dalla fine della II Guerra Mondiale, pari se non peggiore della stessa “riforma” costituzionale di Berlusconi, Bossi e Fini del 2005, sonoramente battuta col voto referendario del 25-26 giugno 2006 dalla maggioranza del popolo italiano.
L’attuale classe politica non appare certo migliore di quella del recente passato, soltanto perché giovane e, nella propria autorappresentazione, nuova. Essa agisce con grande determinazione e sfrontatezza, verbale e legislativa, oltre a scontare un vuoto culturale e del rispetto delle regole democratiche senza precedenti nel periodo repubblicano. Con questo atto il governo Renzi intende realizzare un progetto davvero ambizioso quanto pericoloso: esautorare il parlamento dalle sue fondamentali prerogative e porre il nostro paese, definitivamente, sotto il diretto controllo politico ed economico del capitale finanziario transnazionale, di cui l’Europa dell’Unione monetaria è parte integrante.
Avalla e consolida le “riforme” imposte dai trattati europei che esautorano le politiche economiche nazionali ed erodono i principi democratici costituzionali
1. A partire dalla seconda metà degli anni ’80 del secolo scorso, con l’Atto Unico europeo, prima, ed il Trattato di Maastricht, adottato nel 1992 ma con particolare accentuazione negli anni successivi, a partire dall’ingresso dell’Italia nell’area della moneta unica, le più importanti istituzioni europee e mondiali (Commissione europea, Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale, Organizzazione Mondiale del Commercio, G-8) insieme ai governi più forti e influenti dell’occidente hanno a più riprese auspicato e poi imposto al nostro paese le tanto sbandierate “riforme”, cioè: – le riduzioni delle tutele e del potere di acquisto del lavoro e delle pensioni; – l’esautoramento di ogni autonoma politica economica nazionale; – l’adozione e la ratifica dei successivi e formidabili trattati europei, tanto invasivi quanto scellerati (fiscal compact, six pack accolto questo con l’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione, passo che non era affatto imposto, ma che entra nell’indirizzo politico di governo con il PNR 2011, deliberato dal Consiglio dei ministri il 13 aprile 2011, al punto 2.2 a). In tal modo sono poste le premesse per la distruzione dell’apparato produttivo industriale, pubblico e privato, del paese e il conseguente impoverimento generale, ed è preclusa al paese l’adozione di sue proprie politiche di sviluppo a tutto vantaggio dei paesi più forti dell’Europa, Germania in testa, che in questi anni hanno goduto, anche grazie a ciò, di un ulteriore vantaggio competitivo.
Ma ciò, evidentemente, non era ancora sufficiente.
Diventava, infatti necessario (come raccomandato da J.P. Morgan Chase nel maggio 2013 con un suo Paper) mutare la cornice generale della convivenza civile e politica all’interno di ciò che rimane della residua sovranità popolare degli stati europei, specie nei paesi più fragili e periferici, e dunque attuare un superamento definitivo delle Costituzioni nazionali ove ancora è presente il riconoscimento dei diritti sociali, ed in particolare della nostra Costituzione repubblicana del ’47, essendo tutto ciò visto e additato quale portato “ideologico” novecentesco di compromesso tra capitale e lavoro da superare secondo il volere dei ” mercati” dei capitali (finanziari).
I Governi che negli ultimi anni si sono succeduti alla guida del paese hanno tutti attuato politiche controproducenti sul versante dello sviluppo quanto improntate alla più arcaica diseguaglianza, secondo il canone dell’austerità; con gradazioni diverse tra l’uno e l’altro, si sono dimostrati i più diligenti esecutori dei voleri del capitale transnazionale e, così facendo, hanno aggravato la crisi, tuttora in corso, oltre che reso ancora più lontane le condizioni fondamentali di convergenza tra i paesi centrali e periferici dell’eurozona, spingendo questi ultimi in una posizione di crescente “mezzogiornificazione”, ossia sempre più nelle retrovie dello sviluppo. 2. Negli ultimi 25 anni i trattati europei si erano del resto già progressivamente sovrapposti alle costituzioni novecentesche, con particolare accentuazione nei confronti della nostra Carta fondamentale, imbalsamandola nella sua intera prima parte e nei principi fondamentali, con la conseguenza pratica della disapplicazione nei suoi stessi principi supremi (a cominciare dal principio di uguaglianza, riconoscimento e tutela dei diritti sociali e del lavoro, ripudio della guerra, limitazioni di sovranità in condizioni di parità) che, al contrario, per consolidata giurisprudenza costituzionale sono considerati immodificabili. Queste due fonti hanno origini e programmi politici e culturali profondamente diversi e sotto certi aspetti antitetici. I trattati traducono in economia un programma liberale-liberista e consolidano una tecnocrazia a-democratica sul versante politico.
Le Costituzioni, in particolare la nostra, mirano invece ad una democrazia sociale con un’economia mista e con una significativa presenza del pubblico nei settori nevralgici per l’economia e la società quali industria, scuola, salute, credito, energia. In questo si traduce la forte affermazione di un principio di eguaglianza formale e sostanziale, di diritti e libertà nella I parte della Carta, che fu ad un tempo la novità storica della Costituzione del 1947 e la chiave per la sintesi delle diverse culture politiche che in essa si ritrovarono. Ma la I parte della Costituzione chiede di essere attuata e presuppone, a tal fine, politiche appropriate. Ma gli indirizzi di governo si definiscono nelle forme che assumono le istituzioni e ne sono decisivamente condizionati. L’attuazione della I Parte della Costituzione presuppone una forma di governo parlamentare incardinata su assemblee elettive ampiamente rappresentative. Come ha statuito la Corte costituzionale dichiarando la illegittimità costituzionale del Porcellum con la sent. 1/2014, rappresentanza politica, partecipazione democratica, voto libero e uguale sono le pietre angolari della nostra democrazia, e ne definiscono la forma e la sostanza. Questo assetto è radicalmente negato dalla riforma della Costituzione ora proposta, con la soppressione del Senato elettivo e la concentrazione del potere su Palazzo Chigi. Parimenti stravolgente è la legge elettorale già approvata, per la previsione di un altissimo premio di maggioranza a un solo partito, l’eventualità di un ballottaggio senza soglia, parlamentari in prevalenza sottratti alla scelta degli elettori con il voto bloccato sui capilista. “Riforme” devastanti, poste in essere da un parlamento sostanzialmente delegittimato per la certificata incostituzionalità del suo fondamento elettorale, e da maggioranze posticce alimentate dai cambi di casacca e pronte a ogni forzatura delle norme costituzionali e regolamentari. “Riforme” che non si giustificano certo con gli esili argomenti di una governabilità che rimane solo apparente e di irrisori risparmi nei costi delle istituzioni.
Questo contrasto deve essere sciolto opponendo per via referendaria alle politiche in atto la voce del popolo, e anzitutto vincendo il referendum costituzionale.
E ciò deve essere il primo passo per ripristinare la democrazia sociale costituzionale; a seguito del quale rivedere l’aberrante modifica dell’art.81 della Costituzione.
Votare NO nel referendum costituzionale significa, dunque, votare contro la tecnocrazia sovranazionale che, grazie alla presente manomissione della Costituzione potrà appoggiarsi ad una monocrazia nazionale, ancor più vassalla delle oligarchie europee e del capitale transnazionale, che continuerà ad affossare lo sviluppo del paese con ancor più risolutezza.
Il NO nel referendum è un SI’ al rilancio della democrazia prevista nella nostra Costituzione fondata sulla sovranità popolare. Primi firmatari: Bruno Amoroso, Paolo Bagnoli, Patrizia Bernardini, Lanfranco Binni, Michelangelo Bovero, Nicola Capone, Antonio Caputo, Francesco Cattabrini, Sergio Cesaratto, Angelo Raffaele Consoli, Anna Fava, Thomas Fazi, Gianni Ferrara, Guglielmo Forges Davanzati, Roberto Lamacchia, Gerardo Marotta, Massimiliano Marotta, Siliano Mollitti, Tomaso Montanari, Daniela Palma, Andrea Panaccione, Marco Veronese Passarella, Roberto Passini, Marcello Rossi, Mario G. Rossi, Luca Rovai, Cesare Salvi, Gianpasquale Santomassimo, Francesco Sylos Labini, Stefano Sylos Labini, Paolo Solimeno, Lanfranco Turci, Massimo Villone. Questo documento è stato elaborato all’interno dell’Associazione Hyperpolis, (www.Hyperpolis.it) in vista del referendum costituzionale che verrà indetto nel corrente anno. Per adesioni: redazione@Hyperpolis.it
Perché proporre l’uscita dall’euro?
di Riccardo Achilli da sinistrainrete
Un articolo di 2 anni fa che vale la pena di rileggere. Giudicate voi
Il motivo non è neanche quello riferito ai vantaggi esportativi da svalutazioni competitive. Tutti gli studi, ivi compreso uno recente di Tockarick (2010) pubblicato peraltro fra i working papers del FMI[1] , e che già tiene conto dell’effetto della partecipazione all’euro, mostrano che la condizione di Marshall-Lerner è verificata. Ma evidentemente l’argomento per uscire dall’euro non può essere quello che l’uscita ci migliora le esportazioni! Per questo, basterebbe una politica valutaria che guidi l’euro verso una svalutazione, ed il gioco sarebbe fatto, atteso che l’Italia sta destinando quote crescenti del suo export verso i mercati no-euro già da diversi anni a questa parte[2].
[1] S. Tockarick, “A Method for Calculating Export Supply and Import Demand Elasticities”, IMF, WP 10/180, luglio 2010
[2] Nel 2002, l’Italia esportava il 45,1% dei suoi beni nell’area-euro 12; nel 2013, tale quota è scesa al 34,2%.
[3]http://www.linkiesta.it/debito-pubblico-sinn
[4] E. Brancaccio, N. Garbellini, “Uscire o no dall’euro: gli effetti sui salari”, in Economia e Politica, 19 Maggio 2014, rinvenibile su http://www.economiaepolitica.it/distribuzione-e-poverta/uscire-o-non-uscire-dalleuro-gli-effetti-sui-salari-e-sulla-distribuzione-dei-redditi/#.VG2xqK7i3Wi
Perché proporre l’uscita dall’euro?
di Riccardo Achilli da sinistrainrete
Un articolo di 2 anni fa che vale la pena di rileggere. Giudicate voi
Il motivo non è neanche quello riferito ai vantaggi esportativi da svalutazioni competitive. Tutti gli studi, ivi compreso uno recente di Tockarick (2010) pubblicato peraltro fra i working papers del FMI[1] , e che già tiene conto dell’effetto della partecipazione all’euro, mostrano che la condizione di Marshall-Lerner è verificata. Ma evidentemente l’argomento per uscire dall’euro non può essere quello che l’uscita ci migliora le esportazioni! Per questo, basterebbe una politica valutaria che guidi l’euro verso una svalutazione, ed il gioco sarebbe fatto, atteso che l’Italia sta destinando quote crescenti del suo export verso i mercati no-euro già da diversi anni a questa parte[2].
[1] S. Tockarick, “A Method for Calculating Export Supply and Import Demand Elasticities”, IMF, WP 10/180, luglio 2010
[2] Nel 2002, l’Italia esportava il 45,1% dei suoi beni nell’area-euro 12; nel 2013, tale quota è scesa al 34,2%.
[3]http://www.linkiesta.it/debito-pubblico-sinn
[4] E. Brancaccio, N. Garbellini, “Uscire o no dall’euro: gli effetti sui salari”, in Economia e Politica, 19 Maggio 2014, rinvenibile su http://www.economiaepolitica.it/distribuzione-e-poverta/uscire-o-non-uscire-dalleuro-gli-effetti-sui-salari-e-sulla-distribuzione-dei-redditi/#.VG2xqK7i3Wi
Crescono paesi ribelli all’euro
di Tonino D’Orazio