Orban, Europa allo Specchio

(da Il Simplicissimus)


Scusate se oso farmi delle domande, circostanza che viola una delle leggi fondamentali della contemporaneità, ma questa faccenda del j’accuse di Bruxelles contro l’Ungheria puzza da qualsiasi parte la si rigiri, nonostante le certezze dei sempre indignati per partito preso. Lo posso fare perché questo blog ha denunciato già nel 2013, attraverso la penna di una intellettuale ungherese cosa stava accadendo a Budapest: Ungheria, prove tecniche di fascismo. Ma lo posso anche fare sulla base delle antinomie e delle contraddizioni che emergono da questa vicenda: come è possibile che a Bruxelles si condanni il regime di Orban per le limitazioni alla libertà di espressione quando quasi contemporaneamente si è approva una legge bavaglio nascondendola dietro il pretesto di arginare le major della rete? E’ certamente legittimo lamentarsi del fatto che l’Ufficio nazionale della magistratura sia stato messo sotto l’influenza politica diretta del governo, ma la dipendenza dei pubblici ministeri dal potere politico è qualcosa di diffuso in tutto il continente, salvo – per fortuna – che in Italia. Quanto agli attacchi del regime a questo o a quel magistrato ricordiamoci il ventennio berlusconiano, ma anche le polemiche in Francia sull’affaire Sarkozy. E per ciò che concerne i muri che vengono opposti alle politiche immigratorie imposte dalla Ue secondo criteri a dir poco grotteschi, esse sono ufficialmente condivise anche da altri Paesi come l’Austria e la Polonia, senza parlare del fatto che Bruxelles ha dato sei miliardi alla Turchia perché facesse da muro per i migranti.
La cosa ancor meno convincente è che tutto questo non è di ieri: la nuova costituzione che permette le cose deprecate dall’Ue è in vigore dal 2013, senza che la cosa abbia mai preoccupato più di tanto i maestrini di Bruxelles. Questi hanno cominciato a preoccuparsi quando la Banca di Ungheria è tornata sotto il controllo dello Stato e l’Fmi è stato tacitato con il pagamento anticipato del debito, tutte cose possibili grazie al fatto che l’Ungheria dispone ancora del Fiorino e non è facilmente ricattabile come la Grecia e l’Italia. Ma si è passati all’azione quando Orban ha cominciato ad attaccare direttamente Soros e la sua Central European University che rappresenta il cuore del progetto neo liberista globale: l’inatteso plebiscito ricevuto da Orban in aprile dagli elettori, ha convinto il magnate a spostare anche la sua famigerata Open Society da Bruxelles a Berlino.
Ora facciamo un apparente salto logico di qualche giorno e vediamo cosa ha detto Orban nel suo discorso a Strasburgo tenutosi prima della votazione: ha parlato di “schiaffo in faccia all’Ungheria” che “ha preso le armi contro il più grande esercito del mondo, l’esercito sovietico, e ha versato il suo sangue per la libertà”. Certo un modo un po’ strano per sottolineare l’alleanza di ferro con la Germania di Hitler, ma viste le vicende ucraine nelle quali il distacco dalla Russia viene giustificato dagli occidentali (e Soros c’entra parecchio anche in questo) con lo stesso argomento, il leader ungherese ha pensato che in qualche modo tali parole arrivassero al cuore di tenebra a quella sub cultura dell’Unione, mai esplicitata, ma in qualche modo operante al fondo di tante vicende. La testa neoliberista ci mette un attimo, come si è visto in Grecia, a galleggiare su un’anima grifagna e tirannica che si nasconde dietro un falso umanitarismo di comodo.
Del resto Viktor Orban nasce come personaggio interamente immerso in quel mondo: Il leader ungherese infatti è tutt’altro che un autoctono sarmatico, dal punto di vista culturale intendo, ma è una scheggia impazzita prodotta dal liberismo rampante degli anni ’90, l’ambiente con il quale ha tutt’ora fortissimi legami. Nell’1989, grazie a una borsa di studio della fondazione Soros, va a prendersi un master ad Oxford e l’anno dopo viene magicamente eletto nel Parlamento di Budapest; nel ’92 diviene leader di Fidesz, il partito conservatore che è tutt’oggi la prima forza politica del Paese; nel ’98 ascende per la prima volta al governo e in piena vicenda balcanica fa entrare l’Ungheria nella Nato; nel 2001 viene convocato da Bush e accetta di partecipare alla guerra infinita in Afganistan, in maniera così entusiasta da essere premiato da due organizzazioni parallele della Nato, la New Atlantic initiative e l’American enterprise institute. In seguito perde due elezioni consecutive vinte dai socialisti e torna al potere nel 2010. Qui inizia una seconda vita segnata dal rifiuto di entrare nell’euro, dalle rinazionalizzazioni (in particolare quella della banca centrale) e l’instaurazione di un regime autoritario con una legge elettorale liberticida e la Costituzione del 2013 che addirittura occhieggia alla monarchia e fa riferimento esplicito a vaste rivendicazioni territoriali.
Ora si dirà che questa frattura rispetto alle linee liberiste di Bruxelles e dell’Fmi gli dovrebbe aver alienato gli ambienti atlantisti e globalisti, anche se le previsioni di disastro economico preannunciate dai soloni economici non solo non si sono realizzate, ma l’Ungheria è uno dei Paesi del continente in cui c’è stata una crescita effettiva e non solo statistica. Però non è così: l’autoritarismo piace istintivamente alle elites economico – finanziarie e ai loro strumenti mediatici e militari: in realtà esse si sentono minacciate proprio dalla democrazia al punto che non perdono occasione di umiliarla, ridurla, disfarla nella noncuranza, salvo esportarne lo scalpo spolpato come feticcio da utilizzare nelle guerre del caos. Solo quando questo autoritarismo esce dai binari stabiliti e funzionali all’egemonia, si sottrae alle logiche globaliste o alle strategie messe a punto nei pensatoi dei ricchi, solo quando si traduce, insomma, in eresia, allora comincia il j’accuse.

Nel caso specifico Orban ha ecceduto in autonomia e sovranismo ed è per questo che la Costituzione in vigore da 5 anni e preparata, discussa, osteggiata nel totale silenzio, dai democratici ungheresi da 6, viene sanzionata solo ora come contraria ai principi europei, perché nel frattempo si è consumata una frattura ben più grave: il ritorno a logiche di cittadinanza che sia pure malamente interpretate, sono del tutto incompatibili con le visioni di una società diseguale e unicamente basata sul profitto. La società neoliberista insomma dove lo stato è solo un secondino dei poteri forti, dove non esiste una dimensione collettiva vera e propria, ma solo pulsioni individuali, attorno alle quali si addensa ciò che rimane dei diritti. Orban in fondo non è altro che l’immagine dell’ Europa oligarchica vista in uno specchio infranto, con destra e sinistra variamente invertite, dimensioni alterate, ma dove tratti e tendenze sono perfettamente riconoscibili.

Cosa Succede Davvero in Nicaragua?

di Kevin Zeese e Nils McCune (da Popular Resistance, 10 luglio 2018)
traduzione per Doppiocieco di Domenico D’Amico


Sul Nicaragua i media riportano una gran quantità di informazioni false e imprecise. Perfino a sinistra alcuni hanno semplicemente riportato le affermazioni discutibili della CNN e dei media oligarchici nicaraguensi che mirano alla rimozione del presidente Ortega. I media internazionali non hanno minimamente messo in discussione il quadretto di proteste non violente opposte alle squadre anti-sommossa e ai paramilitari di regime.
Questo articolo cerca di riequilibrare la situazione, descrivendo quel che accade in Nicaragua, e perché. Al momento in cui scriviamo, sembra che il golpe sia fallito, la gente ha manifestato per la pace (come dimostra questa imponente manifestazione di domenica 7 luglio), e la verità comincia a emergere (ad es. il deposito di armi scoperto il 9 luglio in una chiesa cattolica). È importante capire cosa sta succedendo perché il Nicaragua è un esempio del tipo di golpe violenti che Stati Uniti e classi abbienti utilizzano per instaurare governi neoliberisti e pro-business. Se la gente comprenderà queste tattiche, esse diventeranno meno efficaci.

Sandinisti e seguaci del presidente Daniel Ortega sventolano le loro bandiere sandiniste, marciando per la pace, a Managua, domenica 7 luglio. Dal Morning Sun.
Confondere gli interessi di classe
In parte, gli opinionisti statunitensi traggono le loro informazioni da fonti come La Prensa di Jaime Chamorro-Cardenal e il Confidencial (appartenente alla stessa famiglia di oligarchi), i più attivi tra i media pro-golpe. Riprendendo e amplificando quelle storie, delegittimizzano il governo sandinista e presentano la resa incondizionata di Daniel Ortega come unica opzione accettabile. Questi opinionisti forniscono l’appoggio per interessi interni ed esterni miranti al controllo delle nazioni più povere (ma ricche di risorse) dell’America Centrale.
Il tentato golpe ha portato allo scoperto le divisioni di classe del Nicaragua. Piero Coen, l’uomo più ricco del Nicaragua, gestore di tutte le operazioni nazionali della Western Union e di un’industria agro-chimica, si è fatto vivo personalmente il primo giorno delle proteste al Politecnico di Managua, per incoraggiare gli studenti a continuare nelle proteste, promettendo il suo supporto presente e futuro.
La tradizionale oligarchia terriera, guidata politicamente dalla famiglia Chamorro, diffonde coi media di sua proprietà continui ultimatum al governo, e finanzia i blocchi stradali che nelle ultime otto settimane hanno paralizzato il paese.
La Chiesa Cattolica, alleata di lunga data degli oligarchi, ha esercitato tutta la sua influenza nel creare e sostenere azioni antigovernative, utilizzando le proprie università, i licei, le chiese, conti bancari, veicoli, tweet, sermoni domenicali, e tentativi di mediazione nel Dialogo Nazionale, schierati però da una parte soltanto. Alcuni vescovi hanno pronunciato minacce di morte per il presidente e la sua famiglia, e un sacerdote è stato filmato mentre supervisiona la tortura di sandinisti. Papa Francesco ha invocato un dialogo per la pace, e ha perfino convocato in Vaticano il Cardinale Leonardo Brenes e il Vescovo Rolando Alvarezper un incontro privato, dando origine alla voce che i monseñores siano stati rimproverati per il loro palese coinvolgimento in un conflitto in cui ufficialmente sarebbero i mediatori. La Chiesa resta una delle poche colonne a tenere in piedi il tentato golpe.
È stata diffusa l’affermazione che Ortega stia corteggiando l’oligarchia tradizionale, ma è vero il contrario. Questo è il primo governo dall’indipendenza del Nicaragua che non includa membri dell’oligarchia. Sin dal 1830 fino agli anni 90 del 900, tutti i governi nicaraguensi – perfino durante la rivoluzione sandinista – hanno incluso elementi delle grandi famiglie, i Chamorro, Cardenal, Belli, Pellas, Lacayo, Montealegre, Gurdiàn. Il governo in carica dal 2007 non l’ha fatto, ed è per questo che quelle famiglie sostengono il golpe.
I detrattori di Ortega sostengono che il suo dialogo trilaterale tra sindacati, capitalisti e Stato sia di fatto un’alleanza col big business. Di fatto, invece, questo processo ha prodotto il più alto tasso di crescita dell’America Centrale, un aumento annuale del salario minimo del 5-7% rispetto all’inflazione, un miglioramento della condizione di vita dei lavoratori e una diminuzione della povertà. Il progetto anti-povertà Borgendocumenta una caduta del tasso di povertà del 30% tra il 2005 e il 2014.
Il governo a guid FSLN ha messo in opera un modello economico basato sugli investimenti pubblici e il rafforzamento degli ammortizzatori per le classi povere. Il governo investe nelle infrastrutture e nei trasporti, mantiene acqua ed elettricità nel settore pubblico, e ha spostato i servizi già privatizzati, cioè sanità e scuola primaria, anch’essi nel pubblico. Tutto questo ha assicurato una struttura economica stabile che favorisce l’economia reale rispetto a quella speculativa. Il grosso delle infrastrutture nicaraguensi è stato costruito negli ultimi 11 anni, una cosa paragonabile agli anni del New Deal negli Stati Uniti, incluse centrali a energia elettrica rinnovabile in tutto il paese.
Quello che i commentatori liberali (o perfino di sinistra) trascurano è che a differenza del governo Lula in Brasile, che ha ridotto la povertà tramite elargizioni in denaro alle famiglie povere, il Nicaragua ha redistribuito il capitale produttivo allo scopo di sviluppare un’economia popolare autosufficiente. Il modello dell’FSLN può essere meglio inquadrato come una maggior enfasi sull’economia popolare rispetto alle sfere statali o capitaliste.
Mentre il settore privato impiega circa il 15% dei lavoratori nicaraguensi, il settore informale ne occupa più del 60%. Il settore informale ha tratto beneficio di investimenti pubblici per 400 milioni di dollari, molti dei quali provenienti dai fondi ALBA destinati al finanziamento di piccole e medie imprese agricole. Altre iniziative, per facilitare il credito, le attrezzature, la formazione, l’acquisto di bestiame e combustibile, sono di ulteriore sostegno per queste imprese. I produttori piccoli e medi hanno permesso al paese di produrre l’80-90% del suo fabbisogno alimentare e di porre termine alla dipendenza dai prestiti dell’FMI.
Sono i lavoratori e i contadini – molti dei quali sono lavoratori autonomi che hanno avuto accesso a un capitale produttivo grazie alla rivoluzione sandinista e le sue lotte – a rappresentare un soggetto politico di peso nello stabile sviluppo sociale del dopoguerra, insieme alle centinaia di migliaia di piccoli coltivatori che hanno ottenuto la terra e quasi un quarto del territorio nazionale, collettivamente riconosciuto come territorio delle nazioni indigene. I movimenti sociali di lavoratori, contadini e indigeni sono stati la base del sostegno popolare che ha riportato l’FSLN al potere.
L’assegnazione delle terre e l’assistenza alla piccola impresa hanno anche incrementato l’uguaglianza per le donne, col risultato che il Nicaragua ha il livello più basso di disuguaglianza di genere in America Latina, e nel mondo si classifica al 12° posto su 145, proprio dopo la Germania.
Nel corso del tempo il governo dell’FSLN ha integrato questo vasto settore di lavoratori autonomi, così come i lavoratori delle maquiladoras (cioè quelli impiegati nelle industrie tessili di proprietà straniera situate nelle zone franche create dai precedenti governi neoliberisti) nel sistema sanitario e pensionistico, da qui la necessità di una nuova formula che assicurasse la stabilità fiscale. Le proposte di riforma della Sicurezza Sociale sono state la causa scatenante delle proteste del 18 aprile da parte del settore privato e degli studenti. La lobby affaristica ha indetto proteste quando Ortega ha proposto un aumento del 3,5% dei contributi ai fondi di sanità e pensioni da parte dei datori di lavoro, al contempo aumentando i contributi dei lavoratori appena dello 0,75% e riorientando il 5% dei contributi ai pensionati verso il loro fondo sanitario. La riforma rimediava anche a una scappatoia che permetteva a soggetti ad alto reddito di dichiararne uno più basso, ottenendo così accesso alle facilitazioni in campo sanitario.
Si trattava di una controproposta, a fronte della proposta del FMI che richiedeva l’innalzamento dell’età pensionabile e più del raddoppio dei contributi da versare in un fondo pensioni perché un lavoratore possa fruirne le indennità. Il fatto che il governo si senta abbastanza forte da respingere le pretese di austerity da parte di FMI e lobby affaristica è stato un segno del declino del potere contrattuale del capitale privato, dato che l’impressionante crescita economica del Nicaragua, dal 2006 al 2017 un aumento del PIL del 38%, è stata guidata da piccoli produttori e dalla spesa pubblica. Tuttavia, l’opposizione ha utilizzato messaggi ingannevoli via Facebook che presentavano la riforma come una misura di austerity, con l’aggiunta della notizia falsa della morte di uno studente il 18 aprile, allo scopo di generare il 19 aprile proteste in tutto il paese. Immediatamente, la macchina del cambiamento di regime si è messa in moto.
Il Dialogo Nazionale evidenzia gli interessi di classe che si contrappongono. Il partito d’opposizione Alleanza Civica per la Giustizia e la Democrazia presenta queste figure chiave: José Adan Aguirre, leader della lobby dell’impresa privata; Maria Nelly Rivas, direttrice della Cargill in Nicaragua e capo della Camera di Commercio USA-Nicaragua; gli studenti delle università private del Movimento 19 Aprile; Michael Healy, manager di una corporation colombiana dello zucchero e capo della lobby agroalimentare; Juan Sebastian Chamorro, che rappresenta l’oligarchia travestita da società civile; Carlos Tunnermann, ex ministro sandinista di 85 anni ed ex rettore onorario dell’Università Nazionale; Azalea Solis, leader di un’organizzazione femminista finanziata dal governo statunitense; e Medardo Mairena, “leader contadino” finanziato dal governo USA, che ha vissuto per 17 anni in Costa Rica, prima di essere espulso per traffico di esseri umani. Tunnerman, Solis e gli studenti del 19 Aprile sono tutti associati al Movimento per il Rinnovamento del Sandinismo (MRS), una ramificazione sandinista minuscola ma meritevole di particolare attenzione.
Negli anni 80, molti dei quadri di punta del Fronte Sandinista erano costituiti di fatto dai figli di alcune delle più famose famiglie di oligarchi, quali i fratelli Cardenal e parte della famiglia Chamorro, rispettivamente a capo dei ministeri della Cultura ed Educazione del governo rivoluzionario e dei suoi media. Dopo la sconfitta elettorale dell’FSLN del 1990, i figli dell’oligarchia misero in atto un esodo dal partito. Insieme a loro fuoriuscirono alcuni dei quadri più in vista nel settore intellettuale, militare e di intelligence, formando, nel tempo, l’MRS. Il nuovo partito ripudiò il socialismo, attribuì a Daniel Ortega tutti gli errori della rivoluzione, e prese col tempo il controllo del settore delle ONG in Nicaragua, incluse organizzazioni femministe, ambientaliste, giovanili, mediatiche e per i diritti umani.
Sin dal 2007, l’MRS si è avvicinato sempre di più all’estrema destra del Partito Repubblicano statunitense. Dall’inizio della violenza di aprile, la maggior parte, se non la quasi totalità delle fonti citate dai media occidentali (inclusa, ed è inquietante, Democracy Now! di Amy Goodman) proviene da questa formazione, che ha il sostegno di meno del 2% dell’elettorato nicaraguense. Ciò consente agli oligarchi di nascondere il tentativo violento di reinstaurare il neoliberismo dietro le formule in apparenza di sinistra di ex sandinisti critici del governo Ortega.
Affermare che operai e contadini siano all’origine dei disordini è grottesco. La Vìa Campesina, il Sindacato Nazionale Coltivatori e Allevatori, l’Associazione dei Lavoratori Rurali, il Fronte Nazionale dei Lavoratori, l’indigena Nazione Mayangna e altri movimenti e organizzazioni sono state chiarissime nel pretendere la fine delle violenze e nel loro sostegno al governo Ortega. Questi disordini sono un’operazione di cambio di regime a tutto campo, portata avanti dall’oligarchia dei media, una rete di ONG finanziate dal governo statunitense, elementi armati delle famiglie latifondiste e della Chiesa Cattolica, e ha offerto l’opportunità ai cartelli della droga e al crimine organizzato di farsi spazio in Nicaragua.

Incontro del Dialogo Nazionale per la Pace di Óscar Sánchez
L’Elefante nella Stanza
Il che ci porta al coinvolgimento del governo statunitense nel violento tentativo di golpe.
Come ha riferito Tom Ricker già all’inizio di questa crisi politica, parecchi anni fa il governo statunitense decise che piuttosto che finanziare i partiti politici di opposizione, che in Nicaragua hanno perso quasi ogni legittimazione, avrebbe finanziato il settore ONG della società civile. La National Endowment for Democracy (NED) ha speso più di 700.000 dollari per mettere su un’opposizione la governo nel 2017, e dal 2014 ne ha stanziati 4,4 milioni. Lo scopo generale di questi finanziamenti era quello di “fornire una strategia coordinata e una voce mediatica ai gruppi di opposizione in Nicaragua”. Ricker prosegue così:
Il risultato dell’assemblaggio e finanziamento delle organizzazioni di opposizione è stato quello di creare uno spazio informativo chiuso e autoreferenziale [echo chamber] che viene amplificato dai commentatori dei media internazionali – la maggior parte dei quali non ha corrispondenti nel paese e si affida a queste fonti secondarie”.
Il padre fondatore della NED, Allen Weinstein, ha descritto la NED come una CIA allo scoperto, dicendo: “Molto di quello che facciamo oggi, la CIA lo faceva clandestinamente 25 anni fa”. In Nicaragua, al posto della destra tradizionale, la NED finanzia le organizzazioni affiliate all’MRS, che fingono una critica di sinistra al governo sandinista. Gli attivisti del cambio di regime utilizzano slogan, simboli e canzoni sandiniste, perfino mentre stanno dando fuoco a monumenti storici, ricoprono le immagini in rosso e nero che commemorano i martiri caduti, e attaccano fisicamente membri del partito Sandinista.
Tra i gruppi di opposizione che partecipano al Dialogo Nazionale, l’organizzazione femminista di Azalea Solis e quella contadina di Medardo Mairena vengono finanziate attraverso sovvenzioni della NED, mentre gli studenti del 19 Aprile risiedono in hotel e fanno viaggi pagati dalla Freedom House, un altro organo finalizzato ai cambi di regime, anch’esso finanziato da NED e USAID. La NED finanzia anche Confidencial, l’organizzazione mediatica di Chamorro. Sovvenzioni della NED finanziano anche l’Istituto di Studi Strategici e Politica Pubblica (IEPP), il cui direttore esecutivo, Felix Maradiaga, è un altro quadro dell’MRS molto vicino all’ambasciata statunitense. In giugno Maradiaga è stato accusato di dirigere una rete criminale denominata Viper che, con base il campus occupato della UPOLI, organizzava sequestri di veicoli, incendi dolosi e omicidi al fine di creare caos e panico durante i mesi di aprile e maggio. Maradiaga è cresciuto negli Stati Uniti, dove divenne membro dell’Aspen Leadership Institute, prima di studiare politiche pubbliche ad Harvard. È stato segretario presso il Ministero della Difesa dell’ultimo presidente liberale, Enrique Bolaños. È un Young Global Leader presso il World Economic Forum, e nel 2015 il Chicago Council on Global Affairs lo ha premiato con la Gus Hart Fellowship, i cui precedenti destinatari sono stati la dissidente cubana Yoani Sánchez e Henrique Capriles Radonski, il leader dell’opposizione venezuelana che ha attaccato l’ambasciata cubana durante il tentato golpe del 2002.
È interessante notare come Maradiaga non sia l’unico leader golpista membro dell’Aspen World Leadership Network. Maria Nelly Rivas, direttrice in Nicaragua del colosso statunitense Cargill, è una delle principali portavoce del gruuppo di opposizione Civic Alliance. Rivas, al momento anche capo della Camera di Commercio USA-Nicaragua, si sta preparando come possibile candidata alle prossime elezioni presidenziali. Dietro questi leader formati dagli Stati Uniti c’è una rete di oltre duemila giovani, addestrati con fondi della NED all’uso di abilità nei social media per la difesa della democrazia. Questo battaglione di guerrieri dei social è stato in grado di plasmare da subito e controllare l’opinione pubblica di Facebook nei cinque giorni dal 18 aprile al 22, portando a violente proteste spontanee in tutto il paese.

Contestatori gridano dietro le barricate erette per fronteggiare le forze di sicurezza, presso l’università Politecnica de Nicaragua, Managua, il 21 aprile 2018 (Fonte: Voice of America)
Parlando di Violenza
Uno dei modi in cui l’informazione riguardo il Nicaragua si è maggiormente allontanata dalla verità è stato quello di definire l’opposizione come “non violenta”. Il copione della violenza, modellato sulle manifestazioni guarimbadel 2014 e 2017 in Venezuela, consiste nell’organizzare assalti armati contro sedi governative, inducendo la polizia a inviare le squadre antisommossa, filmare gli scontri e poi diffondere materiale montato in modo da poter affermare che è il governo a essere violento contro una protesta non violenta.
Sono stati dati alle fiamme più di 60 edifici governativi, sono stati attaccati ospedali, scuole, ambulatori, danneggiate 55 ambulanze, con danni alle infrastrutture di 112 milioni di dollari, piccole attività hanno chiuso i battenti, e sono andati in fumo 200.000 posti di lavoro, infliggendo al paese, durante le proteste, un devastante danno economico.
Queste violenze, oltre alle migliaia di feriti, hanno portato alla morte di 15 studenti e 16 funzionari di polizia, così come al sequestro di più di 200 sandinisti, molti dei quali sono stati torturati pubblicamente. Atrocità commesse dall’opposizione sono state falsamente attribuite alla repressione governativa. Se è importante difendere il diritto del pubblico alla contestazione, a prescindere da quali siano le sue opinioni politiche, sarebbe ipocrita ignorare che la strategia di quest’opposizione necessita e si alimenta di morte e violenza.
I notiziari nazionali e internazionali attribuiscono morti e feriti alla “repressione” senza chiarire il contesto. I media ignorano le bombe molotov, i mortai, le pistole e i fucili d’assalto usati dai gruppi d’opposizione, e quando simpatizzanti sandinisti, poliziotti o semplici passanti vengono uccisi, essi vengono falsamente messi in conto alla repressione di stato. Affermazioni clamorose dell’opposizione, riguardo massacri di bambini e uccisioni di donne, si sono dimostrate false, e i casi di tortura, sparizioni ed esecuzioni extra-giudiziarie da parte delle forze di polizia non sono state confermate da proveo legittime investigazioni. È vero che ci sono prove che confermano le dichiarazioni dell’opposizione sui cecchini che hanno tirato contro contestatori, uccidendoli, ma non c’è spiegazione logica all’uso di cecchini da parte dello stato all’unico scopo di aumentare il numero dei morti, e visto che anche contro-contestatori sono rimasti vittime del fuoco dei cecchini, questo potrebbe suggerire un’opera di “provocazione” di una terza parte interessata alla violenza destabilizzatrice. Quando un’intera famiglia di sandinisti è stata bruciata viva a Managua, tutti i media di opposizione hanno citato un testimone che affermava che era stata la polizia a dare fuoco alla casa, malgrado questa si trovasse in un quartiere chiuso da barricate che impedivano l’accesso alle forze dell’ordine.
La polizia Nazionale del Nicaragua è da tempo ben considerata per il suo modello di interazione con la comunità (in contrasto con la polizia militarizzata di molti paesi dell’America Centrale), la relativa mancanza di corruzione e i gradi alti occupati in prevalenza da donne. La strategia golpista ha cercato di distruggere la fiducia del pubblico nella polizia attraverso il massiccio uso di false notizie, come quelle relative a insistenti assassinii , pestaggi, torture e sparizioni durante la settimana tra il 17 e il 23 aprile. Molte persone di giovane età, le cui foto quali vittime della violenza poliziesca venivano inalberate nelle manifestazioni dell’opposizione, sono risultate vive e vegete.
La polizia si è rivelata decisamente inadeguata e impreparata in una situazione di conflitto armato. Gli attacchi contro edifici pubblici effettuati in una sola notte e il primo dei più gravi incendi dolosi hanno spinto gli impiegati pubblici alla vigilanza notturna, provvisti di bidoni pieni d’acqua e, spesso, anche di pietre e bastoni per respingere gli attaccanti. L’opposizione, frustrata perché non riusciva a ottenere maggiori conflitti con la polizia, ha cominciato a costruire barricate per tutto il paese e bruciare le case dei sandinisti, arrivando perfino a uccidere e bruciare intere famiglie, in atroci crimini d’odio. Contrariamente a quanto riferito da La Prensa, i nicaraguensi si accorti benissimo dell’assenza della polizia e della mancanza di sicurezza nei loro quartieri, e molti di loro sono stati vittima di violenze.
A partire da maggio, la strategia dell’opposizione è stata quella di costruire blocchi stradali per tutto il paese, impedendo i trasporti e intrappolando i cittadini. I blocchi, di solito costruiti con grosse lastre stradali, sono presidiati da 5 fino a 100 uomini armati, con indosso bandane o maschere. Mentre i media raccontano di giovani idealisti in cima alle barricate, la stragrande maggioranza dei blocchi stradali sono tenuti da uomini a libro paga dal curriculum di piccola delinquenza. Quando a essere bloccate sono vaste aree urbane, ed è impedito l’accesso alle forze governative e di polizia, le attività legate alla droga si intensificano, e adesso bande di spacciatori controllano e finanziano molti dei blocchi.
Questi blocchi stradali sono stati teatro di violenze, i lavoratori che hanno bisogno di attraversarli vengono spesso derubati, presi a pugni, insultati e, se sospettati di essere sandinisti, legati, denudati, torturati, dipinti di blu e bianco, e talvolta uccisi. Ci sono stati tre casi di persone decedute dentro ambulanze impossibilitate a superare i blocchi, e il caso di una bambina di dieci anni sequestrata e stuprata presso un blocco di Las Maderas. Quando cittadini organizzati o la polizia elimina un blocco, i gruppi armati si dileguano per poi riorganizzarsi per dare fuoco a edifici, sequestrare o ferire qualcuno per vendetta. Tutte le vittime causate da questa violenza vengono attribuite dai media principali alla repressione governativa, una falsità integrale.
Il governo nicaraguense ha affrontato questa situazione per lo più tenendo la polizia lontano dalle strade, per prevenire scontri e accuse di repressione. Al contempo, invece che arrestare i contestatori violenti, il che avrebbe fornito all’opposizione i martiri cui aspira, il governo ha indetto un Dialogo Nazionale, mediato dalla Chiesa Cattolica, nel quale l’opposizione possa avanzare qualsiasi proposta relativa a diritti umani e riforme politiche. Il governo ha istituito una Commissione per la Verità e per la Pace, insieme all’inchiesta di un Pubblico Ministero indipendente.
Con la polizia assente nelle strade, la violenza dell’opposizione in maggio e in giugno si è intensificata. Di conseguenza, si è sviluppato un processo di autodifesa di quartiere. Famiglie ritrovatesi senza casa, giovani che sono stati picchiati, derubati o torturati, insieme a veterani dell’insurrezione del 1979 e/o della guerra dei Contras, sorvegliano le sedi del Fronte Sandinista in ogni centro urbano. In molti posti costruiscono barricate contro gli attacchi dell’opposizione, e i media li hanno falsamente definiti forze paramilitari. Nei luoghi dove non esistono queste barricate comunitarie il prezzo in vite umane della violenza dell’opposizione è molto più ingente. Il Sindacato Nazionale degli Studenti Nicaraguensi è stato particolarmente oggetto della violenza dell’opposizione. Uno studente delegato presso il Dialogo Nazionale, Leonel Morales, è stato sequestrato, ferito all’addome con un’arma da fuoco e gettato a morire in un fossato, sia per sabotare il dialogo sia per punirlo per aver messo in dubbio il diritto degli studenti del 19 Aprile di parlare a nome di tutti gli studenti nicaraguensi.
Da aprile si sono svolte quattro grandi manifestazioni dell’opposizione, con l’intento di mobilitare i nicaraguensi di classe medio-alta che vivono nei sobborghi tra Managua e Masaya. A queste manifestazioni ha partecipato il gotha dell’alta società, incluse reginette di bellezza, uomini d’affari, oligarchi, insieme agli studenti del Movimento 19 Aprile, facciata virtuosa dell’opposizione [the moral high-ground fore the opposition].
Dopo tre mesi di disordini, non c’è stata una sola vittima di estrazione borghese. Provengono tutte dalle classi popolari del Nicaragua. Nonostante si gridi alla più totale delle repressioni, i borghesi si sentono perfettamente al sicuro quando partecipano alle manifestazioni diurne – per quanto l’ultima manifestazione sia degenerata in un caotico assalto, da parte dei dimostranti, contro degli abusivi che occupavano, cosa curiosa, una proprietà di Piero Coen, l’uomo più ricco del Nicaragua. Gli assalti a mano armata condotti di notte vengono in genere eseguiti da gente che viene dai quartieri poveri, che per lo più riceve un compenso da due a quattro volte la paga minima giornaliera, in cambio di una notte di distruzione.
Sfortunatamente, la maggior parte delle organizzazioni per i diritti umani del Nicaragua è finanziata dalla NED e controllata dal Movimento per il Rinnovamento del Sandinismo. Queste organizzazioni hanno accusato il governo nicaraguense di essere dittatoriale e genocida durante tutta la presidenza Ortega. Le organizzazioni internazionali per i diritti umani, inclusa Amnesty International, sono state criticate per i loro resoconti unilaterali, che omettono qualsiasi informazione proveniente dal governo o da individui che si identificano come sandinisti.
Il governo ha invitato la Commissione Inter-Americana per i Diritti Umani (IACHR) dell’OAS, un’istituzione con base a Washington notoriamente ostile nei confronti dei governi di sinistra, di condurre un’inchiesta sugli avvenimenti di aprile e determinare se ci sia stata o meno repressione. Le stessa sera in cui una controversa scaramuccia sulla sopraelevata vicino all’Università Agraria di Managua terminava con una tregua negoziata di 48 ore, il direttore dell’IACHR Paulo Abrao si è recato sul posto per manifestare il suo sostegno all’opposizione. L’IACHR ha ignorato la diffusa violenza esercitata dall’opposizione, documentando solo la violenza difensiva del governo. Queste dichiarazioni sono state respinte categoricamente dal cancelliere Denis Moncada, che le ha definite un “insulto alla dignità del popolo nicaraguense”, e inoltre la risoluzione che approvava il resoconto dell’IACHR ha trovato il sostegno di soli 10 paesi su 34.
Nel frattempo, il Movimento 19 Aprile, composto da studenti ed ex studenti universitari favorevoli al cambio di regime, mandavano una delegazione a Wasington, e riuscivano a inimicarsi gran parte del pubblico nicaraguense, ghignando in foto assieme a membri interventisti di estrema destra del Congresso statunitense, Ileana Ros Lehtinen, Marco Rubio e Ted Cruz tra gli altri. I leader del Movimento hanno anche applaudito il vicepresidente Mike Pence e il suo monito bellicoso che il Nicaragua sia sulla lista dei paesi che presto conosceranno cosa intende per libertà l’amministrazione Trump; hanno avuto inoltre incontri con il partito ARENA di El Salvador, noto per i suoi legami con gli squadroni della morte responsabili dell’assassinio dell’Arcivescovo Oscar Romero, sostenitore della Teologia della Libertà. All’interno del Nicaragua, la massa critica delle proteste studentesche si è esaurita settimane fa, le grandi manifestazioni civili di protesta di aprile e maggio sono venute meno, lasciando in mano alle solite vecchie facce della politica di destra il conto degli enormi danni materiali e delle vite perdute.

Studenti nicaraguensi si incontrano coi Repubblicani di destra Marco Rubio e Ileana Ros Lehtinen, a Washington, D.C. – Fonte: Twitter di Thruthdig
Perché il Nicaragua?
Nel 2016 Ortega ha vinto la sua terza presidenza col 72,4% dei voti, data un’affluenza del 66%, molto alta in confronto a quella delle elezioni statunitensi. Non solo il Nicaragua ha dato inizio a un’economia che tratta i poveri come classe produttiva, alzando il loro livello di vita in modo rimarchevole negli ultimi dieci anni, ma ha anche un governo coerentemente contrario all’imperialismo degli USA, e alleato invece con Cuba, Venezuela e Palestina, oltre a sostenere l’indipendenza di Porto Rico e una soluzione pacifica per la crisi coreana. Il Nicaragua è membro dell’Alleanza Bolivariana delle Americhe e della Comunità degli Stati Latinoamericani e Caraibici (un’alternativa latinoamericana alla OAS), nessuna delle quali include Stati Uniti o Canada. Il Nicaragua ha stretto un’alleanza con la Cina per il progetto di un nuovo canale [alternativo a quello panamense], e con la Russia per le politiche di sicurezza. Per tutte queste ragioni gli USA vogliono installare in Nicaragua un governo ben disposto nei loro confronti.
Di ancora più grande importanza è l’esempio che il Nicaragua offre come modello sociale ed economico al di fuori della sfera di dominio statunitense. Ricavando più del 75% della propria energiada fonti rinnovabili, il Nicaragua è stato l’unico paese a possedere l’autorità morale per opporsi agli accordi di Parigi sul clima, giudicandoli troppo blandi (in seguito ha aderito, il giorno dopo il ritiro degli USA di Trump, con l’affermazione: “Noi ci siamo opposti agli accordi di Parigi per senso di responsabilità, gli Stati Uniti si oppongono per senso di irresponsabilità”). Il governo FMLN di El Salvador, anche se meno maggioritario di quello del Fronte Sandinista, ha preso l’esempio di buon governo dal Nicaragua, proibendo di recente l’estrazione di metalli [per motivi ecologici] e la privatizzazione dell’acqua. Perfino l’Honduras, eterno bastione del potere statunitense in America Centrale, aveva mostrato segni di una svolta a sinistra, fino al golpe del 2009 sostenuto dagli USA. Da allora si è attivata una massiccia repressione contro gli attivisti in campo sociale, ci sono state le elezioni del 2017, palesemente truccate, e il paese ha permesso l’incremento delle basi militari statunitensi vicine al confine col Nicaragua.
Nel 2017 la Camera degli Stati Uniti ha votato all’unanimità il Nicaraguan Investment Conditionality Act (NICA Act), che se approvato anche dal Senato costringerà il governo statunitense a porre il suo veto a prestiti da parte di enti internazionali a favore del governo nicaraguense. Quest’atto di imperialismodanneggerà gravemente, tra l’altro, le possibilità del Nicaragua di costruire strade, riqualificare ospedali, costruire impianti di energia rinnovabile, e una transizione da una situazione di allevamento intensivo a un sistema integrato con la silvicoltura. Potrebbe anche significare la fine di molti popolari programmi sociali, come i contributi per le spese elettriche, un calmiere dei prezzi nei trasporti urbani e le cure gratuite per i malati cronici. L’esecutivo statunitense ha utilizzato il Global Magnitsky Act allo scopo di prendere di mira, in Nicaragua, le finanze di membri del Tribunale Elettorale Supremo, la Polizia Nazionale, il governo di Managua e l’ALBA. Funzionari di polizia o della sanità pubblica si sono visti revocato il visto per entrare negli Stati Uniti. Il punto, ovviamente, non è se questi funzionari abbiano o meno commesso atti passibili di sanzioni in Nicaragua, ma se il governo degli Stati Uniti possa avere il diritto legale di intimidire e mettere all’angolo pubblici ufficiali del Nicaragua.
Nonostante il proseguire di atti di sadica violenza, la strategia dei golpisti che mirava alle dimissioni del governo è fallita. La risoluzione della crisi politica avverrà tramite le elezioni, e l’FSLN probabilmente le vincerà, sbarrando la strada una nuova, drammatica e improbabile offensiva dell’opposizione di destra.

Presidenti dell’America Latina: Zelaya (Honduras), Correa (Ecuador), Chavez (Venezuela), Ortega (Nicaragua) e Morales (Bolivia) celebrano il secondo mandato di Correa, a Quito, Ecuador. Fonte: Prensa Presidencial
Lotta di Classe alla Rovescia
È importante comprendere la natura dei colpi di stato gestiti dagli Stati Uniti e dalle oligarchie, e del ruolo delle menzogne di media e ONG, perché è un meccanismo che si ripete in svariati paesi dell’America Latina e di altri continenti.
Possiamo aspettarci attacchi del genere contro Andrés Manuel López Obrador in Messico, se perseguirà i cambiamenti che ha promesso.
Gli Stati Uniti hanno cercato di dominare il Nicaragua sin dalla metà dell’800. Le classi abbienti del Nicaragua hanno operato per il ritorno a una politica filostatunitense sin dalla presa del potere dei sandinisti. Il fallimento di quest’ultimo tentativo di golpe non pone certo fine ai loro sforzi, e nemmeno alla disinformazione dei media corporativi. La conoscenza di ciò che avviene realmente e la condivisione di tale conoscenza è l’antidoto che può sconfiggerli, sia in Nicaragua sia nel resto del mondo.
Il Nicaragua assiste a una lotta di classe rovesciata. Il governo ha migliorato la qualità della vita della maggioranza impoverita tramite una redistribuzione della ricchezza. Gli oligarchi e gli Stati Uniti, non potendo imporre il neoliberismo con le elezioni, hanno creato una crisi politica, esacerbata dai media menzogneri, per costringere Ortega a dare le dimissioni. Il golpe sta fallendo, la verità comincia a emergere e non bisogna dimenticarla.
Kevin Zees è avvocato e co-direttore di Popular Resistance (USA).
Nils McCune fa parte dello staff tecnico di IALA Mesoamerica (Istituto Agroecologico dell’America Latina in Nicaragua) e ricercatore associato alla University of Michigan.

Nancy Fraser: La fine del neoliberismo progressista

da rifondazione.it 

[Pubblichiamo la traduzione di due articoli della femminista americana Nancy Fraser dal sito della rivista DISSENT. Il primo The end of “progressive neoliberalism” è del 2 gennaio 2017, il secondo Against Progressive Neoliberalism, A New Progressive Populism è stato pubblicato il 28 gennaio ed è una replica a un articolo critico di Johanna Brenner There Was No Such Thing as “Progressive Neoliberalism” del 14 gennaio. Nancy Fraser ha lanciato insieme a Angela Davis e altre femministe americane l’appello per uno sciopero internazionale e militante per l’8 marzo]

L’elezione di Donald Trump rappresenta una della serie di drammatiche rivolte politiche che insieme segnalano un crollo dell’egemonia neoliberista. Queste rivolte comprendono tra le altre il voto per la Brexit nel Regno Unito, il rifiuto delle riforme di Renzi in Italia, la campagna di Bernie Sanders per la nomination del Partito Democratico negli Stati Uniti e il sostegno crescente per il Fronte Nazionale in Francia. Anche se differiscono per  ideologia e obiettivi, questi ammutinamenti elettorali condividono un bersaglio comune: sono tutti dei rifiuti della globalizzazione delle multinazionali, del neoliberismo e delle istituzioni politiche che li hanno promossi. In ogni caso, gli elettori stanno dicendo “No!” alla combinazione letale di austerità, libero commercio, debito predatorio e lavoro precario mal pagato che caratterizza il capitalismo finanziarizzato oggi. I loro voti sono una risposta alla crisi strutturale di questa forma di capitalismo che si è prima materializzata con il quasi crollo dell’ordine finanziario globale nel 2008.

Fino a tempi recenti, però, la risposta principale alla crisi era la protesta sociale – drammatica e vivace, di sicuro, ma in gran parte effimera. I sistemi politici, al contrario, sembravano relativamente immuni, ancora controllati da funzionari di partito e dalle élite dell’establishment, almeno negli stati capitalistici potenti come gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Germania. Ora, però, le onde d’urto elettorali si riverberano in tutto il mondo, anche nelle cittadelle della finanza globale. Coloro che hanno votato per Trump, come quelli che hanno votato per la Brexit e contro le riforme italiane, sono insorti contro i loro padroni politici. Prendendo per il naso la classe dirigente di partito, hanno ripudiato il sistema che ha eroso le loro condizioni di vita negli ultimi trent’anni. La sorpresa non è che lo hanno fatto, ma che ci abbiano messo così tanto tempo.

Tuttavia, la vittoria di Trump non è solo una rivolta contro la finanza globale. Ciò che i suoi elettori hanno respinto non era il neoliberismo tout court, ma il neoliberismo progressista. Questo può sembrare ad alcuni come un ossimoro, ma è un reale, anche se perverso, allineamento politico che costituisce la chiave per comprendere i risultati elettorali degli Stati Uniti e forse alcuni sviluppi anche altrove. Nella sua forma degli Stati Uniti, il neoliberismo progressista è un’alleanza tra correnti mainstream dei nuovi movimenti sociali (femminismo, anti-razzismo, multiculturalismo, e diritti LGBTQ), da un lato, e settori di business di fascia alta “simbolica” e basati sui servizi (Wall Street, Silicon Valley, e Hollywood), dall’altro. In questa alleanza, le forze progressiste sono effettivamente unite con le forze del capitalismo cognitivo, in particolare della finanziarizzazione. Tuttavia involontariamente le prime prestano il loro carisma a quest’ultima. Ideali come la diversità e la responsabilizzazione, che potrebbero in linea di principio servire scopi diversi, ora danno lustro a politiche che hanno devastato la produzione e quelle che un tempo erano le vite della classe media.

Il neoliberismo progressista si è sviluppato negli Stati Uniti nel corso degli ultimi tre decenni ed è stato ratificato con l’elezione di Bill Clinton nel 1992. Clinton è stato il principale artefice e portabandiera dei “Nuovi Democratici”, l’equivalente statunitense del “New Labour” di Tony Blair. Al posto della coalizione di lavoratori manifatturieri sindacalizzati, afro-americani e classi medie urbane del New Deal, ha forgiato una nuova alleanza di imprenditori, abitanti dei suburbi, nuovi movimenti sociali e giovani che proclamano tutti la loro buona fede moderna, progressista abbracciando la diversità, il multiculturalismo e i diritti delle donne. Mentre appoggiava questi concetti progressisti, l’amministrazione Clinton corteggiava Wall Street. Consegnando l’economia a Goldman Sachs, ha liberalizzato il sistema bancario e negoziato gli accordi di libero scambio che accelerarono la deindustrializzazione. Ad essere abbandonata fu la Rust Belt – un tempo roccaforte della democrazia sociale del New Deal, e ora la regione che ha consegnato il collegio elettorale a Donald Trump.

Quella regione, insieme ai nuovi centri industriali del sud, ha subito un grande colpo quando la finanziarizzazione galoppante si è dispiegata nel corso degli ultimi due decenni. Continuate dai suoi successori, tra cui Barack Obama, le politiche di Clinton hanno degradato le condizioni di vita di tutti i lavoratori, ma soprattutto degli occupati nella produzione industriale. In breve, il clintonismo ha una quota pesante di responsabilità per l’indebolimento dei sindacati, il declino dei salari reali, la crescente precarietà del lavoro e l’ascesa della famiglia a doppio stipendio (two–earner family) al posto del defunto salario familiare.

Come suggerisce questo ultimo punto, l’assalto alla sicurezza sociale è stato lucidato con una patina di carisma emancipatorio, preso in prestito dai nuovi movimenti sociali. Nel corso degli anni in cui la produzione si craterizzava, il paese brulicava di discorsi su “diversità”, “empowerment,” e “non-discriminazione.” Identificando il “progresso” con la meritocrazia, invece che con l’uguaglianza, questi termini hanno equiparato l’”emancipazione” con l’ascesa di una piccola elite di donne, minoranze e omosessuali “di talento” nella gerarchia aziendale dei vincenti che prendono tutto invece che con l’abolizione di quest’ultima. Queste interpretazioni liberal-individualiste del “progresso” gradualmente hanno sostituito le interpretazioni dell’emancipazione  più espansive, anti-gerarchiche, egualitarie, sensibili alla classe, anti-capitaliste che erano fiorite negli anni ’60 e ’70. Mentre la New Left declinava, la sua critica strutturale della società capitalistica sbiadiva, e la caratteristica mentalità liberal-individualista del paese si riaffermava, riducendo impercettibilmente le aspirazioni dei “progressisti” e degli autoproclamati esponenti della sinistra. Quella che sigillò l’accordo, però, è stata la coincidenza di questa evoluzione con l’ascesa del neoliberismo. Un partito dedito alla liberalizzazione dell’economia capitalistica trovò il suo compagno perfetto in un femminismo aziendale meritocratico focalizzato sul “farsi avanti” e “rompere il soffitto di cristallo”.

Il risultato è stato un “neoliberismo progressista” che mixava insieme ideali troncati di emancipazione e forme letali di finanziarizzazione. E’ stato quel mix che è stato respinto in toto dagli elettori di Trump. In prima fila tra coloro che sono stati abbandonati in questo nuovo mondo cosmopolita sono stati di sicuro gli operai industriali, ma anche manager, piccoli imprenditori, e tutti coloro che si basavano sull’industria nel Rust Belt e nel Sud, così come le popolazioni rurali devastate dalla disoccupazione e dalla droga. Per queste popolazioni, al danno della deindustrializzazione si è aggiunta la beffa del moralismo progressista, che li etichetta regolarmente come culturalmente arretrati. Rifiutando la globalizzazione, gli elettori di Trump hanno anche ripudiato il cosmopolitismo liberal identificato con essa. Per alcuni (se non tutti), è stato breve il passo a incolpare per il peggioramento delle loro condizioni la correttezza politica, le persone di colore, gli immigrati e i musulmani. Ai loro occhi, le femministe e Wall Street erano due gocce d’acqua, perfettamente unite nella persona di Hillary Clinton.

Ciò che ha reso possibile quella fusione è stata l’assenza di qualsiasi vera sinistra. Nonostante esplosioni periodiche, come Occupy Wall Street, che si è rivelata di breve durata, non vi era stata alcuna presenza prolungata della sinistra negli Stati Uniti per diversi decenni. Né c’è stata alcuna narrazione esauriente di sinistra che avrebbe potuto collegare le legittime rivendicazioni dei sostenitori di Trump con una critica smaccata della finanziarizzazione, da un lato, e con una visione anti-razzista, anti-sessista, e anti-gerarchica di emancipazione, dall’altro. Ugualmente devastanti, i potenziali legami tra lavoro e nuovi movimenti sociali sono stati lasciati languire. Scissi l’uno dall’altro, quei poli indispensabili di una valida sinistra sono stati a miglia di distanza, in attesa di essere contrapposti come antitetici. Almeno fino alla straordinaria campagna per le primarie di Bernie Sanders che ha lottato per unirli dopo qualche incitamento da Black Lives Matter. Facendo esplodere il buon senso neoliberista dominante, la rivolta di Sanders è stata il parallelo sul lato democratico di quella di Trump. Proprio mentre Trump stava rovesciando l’establishment repubblicano, Bernie non è riuscito per un soffio a sconfiggere la successora consacrata di Obama, i cui burocrati controllavano ogni leva di potere nel Partito Democratico. Tra di loro, Sanders e Trump hanno galvanizzato una grande maggioranza degli elettori americani. Ma solo il populismo reazionario di Trump è sopravvissuto.

Mentre lui ha facilmente rovesciato i suoi rivali repubblicani, compresi quelli favoriti dai grandi donatori e dai boss di partito, l’insurrezione di Sanders è stata effettivamente bloccata da un molto meno democratico Partito Democratico. Al momento delle elezioni generali, l’alternativa di sinistra era stata soppressa. Ciò che restava era la scelta di Hobson tra il populismo reazionario e il neoliberismo progressista. Quando la cosiddetta sinistra ha serrato le fila attorno a Hillary Clinton, il dado era tratto.

Ciononostante, e da questo punto in poi, questa è una scelta che la sinistra dovrebbe rifiutare. Invece di accettare i termini presentati a noi da parte delle classi politiche, che oppongono l’emancipazione alla protezione sociale, dobbiamo lavorare per ridefinirli attingendo al fondo vasto e crescente di repulsione sociale contro l’attuale ordine. Piuttosto che schierarsi con la finanziarizzazione-cum-emancipazione contro la protezione sociale, dovremmo costruire una nuova alleanza di emancipazione e di protezione sociale contro la finanziarizzazione. In questo progetto, che si basa su quello di Sanders, l’emancipazione non significa diversificare la gerarchia aziendale, ma piuttosto abolirla. E la prosperità non significa aumentare il valore delle azioni o il profitto aziendale, ma i prerequisiti materiali di una buona vita per tutti. Questa combinazione rimane l’unica risposta di principio e vincente nella congiuntura.

Io non ho versato lacrime per la sconfitta del neoliberismo progressista. Certo, c’è molto da temere da un’amministrazione Trump, razzista, anti-immigrati, anti-ecologica. Ma non dovremmo piangere né l’implosione dell’egemonia neoliberista, né la frantumazione del pugno di ferro del clintonismo sul Partito democratico. La vittoria di Trump ha segnato una sconfitta per l’alleanza di emancipazione e finanziarizzazione. Ma la sua presidenza non offre alcuna soluzione alla crisi attuale, nessuna promessa di un nuovo regime, nessuna egemonia sicura. Quello che abbiamo di fronte, piuttosto, è un interregno, una situazione aperta e instabile in cui i cuori e le menti sono in palio. In questa situazione, non c’è solo pericolo, ma anche opportunità: la possibilità di costruire una nuova new left.

Se questo avviene dipenderà in parte da alcuni gravi di coscienza tra i progressisti che hanno sostenuto la campagna della Clinton. Dovranno abbandonare il mito confortante, ma falso che hanno perso a causa di un “branco di miserabili”* (razzisti, misogini, islamofobi e omofobi) aiutati da Vladimir Putin e dall’FBI. Dovranno riconoscere la propria parte di colpa nel sacrificare la causa della tutela sociale, del benessere materiale, e della dignità della classe lavoratrice a false interpretazioni dell’emancipazione in termini di meritocrazia, diversità, e empowerment. Dovranno riflettere profondamente su come potremmo trasformare l’economia politica del capitalismo finanziarizzato, facendo rivivere lo slogan “socialismo democratico” di Sanders e capire cosa possa significare nel ventunesimo secolo. Dovranno, soprattutto, raggiungere la massa degli elettori di Trump che non sono né razzisti, né impegnati esponenti della destra, ma essi stessi vittime di un “sistema truccato”, che possono e devono essere reclutati per il progetto anti-neoliberista di una sinistra rinnovata. Questo non significa silenziare le pressanti preoccupazioni per il razzismo o il sessismo. Ma significa dimostrare come queste oppressioni storiche di vecchia data trovano nuove espressioni e motivi oggi, nel capitalismo finanziarizzato. Rifiutando il falso pensiero a somma zero che ha dominato la campagna elettorale, dobbiamo collegare le offese subite dalle donne e dalle persone di colore a quelle subite dai tanti che hanno votato per Trump. In questo modo, una rivitalizzata sinistra potrebbe gettare le basi per una nuova e potente coalizione impegnata nella lotta per tutti.

*“Basket of deplorables”, solitamente tradotto dai giornali  italiani come “branco di miserabili” è il termine con il quale la Clinton etichettò i sostenitori di Trump durante la campagna elettorale

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Contro il neoliberismo progressista, un nuovo populismo progressista

La lettura del mio saggio da parte di Johanna Brenner non coglie la centralità del problema dell’egemonia. Il punto centrale è che il capitale finanziario ha raggiunto il dominio odierno, oltre che con la forza, anche attraverso il “consenso”, come lo chiama Gramsci. Forze che favoriscono la finanziarizzazione, la globalizzazione delle imprese e la deindustrializzazione sono riuscite a conquistare il Partito Democratico statunitense, ho affermato, perché hanno presentato queste politiche, palesemente contrarie ai lavoratori, come progressiste. I neoliberisti hanno conquistato potere ammantando il loro progetto in una nuova etica cosmopolita, che privilegia la diversità, l’emancipazione delle donne, e i diritti LGBTQ. Adescando chi professa questi ideali, i neoliberisti hanno forgiato un nuovo blocco egemonico, che ho battezzato neoliberismo progressista. Nell’identificare e analizzare questo blocco, non ho perso di vista il potere del capitale finanziario, come mi rimprovera Johanna Brenner, ma ho tentato di spiegare la sua supremazia politica.

L’ottica dell’egemonia fa luce anche sulla posizione dei movimenti nei confronti del neoliberismo. Invece di isolare collusi e cooptati, mi sono concentrata sul diffuso slittamento dall’uguaglianza alla meritocrazia nel pensiero progressista. Negli ultimi decenni, questo pensiero ha sovraccaricato la comunicazione e ha influenzato non solo le femministe liberali e i sostenitori della diversità, che ne hanno abbracciato con consapevolezza l’etica individualista, ma ha influenzato anche molti all’interno dei movimenti. Anche quelle che Brenner chiama femministe del “social welfare” hanno trovato nel neoliberismo progressista elementi in cui identificarsi, e hanno chiuso un occhio sulle sue contraddizioni. Ciò non significa dar loro la colpa, come sostiene Brenner, ma chiarire come funziona l’egemonia, cioè attirandoci e seducendoci, al fine di capire come meglio costruire una controegemonia.

Quest’idea è il canone di valutazione delle sorti della sinistra dagli anni ottanta ad oggi. Rivisitando questi anni, Johanna Brenner esamina una mole impressionante di attivismo di sinistra, che lei appoggia ed ammira al pari di me. Ma l’ammirazione non viene meno quando si osserva che l’attivismo non è assurto ad una controegemonia. Non è riuscito a presentarsi come un’alternativa credibile al neoliberismo progressista, né a sostituire i “noi” e i “loro” del neoliberismo con dei propri “noi” e “loro”. Il perché richiederebbe un lungo studio, ma una cosa è chiara: restii alla sfida frontale con le varianti progressiste-neoliberiste del femminismo, dell’antirazzismo e del multiculturalismo, gli attivisti di sinistra non sono mai stati in grado di raggiungere i “reazionari populisti” (vale a dire, i bianchi della classe operaia industriale), che hanno finito per votare per Trump.

Bernie Sanders è l’eccezione che conferma la regola. La sua campagna elettorale, con tutte le imperfezioni del caso, ha contestato direttamente le linee consolidate di separazione politica. Ha preso di mira “la classe dei miliardari”, ha teso la mano ai derelitti del neoliberismo progressista, si è rivolta alle comunità che si aggrappano al loro tenore di vita da “classe media”, le ha considerate alla stregua di vittime di una “economia truccata”, che meritano rispetto e possono fare causa comune con altre vittime, molte delle quali non hanno mai avuto accesso ai posti di lavoro della “classe media”. Nel contempo, Sanders ha strappato via una buona fetta di coloro che gravitavano verso il neoliberismo progressista. Anche se sconfitto da Hillary Clinton, Sanders ci ha indicato la strada verso una controegemonia possibile: ci ha fatto intravedere, invece dell’alleanza progressista-neoliberista fra finanziarizzazione ed emancipazione, un nuovo blocco “progressista-populista” che unisce emancipazione e protezione sociale.

A mio parere, nell’era di Trump la scelta di Sanders resta l’unica strategia onesta e vincente.  A coloro che adesso si mobilitano con la bandiera della “resistenza”, suggerisco il contro-progetto della “correzione di rotta”. Invece di ostinarsi nella definizione progressista-neoliberista di “noi” (progressisti) contro “loro” (i “deplorevoli” partigiani di Trump), questo contro-progetto ridisegna la mappa politica, e fa causa comune con tutti quelli che l’amministrazione Trump si accinge a tradire: non solo gli immigrati, le femministe, e le persone di colore che gli hanno votato contro, ma anche quegli strati della classe operaia della “Rust Belt” e del Sud che hanno votato per lui. Johanna Brenner mi rinfaccia di dissolvere la “politica dell’identità” nella “politica di classe.” Al contrario, la questione è identificare chiaramente le radici comuni delle ingiustizie di classe e di status nel capitalismo finanziario, e costruire alleanze tra coloro che devono unirsi per combattere entrambe.

traduzione di Maurizio Acerbo e Ludovico Fischer

per aderire alla brigata traduttori mandare una mail a traduttori@rifondazione.it

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Siria – Il Fermento Rivoluzionario che Non Fu

di Stephen Gowans (da what’s left, 22 ottobre 2016)
traduzione per doppiocieco di Domenico D’Amico


A quanto pare, la sinistra statunitense si deve ancora rendere conto che Washington non sta cercando di rovesciare i neoliberisti. Se il presidente Bashar al-Assad fosse un seguace del Washington Consensus – come sembra credere Eric Draitser di Counterpunch– il governo degli Stati Uniti non avrebbe brigato per la sua rimozione fin dal 2003. E neanche avrebbe accudito la guerriglia islamica contro il suo governo, al contrario, l’avrebbe protetto.
In alcuni ambienti circola l’idea condivisa che (come pone la questione Eric Draitser in un recente articolo su Counterpunch) l’insurrezione in Siria “è iniziata come risposta alle politiche neoliberiste e alla brutalità del governo siriano,” e che “il nucleo rivoluzionario della ribellione siriana è stato marginalizzato da un coacervo di jihadisti pagati da Arabia Saudita e Qatar,” Questa teoria, per quanto ne so, è basata solo su argomenti assertivi, non su fatti provati.
Una rassegna dei reportage delle settimane che precedono e seguono lo scoppio delle sommosse di Daraa a metà marzo 2011 – considerate in genere l’inizio della ribellione – non fornisce la minima indicazione che la Siria fosse in preda alla stretta di un tumulto rivoluzionario, anti-neoliberista o altro che fosse. Al contrario, i giornalisti inviati da Time e dal New York Timesriferivano del largo sostegno goduto dal governo, dei suoi critici che ammettevano la popolarità di Assad, e del fatto che i siriani dedicavano scarsa attenzione a quelle proteste. Nel contempo descrivevano le agitazioni come una sequela di sommosse riguardanti né migliaia né decine di migliaia, ma centinaia di persone, guidate per lo più da una visione di tipo islamista, e che esibivano un atteggiamento violento.
Timeriferiva che due formazioni jihadiste che in seguito avrebbero avuto un ruolo di primo piano nella ribellione, Jabhat al-Nusra e Ahrar al-Sham, operavano già sul campo nei giorni delle sommosse, e che solo tre mesi prima alcuni leader dei Fratelli Musulmani avevano espresso “la loro speranza in una rivolta pacifica in Siria.” I Fratelli Musulmani, che da decine di anni hanno dichiarato una lotta senza quartiere contro il partito Ba’ath che governa la Siria, violentemente contrari al suo secolarismo, sono invischiati sin dagli anni 60 in uno scontro all’ultimo sangue con i nazionalismi arabi laici, e hanno praticato la guerriglia urbana contro i seguaci del Ba’ath sin dalla fine degli anni 40 (in una di queste battaglie, Hafez al-Assad, padre dell’attuale presidente, al governo dal 1997 al 2000, fu accoltellato da un Fratello Musulmano). I leader dei Fratelli, a cominciare dal 2007, ebbero incontri frequenti col Dipartimento di Stato e il National Security Council statunitensi, così come con la Middle East Partnership Initiative (finanziata dal governo statunitense), che aveva ereditato il ruolo di finanziatrice alla luce del sole di organizzazioni golpiste estere, cosa che in precedenza faceva clandestinamente la CIA.
Washington ha tramato per eliminare l’influenza arabo-nazionalista dalla Siria sin dalla metà degli anni 50, quando Kermit Roosevelt, organizzatore del rovesciamento del primo ministro iraniano Mohammad Mossadeq (che aveva nazionalizzato le risorse petrolifere del suo paese), cospirava insieme all’intelligence britannica per istigare i Fratelli Musulmani a rovesciare il triumvirato siriano di nazionalisti e comunisti, che Washington e Londra vedevano come una minaccia per gli interessi economici occidentali in Medio Oriente.
Negli anni 80 Washington riforniva di armi i mujahedeen della Fratellanza, perché praticassero una strategia di guerriglia urbana contro Hafez al-Assad, che i duri e puri di Washington definivano “arabo comunista.” Suo figlio, Bashar, ha proseguito nella politica arabo-nazionalista di unità (della nazione Araba), indipendenza, e socialismo (arabo). Queste sono state le linee guida dello stato siriano – come pure per altri stati arabo-nazionalisti come la Libia sotto Gheddafi e l’Iraq sotto Saddam. Tutti e tre gli stati sono entrati nel mirino di Washington per la medesima ragione: i loro obbiettivi arabo-nazionalisti erano in grave conflitto con la politica imperialista di egemonia globale degli Stati Uniti.
Il rifiuto da parte di Bashar al-Assad di ripudiare l’ideologia arabo-nazionalista lasciavano sgomenta Washington, che ne denunciava il socialismo, terzo elemento della santa trinità valoriale dei ba’athisti. I piani per rovesciare Assad – legati in parte al suo mancato accoglimento del neoliberismo di Washington – erano già in preparazione negli Stati Uniti sin dal 2003, se non ancora prima. Che Assad fosse un paladino del neoliberismo, come sostengono Draitser e altri, dev’essere una notizia sfuggita all’attenzione di Washington e Wall Street, che stigmatizzavano la Siria “socialista” e la sua politica economica decisamente anti-neoliberista.
Una faida sanguinaria che s’infiamma con l’assistenza degli Stati Uniti
Alla fine del gennaio 2011, venne creata una pagina Facebook intitolata The Syrian Revolution 2011. Annunciava che il 4 e 5 febbraio si sarebbe tenuta una pubblica protesta [Day of Rage, “giornata della collera”]. [1] Come riferisce Time, la protesta “fece cilecca”. La Giornata della Collera si risolse in una una Giornata dell’Indifferenza. In aggiunta, il collegamento con la Siria risultò esile. La maggior parte degli slogan gridati dai pochi contestatori intervenuti riguardavano la Libia, ed esigevano che Muhammar Gheddafi – il cui governo era assediato da insorti islamisti – venisse deposto. Vennero pianificate nuove proteste per il 4 e il 5 di marzo, ma anch’esse ottennero un magro sostegno. [2]
Rania Abouzeid, corrispondente di Time, attribuì il fallimento da parte degli organizzatori nell’ottenere una partecipazione significativa al fatto che la maggior parte dei siriani non era contraria al proprio governo. Assad godeva di una buona reputazione, specialmente per i due terzi della popolazione sotto i trent’anni di età, e le sue politiche erano ampiamente approvate. “Perfino i suoi critici ammettono che Assad è popolare, e considerato gradito dal massiccio strato giovanile del paese, per motivi ideologici, emotivi, e ovviamente cronologici,” riferiva Abouzeid, aggiungendo che a differenza degli “estromessi leader pro-USA di Tunisia ed Egitto, la politica estera aggressiva contro Israele di Assad, il vibrante sostegno verso i palestinesi e le milizie di Hamas ed Hezbollah, sono in linea col sentimento popolare siriano.” Assad, in parole povere, possedeva una legittimazione politica [had legitimacy]. Il corrispondente di Time aggiungeva che il gesto di Assad, che “in febbraio si era recato da solo nella Moschea degli Omayyadi, per partecipare alle preghiere di commemorazione della nascita del Profeta Muhammad, e aveva passeggiato per il souk di Al-Hamidiyah con poche guardie del corpo” lo aveva “aiutato a farsi personalmente benvolere dal pubblico.” [3]
Questa descrizione del presidente siriano – un leader benvoluto dal pubblico, ideologicamente in sintonia col sentimento popolare dei siriani – contrasta violentemente con le tesi che sarebbero emerse subito dopo le violente proteste scoppiate nella città siriana di Daraa meno di due settimane dopo, tesi sposate poi dagli statunitensi di sinistra, incluso Draitser. Eppure, alla vigilia degli eventi di Daraa, ci si meravigliava della peculiare tranquillità della Siria. Nessuno “si aspetta insurrezioni di massa in Siria,” riferiva Abouzeid, “ogni tanto ci sono manifestazioni di dissenso, ma sono davvero pochi quelli che vogliono farne parte.” [4] Una giovane siriana riferiva a Time: “Ci sono molti aiuti per i giovani da parte del governo. Ci danno libri gratis, scuole gratis, università gratis.” (Non è proprio lo stato neoliberista che descrive Draitser.) La giovane continuava: “Perché ci dovrebbe essere una rivoluzione? Le probabilità saranno dell’uno per cento.” [5] Il New York Times condivideva questo punto di vista. La Siria, riferiva il giornale, “è sembrata immune all’ondata di rivolta che attraversava il mondo arabo.” [6] In Siria il fermento non attecchiva.
Ma il 17 marzo, a Daraa, ci fu una sommossa violenta. I resoconti su chi l’abbia innescata sono contraddittori. Time riferiva che “la ribellione a Daraa è stata provocata dall’arresto di un gruppo di giovani che avevano imbrattato un muro con graffiti antiregime.” [7] Robert Fisk dell’Indipendent offriva una versione lievemente diversa. Riferiva che “funzionari dell’inteligence governativa hanno picchiato e ucciso un gran numero di ragazzi che avevano scarabocchiato graffiti antigovernativi sui muri della città.” [8] Un altro resoconto sostiene che il fattore scatenante della rivolta a Daraa fosse stato l’estremo e sproporzionato uso della forza da parte delle forze dell’ordine siriane in risposta alle dimostrazioni contro l’arresto di quei giovani. C’erano “dei giovani che facevano graffiti su un muro, e li hanno arrestati, e i genitori li rivolevano indietro, e le forze di sicurezza hanno reagito con molta, molta brutalità.” [9] Il resoconto del governo siriano nega che tutto questo sia accaduto. Cinque anni dopo i fatti, Assad ha detto in un’intervista che “non è mai accaduto. È solo propaganda. Intendo dire, ne abbiamo sentito parlare, ma questi ragazzini messi in galera non li abbiamo mai visti. Era solo un’invenzione [a fallacious narrative].” [10]
Ma se ci sono discordanze su ciò che scatenò la sommossa, non ce ne sono molte sul fatto che fu violenta. Il New York Times riferiva che “i dimostranti hanno incendiato le sedi del partito Ba’ath e altri edifici governativi (…) e si sono scontrati con la polizia. (…) Oltre alle sedi del partito i dimostranti hanno dato fuoco al principale tribunale della città e a una sede della compagnia telefonica SyriaTel.” [11] Time aggiungeva che i dimostranti avevano bruciato l’ufficio del governatore, così come la sede di un’altra compagnia telefonica. [12] L’agenzia governativa SANA postò sul suo sito foto di veicoli dati alle fiamme. [13] Chiaramente non si trattava di una dimostrazione pacifica, come la si sarebbe descritta in seguito. E non si trattava nemmeno di un’insurrezione di massa. Time riferiva che i dimostranti potevano contarsi a centinaia, non a migliaia o decine di migliaia. [14]
Assad reagì immediatamente ai tumulti di Daraa, annunciando “una serie di riforme, incluso un aumento di salario per gli impiegati pubblici, una maggior libertà per media e partiti politici, e una riconsiderazione dello stato d’emergenza,” [15] una restrizione dei diritti civili e politici in tempo di guerra messa in atto perché il paese era ufficialmente in guerra con Israele. Prima della fine di aprile il governo avrebbe abolito “lo stato d’emergenza in vigore da 48 anni” e “la Corte Suprema di Stato per la Sicurezza.” [16]
Perché il governo fece queste concessioni? Perché queste erano le richieste dei dimostranti di Daraa. I dimostranti “si sono radunati dentro e intorno alla moschea Omari di Daraa, scandendo le loro richieste: il rilascio di tutti i prigionieri politici (…) l’abolizione dello stato di emergenza in vigore da 48 anni; maggiori libertà civili; e la fine dell’endemica corruzione.” [17] Simili richieste erano coerenti con l’appello, diffuso ai primi di febbraio sulla pagina Facebook di The Syrian Revolution 2011, per “la fine dello stato d’emergenza in Siria e la fine della corruzione.” [18] Una richiesta per la liberazione dei prigionieri politico venne anche avanzata in una lettera pubblicata su Facebook da alcune personalità religiose. Le loro richieste includevano la revoca “dello stato d’emergenza, il rilascio di tutti i detenuti politici, la fine delle vessazioni da parte delle forze di sicurezza e la lotta alla corruzione.” [19] La liberazione dei detenuti politici sarebbe consistita nel rilascio di jihadisti o, per usare una terminologia in auge in Occidente, di “terroristi.” Il Dipartimento di Stato statunitense ha riconosciuto che in Siria la principale opposizione è quella dell’Islam politico [20]; i jihadisti costituivano il maggior gruppo di opposizione a rischio di arresto. La richiesta di quelle autorità religiose che Damasco liberasse tutti i prigionieri politici in effetti era uguale a un’ipotetica richiesta da parte dello Stato Islamico che Washington, Parigi e Londra rilasciassero tutti gli islamisti accusati di terrorismo rinchiusi nelle prigioni statunitensi, francesi e britanniche. Non si trattava di una richiesta di più posti di lavoro e maggior democrazia, ma la richiesta di far uscire di prigione attivisti che avevano come obbiettivo l’instaurazione in Siria di uno Stato Islamico. La revoca delle leggi d’emergenza, analogamente, sembrava aver poco a che fare con la promozione della democrazia, ma piuttosto con la possibilità per i jihadisti e i loro affiliati di avere più spazio per organizzare la loro opposizione allo stato laico.
Una settimana dopo lo scoppio delle violenze a Daraa, Rania Abouzeid riferiva su Time che “non sembrano esserci una domanda diffusa per la caduta del regime o per la rimozione di un presidente relativamente popolare.” [21] In effetti le richieste avanzate da dimostranti e figure religiose non includevano la deposizione di Assad. E i siriani si mobilitavano a suo favore. “Ci sono state nella capitale delle controdimostrazioni a favore del Presidente,” [22] che, da quanto riferito, superavano di parecchio in numero le centinaia di dimostranti che erano scesi in piazza a Daraa per incendiare edifici e automobili e scontrarsi con la polizia. [23]
Arrivati al 9 aprile – a meno di un mese dagli eventi di Daraa – Timeriferiva che una serie di proteste stava divampando, e che l’Islam vi svolgeva un ruolo preminente. Agli occhi di chiunque avesse dimestichezza con la sequela pluridecennale di scioperi, dimostrazioni, sommosse e insurrezioni che i Fratelli Musulmani hanno organizzato contro quello che considerano il governo ba’ahtista “infedele”, sembrava una storia che si ripete. I dimostranti non avevano raggiunto una massa critica. Al contrario, il governo continuava a godere della “lealtà” di “una gran parte della popolazione,” riferiva Time. [24]
Gli islamisti hanno avuto un ruolo portante nella stesura della Dichiarazione di Damasco della metà degli anni 2000, un documento che chiedeva un cambio di regime. [25] Nel 2007 i Fratelli Musulmani, il prototipo dei movimenti politici islamisti sunniti, che avevano ispirato Al-Qaeda e le sue ramificazioni (Jabhat al-Nusra e lo Stato Islamico [Isis]), avviarono una collaborazione con un ex vicepresidente siriano, per fondare il Fronte di Salvezza Nazionale. Il Fronte ebbe ebbe frequenti incontri con il Dipartimento di Stato e con il Consiglio per la Sicurezza Nazionale statunitensi, così come con la Middle East Partnership Initiative (finanziata dal governo USA), [26] la quale faceva alla luce del sole quello che un tempo la CIA faceva in segreto, cioè fornire denaro e know-how a quinte colonne operanti in paesi i cui governi fossero sgraditi a Washington.
Giunti al 2009, appena due anni prima dell’esplosione di disordini per tutto il mondo arabo, i Fratelli Musulmani siriani stigmatizzarono il governo arabo-nazionalista di Bashar al-Assad come un elemento della società siriana estraneo e ostile, che doveva essere eliminato. Nella visione di questo gruppo la comunità alawita, cui apparteneva Assad e che i Fratelli ritenevano eretica, utilizzava l’arabo-nazionalismo laico come copertura per l’avanzamento di un progetto settario mirante alla distruzione della Siria dall’interno, per mezzo dell’oppressione dei “veri” musulmani (cioè i sunniti). Nel nome dell’Islam, era doveroso rovesciare questo regime eretico. [27]
Appena tre mesi prima dello scoppio delle violenze in Siria del 2011, lo studioso Liad Porat redasse un documento per il Crown Center for Middle East Studies della Brandeis University. “I leader del movimento,” concludeva lo studioso, “continuano a manifestare la speranza di un’insurrezione popolare [civil revolt] in Siria, nella quale ‘il popolo siriano ottempererà al proprio dovere e libererà la Siria da un regime corrotto e tirannico.’” I Fratelli Musulmani ribadivano di essere impegnati in una lotta all’ultimo sangue contro il governo arabo-nazionalista laico di Bashar al-Assad. Un compromesso [accommodation] politico con il governo era impossibile, perché i suoi dirigenti non facevano parte dei musulmani sunniti siriani. L’appartenenza alla nazione siriana era ristretta ai soli veri musulmani, affermavano i Fratelli, quindi escludeva gli eretici alawiti, che abbracciavano idee estranee e anti-islamiche come il secolarismo arabo-nazionalista. [28]
Che i Fratelli Musulmani avessero avuto un ruolo chiave nelle rivolte scoppiate tre mesi dopo, venne confermato nel 2012 dalla Defence Intelligence Agency statunitense. In un rapporto trapelato dall’agenzia si affermava che la ribellione era di natura settaria ed era guidata dai Fratelli Musulmani e Al Qaeda in Iraq, apripista dello Stato Islamico. Il rapporto proseguiva dicendo che i ribelli erano sostenuti dall’Occidente, dalle monarchie del Golfo e dalla Turchia. L’analisi prevedeva correttamente l’instaurazione di un “principato salafita,” uno stato islamico, nella parte orientale della Siria, osservando che questo era l’obbiettivo dei sostenitori stranieri dell’insurrezione, vedere gli arabo-nazionalisti laici isolati e tagliati fuori dai legami con l’Iran. [29]
Documenti redatti dai ricercatori del Congresso statunitense rivelarono nel 2005 che il governo era impegnato in un cambio di regime in Siria ben prima dei tumulti della Primavera Araba del 2011, in contrasto con l’idea che il sostegno degli Stati Uniti ai ribelli siriani fosse basato sull’adesione a una “rivolta democratica”, mentre si trattava invece della prosecuzione di una politica di lunga data, mirante al rovesciamento del governo di Damasco. A tutti gli effetti i ricercatori riconoscevano che le ragioni del governo statunitense per rovesciare il governo arabo-nazionalista laico di Damasco non avevano nulla a che fare con la promozione della democrazia in Medio Oriente. In realtà essi osservavano che le preferenze di Washington andavano alle dittature laiche (Egitto) e alle monarchie (Giordania e Arabia Saudita). Ciò che spingeva verso il cambio di regime, secondo i ricercatori, era il desiderio di eliminare un ostacolo che impediva la realizzazione degli obbiettivi statunitensi per il Medio Oriente, cioè il rafforzamento di Israele, il consolidamento del dominio statunitense in Iraq, e la promozione di economie di libero mercato ed economia d’impresa. La democrazia non era mai stata in agenda. [30] Se Assad avesse praticato una politica neoliberista in Siria, come afferma Draitser, rimane difficile da comprendere perché Washington avrebbe citato il rifiuto siriano di abbracciare la politica USA di libero mercato e libera impresa come motivazione per un cambio di governo.
Per sottolineare la questione dello scarso sostegno popolare alle proteste, il 22 aprile, più di un mese dopo la rivolta di Daraa, Anthony Shadid del New York Timesriferiva che “le proteste, finora, non sono sembrate paragonabili alle agitazioni rivoluzionarie di Egitto e Tunisia.” In altre parole, più di un mese dopo che centinaia – e non migliaia o decine di migliaia – di contestatori avevano manifestato a Daraa, in Siria non c’era segno di una sollevazione popolare in stile Primavera Araba. La sommossa restava limitata prevalentemente agli islamisti. All’opposto, a Damasco c’erano state massicce dimostrazioni non contro ma a favore del governo, Assad conservava la sua popolarità e, secondo Shadid, il governo riscuoteva la lealtà dei “cristiani e delle sette islamiche eterodosse.” [31]
Shadid non era il solo giornalista occidentale a riferire che gli alawiti, gli ismailiti, i drusi e i cristiani erano decisi sostenitori del governo. Raina Abouzeid di Time osservava che i ba’athisti “potevano contare sull’appoggio delle minoranze più importanti.” [32]
Il fatto che il governo siriano godesse della lealtà dei cristiani e delle sette islamiche eterodosse, come riferiva Shadid sul New York Times, suggeriva che le minoranze religiose siriane avessero intravisto in quelle sommosse qualcosa che la stampa occidentale aveva sottostimato (e di cui i socialisti rivoluzionari statunitensi non si erano accorti), e cioè che esse erano l’espressione di un progetto islamista sunnita di natura settaria che, se portato a termine, avrebbe avuto conseguenze spiacevoli per chiunque non venisse considerato un “vero” musulmano. È questo il motivo per cui alawiti, ismailiti, drusi e cristiani si erano schierati coi ba’ahtisti, che cercavano di ridurre le divisioni settarie nel contesto del loro impegno programmatico di perseguire l’unità araba. Lo slogan “Gli alawiti nella fossa, i cristiani a Beirut!” gridati nelle manifestazioni di quei primi giorni [33] erano la semplice conferma che la sommossa era il proseguimento della lotta all’ultimo sangue condotta dall’Islam politico sunnita contro il governo arabo-nazionalista, e che non si trattava di una sollevazione popolare per la democrazia, o contro il neoliberismo. Se questo fosse stato il caso, come spiegare il fatto che una simile sete di democrazia, una simile opposizione al neoliberismo si manifestassero solo nella comunità sunnita, rimanendo assenti tra gli appartenenti alle minoranze religiose? La mancanza di democrazia e la tirannia neoliberista, se ci fossero state e avessero agito da fattore scatenante per un’ondata rivoluzionaria, di certo sarebbero state trasversali alle appartenenze religiose. La mancata partecipazione di alawiti, ismailiti, drusi e cristiani alle sommosse, che avevano una connotazione sunnita e islamista, è grave indizio che l’insurrezione, sin dall’inizio, costituiva la recrudescenza della lotta di lunga data dei jihadisti sunniti contro il secolarismo ba’ahtista.
Il governo siriano ha affermato sin dal primo momento di essere in lotta contro militanti islamisti.” [34] La lunga storia di ribellioni islamiste contro il Ba’ath precedenti il 2011 suggeriva che le cose stessero proprio così, e il modo in cui in seguito progredì la ribellione, nella forma di una guerra contro lo stato laico capeggiata dagli islamisti, rinforzò ulteriormente questa prospettiva. Altri elementi, sia positivi sia negativi, corroborarono l’affermazione di Assad, che lo stato siriano fosse sotto attacco da parte dei jihadisti (com’era già accaduto molte altre volte in passato). La prova in negativo, cioè che la sollevazione non fosse una rivolta popolare contro un governo impopolare, caratterizzava i reportage dei media occidentali, che mostravano come il governo arabo-nazionalista siriano fosse popolare e riscuotesse la lealtà della popolazione.
All’opposto, le dimostrazioni e le sommosse antigovernative erano di proporzioni ridotte, e avevano radunato molta meno gente di quella che aveva partecipato alle dimostrazioni di Damasco a favore del governo, e in ogni caso non erano state paragonabili alle sollevazioni popolari di Egitto e Tunisia. In aggiunta, le richieste dei dimostranti erano focalizzate sulla liberazione dei prigionieri politici (per lo più jihadisti) e sulla revoca delle restrizioni da tempo di guerra all’espressione di dissenso politico, e non contemplavano il rovesciamento di Assad o un mutamento della politica economica. A provarlo, i resoconti dei media occidentali che mostravano come l’Islam svolgesse nelle rivolte un ruolo preminente. Inoltre, sebbene fosse convinzione comune che gli islamisti armati fossero intervenuti nella lotta solo dopo le rivolte iniziali della primavera del 2011 – e avessero in tal modo “dirottato” una “insurrezione popolare” – in realtà due dei gruppi di jihadisti che avrebbero avuto, dopo il 2011, un ruolo preminente nella rivolta armata contro il secolarismo arabo-nazionalista, cioè Ahrar al-Sham e Jabhat al-Nusra, erano in piena attività già all’inizio del 2011. Ahrar al-Sham “ha iniziato a lavorare alla formazione di formazioni armate (…) molto prima della metà di marzo del 2011, quando” si verificarono le rivolte di Daraa, secondo Time. [35] Jahbat al-Nusra, gli affiliati siriani di al-Qaeda, “era un gruppo sconosciuto fino al tardo gennaio del 2012, quando annunciò la sua istituzione (…) [ma] era già attivo nei mesi precedenti.” [36]
Un altro indizio coerente con l’opinione che l’Islam militante abbia partecipato alla rivolta quasi da subito – o, come minimo, che le proteste abbiano avuto un carattere violento sin dall’inizio – è che “ci sono stati segni del coinvolgimento di gruppi armati sin dall’inizio.” Il giornalista e scrittore Robert Fisk ricordava di aver visto un video dei “primissimi giorni della ‘rivolta’ che mostrava uomini armati di pistole e kalashnikov in una delle dimostrazioni di Daraa,” E ricordava un altro evento (del maggio 2011) in cui “una troupe di AL Jazeera ha filmato degli uomini armati che facevano fuoco contro soldati siriani a solo qualche centinaio di metri di distanza dal confine nord con il Libano, ma il network ha rifiutato di mandare in onda il materiale.” [37] Perfino alcuni funzionari statunitensi, ostili verso il governo siriano, dai quali ci si aspetterebbe che contestassero il punto di vista di Damasco (di essere in lotta contro ribelli armati), “riconoscevano che le dimostrazioni non erano pacifiche e che alcuni dei dimostranti erano armati.” [38] A settembre le autorità siriane riferivano di aver subito la perdita di più di 500 tra funzionari di polizia e soldati, uccisi in azioni di guerriglia. [39] Arrivati a ottobre, il numero era più che raddoppiato. [40] In meno di dodici mesi la rivolta era passata dal dare fuoco agli edifici governativi o del partito Ba’aht e avere scontri con la polizia alla guerriglia, utilizzando metodi che sarebbero stati definiti “terroristici” se diretti contro obbiettivi occidentali.
In seguito, Assad avrebbe così recriminato:
Quello che dicevamo all’inizio della crisi, loro l’hanno detto più tardi. Dicevano che era pacifica, noi dicevamo che non lo era, che stavano uccidendo – questi dimostranti, quelli che chiamavano dimostranti pacifici – avevano ucciso dei poliziotti. Poi si trattò dei militanti. E loro dissero, d’accordo, sono i militanti. Noi dicemmo sono militanti, sono terroristi. E loro, no, non sono terroristi. E quando ammettevano che sì, è terrorismo, noi dicemmo è Al Qaeda, e loro no, non è Al Qaeda. Insomma, quello che noi diciamo prima, loro lo dicono dopo.” [41]
La “rivolta siriana,” scriveva lo specialista di Medio Oriente Patrick Seale, “dovrebbe essere vista semplicemente come l’ultimo, e fin qui il più violento, episodio della lunga guerra tra gli islamisti e i ba’athisti, che dura sin dalla fondazione del laico partito Ba’ath negli anni 40. La lotta tra di essi ormai è poco meno di una faida all’ultimo sangue.” [42] “È impressionante,” continuava Seale, citando Aron Lund, l’autore del documento per lo Swedish Institute of International Affairs sul jihadismo siriano, “che i componenti delle diverse formazioni armate ribelli siano praticamente tutti arabi sunniti; che gli scontri siano per lo più limitati solo alle zone arabo-sunnite, mentre quelle abitate da alawiti, drusi o cristiani siano rimaste inattive o abbiano appoggiato il regime; che le defezioni dal regime riguardino per il cento per cento sunniti; che denaro, armi e volontari fluiscano da stati islamici o da individui e organizzazioni pro-islamiche; e che tra gli insorti la religione sia il denominatore comune più importante.” [43]
Brutalità come fattore scatenante?
È ragionevole credere che l’uso della forza da parte dello stato siriano abbia innescato la guerriglia scoppiata subito dopo?
È poco credibile che una reazione eccessiva da parte dell’apparato di sicurezza a fronte di una sfida all’autorità nella città di Daraa (se poi tale reazione eccessiva ci sia davvero stata) abbia potuto scatenare un conflitto su larga scala, che ha coinvolto diverse nazioni e mobilitato jihadisti di svariata provenienza. Per dare a questa ipotesi anche solo un minimo di credibilità, bisognerebbe ignorare tutta una serie di fatti ad essa contrari.
Per prima cosa, dovremmo sorvolare sul fatto che il governo di Assad fosse popolare e percepito come legittimo. Si potrebbe argomentare che la reazione esagerata, da parte di un governo impopolare, a una trascurabile sfida alla sua autorità, avrebbe potuto generare la scintilla necessaria a scatenare un’insurrezione di massa, ma nonostante l’insistenza del presidente statunitense Obama sulla mancanza di legittimità di Assad, non c’è alcuna prova che la Siria, nel marzo del 2011, fosse una polveriera colma di risentimento antigovernativo pronta a esplodere. Come scriveva Rania Abouzeid di Time all’inizio della rivolta di Daraa, “Perfino i suoi critici ammettono la popolarità di Assad” [44] e “nessuno si aspetta una sollevazione di massa in Siria, e anche se ogni tanto ci sono manifestazioni di dissenso, sono in pochi a volervi partecipare.” [45]
Seconda cosa, dovremmo ignorare il fatto che la rivolta di Daraa aveva visto coinvolte solo alcune centinaia di partecipanti, tutt’altro che una sollevazione di massa, e che nemmeno le proteste che seguirono riuscirono a raggiungere una massa critica, come riferiva Nicholas Blanford di Time. [46] In modo simile, Anthony Shadid del New York Times non trovò la minima prova che in Siria fosse in corso una sommossa popolare, perfino a un mese e più dai disordini di Daraa. [47] Quel che stava succedendo, contrariamente alla retorica propagandistica di Washington sulla Primavera Araba che irrompeva in Siria, era che i jihadisti erano impegnati in una campagna di guerriglia contro le forze di sicurezza siriane, e che, arrivati a ottobre, avevano tolto la vita a più di mille tra poliziotti e soldati.
Terza cosa, dovremmo chiudere entrambi gli occhi davanti al fatto che il governo statunitense, insieme al suo alleato britannico, nel 1956 aveva stilato piani per provocare in Siria una guerra [civile], arruolando i Fratelli Musulmani per istigare sommosse interne. [48] La rivolta di Daraa e i susseguenti scontri armati con polizia ed esercito ricordavano il piano preparato dallo specialista di cambi di regime Kermit Roosevelt. Questo non implica necessariamente che la CIA avesse rispolverato il progetto di Roosevelt, riadattandolo al 2011: è solo che un simile piano dimostrava la capacità, da parte di Washington e Londra, di progettare un’operazione di destabilizzazione che comportasse un’insurrezione guidata dai Fratelli Musulmani, al fine di portare a un cambio di regime in Siria.
Inoltre, dovremmo ignorare gli eventi del febbraio 1982, periodo in cui i Fratelli Musulmani presero il controllo di Hama, per grandezza la quarta città della Siria. Hama era l’epicentro del fondamentalismo sunnita siriano, e base principale delle operazioni dei combattenti jihadisti. Galvanizzati dalla falsa notizia del rovesciamento di Assad, i Fratelli Musulmani si scatenarono in una gioiosa orgia di sangue per tutta la città, attaccando le stazioni di polizia e assassinando i leader ba’athisti e le loro famiglie, insieme a funzionari governativi e soldati. In alcuni casi le vittime vennero decapitate [49], una pratica, questa, che sarebbe stata riportata in auge decenni più tardi dai combattenti dello Stato Islamico. I funzionari del partito Ba’aht di Hama vennero tutti assassinati. [50]
In Occidente gli eventi di Hama del 1982 vengono ricordati (quando succede) non per le atrocità commesse dagli islamisti, ma per la risposta dell’esercito siriano, il quale, come ci si aspetterebbe da qualsiasi esercito, utilizzò la forza per ristabilire il controllo statale sul territorio conquistato dagli insorti. Per strappare Hama ai Fratelli Musulmani vennero dispiegati migliaia di soldati. L’ex funzionario del Dipartimento di Stato statunitense William R. Polk descrisse le conseguenze dell’assalto dell’esercito siriano su Hama come simili a quelle dell’assalto degli Stati Uniti contro la città irachena di Falluja nel 2004, [51] (la differenza, ovviamente, sta nel fatto che l’esercito siriano stava operando legittimamente all’interno del proprio territorio sovrano, mentre l’esercito statunitense operava illegittimamente, come forza di occupazione, per reprimere la resistenza a detta occupazione). Quante furono le vittime nell’assalto su Hama, in ogni modo, resta argomento di discussione. Le cifre variano. “Un primo resoconto di Timeaffermava che i morti erano stati 1000. La maggior parte degli osservatori stimò il numero delle vittime in 5000. Israele e i Fratelli Musulmani” – nemici giurati dei laici arabo-nazionalisti, e quindi interessati a esagerare il numero delle vittime – “denunciarono un numero di morti superiore ai 20.000.” [52] Robert Dreyfus, che ha scritto sulla collaborazione dell’Occidente con l’Islam politico, sostiene che le fonti occidentali esagerarono deliberatamente sul numero dei morti, allo scopo di demonizzare i ba’athisti, descrivendoli come assassini scatenati, e che i ba’athisti assecondarono l’inganno, allo scopo di incutere timore nei Fratelli Musulmani. [53]
Mentre l’esercito siriano frugava tra le macerie di Hama dopo l’assalto, vennero rinvenute le prove che governi stranieri avevano rifornito gli insorti di Hama di denaro, armamenti e apparati di comunicazione. Ecco cosa scrive Polk:
Assad si accorse che in mezzo al suo popolo c’erano mestatori stranieri. Era questa, dopotutto, l’eredità politica e psicologica del dominio coloniale – un’eredità dolorosamente evidente in gran parte del mondo post-coloniale, che però in Occidente e quasi del tutto ignorata. E questa eredità non è un mito. È una realtà che, evento dopo evento, possiamo verificare con documenti ufficiali. Hafez al-Assad non aveva bisogno di qualche fuga di informazioni: i suoi servizi di intelligence e alcuni giornalisti internazionali avevano portato alla luce dozzine di tentativi di rovesciare il suo governo, da parte di ricchi e conservatori stati arabi, degli Stati Uniti e di Israele. Si trattava per lo più di ‘dirty tricks’ [sabotaggio politico], propaganda e versamenti in denaro, ma val la pena di sottolineare che nella rivolta di Hama del 1982 vennero catturate più di 15.000 mitra di provenienza estera, insieme a forze paramilitari addestrate dalla Giordania e dalla CIA (molto simili ai jihadisti frequentemente citati nei reportage sulla Siria del 2013). E quello che [Assad] vedeva all’opera in Siria veniva confermato da quello che apprendeva dai cambi di regime realizzati dall’Occidente in altri paesi. Egli era certamente a conoscenza del tentativo della CIA di assassinare il presidente egiziano Nasser e il rovesciamento anglo-americano del governo del primo ministro iraniano Mohammad Mossadegh.” [54]
Nel suo libro From Beirut to Jerusalem il commentatore del New York Times Thomas Friedman scriveva che “il massacro di Hama può essere inteso come ‘la reazione naturale di un politico modernizzatore di uno stato nazione relativamente nuovo che cerca di neutralizzare gli elementi regressivi – in questo caso i fondamentalisti islamici – che minacciano tutto ciò che [il politico] ha realizzato nel costruire una Siria che fosse una repubblica laica del XX secolo. È anche per questo,” continuava Friedman, che “se qualcuno fosse stato in grado di condurre un obbiettivo sondaggio d’opinione dopo il massacro di Hama, il trattamento riservato da Assad ai ribelli avrebbe probabilmente riscosso una sostanziale approvazione, perfino tra i musulmani sunniti.” [55]
Lo scoppio degli attacchi dei jihadisti sunniti contro il governo siriano negli anni 80 contraddice l’opinione che il militante e sunnita Islam del Levante sia un risultato dell’invasione statunitense dell’Iraq nel 2003 e della successiva settaria politica pro-scita delle autorità di occupazione. Questa visione è storicamente miope, dato che ignora l’esistenza pluridecennale dell’Islam politico come elemento significativo della politica del Levante. Sin dal momento in cui la Siria ottenne formalmente l’indipendenza dalla Francia dopo la II Guerra Mondiale, e nel corso dei decenni seguenti del XX Secolo, e ancora nel secolo successivo, le principali forze in conflitto in Siria furono il nazionalismo arabo e l’Islam politico. Come ha scritto il giornalista Patrick Cockburn nel 2016, “l’opposizione armata siriana è dominata dall’Isis, da al-Nusra e Ahrar al-Sham.” La “sola alternativa al governo (laico arabo-nazionalista) è costituita dagli islamisti.” [56] Ed è così da lungo tempo.
Infine, dovremmo anche ignorare il fatto che gli strateghi statunitensi stavano pianificando fin dal 2003, o addirittura dal 2001, di allontanare dal potere Assad e la sua ideologia laica arabo-nazionalista, e dal 2005 stavano finanziando l’opposizione siriana, inclusi i gruppi collegati coi Fratelli Musulmani. Ne consegue che Washington ha spinto verso un rovesciamento del governo Assad con l’obbiettivo di de-ba’athizzare la Siria. Una guerriglia a guida islamista contro il governo siriano laico arabo-nazionalista si sarebbe dispiegata comunque, qualunque fosse, eccessiva o meno, la reazione del governo siriano ai fatti di Daraa. La partita era già iniziata, mancava solo il pretesto. Ed ecco Daraa. Perciò, l’idea che l’arresto di due ragazzi di Daraa che avevano disegnato graffiti antigovernativi potesse scatenare un conflitto su larga scala è credibile quanto il concetto che la I Guerra Mondiale sia stata scatenata da null’altro che l’assassinio dell’Arciduca Francesco Ferdinando.
La Siria Socialista
Possiamo definire il socialismo in molti modi, ma se lo associamo al controllo pubblico delle leve dell’economia, insieme a una pianificazione politica della stessa, allora la Siria, secondo le costituzioni del 1973 e del 2012, si caratterizza chiaramente come socialista. Tuttavia, la Repubblica Araba di Siria non fu mai uno stato socialista “dei lavoratori”, non del genere riconoscibile da un marxista. Era invece uno stato socialista arabo ispirato dall’obbiettivo dell’indipendenza politica della nazione araba e del superamento dell’eredità di sottosviluppo che l’affliggeva. I costituenti videro nel socialismo un mezzo per conseguire la liberazione nazionale e lo sviluppo economico. “La marcia verso l’instaurazione di un ordine socialista,” scrivevano i costituenti del 1973, è una “necessità fondamentale per la mobilizzazione delle potenzialità delle masse arabe nella loro lotta contro sionismo e imperialismo.” Il socialismo marxista si interessava alla lotta tra una classe proprietaria sfruttatrice e una classe lavoratrice sfruttata, mentre il socialismo arabo si occupava della lotta tra nazioni sfruttatrici e nazioni sfruttate. Anche se questi distinti generi di socialismo operavano a livelli differenti, simili distinzioni non avevano nessuna importanza per le banche occidentali, per le corporation e per i grandi investitori, tutti alla ricerca globale del profitto. Il socialismo andava contro gli interessi del capitale industriale e finanziario statunitense, sia che avesse come fine la cessazione dello sfruttamento della classe lavoratrice, sia che volesse eliminare l’oppressione imperialistica di un gruppo nazionale.
Il socialismo ba’athista irrita Washington da lungo tempo. Lo stato ba’athista ha esercitato una rimarchevole influenza sull’economia siriana, attraverso la proprietà di imprese, sostegno finanziario a imprese private locali, limitazioni agli investimenti stranieri e restrizioni alle importazioni. I ba’athisti ritenevano simili misure come strumenti indispensabili per uno stato post coloniale che cercasse di sottrarre la sua vita economica dalla stretta delle precedenti potenze coloniali, e realizzare una via allo sviluppo libera da interessi stranieri.
Gli obbiettivi di Washington, però, erano ovviamente l’opposto. Non voleva che la Siria promuovesse la propria industria e proteggesse con zelo la propria indipendenza, ma piuttosto che si piegasse agli interessi di banchieri e grandi investitori (quelli che contavano veramente negli Stati Uniti), aprendo il mercato del lavoro siriano allo sfruttamento e la terra e le risorse naturali all’appropriazione straniera. La nostra agenda, dichiarava l’amministrazione Obama nel 2015, “è focalizzata sull’abbassamento dei dazi sulle merci statunitensi, l’abbattimento delle barriere verso i nostri beni e servizi, e un’elevazione degli standard che assicuri un equo contesto per le imprese americane.” [57] Non era una strategia inedita, ma quella perseguita da decenni da parte della politica estera degli Stati Uniti. Damasco non si stava allineando ai voleri di un governo che insisteva nel potere e volere “essere alla guida dell’economia mondiale.” [58]
I puri e duri di Washington avevano considerato Hafez al-Assad un arabo comunista, [59] e i funzionari statunitensi hanno considerato suo figlio Bashar un ideologo incapace di rinunciare al terzo pilastro del programma del Partito Ba’ath Socialista Arabo [Partito del Risorgimento Arabo Socialista (Ba’ath = Risorgimento)]: il socialismo. Il Dipartimento di Stato statunitense lamentava che la Siria “non è riuscita a integrarsi in un economia globale interconnessa,” sarebbe a dire che aveva mancato di consegnare le imprese statali nelle mani degli investitori privati, che comprendevano i poteri finanziari di Wall Street. Il Dipartimento di Stato dichiarava anche la sua insoddisfazione di fronte alle “ragioni ideologiche” che avevano impedito ad Assad di liberalizzare l’economia siriana, al fatto che “la privatizzazione delle imprese di stato non era ancora molto praticata,” e che l’economia “rimane ancora largamente sotto controllo governativo.” [60] Era evidente che Assad non aveva appreso quella che Washington chiamava “la lezione della storia”, e cioè che “le economie di mercato, e non quelle sotto stretto controllo governativo, sono le migliori.” [61] Stilando una costituzione che imponeva che il governo conservasse un ruolo nella guida dell’economia, in nome degli interessi della Siria, e che detto governo non avrebbe fatto lavorare i siriani per il profitto di banche, corporation e investitori occidentali, Assad proclamava l’indipendenza della Siria dalla politica statunitense di “apertura dei mercati e l’assicurazione di un equo contesto per gli affari americani all’estero.” [62]
Come se non bastasse, Assad ribadiva la sua fedeltà ai valori socialisti a dispetto di quello che Washington aveva chiamato a sua volta “l’imperativo morale” della “libertà economica,” [63] inserendo nella costituzione: salvaguardie in caso di malattia, disabilità ed età avanzata; accesso alle cure mediche; e istruzione gratuita a ogni grado. Questi diritti sarebbero rimasti al di là della facile portata di legislatori e politici che avrebbero potuto sacrificarli sull’altare della creazione di un clima a bassa tassazione favorevole agli investimenti esteri. Ulteriore insulto all’ortodossia affaristica di Washington, la costituzione obbligava lo stato a un sistema fiscale progressivo.
Per finire, il leader ba’athsta incluse nella nuova costituzione una misura introdotta dal padre nel 1973, un passo avanti verso una vera, genuina democrazia – una misura che i decisori di Washington, pesantemente ammanicati col mondo delle banche e delle corporation, non potevano certo tollerare. La costituzione avrebbe prescritto che almeno una metà dell’Assemblea del Popolo provenisse dai ranghi di contadini e operai.
Come neoliberista, Assad sarebbe stato di certo uno dei più strambi seguaci dell’ideologia.
Siccità?
Un ultima osservazione sulle origini della rivolta violenta del 2011: alcuni sociologi e analisti hanno elaborato uno studio pubblicato sui Proceedings of the National Academy of Sciences[Atti dell’Accademia Nazionale delle Scienze (degli Stati Uniti)]che suggerisce che “la siccità ha svolto un ruolo nei disordini siriani.” Secondo questa linea interpretativa la siccità “ha provocato cattivi raccolti che hanno provocato la migrazione di almeno un milione e mezzo di persone dalle zone rurali a quelle urbane.” Tutto ciò, combinato col flusso di rifugiati provenienti dall’Iraq, intensificò la competizione per i posti di lavoro, già scarsi, nelle aree urbane, facendo della Siria un calderone di tensioni economiche e sociali pronto a traboccare. [64] Sembra una tesi ragionevole, anzi, “scientifica,” ma il fenomeno che tenta di spiegare – una sollevazione di massa in Siria – non si è mai verificato. Come abbiamo osservato, una rassegna della copertura da parte della stampa occidentale non ha trovato alcun riferimento a una sollevazione di massa. Al contrario, i giornalisti che si aspettavano un quadro del genere rimasero stupiti dinanzi alla sua assenza. I giornalisti occidentali, invece, si trovarono di fronte una Siria sorprendentemente tranquilla. Le dimostrazioni indette dagli organizzatori della pagina Facebook Syrian Revolution 2011fecero fiasco. Gli oppositori ammisero la popolarità di Assad. I reporter non riuscirono a trovare qualcuno che ritenesse imminente una rivolta. Perfino a un mese dai fatti di Daraa – che coinvolse solo alcune centinaia di manifesdtanti, eclissati dalle decine di migliaia che sfilarono a Damasco a sostegno del governo – il giornalista del New York Timessul posto, Anthony Shadid, non vide alcun segno in Siria delle sollevazioni di massa di Tunisia ed Egitto. All’inizio del febbraio del 2011 “Omar Nashabe, da lungo tempo osservatore e corrispondente dalla Siria per il quotidiano arabo di Beirut Al-Ahkbar” riferì a Timeche “i siriani possono essere afflitti da una tasso di povertà del 14 per cento, inseme a un tasso stimato di disoccupazione del 20 per cento, ma Assad mantiene la sua credibilità.” [65]
Che il governo riscuotesse il sostegno popolare venne confermato quando la società di ricerca britannica YouGov alla fine del 2011 pubblicò un sondaggio che mostrava come il 55 per cento dei siriani fosse a favore della permanenza di Assad al potere. Il sondaggio non ebbe quasi eco tra i media occidentali, la qual cosa spinse il giornalista britannico Jonathan Steel a chiedersi: “Ipotizziamo che un attendibile sondaggio d’opinione riveli che la maggior parte dei siriani sia favorevole a che Bashar al-Assad rimanga presidente, sarebbe uno scoop, no?” Steele descriveva i risultati del sondaggio come “fatti scomodi” che venivano “eliminati” perché i reportage dei media occidentali sugli eventi in Siria avevano smesso di “essere equilibrati” e si erano trasformati in “un’arma propagandistica.” [66]
Slogan al posto dell’analisi politica
Draitser è in difetto, non solo perché porta avanti, senza alcuna prova, un ragionamento che non ha riscontri se non in se stesso, ma soprattutto perché sostituisce alla politica e all’analisi gli slogan. Nel suo articolo del 20 ottobre su Counterpunch, Syria and the Left: Time to Break the Silence, egli sostiene che gli obbiettivi caratterizzanti la Sinistra dovrebbero essere il perseguimento di pace e giustizia, come se si trattasse di entità indivisibili che mai possono opporsi l’un l’altra. Che pace e giustizia possano, in certi casi, essere antitetiche, lo si illustra nella seguente conversazione tra il giornalista australiano Richard Carleton e Ghassan Kanafani, scrittore e rivoluzionario palestinese. [67]
C: Come mai la vostra organizzazione non si impegna in colloqui di pace con gli israeliani?
K: Lei non intende realmente “colloqui di pace”. Lei intende capitolazione. Resa.
C: Ma perché non parlare?
K: Parlare con chi?
C: Parlare coi leader israeliani.
K: Sarebbe un po’ una conversazione tra la spada e il collo, quella.
C: Be’, se non ci sono spade o fucili in vista, si può parlare.
K: No. Non ho mai visto un colloquio tra un colonizzatore e un movimento di liberazione nazionale.
C: Ma nonostante questo, perché non parlare?
K: Parlare di cosa?
C: Parlare della possibilità di non combattere.
K: Non combattere per cosa?
C: Non combattere e basta. Non importa il motivo.
K; Di solito si combatte per qualcosa. E si smette per qualcosa. Per cui lei non riesce nemmeno a dirmi perché dovremmo parlare, e di cosa. Perché dovremmo parlare della cessazione dei combattimenti?
C: Parlare di cessare i combattimenti per porre fine alla morte e alla sofferenza, la distruzione e il dolore.
K: La sofferenza, la distruzione, il dolore e la morte di chi?
C: Dei palestinesi, degli israeliani, degli arabi.
K: Del popolo palestinese che viene scacciato, confinato nei campi di rifugiati, che viene affamato e ucciso da vent’anni, a cui è proibito perfino l’uso del nome “palestinesi”?
C: In ogni caso, meglio così che morti.
K: Forse per lei. Per noi, no: Per noi, la liberazione del nostro paese, avere dignità, rispetto, avere i nostri semplici diritti umani è qualcosa di essenziale come la stessa vita.
A quali valori dovrebbe dedicarsi la Sinistra statunitense in caso di conflitto tra pace e giustizia, questo Draitser non lo dice. L’evocazione dello slogan “pace e giustizia” come auspicata missione della Sinistra USA sembra essere nulla più che un invito alle persone di sinistra perché abbandonino la politica imbarcandosi invece nella missione di diventare anime belle, che volano alto sopra i sordidi conflitti che affliggono l’umanità – senza mai schierarsi, se non dalla parte degli angeli. La sua affermazione che “nessuno stato o gruppo ha a cuore il miglior interesse dei siriani” e quasi troppo sciocco per meritare un commento. Come fa a saperlo, lui? Non si può evitare l’impressione che egli ritenga che solo lui e la Sinistra statunitense, solitari in mezzo a gruppi e nazioni di tutto il mondo, sappiano cosa sia meglio per il “popolo siriano.” Forse è per questo che ritiene che la responsabilità della Sinistra sia “nei confronti del popolo siriano,” quasi che il popolo siriano fosse una massa indistinta con interessi e obbiettivi politici in comune. Considerati come un unico insieme, i siriani includono sia i laici sia gli islamisti, che hanno visioni incompatibili sull’organizzazione dello stato, che sono impegnati in una lotta feroce da più di mezzo secolo – una lotta alimentata, in favore degli islamisti, dal suo stesso governo [di Draitser, cioè]. I siriani come massa includono quelli favorevoli all’integrazione con l’impero statunitense e quelli che la rifiutano. Sotto questa prospettiva cosa mai vuol dire che la Sinistra statunitense ha una responsabilità nei confronti del popolo siriano? Quale popolo siriano?
A me sarebbe venuto in mente che la responsabilità della Sinistra USA sia nei confronti dei lavoratori statunitensi, non nei confronti del popolo siriano. E avrei anche immaginato che la Sinistra avrebbe considerato fra le proprie responsabilità la diffusione di una rigorosa, fattuale analisi politica su come le élite economiche statunitensi utilizzano l’apparato statale per tutelare i loro interessi a discapito del popolo, sia in patria sia all’estero. Qual è l’effetto della lunga guerra di Washington contro la Siria sui lavoratori statunitensi? È di questo che Draitser dovrebbe occuparsi.
Note
1 Aryn Baker, “Syria is not Egypt, but might it one day be Tunisia?,” Time, 4 febbraio 2011
2 Rania Abouzeid, “The Syrian style of repression: Thugs and lectures,” Time, 27 febbraio 2011
3 Rania Abouzeid, “Sitting pretty in Syria: Why few go backing Bashar,” Time, 6 marzo 2011
4 Rania Abouzeid, “The youth of Syria: the rebels are on pause,” Time, 6 marzo 2011.
5 Rania Abouzeid, “The youth of Syria: the rebels are on pause,” Time, 6 marzo 2011
6 “Officers fire on crowd as Syrian protests grow,” The New York Times, 20 marzo 2011
7 Nicholas Blanford, “Can the Syrian regime divide and conquer its opposition?,” Time, 9 aprile 2011
8 Robert Fisk, “Welcome to Dera’a, Syria’s graveyard of terrorists,” The Independent, 6 luglio 2016
9 President Assad to ARD TV: Terrorists breached cessation of hostilities agreement from the very first hour, Syrian Army refrained from retaliating,” SANA, 1 marzo 2016
10 Ibid
11 “Officers fire on crowd as Syrian protests grow,” The New York Times, 20 marzo 2011
12 Rania Abouzeid, “Arab Spring: Is a revolution starting up in Syria?” Time, 20 marzo 2011; Rania Abouzeid, “Syria’s revolt: How graffiti stirred an uprising,” Time, 22 marzo, 2011
13 “Officers fire on crowd as Syrian protests grow,” The New York Times, 20 marzo 2011
14 Rania Abouzeid, “Arab Spring: Is a revolution starting up in Syria?,” Time, 20 marzo 2011
15 “Thousands march to protest Syria killings”, The New York Times, 24 marzo 2011
16 Rania Abouzeid, “Assad and reform: Damned if he does, doomed if he doesn’t,” Time, 22 aprile 2011
17 “Officers fire on crowd as Syrian protests grow,” The New York Times, 20 marzo 2011
18 Aryn Baker, “Syria is not Egypt, but might it one day be Tunisia?,” Time, 4 febbraio 2011
19 Nicholas Blanford, “Can the Syrian regime divide and conquer its opposition?” Time, 9 aprile 2011.
20 Alfred B. Prados and Jeremy M. Sharp, “Syria: Political Conditions and Relations with the United States After the Iraq War,” Congressional Research Service, 28 febbraio 2005
21 Rania Abouzeid, “Syria’s Friday of dignity becomes a day of death,” Time, 25 marzo 2011
22 Rania Abouzeid, “Syria’s Friday of dignity becomes a day of death,” Time, 25 marzo 2011
23 “Syrie: un autre eclarage du conflict qui dure depuis 5 ans, BeCuriousTV ,” 23 marzo 2016, http://www.globalresearch.ca/syria-aleppo-doctor-demolishes-imperialist-propaganda-and-media-warmongering/5531157
24 Nicholas Blanford, “Can the Syrian regime divide and conquer its opposition?” Time, 9 aprile 2011
25 Jay Solomon, “To check Syria, U.S. explores bond with Muslim Brothers,” The Wall Street Journal, 25 luglio 2007
26 Ibid
27 Liad Porat, “The Syrian Muslim Brotherhood and the Asad Regime,” Crown Center for Middle East Studies, Brandeis University, December 2010, No. 47
28 Ibid
30 Alfred B. Prados and Jeremy M. Sharp, “Syria: Political Conditions and Relations with the United States After the Iraq War,” Congressional Research Service, 28 febbraio 2005.
31 Anthony Shadid, “Security forces kill dozens in uprisings around Syria”, The New York Times, 22 aprile 2011
32 Rania Abouzeid, “Syria’s Friday of dignity becomes a day of death,” Time, 25 marzo 2011
33 Fabrice Balanche, “The Alawi Community and the Syria Crisis Middle East Institute, 14 maggio 2015
34 Anthony Shadid, “Syria broadens deadly crackdown on protesters”, The New York Times, 8 maggio 2011
35 Rania Abouzeid, “Meet the Islamist militants fighting alongside Syria’s rebels,” Time, 26 luglio 2012
36 Rania Abouzeid, “Interview with official of Jabhat al-Nusra, Syria’s Islamist militia group,” Time, 25 dicembre 2015
37 Robert Fisk, “Syrian civil war: West failed to factor in Bashar al-Assad’s Iranian backers as the conflict developed,” The Independent, 13 marzo 2016
38 Anthony Shadid, “Syria broadens deadly crackdown on protesters”, The New York Times, 8 maggio 2011
39 Nada Bakri, “Syria allows Red Cross officials to visit prison”, The New York Times, 5 settembre 2011
40 Nada Bakri, “Syrian opposition calls for protection from crackdown”, The New York Times, 25 ottobre 2011
41 President al-Assad to Portuguese State TV: International system failed to accomplish its duty… Western officials have no desire to combat terrorism, SANA, 5 marzo 2015
42 Patrick Seale, “Syria’s long war,” Middle East Online, 26 settembre 2012
43 Ibid
44 Rania Abouzeid, “Sitting pretty in Syria: Why few go backing Bashar,” Time, 6 marzo 2011
45 Rania Abouzeid, “The youth of Syria: the rebels are on pause,” Time, 6 marzo 2011
46 “Can the Syrian regime divide and conquer its opposition?” Time, 9 aprile 2011
47 Anthony Shadid, “Security forces kill dozens in uprisings around Syria”, The New York Times, 22 aprile 2011
48 Ben Fenton, “Macmillan backed Syria assassination plot,” The Guardian, 27 settembre 2003
49 Robert Fisk, “Conspiracy of silence in the Arab world,” The Independent, 9 febbraio 2007
50 Robert Dreyfus, Devil’s Game: How the United States Helped Fundamentalist Islam, Holt, 2005, p. 205
51 William R. Polk, “Understanding Syria: From pre-civil war to post-Assad,” The Atlantic, 10 dicembre 2013
52 Dreyfus
53 Dreyfus
54 William R. Polk, “Understanding Syria: From pre-civil war to post-Assad,” The Atlantic, 10 dicembre 2013
55 Quoted in Nikolas Van Dam, The Struggle for Power in Syria: Politics and Society under Asad and the Ba’ath Party, I.B. Taurus, 2011
56 Patrick Cockburn, “Confused about the US response to Isis in Syria? Look to the CIA’s relationship with Saudi Arabia,” The Independent, 17 giugno, 2016
57 National Security Strategy, febbraio 2015
58 Ibid
59 Robert Baer, Sleeping with the Devil: How Washington Sold Our Soul for Saudi Crude, Three Rivers Press, 2003, p. 123
60 Sito del Dipartimento di Stato. http://www.state.gov/r/pa/ei/bgn/3580.htm#econ. Consultato l’8 febbraio 2012
61 The National Security Strategy of the United States of America, settembre 2002
62 National Security Strategy, febbraio 2015
63 The National Security Strategy of the United States of America, marzo 2006
64 Henry Fountain, “Researchers link Syrian conflict to drought made worse by climate change,” The New York Times, 2 marzo 2015
65 Aryn Baker, “Syria is not Egypt, but might it one day be Tunisia?,” Time, 4 febbraio 2011
66 Jonathan Steele, “Most Syrians back President Assad, but you’d never know from western media,” The Guardian, 17 gennaio 2012

67 “Full transcript: Classic video interview with Comrade Ghassan Kanafani re-surfaces,” PFLP, 17 ottobre 2016 [trascrizione in inglese], http://pflp.ps/english/2016/10/17/full-transcript-classic-video-interview-with-comrade-ghassan-kanafani-re-surfaces/

Un nuovo Maggio 68


Tonino D’Orazio 
Gli ingredienti ci sono tutti, anche questa volta si parte dal lavoro e le libertà in filigrana. Di nuovo la Francia, anche come caloroso risveglio di primavera, con gli studenti di nuovo in partenariato con i lavoratori, precarizzati o da precarizzare di più, con la riforma del mercato del lavoro copiato dal Job Act renziano, da un altro se dicente socialista, Hollande. Meno con i sindacati, eccetto la CGT. Anche, allora c’ero in quelle strade parigine, le organizzazioni, scavalcate direttamente dai lavoratori si unirono poi con la CGT per la manifestazione decisiva dell’11 maggio 1968, facendo scappare a Strasburgo (cioè vicino alla frontiera tedesca) il presidente De Gaule. Con i francesi non si sa mai. In Italia i sindacati attrezzarono un autunno caldo solo nel 1969, ma diede ai lavoratori, negli anni successivi, gran parte dei diritti oggi perduti.
Oggi i francesi sembrano arrivare in ritardo, dopo il M5S in Italia, Syriza in Grecia, Podemos in Spagna e Blocco della Sinistra in Portogallo, e dopo che Occupy Wall Street sembra sia stato recuperato ufficialmente. Sembrano però aver creato l’effetto Sanders negli Stati Uniti e un ritorno dei socialisti operaisti con Jeremy Corbyn a capo del Labour in Gran Bretagna. E’ assente la Germania, non a caso, visto che la mangiatoia è piena e possono iniziare anche a battere moneta. Tutti contro il neoliberismo, il FMI, la Bce, la troika di Bruxelles e le politiche di austerità che impoveriscono molti e arricchiscono pochi. Tutti, come filo conduttore che li lega, contro l’ingiustizia sociale, lo sfruttamento e la compressione della democrazia. Tutti contro i partiti tradizionali e i risultati politico-sociali dei loro governi.
Fanno paura? Forse sì, a vedere con quale incredibile violenza i celerini hanno “accolto” i liceali andati ad incontrare i ferrovieri della stazione Saint Lazare in sciopero. Il timore è proprio quello di un vero collegamento di lotta tra studenti e lavoratori. Sono sempre “convergenze” pericolose.
Da novembre scorso e la proclamazione dello “stato d’urgenza” lo Stato della regressione sociale e del manganello si è rapidamente sviluppato. Il neoliberismo (o fascismo) padronale ne approfitta per “spezzare” qualsiasi movimento di rivendicazione sociale, facendo arrestare tutti i contestatari in nome della sicurezza, e trasferire nei tribunali, non proprio come “terroristi”, perché nessuno ci crederebbe veramente, ma quasi, e comunque persone da ritenere “pericolose”. Centinaia di liceali sono stati arrestati, “rinfrescati” e rimessi in libertà provvisoria. Altri sono ancora agli arresti. Nel frattempo sono aumentate le violenze della polizia, tanto da far protestare ufficialmente la CGT. Rimane il concetto che manganellare liceali in manifestazioni pacifiche è la dimostrazione del “timore” e della malafede dello stato. A meno di pensare a “educarli”, come diceva bene l’ex presidente Cossiga.
In realtà, più che le manifestazioni e gli scontri, che tengono accesi la lotta e l’informazione, il fenomeno “nuovo” è il ritorno all’occupazione delle piazze. A Parigi, in particolare, e carica di significati, è quella della République. Stessa piazza occupata in altre città importanti della Francia. Dove tutte le notti si radunano migliaia di persone, studenti compresi, allo slogan “Nuit debout” (notte in piedi). Ogni notte i giovani cantano, ballano e discutono sui diritti e sulla situazione economica. Vengono sgomberati al mattino dalla polizia, ma sembra più un balletto, perché tutti tornano la notte seguente. Dura da 51 giorni. Sappiatelo, perché tanto le televisioni padronali, Rai compresa, non ve lo diranno.
Cosa fanno? Discutono di tutto, anzi si organizzano in gruppi di lavoro “popolari”, con nozioni semplici e precise sui diritti inviolabili, non solo sociali, contro lo strapotere delle banche e per la ridistribuzione della ricchezza prodotta nel paese. Vogliono il rispetto dei diritti, giustizia sociale ed eguaglianza. Insomma la storia ritorna sempre con la loro bussola di Liberté, Egalité, Fraternité, (anche se rimpiazzata da: Equité, solidarité, dignité), da Place de la République a Place de la Bastille. Dove gli universitari, dopo aver bloccato alcune università di Parigi, ballano ritmicamente su “tre passi a destra, tre passi indietro, è la politica del governo”. “Abbiamo una sinistra che merita un destro!” Ma guarda! Forse i giovani iniziano a muoversi per prendere in mano il loro destino, oggi così insicuro. Quelli francesi vogliono reagire, non vogliono cedere, asettizzati, come hanno fatto la grande maggioranza dei giovani degli altri paesi del Sud Europa. Sembrano voler rilanciare lo slogan di Stephane Hessel, “Indignatevi”. Momentaneamente queste manifestazioni sono sostenute solo dalla CGT, sindacato notoriamente “comunista” e anti liberista, in nome della libertà di espressione. Sono sostenute anche dalla Lega dei Diritti Umani, che ha chiesto allo stato di intervenire approntando almeno box-wc.
Questione filosofica? E se in queste piazze si stesse fabbricando, anche se in maniera balbuziente, una concezione della politica più degna e quotidiana, lontana dalla deriva arbitraria di regimi partitici diventati pretesa unica di democrazia? Se fosse un dispositivo pratico e sicuro per rilanciare l’immaginario politico-ideale di una società, anche squisitamente europea e umanistica, che invece sta scivolando sempre più in un fango oligarchico e nelle mani di una destra fascistoide?
L’inizio di questi “assembramenti” di piazza ha coinciso con una protesta immensa contro la legge di riforma del mercato del lavoro in Francia. Spesso si pensa che fatta la manifestazione, poi, non succede mai nulla. Invece proprio dal lavoro è ripartita la discussione democratica e la continuità della lotta. Nelle piazze di tutta la Francia.
La risposta, tutta politica, del padronato francese è di stampo marchionniano: sospendere tutte le trattative di rinnovo contrattuale con i sindacati e i lavoratori. Tanto gli amici al governo regalano loro, democraticamente, le leggi per lo sfruttamento dei lavoratori nel mercato a senso unico del lavoro.

Argentina, la restaurazione neoliberale di Mauricio Macri. La fine del mondo?

dal Blog di Gennaro Carotenuto

C’è un elemento nel voto presidenziale argentino, che porta alla Casa Rosada il neoliberale duro e puro Mauricio Macri, sul quale non bisogna smettere di porre l’accento. Dodici anni di governo di centro-sinistra, a 32 anni dalla caduta dell’ultima dittatura, si sono conclusi con un voto di ballottaggio tirato (51/49) e con una transizione come nelle regole di una democrazia solida. Dopo un lungo ciclo progressista, ora è il turno della destra. Sta a quest’ultima, non certo alla sinistra, dimostrarsi matura per a) non vivere il ritorno al potere come mera rappresaglia, riprivatizzazione, smantellamento del welfare, retrocedendo anche in quelli che dovrebbero essere terreni condivisi come i diritti civili, quelli umani, l’integrazione latinoamericana. b) mantenere le condizioni di agibilità democratica per riconsegnare il potere all’opposizione quando sarà il popolo a decidere, come sta facendo, in pace e democrazia, la sinistra.
Sul punto a) Macri guarda a Washington più che a Brasilia, e ai capitali finanziari invece che al Mercosur, e afferma che con lui “finisce il clientelismo dei diritti umani” e il quotidiano La Nación che già oggi chiede la fine dei processi per violazioni dei diritti umani. Sul punto b) i suoi migliori amici e riferimenti culturali sono la destra pinochetista cilena non rinnovata di Joaquín Lavín, l’ex inquilino della Moncloa José María Aznar, sponsor del golpe del 2002 a Caracas, e Álvaro Uribe, che minaccia di tornare di concerto con un inquilino repubblicano alla Casa Bianca per far fallire il processo di pace in Colombia. Sarà quindi bene vigilare che questa destra, che ha dimostrato nelle sindacature Macri a Buenos Aires di usare sfacciatamente la repressione violenta della protesta sociale, sia capace di non smantellare anche il sistema democratico come farà con lo stato sociale. Torneranno infatti le politiche monetariste, dettate dall’FMI, analoghe a quelle imposte dalla dittatura e indurite dal menemismo, che resero quella sterminata pianura fertile che è l’Argentina, dove ancora nel 1972 vigeva la piena occupazione, una terra desolata di indigenza e denutrizione per i più e un paradiso per pochi, la cosiddetta farandula, che non ha mai smesso di controllare i media e ora pronta a tornare al potere.
Il kirchnerismo ha molti meriti storici. Ha tirato fuori il paese da una crisi esiziale, recuperato il ruolo dello Stato, stabilito una politica dei diritti umani modello, e avanzato nei diritti civili come in Italia possiamo solo sognare, rilanciato un welfare indispensabile e ridisegnato il futuro del paese (Qui su Néstor, qui a dieci anni dal default, qui il bilancio dopo il primo turno, col facile vaticinio sulla debolezza di Scioli, molto altro sul sito). Ancora tre giorni fa il premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz ricordava che: “L’Argentina ha molto da insegnare al mondo ed è uno dei pochi casi di successo nella riduzione di povertà e disuguaglianza dopo la crisi”. Sono proprio quelle perfettibili politiche di integrazione che Macri vuole smantellare da domani, rappresentandole -è la visione del gorillismo tradizionale della classe media- come intollerabili sussidi clientelari, che alimentano il parassitismo popolare, ma che hanno permesso per esempio all’Argentina di essere uno dei pochi casi di successo di lotta all’abbandono scolastico del sottoproletariato urbano. Tutto passa, todo cambia, sono stati anche anni di errori, debolezze, inefficienze, corruttele, ipocrisie, sconfitte chiare, come quella ambientale e quella sulla riforma fiscale, ciclicità economiche (l’Argentina è stata una tigre, ora non lo è più), il bombardamento d’odio e menzogne durato 12 anni da parte del mainstream come e peggio che per gli altri governi di centro-sinistra, che non ha scalfito il rispetto che merita Cristina Fernández, che esce dalla casa Rosada con un consenso e un indice di approvazione maggiore di quello dei due rivali di ieri.
Non va sottovalutata la questione leader in un Continente caratterizzato dal sistema presidenziale. Quando devi gestire l’esistente, in genere da destra, cambiare un presidente è poca cosa. Se il presidente finisce per incarnare un processo storico popolare (penso a Evo Morales) allora la caducità biologica e politica è uno scacco e un vantaggio enorme per la controparte. La precoce uscita di scena di Néstor e Hugo Chávez, ma anche di Lula e Cristina, sono colpi che, anche un movimento popolare forte, non può parare con uno Scioli e forse neanche con dirigenti consolidati, forti di un’investitura come Rousseff o Maduro. Altri leader popolari verranno, tra le migliaia di quadri che si stanno formando non tutti accecati dal carrierismo, forse sono un male necessario.
Quella argentina è dunque una prima breccia che si apre (faccia eccezione l’effimero Fernando Lugo in Paraguay e Mel Zelaya in Honduras, entrambi rovesciati da golpe più o meno tradizionali) nello straordinario processo vissuto in particolare dall’America latina atlantica nel corso degli ultimi tre lustri, e che faceva seguito al fallimento, etico prima ancora che economico, del neoliberismo realizzato e che ha riportato al dibattito pubblico le ragioni dell’uguaglianza e della giustizia sociale oltre al rafforzamento di un progetto d’integrazione regionale difficilmente cancellabile qual che sia la volontà dei nuovi governanti. Almeno sul lungo periodo, è necessario non sopravvalutare il valore della sconfitta elettorale come era necessario essere prudenti sull’esistenza di un’egemonia progressista. Di cambi di campo ne verranno altri, è difficile dubitarne, ma sarebbe un errore di valutazione parlare di mero ritorno al passato.
Il neoliberismo fu imposto al continente negli anni Ottanta in assenza di un campo popolare sbaragliato dalle dittature, nella fine del socialismo reale e nel dogmatismo di un “pensiero unico” allora senza alternativa. Quel 49% che ha votato obtorto collo per Daniel Scioli, spesso solo per paura di Macri, e quelle enormi minoranze che domani potrebbero esserci in altri paesi, sono una sinistra nuovamente strutturata intorno a una visione di futuro spesso più avanzata di quella degli stessi governi integrazionisti. Questi, nel corso degli anni, hanno spesso dovuto venire a patti con un modello di sviluppo che resta malato, in particolare rispetto all’agroindustria, al settore minerario, alle schiavitù da monocultura, retaggio coloniale e dell’aver perso il treno dello sviluppo industriale e a tutto quello che, creando profitti, ha permesso di sostenere gli enormi investimenti in welfare di questi anni.
I movimenti sociali, quelli che all’inizio del secolo hanno scritto la storia del Continente, partendo dai bisogni reali delle masse popolari (contadine, indigene, il sottoproletariato urbano) e sono stati protagonisti insieme ai governi del rifiuto dell’ALCA che Bush voleva imporre, hanno spesso vissuto con difficoltà la sindrome del governo amico, apprezzato, criticato, capace di cooptare non sempre in maniera limpida, ma col quale stabilire un dialogo tale da espungere la violenza politica e di piazza da una parte e dall’altra. Adesso inizia una nuova storia, si può tornare a riflettere sulle insipienze dei governi progressisti (per esempio sulla sinonimia consumatori/cittadini e sulla necessità di ripensare il rapporto sviluppo/ambiente) ma quell’energia creativa può tornare a liberarsi scevra da tatticismi. L’Argentina, l’America latina, deve preoccuparsi e mobilitarsi contro il ritorno di politiche neoliberali già provatamente fallimentari, contro l’erosione di diritti e contro l’estensione del triste destino di narcostati che tocca a parti fondamentali del corpo della Patria grande, come il Messico. Con Mauricio Macri il “pensiero unico” torna al potere, ma in quanto tale è morto e sepolto.

La fine del kirchnerismo e del ciclo progressista in America latina?

dal blog di Gennaro Carotenuto


È tempo di provare un’analisi che vada oltre il mero risultato del primo turno presidenziale argentino ma che da questo parta. È finito, anche se vincesse Daniel Scioli, il ciclo kirchnerista che ha ricostruito il paese dopo il default del 2001, e da tempo, in particolare con le difficoltà brasiliane e venezuelane degli eredi di Lula e Chávez, sembra giunto alla fine il ciclo storico progressista e integrazionista dell’America latina post-neoliberale. Partiamo brevemente dall’oggi, dalla foto di famiglia con il borghese Scioli in cravatta e il suo candidato proletario alla vicepresidenza Zannini, per allargare il discorso.
Dunque per la prima volta nella storia argentina ci sarà un ballottaggio. Questo partirà da un pareggio tecnico tra il candidato appoggiato dalla maggioranza, Daniel Scioli e quello della destra neoliberale Mauricio Macri (accentato sulla ‘a’, non sulla ‘i’, Màcri). I sondaggi, ai quali per una volta sarebbe ingiusto dare tutte le colpe, erano tutti appiattiti sul voto nelle primarie obbligatorie di agosto, quando il 38% degli elettori scelse di partecipare a quelle del Frente para la Victoria, che aveva il solo Scioli come candidato, e il 31% appoggiò la coalizione di destra. In due mesi, non rilevati dalla demoscopia, una scienza sempre meno esatta, se mai lo è stata, il FpV non ha guadagnato quel paio di punti che avrebbero permesso la vittoria al primo turno e Macri ha sfondato quel bacino del 30% nel quale le destre erano relegate anche quando governavano col menemismo (voti peronisti per il neoliberismo). Non è interessante qui vaticinare cosa accadrà tra quattro settimane, e quanto eventualmente sarà profonda una restaurazione neoliberale. L’impeto -un fattore importante in questi casi- però sembra spostato tutto su Macri. Il centrista Scioli, nelle analisi pro-K a lui favorevoli nella notte, ha visto ricomparire magicamente aggettivazioni come “grigio” e “scialbo”, dalle quali era per un po’ stato graziato. In questo la scelta di un candidato esterno al mondo della sinistra da parte di Cristina Fernández potrebbe passare alla storia non tanto come un errore o frutto della mancanza di alternative interne, ma come provvidenziale per eludere un confronto interno al quale potrebbe non necessariamente esserci risposta plausibile. Così Scioli, il liberale, il ricco, il grigio, l’ex-menemista, potrebbe rivelarsi il perfetto capro espiatorio per evitare che la sinistra tragga lezione non solo da tutto il positivo realizzato in dodici anni di kirchnerismo, ma anche dai limiti e dagli errori di un progetto politico che, non solo in Argentina, sembra essere giunto alla fine di un ciclo vitale.
Provando ad abbozzare un bilancio storico complessivo del kirchnerismo è sicuro che Cristina Fernández de Kirchner lascerà la Casa Rosada in dicembre avendo compiuto l’obbiettivo del consolidamento del sistema democratico in Argentina. Tale postulato non vuol dire semplicemente che nell’Argentina del XXI secolo si vota invece di tramare golpe civico-militari ma anche che, al contrario di quanto accaduto nell’epoca neoliberale che succedette alle dittature, la democrazia non può pensare di escludere tout-court le masse popolari. Non è affatto poco e anche con una eventuale presidenza Macri il menemismo duro e puro, la semplice dissoluzione dello Stato, non tornerà. Questo è il secondo punto straordinariamente rilevante.
Tutta la storia politica argentina dal 1955 al 2003, tanto attraverso governi civico-militari che civili, ha visto la continua riduzione, quasi sempre con le cattive, del ruolo dello Stato. Nonostante gli slogan dei cantori del modello neoliberale, a più debolezza dello Stato non solo è corrisposta più povertà e diseguaglianza ma anche più corruzione, dissesto, violenza, poteri criminali, ingestibilità dei conflitti sociali se non con la repressione, indifferenza per l’ambiente. Il kirchnerismo, lontano dall’essere il mondo dei sogni, ha segnato su questo piano un punto di svolta. La ricostituzione della sovranità nazionale, dissolta nell’epoca del “Washington Consensus” e delle relazioni carnali che Menem dichiarava di intrattenere con la Casa Bianca, si è concretizzata in processi di redistribuzione in favore delle classi meno abbienti. L’idea di bene pubblico e comune, e quella dello stato sociale come base per la convivenza democratica, è tornata a far parte del discorso pubblico e provvedimenti come l’assegnazione universale per figlio sono un passo concreto nella restituzione del diritto alla cittadinanza alle classi popolari. I risultati, lungi dall’essere irreversibili, sono stati solidi e incisivi, con una riduzione importante della povertà e marcati successi, ma non assoluti in particolare nel Nord, in termini di riduzione dell’indigenza e della scandalosa denutrizione. Il tutto ottenuto, ed è un limite, con una politica agraria rimasta nelle disponibilità dell’agroindustria esportatrice.
In politica estera l’Argentina ha rappresentato, con la potenza regionale Brasile, l’irruenza del Venezuela e il soft power cubano, la ripresa di un’idea di integrazione nella quale l’interesse geopolitico comune latinoamericano è emerso probabilmente in maniera strutturale e il concerto latinoamericano ha saputo risolvere quasi tutte le crisi interne nella regione, escludendo o marginalizzando gli USA, come testimonia l’epocale processo di pace colombiano in corso non a caso all’Avana. Su questo piano una presidenza Macri potrebbe fare molto danno, ma anche qui è improbabile la cancellazione di 15 anni nei quali Néstor Kirchner fu la testa pensante, anche oltre i grandi meriti di Lula e Chávez. La maniera con la quale l’Argentina è uscita dal default e a ricostituito la solvibilità delle finanze pubbliche, è stata inoltre un modello e una speranza per i paesi che avevano vissuto la seconda metà del XX secolo sotto il costante ricatto del debito e dell’FMI. La politica regionale e la collaborazione con Cina e Russia, queste ultime demonizzate da Macri, hanno permesso la riduzione del ruolo degli USA nel paese e nella Regione che, oltre la guerra fredda, era rimasto abnorme nel ventennio finale del secolo scorso. Se i futuri presidenti di un grande paese come l’Argentina potranno andare alla Casa Bianca o presso organismi internazionali come l’FMI a ristabilire relazioni meno succubi (ci si augura), lo dovranno al kirchnerismo.
A tutto ciò si aggiunga una politica sui diritti umani e per il ristabilimento di verità e giustizia per le violazioni della dittatura: un modello del quale l’Argentina può andare orgogliosa e sulla quale ho scritto parte di un libro e che ha permesso anche una svolta culturale in un paese che sembrava succube di un’impunità devastante. Sul piano dei diritti civili, il matrimonio egualitario (per citare solo un aspetto) testimonia un’opera costante di civilizzazione dei rapporti sociali, lotta al sessismo, attenzione alle questioni di genere, nella quale l’Argentina appare essere un modello per il mondo, un altro mondo per paesi infinitamente più arretrati come l’Italia. E’ stato una sorta di laboratorio al quale Jorge Bergoglio si è prima opposto per poi, una volta papa, stabilire delle relazioni rispettose. Meno bene, ma infinitamente meglio del disastro brasiliano si è fatto nel sistema educativo. A oggi in America latina sembra più facile investire in università e ricerca (il Conicet, il CNR argentino, ha accolto tanti italiani formati ed espulsi dal nostro sistema universitario) che rivoluzionare quello scolastico. Si è contrastata l’evasione scolastica, ma i figli delle periferie hanno tuttora bisogno di migliori scuole pubbliche (quelle che Menem semplicemente chiudeva). Sul piano politico i governi K., che dopo il default hanno a lungo vissuto in condizioni di semi-embargo, si sono scontrati con coraggio con monopoli come quelli dei media e dei settori agrari più poderosi, che tanto hanno segnato in negativo la storia del paese e della Regione. Ai primi si chiedeva democratizzazione, ai secondi una miglior contribuzione fiscale rispetto alle straordinarie rendite generate in particolare dalla grande bonanza del prezzo della soia, sulla quale l’agroindustria ha costruito enormi fortune. I risultati sono contrastanti sui media e si sono risolti in una sconfitta dura rispetto alle politiche di equità fiscale. La difficoltà della sfida sostenuta impone rispetto per il governo che ha riportato nei dizionari il verbo “nazionalizzare” e recuperato alla vita pubblica la petrolifera YPF, le poste, la compagnia aerea di bandiera, l’acqua potabile, tutti privatizzati durante il menemismo.
Fin qui arrivano gli aspetti positivi. Quelli negativi sono più complessi da trattare perfino in un contesto quale quello europeo che tende a non vedere i primi e sperare di liberarsi di governi visti con fastidio come “la sinistra giurassica” o con nostalgia come “la sinistra vera di una volta”. Come in Brasile, tutto il processo si è basato in una sostanziale lungo surplace con i grandi capitali con i quali il conflitto è sempre stato al massimo verbale. Questi non solo non hanno però perso nulla in questi anni, ma hanno continuato a guadagnare più di prima. Tale appeseament, forse inevitabile se si considera il modello politico-economico di partenza, si riflette nel punto chiave del consumo come valore sostitutivo alla cittadinanza, del quale dirò dopo. È un appeasement che va però declinato anche nello stallo della difesa dell’ambiente, che continua a essere sotto attacco di agroindustria e industria estrattiva, dove il governo è riuscito a fare ben poco. Come anche nell’Orinoco chavista o nell’Ecuador dell’iniziativa Yasuní, sembra che non ci sia alternativa al finanziare lo sviluppo sociale se non a spese dell’ambiente e dello sfruttamento intensivo delle risorse naturali. Non scrivo questo né per fondamentalismo ambientalista, o indigenismo fuori epoca o nostalgie arcaiche; l’America latina ha bisogno estremo di infrastrutture e di trovare un compromesso con la madre Terra per l’uso delle risorse naturali per il benessere dei viventi, ma non può lasciare che il territorio sia disponibile ai metodi usati durante tutto il XX secolo dal modello delle multinazionali, usurpazione del suolo, deportazione dei contadini, agrotossici come piovesse, miniere velenose a cielo aperto, violazioni sistematiche dei diritti sindacali e umani. Non è un caso che anche in Argentina i principali movimenti e conflitti sociali degli ultimi anni siano tutti generati intorno alla difesa dell’ambiente e alla difesa della terra. È come se, in assenza di un modello economico alternativo al capitalismo (e il socialismo non ha mai rappresentato una discontinuità su questo piano), la risposta alla distruzione del pianeta e della convivenza civile voluta dal modello neoliberale, imposto nelle camere di tortura delle dittature, e mantenuto con la narcolessi culturale delle tivù commerciali in democrazia, sia stato semplicemente un ritorno allo “sviluppismo” post-bellico ma in condizioni ben peggiori.
Non si cerca più di usare le rendite agrarie per finanziare il sol dell’avvenire di uno sviluppo industriale ormai utopico in un continente a medio reddito, ma solo per sostenere programmi sociali che riducano le ingiustizie e le disuguaglianze in assenza di un’alternativa sistemica che le superi definitivamente. La tentazione, il non detto, lo strumento di potere, è usare programmi sociali indispensabili, semplicemente giusti, per alimentare un consenso clientelare. Se l’alternativa delle destre non è più buttare il bambino con l’acqua sporca ma un uso solo clientelare degli stessi, l’alternativa della sinistra qual è?
PIÙ CONSUMATORI CHE CITTADINI
Ampliando il discorso e facendo del kirchnerismo un simbolo di un’epoca, esattamente il 5 novembre del 2005 il concerto latinoamericano sconfisse l’ALCA di George Bush, il Trattato di libero commercio delle Americhe, proprio qui a Mar del Plata. Questo era un progetto neocoloniale duro e puro anche se l’espressione stride a molti in Europa. Voleva utilizzare l’America latina come infinita maquiladora per permettere agli USA di vincere la competizione globale con la Cina. Quel giorno segnò forse il punto più alto della coscienza critica nel Continente e quindi dell’integrazione di questo. Vada come vada il 22 novembre, dei grandi leader di quel giorno il solo Evo Morales resta saldamente in sella. E resta in sella perché nel suo impegno l’aspetto del pensare un progetto integratore più ampio della società è predominante. Il welfare non basta, ma qual è l’alternativa? In qualche modo la Bolivia è tra i pochi a potersi permettere di non pensare se stessa solo come –per stare a Marcello Carmagnani- “altro Occidente”. Per quell’ibrido culturale che è l’America latina urbana, non vi è alternativa all’esserne vagone di coda a partire dal modello di sviluppo, consumi, desideri. Nessuno ha però il diritto di criticare un occidentale latinoamericano per il desiderare consumi garantiti ad altri occidentali. L’esigenza che nessuno governo –neanche Cuba- ha mai potuto eludere di sostenere la crescita economica, con la quale si pagano programmi sociali per loro natura di lungo periodo, comporta anche che gli accordi commerciali sbattuti fuori dalla porta con l’ALCA, tendano a rientrare dalla finestra. Come altrove e come Allende non fece in tempo a vedere, per la sinistra vi è inoltre il limite del riferirsi a classi popolari definitivamente oltre la fine della storia del lavoro di massa, i partiti e i sindacati. Quando Chávez evocò il fantasma del socialismo (un colpo d’ali nell’indicare la necessità di ribaltare il tavolo, più che uno strumento di propaganda, o una rottura sistemica col capitalismo) o la stessa evocazione continua del “nazionale e popolare” cristinista, si è palesato uno iato che è di comprensione dell’esistente, della sfuggevolezza dei soggetti politici ai quali si fa riferimento, della mera realizzabilità. Non è un caso che la forza dei movimenti di questi anni sia sempre stata nella puntualità dell’agenda, nella lotta contro quella singola miniera, mai nell’escatologia della costruzione di nuove società per soggettività popolari ormai sfuggenti.
Non sottovaluterei inoltre la mera questione della leadership, come testimonia il ripiegare su Scioli del kirchnerismo. Se la Storia degli ultimi due secoli è stata almeno in parte scritta dal basso in un processo non certo lineare di democratizzazione, i leader, in particolare all’interno di sistemi democratici e repubbliche parlamentari, non vengono portati dalla cicogna ogni quattro anni. La morte precocissima di Néstor Kirchner e Hugo Chávez, la sostituzione di un patrimonio di popolarità come Lula, l’epifania della cometa di Pepe Mujíca o, in un contesto diverso di Fidel Castro e perfino di un personaggio discutibile come Daniel Ortega, l’impedimento golpista a un López Obrador di governare il Messico, sono colpi non facilmente ovviabili per l’intero movimento popolare e sociale latinoamericano.
L’incontro col Secolo di una teologia politica liberatrice, parte del discorso politico di una sinistra tradizionale, popolare e nazionalista nella declinazione latinoamericana del termine, ossia quella che ha governato negli ultimi anni, si incontra oggi di fronte alla pervicacità del modello, alla persistenza dell’attribuzione di valore da parte di questo e alla fine programmatica degli obbiettivi che si era data all’interno del sistema democratico. La difesa di quest’ultimo ha sempre rappresentato una priorità di fronte a rumori di sciabole e golpe economici. Accettato di competere all’interno di un modello liberal-democratico (non vi era alcuna alternativa), adesso si fanno i conti con l’alternanza, anche se quest’ultima vuol dire disfare una tela di Penelope così faticosamente tessuta. Non è solo il Venezuela a subire da 17 anni una guerra di logoramento non sempre fredda. Non c’è un grande vecchio, non ci sono gli USA cattivi da demonizzare in un hashtag #handoffqualcosa, ma un contesto di interessi tradizionali e modernissimi che confliggono con un campo popolare culturalmente non dominante, ma anzi tuttora subalterno. Strutturalmente subalterno, forse. Perciò all’interno di una modernità e di un modello economico che non è mai stato un’alternativa sistemica al capitalismo, si sono sempre cercate crescenti e di per sé titaniche guerre di logoramento, punti di scontro, modelli di cooptazione nei quali probabilmente le regole del gioco le ha sempre dettate il nemico.
Di tutto ciò la persistenza della corruzione è il sintomo più simbolico e stigmatizzato, anche se è una balla colossale della guerra mediatica contro i governi integrazionisti sostenere che la corruzione possa essere aumentata rispetto alla fine del secolo scorso. È però una ferita aperta il perché questa riesca a cooptare anche forze apparentemente fresche, di militanza che appare sana e una volta entrata in giri di sottogoverno si uniformi quasi sistematicamente. È dai tempi della “piñata nicaraguense”, quando i leader sandinisti lasciarono il potere, spartendosi beni pubblici per veri o presunti meriti rivoluzionari, che anche in America latina la questione morale, non è più prerogativa di una parte politica, la sinistra, ma al massimo di singoli. I modelli di cooptazione per famiglie politiche, in un sistema sociale che resta basato sulla produzione di ricchezza, sul possesso di questa e sull’ostentazione del consumo, e nella quale i segni di potere e riconoscibilità sociale non si discostano da quelli degli avversari politici, non possono che produrre corruzione. È ingenuo pensare che quello che è stigmatizzato nei partiti socialdemocratici europei non debba trovare corrispondenza negli omologhi latinoamericani, nel carrierismo fine a se stesso e nella corruzione. Ma qui c’è il divorzio o, forse una nuova forma di unione civile tra classe politica e governati. È ingenuo pensare che, soprattutto nelle nostre megalopoli sofferenti, nei ranchitos di Caracas, nelle villa miseria del Gran Buenos Aires, nelle favelas di Río, quella che nel XXI secolo è la principale aspettativa delle masse popolari, forse salute ma non democrazia, non educazione, non cultura, ma consumi subito, qui e ora, possa trovare dirigenti politici talmente lungimiranti da contrastare la volontà dei loro stessi elettori e delle reti di potere che li hanno selezionati. Oltretutto privandosi delle parafernalia riconosciute del potere, quello del benessere materiale. Pepe Mujica il pauperista, era il cappellaio matto, non la nuova politica. Lula non ha dato salute ed educazione e forse neanche pane, ma ha dato il companatico; accesso ai consumi come succedaneo della cittadinanza testimoniato ovunque dalla crescita della classe media che agisce, pensa e desidera in quanto tale. E meno male, per certi versi. A partire dal Brasile è successo in tutto il Continente. Dopo decenni di critica del PIL come parametro unico della felicità e della ricchezza delle nazioni, l’esigenza di non scontrarsi con una controparte che, ricordando Pietro Nenni, non è mai uscita dalla stanza dei bottoni, ha portato a misurare la felicità in termini di crescita dei consumi interni: i grandi interessi economici hanno continuato ad arricchirsi, le classi popolari, disinteressatesi all’assalto al cielo, hanno smobilitato contentandosi dello strapuntino offerto in una società dei consumi dalle quali erano fino a ieri state escluse. Non è poco, e nessuno ha diritto di biasimarle, e forse il progresso non è leggere tutti insieme Dostoevskij (come pensavano nel Cile popolare). Forse il progresso è possedere tutti un iPhone, ma è triste pensare che dopo i migliori anni della vita del Continente, l’America latina non riesca più a volare.

Sovranità di destra e sovranità di sinistra.

di Tonino D’Orazio

Quando si fa il tifo si perde la nozione della sostanza del contendere e sicuramente una certa razionalità.

La sinistra dovrebbe rinunciare a criticare la deregolamentazione internazionale del neocapitalismo perché in alcuni paesi è diventato programma prioritario delle destre se non insieme? Rinunciare significa partecipare, viene utilizzata una tremenda parola più dolce, accompagnare.

Non si può più dire o fare nulla per intralciare il cosiddetto libero scambio. Che tanto libero, e lo sappiamo tutti, proprio non è. Da un po’ di tempo la merce la si prende con le armi. Qualunque concetto di de-mondializzazione diventa velleitaria e autarchica. Qualunque riferimento alla volontà popolare per una trasformazione sociale positiva passa per nazionalismo. Sono gli stessi propositi della sinistra europea attuale e delle destra. Sono alla fine gli elementi base per le “grandi coalizioni” per mantenere in piedi un sistema che crolla dappertutto.

Su queste idee opportunistiche delle destre, in questa fase, purtroppo le sinistre convergono anche se in ordine sparso. Per non dare adito ad accuse di neonazionalismo la sinistra non intralcia più il neoliberismo e lo stesso concetto di de-mondializzazione è visto ormai come intralcio al principio dell’internazionalismo. Principio però sempre più astratto. Perché solo i popoli, le nazioni, le democrazie partecipate possono uscire dall’ordine mondiale istaurato dal neoliberalismo. È l’esempio dei paesi sud americani. E’ il granello che può inceppare la macchina stritolatrice.

Ecco quindi di nuovo riapparire il termine nazione. Termine maledetto dagli internazionalisti, anche se quest’ultimo concetto è politicamente vuoto e non riesce a concretizzarsi in nessun posto perché occupato di fatto dal pensiero unico neoliberale in estensione e espansione mondiale. Quindi una unica nazione mondiale con regole conformi al pensiero dominante, cioè con meno regole democratiche possibili.

Una profonda differenza tra sovranità di destra e sovranità di sinistra sta nei concetti differenti. La prima si basa sulla sovranità della nazione, anche se il mondo è diventato nazione, la seconda sulla sovranità del popolo.

La destra cerca sempre l’uomo della provvidenza per dirigere la nazione, il “gruppo dei saggi”, dei competenti, dei tecnici che devono guidare la nazione, che “non hanno tempo da perdere”. In questo senso si può dire tranquillamente che Napolitano è un uomo di destra che mette in atto strumenti di destra; che per attuare il presidenzialismo di quella cultura, spinge i “saggi” embeded all’annullamento dell’art. 138 della Costituzione, vera barriera contro il risorgente fascismo e il governo autoritario di eventuali oligarchie. Quindi solo la ricerca del governo dei popoli in mano a pochi. Una tristezza dal profumo totalitario o solo e sempre più autoritario. Se si prende ad esempio la Cina, passata da uno stato totalitario ad un sistema autoritario, con aperture democratiche diluite nel tempo, in modo inversamente proporzionale si può quasi immaginare che il modello di regime verso cui tendono i paesi occidentali e la Cina possa nei prossimi anni miracolosamente convergere. Lo stallo economico ha messo in evidenza il predominio dei mercati finanziari sulla vita democratica dei paesi. La vera sinistra intende invece, come sovranità, la partecipazione più larga possibile di tutti gli interessati a prendere le decisioni. Cioè la democrazia vera e faticosa che può chiamarsi anche sovranità popolare.

L’abuso propagato dalla destra è proprio relativo alle questioni economiche. Hanno sempre approvato e sostenuto l’avanzata del neoliberismo come se fosse solo libero capitalismo e libero mercato. La parola libertà si è ristretta a pochi, a quelli che possono e possiedono tutto e tutti. Hanno osannato Regan e la Thacher. Ideologicamente le destre sono sempre state pronte allo scontro con la sovranità popolare rappresentata dalla democrazia e dai suoi strumenti o istituzioni. La doppiezza attuale delle destre sta nel fomentare loro stessi le critiche al neoliberismo e al capitalismo visti i risultati socialmente, e pericolosamente, disastrosi. Come se non avessero governato l’Europa e l’Italia da decenni. Prendono prima, davanti a una sinistra pavida e senza più orientamenti anti-capitalistici necessari al sostegno della democrazia e della sovranità popolare. Anzi, in qualche modo prona se non addirittura contro, sgretolando le costituzioni e lasciando praterie politiche alle destre che vi scorazzano e vi sguazzano.

Possibile che l’abbattimento del muro di Berlino nel 1989 abbia abbattuto definitivamente qualsiasi altra visione per un mondo diverso? Anche di un socialismo minimo ma chiaro?

Eppure un mondo diverso esiste. Ne è l’esempio la Boldrini, Presidente della Camera, con un no secco a Marchionne che governa la Fiat a nome dei suoi padroni e pensa di fare quello che vuole in Italia, Costituzione o meno, poiché i politici, proni, glielo hanno sempre permesso e gli hanno sempre regalato i soldi visto che ogni volta che chiacchiera di investimenti bussa a cassa. Ovviamente la Boldrini viene tacciata di lesa maestà anti-capitalista, e quindi di estremismo contro il pensiero unico, dalle destre italiane. Ma il centrosinistra non coglie nemmeno l’occasione di sostenerla e ribadire un sembiante di socialismo democratico, all’interno del sistema capitalistico. In nome del napolitanesco “il governo non può cadere”, anche se programmaticamente di destra e “costi quel che costi”, il centrosinistra ingoia tutto, compreso l’acquisto inutile, dannoso e guerrafondaio di farseschi bombardieri che nemmeno gli americani vogliono (vedi blocco del Congresso alla sua costruzione). Eppure, nella lettera della Boldrini, tutti gli ingredienti di una visione diversa ci sono: “Il livello e l’impatto della crisi sono tali da imporre un progetto del tutto nuovo, una politica industriale che consenta una crescita reale, basata su modelli di sviluppo sostenibile tanto a livello economico, quanto sociale e ambientale. Lei concorderà che le vecchie ricette hanno fallito e che ne servono di nuove. Affinché il nostro Paese possa tornare competitivo è necessario percorrere la via della ricerca, della cultura e dell’innovazione, tanto dei prodotti quanto dei processi. Una via che non è affatto in contraddizione con il dialogo sociale e con costruttive relazioni industriali: non sarà certo nella gara al ribasso sui diritti e sul costo del lavoro che potremo avviare la ripresa.” Un vero ceffone. Ci sono tutti gli elementi del fallimento del neoliberismo, la sua arretratezza e la sua deriva schiavistica del mondo del lavoro. La maggior parte dei partiti del centrosinistra è stata zitta e ciò non può che sembrare un silenzio assenso alle tesi delle destre. In questo forse non rappresentano più la sovranità popolare ma una rappresentanza usurpata da leggi incostituzionali e truffaldine che la magistratura pavida, o a volte tristemente connivente (basta vedere lo scontro tra Stato e mafia), tarda a dichiarare tali con i massimi organi costituzionali.

Ah, già ! La Costituzione! Quella reale o quella in trasformazione di fatto? 

La sconfitta dell’anti-Europa liberista comincia in Italia

 Franco Bifo Berardi da Micromega

L’unione europea nacque come progetto di pace e di solidarietà sociale raccogliendo l’eredità della cultura socialista e internazionalista che si oppose al fascismo.
Negli anni ’90 le grandi centrali del capitalismo finanziario hanno deciso di distruggere il modello europeo, e dalla firma del Trattato di Maastricht in poi hanno scatenato un’aggressione neoliberista. Negli ultimi tre anni l’anti-Europa della BCE e della Deutsche Bank ha preso l’occasione della crisi finanziaria americana del 2008 per trasformare la diversità culturale interna al continente europeo (le culture protestanti gotiche e comunitarie, le culture cattoliche barocche e individualiste, le culture ortodosse spiritualiste e iconoclaste) in un fattore di disgregazione politica dell’unione europea, e soprattutto per piegare la resistenza del lavoro alla definitiva sottomissione al globalismo capitalista.
Riduzione drastica del salario, eliminazione del limite delle otto ore di lavoro quotidiano, precarizzazione del lavoro giovanile e rinvio della pensione per gli anziani, privatizzazione dei servizi. La popolazione europea deve pagare il debito accumulato dal sistema finanziario perché il debito funziona come un’arma puntata alla tempia dei lavoratori.
Cosa accadrà? Due cose possono accadere: o il movimento del lavoro riesce a fermare questa offensiva e riesce a mettere in moto un processo di ricostruzione sociale dell’Unione europea, o il prossimo decennio vedrà in molti luoghi d’Europa esplodere la guerra civile, il fascismo crescerà dovunque, e il lavoro sarà sottomesso a condizioni di sfruttamento ottocentesco.
Ma come fermare l’offensiva?
Le elezioni italiane sono una risposta che può evolversi in maniera positiva o in maniera catastrofica. Dipende dai progressisti, gli intellettuali e gli autonomi del continente, dipende da noi.
Il 75% dell’elettorato italiano ha detto no al progetto anti-europeo di Merkel Draghi Monti.
25% si sono astenuti, 25% hanno votato per il movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, 25% hanno votato per il partito della mafia e del fascismo, e per il più geniale truffatore della storia, Berlusconi, nemico giurato di Angela Merkel perché la mafia non può più accettare il predominio economico di Berlino.
Il movimento di Beppe Grillo è la novità di queste elezioni. Raccoglie soprattutto voti dai movimenti di sinistra e raccoglie anche voti anche dalla destra. Beppe Grillo – che ha una formazione autonoma antiautoritaria – ha detto più volte che il suo movimento intende sottrarre voti alla destra, e ci è riuscito.
Non credo che il movimento 5 stelle potrà governare l’Italia, non è questo il punto. La funzione importante e positiva che il movimento ha svolto è rendere il paese ingovernabile per gli antieuropei del partito Merkel-Draghi-Monti.
L’elettorato italiano ha detto: non pagheremo il debito. Insolvenza.
La governance finanziarista d’Europa è finita, anche se Berlusconi e Bersani si metteranno d’accordo per sopravvivere e continuare a impoverire il paese spostando risorse verso il sistema finanziario. Non durerà. Ma allora può cominciare il peggio.
La classe finanziaria tenterà di strangolare l’Italia come ha strangolato la Grecia. La crisi politica si farà convulsa e violenta. L’esito può essere spaventoso. Mafia e fascismo hanno mostrato di controllare il trenta per cento dell’elettorato italiano, e la sinistra non esiste più. La secessione del Nord si riproporrà anche se la lega è crollata.
Epperò invece può iniziare un processo di liberazione d’Europa dalla violenza del capitale finanziario, una ricostruzione d’Europa su basi sociali. Fuori dagli schemi novecenteschi può diffondersi dovunque un movimento di insolvenza organizzata e di autonomia produttiva. Un movimento di occupazione può trasformare le università in luoghi di ricerca concreta per soluzioni post-capitaliste. Le fabbriche che il capitale finanziario vuole distruggere vanno occupate e autogestite come si è fatto in Argentina dopo il 2001. Le piazze vanno occupate per farne luoghi di discussione permanente.
Il programma lo ha enunciato Beppe Grillo, ed è un programma molto ragionevole:
Salario di cittadinanza

Riduzione dell’orario di lavoro a 30 ore

Pensione a sessanta anni.

Restituzione alla scuola degli otto miliardi che il governo Berlusconi ha sottratto al sistema educativo.

Assunzione di tutti i lavoratori precari della scuola, della sanità e dei trasporti.

Nazionalizzazione delle banche che hanno favorito la speculazione ai danni della comunità.

Abolizione immediata del fiscal compact.
Il movimento cinque stelle ha impedito alla dittatura finanziaria di governare. Ora tocca al movimento della società. Avrà la società l’energia e l’intelligenza per gestire la propria vita con un movimento di occupazione generalizzato?
Se non avrà questa energia avremo meritato il disastro che ne seguirà.
Nota
Leggo su Internazionale che i Wu Ming si lamentano del fatto che il movimento di Beppe Grillo amministra l’assenza di movimento in Italia. Ragionamento bislacco davvero. Dal momento che la società italiana è incapace di muoversi allora debbono stare tutti fermi? Dal momento che gli amichetti di wu ming sono stanchi allora tutto deve restare ad attendere i tempi del loro risveglio? Fate movimento invece di lamentarvi perché qualcun altro lo fa al posto vostro, magari in maniera un po’ più rozza di come piacerebbe ai raffinati intellettuali.

DOPPIOCIECO

Per una Razionalità Moderatamente Pluralista