COSMOPOLITISMO, UNIVERSALISMO E L’UNIONE EUROPEA (UNA RISPOSTA A ROBERTA DE MONTICELLI)

di Andrea Zhok da Facebook

Oggi è apparso sul Manifesto un articolo della professoressa Roberta De Monticelli dall’impegnativo titolo: <Stati uniti d’Europa, un edificio politico architettato dalla filosofia.> Nell’articolo De Monticelli, dopo aver lamentato la superficialità dell’attuale dibattito intorno all’Europa, rivendica una matrice filosofica alta come ispirazione e viatico del ‘progetto europeo’.

Al netto del condivisibile sconforto per l’attuale campagna elettorale, si potrebbe obiettare subito come la contestazione all’odierno ‘europeismo’ non si muova di norma con riferimento a nobili istanze come l’idealità cosmopolita, ma con più prosaico riferimento ad un sistema ha prodotto una crescita europea stagnante, la deindustrializzazione di molti paesi (tra cui l’Italia) e una costante riduzione del potere contrattuale dei lavoratori.

Ma fingiamo che tutto ciò non sia essenziale. Ipotizziamo che il tema siano Kant e Rawls e non la macelleria sociale greca. E continuiamo pure nell’equivoco per cui l’antieuropeismo sarebbe una proterva e irragionevole ostilità all’Europa – e non all’Unione Europea -, accettiamo protempore tutto questo e proviamo ad esaminare gli argomenti specificamente filosofici che vengono sollevati da De Monticelli.

Due argomenti giocano un ruolo centrale.

Il primo vede nell’Unione Europea

“il vero e proprio cantiere di un edificio politico architettato dalla filosofia: cioè dall’anima universalistica del pensiero politico, che è almeno tendenzialmente cosmopolitica.”

Il secondo specifica il carattere di questo ‘universalismo’ in opposizione all’accidentalità della nascita:

“Cosmopolitica è (…) la forma di una civiltà fondata nella ragione (…). La domanda di ragione e giustificazione è quanto di più universale ci sia. (…) Esser nato in un deserto, o in una contrada afflitta da massacri e guerra, è un accidente: l’accidente della nascita. (…) Ogni ingiustizia si lega all’accidente della nascita.”

1) Il primo argomento pone un’equivalenza tra cosmopolitismo e universalismo della ragione, concependo dunque il cosmopolitismo europeista come erede della tradizione filosofica nel suo nucleo portante, quello che riconosce l’universalità della ragione.

2) Il secondo argomento qualifica tale universalismo opponendolo alla contingenza, e specificamente a quella particolare contingenza che è l’essere nato in un certo tempo e luogo, posto come base dell’idea di nazionalità.

Sotto queste premesse, l’Unione Europea si presenterebbe come incarnazione dell’universalismo della ragione, volta a superare gli accidenti della nascita (e nello specifico gli accidenti che determinano l’identità nazionale).

Nel prosieguo proverò a spiegare, in breve, perché ritengo che entrambe queste tesi contengano degli errori. Sono errori interessanti, come sempre sono gli errori filosofici, ma non perciò meno radicalmente fuorvianti e dannosi di errori più volgari.

Commento a (1)

L’idea che universalismo e cosmopolitismo siano in qualche modo considerabili in equivalenza è un’idea assai curiosa. Si ritiene, apparentemente, che le esperienze, o forse le ‘inclinazioni’, cosmopolite siano latrici di un ampliamento delle prospettive, un ampliamento che conferirebbe un particolare privilegio, ovvero la capacità di uscire dal proprio ‘particulare’ e di accedere ad una visione esente da pregiudizi e parzialità. L’opposizione chiaramente evocata è quella tra l’equanimità della ragione e il torvo egoismo dei ‘particolarismi’.

Ora, l’equivalenza tra universalismo e cosmopolitismo, una volta che la si guardi da vicino, risulta subito destituita di ogni fondamento.

Che una semplice ‘inclinazione’ cosmopolita non sia di per sé capace di superare pregiudizi e parzialità è piuttosto ovvio. Per capirlo basterebbe rammentare le idee sulle razze umane, di parvenza oggi alquanto imbarazzante, di quel genio, cosmopolita e razionalista, di Immanuel Kant.

Ma l’idea che esperienze di tipo cosmopolita possano veicolare una visione emancipata da pregiudizi e parzialità può sembrare prima facie più convincente. Dopo tutto, chi può negare che fare più esperienze ‘ampli gli orizzonti’? Bene, ma per uscire dalla vaghezza è importante capire di cosa parliamo quando nominiamo il ‘cosmopolitismo europeo’.
I ‘cosmopoliti’ non sono semplicemente ‘quelli che vanno all’estero’.
Naturalmente non lo sono i semplici turisti.
E non lo sono certo neppure i migranti per necessità (passare dallo stringere bulloni a Termini Imerese allo stringere bulloni a Uppsala difficilmente può contare come progresso spirituale verso l’universalismo della ragione).
No, il ‘cosmopolita’, il ‘cittadino del mondo’ di cui qui si parla, è semplicemente un membro di quei ceti economicamente, socialmente, e talvolta anche culturalmente privilegiati, che scelgono di passare periodi della propria vita, per lavoro o per diletto, in più o meno prestigiose sedi estere. Ora, – come ricorda Vincenzo Costa nel suo recente Élites e populismo – è importante comprendere come il ‘mondo della vita’ di questi ceti sia e resti una sezione trasversale, altamente astratta e sterilizzata, del mondo reale. I ceti cosmopoliti che vedono il mondo dalle loro magioni nel centro di Londra, Parigi o Milano sono vittime di settorialità esperienziale non meno dei panettieri di Tor Bella Monaca o dei barbieri di Petroupoli o Florisdorf. Invero le élite cosmopolite, a ben vedere, sono vittima, oltre che dei propri limiti esperienziali, anche di un rimarchevole grado di presunzione, che li lascia immaginare di avere uno sguardo più comprensivo e lungimirante, e di potersi perciò concepire come ‘avanguardie’ del progresso a venire.

Le certezze dei cosmopoliti sono semplicemente pregiudizi in cofanetto de luxe.

Commento a (2)

Il secondo argomento sollevato è di particolare interesse, perché si tratta di un errore teorico diffuso. L’universalismo viene opposto (in maniera tecnicamente impropria) alla contingenza o accidentalità. All’universalismo viene poi attribuito un compito schiettamente morale, ovvero quello di ‘superare la contingenza’.

Tradotto in una proposizione, quanto viene qui sostenuto ha la seguente forma:

“Io, che sono un soggetto razionale come te, sono però consegnato alla contingenza di una nascita localmente determinata, che limita la mia aspirazione all’universalità. – Tale contingenza contrasta con la mia natura di soggetto razionale ed è razionalmente ingiustificabile; essa perciò, a causa della sua natura ingiustificata, arbitraria, va corretta.”

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Digressione per filosofi.

Nella proposizione di cui sopra troviamo presentato come ovvio un contrasto tra universalità e contingenza. Lungi dall’essere un’ovvietà condivisa, l’idea di ‘ragione’ o di ‘universalità’ presupposta da questo ragionamento è assai discutibile. Si tratta infatti di una visione dove la ragione e la sua universalità per essere tali devono appartenere ad una sfera astorica e smaterializzata. Si tratta in sostanza di un’idea di ragione e universalità di tipo platonico. Autori (cari a chi scrive, come a De Monticelli) quali Wittgenstein e Husserl hanno attraversato nel corso della loro vita l’intero percorso da una iniziale concezione di razionalità astorica e svincolata dalla materialità, dalle prassi, dalla corporeità, ad una matura concezione in cui la razionalità trovava una sua necessaria collocazione proprio nella sfera della storia, della materia, delle prassi e del corpo vivente. Pensare che qualcosa per avere valore universale e razionale, debba (o anche solo possa) essere estraneo ad una realtà materiale e storica è, in termini schiettamente filosofici, una tesi assai discutibile, una tesi rispetto a cui tanto il Wittgenstein delle Ricerche che lo Husserl della Crisi sarebbero in diretta opposizione.

Fine della digressione per filosofi.
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Ora, però, in termini di analisi concreta: cosa ci si immagina di poter o dover ‘correggere’ della ‘contingenza’ in nome dell’universalismo? Nel testo in questione ci si focalizza sulla territorialità della nascita, ponendola come contingenza ingiustificabile da superare. Ma perché concentrarsi proprio su questa ‘contingenza ingiustificabile’? Dopo tutto non è parimenti una ‘contingenza ingiustificabile’ anche il mio corpo, con la sua struttura e le sue facoltà? E che dire della mia intelligenza o forza di volontà? E a ben vedere anche la mia stessa appartenenza alla specie umana e al novero dei ‘soggetti razionali’, mica l’ho decisa io? Tutte queste sono cose che nessuno di noi ha deciso, che ci sono, se ci sono, senza nessuna giustificazione. Sono cose che ci siamo ritrovati, e a partire dalle quali, traendone il meglio di cui eravamo capaci, e facendocene carico, abbiamo cercato di tracciare una nostra strada su questo contingentissimo pianeta.

Ecco, ora la domanda è: in che senso la mia nascita in un tempo e luogo, la mia educazione, la mia lingua madre, la cultura materiale in cui sono cresciuto e in cui sono diventato ciò che sono, in che senso tutto questo sarebbe un arbitrio da superare nel nome dell’universalismo in quanto ‘non-contingenza’? E chi sarei io, il soggetto chiamato a svolgere tale superamento, una volta tolte tutte quelle contingenze? In che senso, la contingenza della mia territorialità o cultura sarebbero da superare, mentre non sarebbe parimenti da superare, per dire, la mia appartenenza alla specie degli ‘animali razionali’? Dov’è qui il discrimine in cui io posso dire che la mia nascita, crescita ed educazione non sarebbero davvero ‘io’, mentre il mio genoma, quello sì ‘sono davvero io’?

In verità, l’universalismo astratto e matematizzante che viene qui implicitamente ammesso è insostenibile. Io sono ciò che sono in quanto nato e cresciuto, in quanto sono divenuto ciò che sono, e non certo in quanto ho deciso o deliberato ciò che potevo essere. (E, a fil di logica, come avrei potuto farlo, se non essendo già qualcosa che a sua volta non posso aver deciso io?).

Detto questo, quell’universalismo astratto non è affatto l’unico universalismo concepibile. Al contrario, a ben vedere esso è propriamente inconcepibile. Dalla posizione che io sono e incarno io posso riconoscere posizioni e incarnazioni altrui: posso riconoscere, in modo perfettamente razionale ed universalizzabile, che la mia appartenenza territoriale, comunitaria, nazionale concorre a definirmi, così come l’appartenenza territoriale, comunitaria, nazionale di un abitante di Sapporo, Budapest, York, Adelaide o Cuzco, concorre a definire loro. E ciascuno di noi, a partire dalla propria cultura (che non ha deciso), dalle proprie facoltà cognitive (che non ha deciso) e dalla propria capacità empatica (che non ha deciso) può decidere di aiutare qualcun altro ad uscire dalle sue difficoltà, che sono proprio sue, e non di un soggetto ideale disincarnato, astorico e non situato. Lo può fare perché può comprendere, in qualche misura, la specificità della situazione altrui e le sue difficoltà contestuali. Per farlo con convinzione e motivazione, comprendere la specificità della situazione altrui, lungi dall’essere di impaccio, sarà essenziale. Al contrario, lo sguardo da lontano, che si presume disincarnato e superiore alle incarnazioni storiche, corporee e pratiche non è affatto uno sguardo che muove né alla compassione né all’aiuto. L’operazione di ‘comprendere il punto di vista dell’altro’ è un’operazione che ha senso solo quando si ammette che l’altro ha appunto un punto di vista, una posizione reale, e si simpatizza con esso, con il suo essere situato.

Questo, tradotto dal piano soggettivo a quello politico significa che è la nostra dimensione di appartenenza a definirci innanzitutto per ciò che siamo, e che tale dimensione è condivisa universalmente, da ciascuno con la sua appartenenza. E tutto ciò può permettere perfettamente riconoscimento, rispetto, e simpatia vicendevoli. Come italiano, che assume su di sé la sua nascita, cultura, educazione, posso simpatizzare con un fratello greco o austriaco o scozzese, stimandone la determinatezza delle forme di vita; e l’altro può fare lo stesso nei miei confronti. La mia appartenenza mi consente di capire la tua, e di esservi solidale. Per lo sguardo nutrito dalla mancanza di appartenenza, invece, gli individui e i gruppi reali sono solo astrazioni, concetti, forse numeri, enti interscambiabili.

L’universalismo che sembra ovvio nella prospettiva di De Monticelli è l’universalismo disincarnato dello ‘sguardo da nessun luogo’, del ‘punto di vista di Dio sul mondo’. Ma, per fortuna o per disdetta, il punto di vista di Dio sul mondo non lo possiamo incarnare affatto, e neppure immaginare propriamente.

E credere di poterlo incarnare e immaginare è solo una forma di Hybris, eticamente poco raccomandabile.

Riassumendo quanto detto.

Universalismo e cosmopolitismo non solo non sono sovrapponibili, ma non sono neanche vicini di casa.

Quanto all’appello all’universalismo, esso non può essere quello sguardo disincarnato e destoricizzato che pretende di essere, e non può, né di fatto né di diritto, abolire gli ‘accidenti della nascita’.

Per tutte queste ragioni, è opportuno lasciare serenamente in pace la filosofia, evitando di chiamarla improvvidamente in soccorso di quello spregiudicato pasticcio neoliberale che prende il nome di Unione Europea

Stati uniti d’Europa, un edificio politico architettato dalla filosofia

Elezioni europee. In una lettera che Spinelli scrisse nel ’43 a Ropke, richiamava la «civiltà della persona», da salvare e difendere, perché democrazia non è solo un sistema di governo

di Roberta De Monticelli da Il Manifesto

Poche cose sono più scoraggianti del dibattito pubblico sulle elezioni europee. Ci saranno anche due idee d’Europa a confronto, ma con un dibattito ridotto a un tira e molla fra più sovranità e più integrazione e solidarietà, sono due idee poverissime.

Peccato. Perché oggi l’Unione europea, in quanto è il lungo, lento processo di costituzione di una Federazione degli Stati uniti d’Europa, è almeno virtualmente il più grande e innovativo laboratorio politico del mondo. E’ il vero e proprio cantiere di un edificio politico architettato dalla filosofia: cioè dall’anima universalistica del pensiero politico, che è almeno tendenzialmente cosmopolitica.

Cosmopolitica è in effetti la forma di una civiltà fondata in ragione, vale a dire, semplicemente, sulla nostra capacità di chieder ragione agli altri e a noi stessi di ogni azione e di ogni affermazione – e di chiederla in particolare a chi prende decisioni che influiranno sulla vita e il destino di tutti. La domanda di ragione e giustificazione è quanto di più universale ci sia: è, potremmo dire, costitutiva della mente umana, della stessa lingua umana, la sola fra i linguaggi animali che possiede il tono e il simbolo dell’interrogativo: “Perché?” Perché mi fai questo? Perché devo soffrire questo? Esser nato in un deserto, o in una contrada afflitta da massacri e guerra, è un accidente: l’accidente della nascita.

MA LA CAPACITÀ DI CHIEDERE “perché” e di dire “non è giusto”, è universale, la vediamo risvegliarsi prestissimo in ogni infanzia umana, a qualunque latitudine. Può l’accidente della nascita determinare il destino di un uomo? E’ lecito? E’ questa l’ultima frontiera della domanda di giustizia, e quindi della ragione pratica. Ogni ingiustizia si lega all’accidente della nascita: per questo nessun verbo è più normativo e meno descrittivo, più razionale e meno fattuale di quel “nascono liberi e uguali in dignità e diritti” che definisce gli umani nel primo articolo delle Dichiarazione Universale del ’48. La (pari) dignità: il primo dei sei valori intorno a cui si organizza la Carta dei Diritti dell’Ue (2000), che insieme all’ultimo – giustizia – racchiude e riassume le generazioni dei diritti e le epoche della loro conquista: libertà (i diritti civili), eguaglianza (i diritti politici), solidarietà (i diritti sociali) – e infine il diritto di avere dei diritti, una cittadinanza. Che spetta in linea di principio agli umani come tali, non agli italiani o ai turchi.

L’anima d’Europa è in questo senso essenzialmente cosmopolitica: nasce dall’idea più illuminata della Modernità – che là dove c’è la selva geopolitica delle potenze, regolata da rapporti di forza e di precario equilibrio, dovrà vivere l’imperio della legge. E non certo quella di un solo Leviatano, ma quella che disarma i leviatani, federando Repubbliche vincolate in primo luogo dall’universalità dei diritti opposti agli accidenti della nascita. Questo è in fondo il senso dell’incipit del Manifesto di Ventotene:

“La civiltà moderna ha posto come proprio fondamento il principio della libertà, secondo il quale l’uomo non deve essere un mero strumento altrui, ma un autonomo centro di vita. Con questo codice alla mano si è venuto imbastendo un grandioso processo storico a tutti gli aspetti della vita sociale, che non lo rispettassero”.

TROPPO POCO SI È COMPRESO, a mio avviso, della profondità di questa versione di liberalismo politico, che qui chiamerò, riutilizzando questo termine in senso completamente autonomo da quelli in cui è finora comparso, personalismo politico. Ne traluce un barlume da una lettera che Spinelli scrisse a Wilhelm Röpke (più tardi ispiratore di Konrad Adenauer) il 24 novembre 1943:

“Quando sono andato in prigione io ero un marxista ortodosso, pieno di quel fervore e intolleranza che è caratteristico di tutti quelli che credono di aver trovato la chiave che apre tutti i segreti (…) In prigione ho avuto modo di studiare, di riflettere, di guardare con un certo distacco le cose degli uomini.
Gli studi storici e gli avvenimenti contemporanei dell’Italia, della Germania, della Russia mi hanno fatto comprendere che vi era nella nostra civiltà qualcosa di molto importante che minacciava di crollare e che bisognava, al contrario, difendere e salvare a tutti i costi: quella che lei ha chiamato la “Persönlichkheitszivilisation”.

La civiltà della persona, cos’è? Guardiamoci intorno. Come deve essere ridotta una democrazia in cui non è permesso, durante una pubblica manifestazione, esporre una bandiera dalla scritta innocua come “restiamo umani”, se sgradita ai capi-popolo di turno al governo? Non è una bella umanità quella espressa dalle urla dei capi e del popolo di queste piazze. Ecco cosa videro i padri iniziatori di quel processo di costituzione degli Stati uniti d’Europa che si è inceppato.

LA DEMOCRAZIA, CON TUTTE LE SUE INSUFFICIENZE, non è soltanto un sistema di governo: è l’aspetto politico di una civiltà umanistica, è il mezzo per consentire l’accesso del più largo insieme possibile di persone all’esercizio effettivo della sovranità esistenziale e politica: alla libertà responsabile, rispettosa dell’umanità in se stessi come negli altri, pur irriducibilmente plurali perché individuati, incarnati, radicati, passionali – oltre che razionali e morali.
In altre parole, se la democrazia funziona, funziona come un circolo virtuoso, perché promuove la maturazione dei cittadini: di cui ha un disperato bisogno. Ma se questa promozione si inceppa, il circolo si fa vizioso, e le democrazie si suicidano. La “mancata rimozione” degli ostacoli che bloccano lo sviluppo umano, cioè non soltanto economico, ma anche morale e civile, di larghi strati di persone, minaccia le democrazie di degenerazione illiberale, e la civiltà umanistica di implosione.

“PRIMA GLI ITALIANI” È IL GRIDO che meglio esprime l’inizio di questa implosione, e la prova evidente della giustezza dell’intuizione spinelliana: secondo cui la ripresa del processo di realizzazione dell’umanesimo incompiuto richiede una rivoluzione nell’idea stessa di democrazia: e cioè la dissociazione del concetto di sovranità da quello di nazione, e la costruzione di una democrazia sovranazionale in luogo di quell’organismo intergovernativo tanto impotente rispetto ai nazionalismi quanto alle forze multinazionali.

Forse troppo poco si è compreso, ancora oggi, della tragedia che fu la scelta contraria al federalismo europeo, e poi solo marginalmente filoeuropeista, delle sinistre. Della tragedia che è ancora oggi la cecità all’orizzonte cosmopolitico della società giusta.

Piddini che non capiscono

di Giuseppe Masala

Piddini che non capiscono e che vorrebbero spiegarti che “in Europa si sta come si deve stare ovvero compentendo per primeggiare”. Peccato che sono proprio i loro Leader che ci hanno portato in Europa con “spirito cooperativo” ovvero con le pistole ad acqua, tranguiando di tutto quando gli altri si facevano letteralmente i fatti loro a partire dai tedeschi. Ci siamo piegati a tutto, a partire dalle assurde regole di finanza pubblica che hanno castrato gli investimenti pubblici facendo dell’Italia un paese arretrato e non competitivo sull’innovazione. Non solo, i tedeschi ci hanno mosso una guerra con il dumping salariale da paura obbligandoci ad una rincorsa folle su questa traiettoria che ha demolito la domanda interna. Non solo, non solo, non solo. C’è un altro cecchino che agisce alle spalle oltre al dumping salariale tedesco: il dumping fiscale dei paesi parassiti (Olanda, Lussemburgo e Irlanda) che rendono più conveniente l’investimento finanziario e l’emorragia di capitali privati dall’Italia verso questi paesi piuttosto che l’investimento degli utili conseguiti. In altri termini, anche se per paradosso la legislazione italiana reintroducesse la schiavitù per combattere il dumping salariale tedesco non è detto che basti per riattivare gli investimenti privati visto il dumping fiscale interno all’area europea. E in tutto questo, l’investimento pubblico in ricerca e s sviluppo (ma anche nell’intervento diretto in economia, se il privato non investe, permetti che l’intervento diretto è necessario?).è completamente azzerato a causa delle regole di finanza pubblica imposte da Bruxelles.

E poi c’è la ciliegina sulla torta: una Francia con i conti con l’estero completamente scassati – e che si tiene a galla con i prestiti e gii investimenti dei paesi in surplus – non si arrende a fare quelle manovre di austerità necessarie per stare in Europa come vorrebbero i tedeschi e vuole compensare con un aggressività in politica estera spaventosa. Ormai lo fanno apertis verbis; mandano soldati in Libia per sbattere fuori l’ENI ed impossessarsi delle nostre fonti di approvigionamento energetico. Non è che non ci venderanno petrolio e gas: saranno ben lieti di venderceli ovviamente pagando il profitto alla Total. Della serie se non riesco a sistemare la bilancia commerciale compenso pompando profitti dall’estero sistemando la bilancia delle partite correnti.

E il piddino questo gioco spaventoso, questo terribile trappolone dove siamo caduti, non lo vede. Niente, niente da fare. Sono ottusi, competenti (ovviamente, non lo vedete come vestono bene e le loro cravatte da 100 euro?) ma ottusi.

Europee: coazione a ripetere e dissolvimento della sinistra

Domenico Moro, Fabio Nobile da laboratorio -21

Il contesto politico italiano appare significativamente modificato rispetto ad appena un anno fa. Secondo il sondaggio Emg Acqua per Agorà, se si votasse oggi, la Lega avrebbe il 31% dei voti contro il 17,4% delle elezioni politiche di un anno fa, mentre il M5s avrebbe il 23,4% contro il 32,7%. Il Pd appare in lieve risalita, dal 18,5% al 21%. I sondaggi non sono elezioni e possono sbagliare anche di alcuni punti percentuali. Tuttavia, è indiscutibile che il rapporto di forze tra Lega e M5s si sia ribaltato.

L’elettorato che si sta allontanando dal M5s è quello di sinistra, sia per le difficoltà del M5s a mantenere le promesse elettorali, sia per l’egemonia che, all’interno del governo, si è conquistato Salvini. Questi è stato molto abile a focalizzarsi su un tema a costo zero, gli immigrati, mentre il M5s è alle prese con temi complessi e difficili, come quello dello sviluppo economico. Il non aver fatto i conti con i vincoli europei, a dispetto delle promesse “sovraniste”, rende esigui i margini di manovra, ad esempio sul reddito di cittadinanza, cavallo di battaglia del M5s. Tali limiti sono accentuati dall’impreparazione dei quadri del M5s e dal recente scandalo, che coinvolge il presidente del Consiglio comunale di Roma. Si tratta di un grave danno per il M5s che ha fondato la sua identità di partito sull’onestà e sulla critica morale alla “casta” dei politici.

Se quanto abbiamo detto è vero, allora la sinistra radicale dovrebbe e potrebbe intercettare almeno una parte del voto in uscita dal M5s, anche perché è verso il M5s che è andata molta parte del voto della sinistra radicale nell’ultimo decennio[1]. Invece, il rischio concreto è che la sinistra radicale non riesca in tale compito e che il voto in uscita dal M5s o vada all’astensionismo, in cui staziona molta parte delle classi subalterne, o rifluisca nel Pd.

Infatti, in concomitanza con il calo del M5s, è in atto un processo di rilancio del Pd, sostenuto dalla frazione più internazionalizzata ed europeista del capitale italiano e dai mass media che ne sono espressione. Nei fatti si tratta di una operazione di immagine, basata come al solito su una figura “nuova”, quella di Zingaretti. Il pericolo è che il nuovo Pd eserciti una attrazione centripeta non tanto nei confronti delle masse di lavoratori salariati, quanto nei confronti del ceto politico della sinistra radicale, che si illude di resuscitare la formula del centro-sinistra, già rivelatasi dannosa. Le leve ideologiche del Pd e il cemento di un eventuale centro-sinistra sarebbero quelle dell’antifascismo-antinazionalismo e dell’antirazzismo, in simmetrica antitesi con Salvini, lasciando intoccati i nodi dell’austerity e dei vincoli europei.

Rispetto a una tale evoluzione, la posizione del Prc e di quel che resta della sinistra radicale risulta, a nostro avviso, inadeguata. In primo luogo, si è arrivati a due mesi dalle elezioni prima di siglare un accordo tra alcune forze politiche. Soprattutto, si persiste nella classica tendenza a mettere davanti a tutto l’unità, nascondendo sotto il tappeto i problemi, cioè le differenze di orientamento generale. Eppure, le vicende gli ultimi dieci anni avrebbero dovuto far capire che non può esistere alcuna unità senza definire i principi e i contenuti sulla quale dovrebbe essere realizzata. Il documento approvato dall’ultimo Comitato politico nazionale (Cpn) del Prc ne è chiara dimostrazione. Ancora più chiara dimostrazione ne è il documento collettivo presentato pochi giorni dopo da Prc, Sinistra italiana (Si), Altra Europa, Transform, Partito del Sud, e Convergenza socialista.

La lista delle europee, secondo i due documenti, dovrebbe essere costituita sulla base di tre punti. Il primo è il contrasto alle politiche della Ue e “la rottura della gabbia neoliberista definita dei trattati”. Il secondo elenca una lunga serie di obiettivi, dalla riconversione ambientale al diritto al reddito, alla solidarietà con gli immigrati, ecc. È da notare che, nel documento collettivo, l’obiettivo riguardante “[il contrasto alla] militarizzazione della Ue e il superamento della Nato”, presente in quello votato dal Cpn del Prc, è stato sostituito da una più generica volontà di costruire l’Europa “sulla pace, il disarmo, la cooperazione internazionale”. Infine, il terzo punto è l’opposizione ai razzismi e ai nazionalismi.

Si tratta di punti radicali all’apparenza, ma in realtà molto fumosi e generici (e resi ancora più generici nel secondo documento), che non fuoriescono di una virgola da quanto detto da sempre. In primo luogo, non è chiaro cosa significhi rottura dei trattati. Significa forse disobbedienza e quindi sforamento dei limiti al deficit e al debito? È del tutto evidente che non è possibile alcuna “disobbedienza” se non si ha autonomia monetaria, cosa che implica necessariamente l’uscita dalla Ue e soprattutto dall’euro. Senza di questo, il suddetto lungo elenco di obiettivi è solo un elenco di bei propositi, visto che senza uscita dalla Ue e dall’euro non si possono neanche porre le basi per quegli investimenti pubblici necessari a creare posti di lavoro e a sostenere il welfare per italiani e immigrati. Il razzismo e il nazionalismo sono prodotti anche e soprattutto dell’austerity, implementata dall’integrazione economica e valutaria europea. Senza il superamento quest’ultima, qualsiasi impegno antirazzista e antinazionalista è debole. Inoltre, sarebbe bene precisare che in Italia prevale la frazione multinazionale del capitale e che il controllo da parte del capitale sulle decisioni economiche e sociali è oggi assicurato molto di più efficacemente dagli apparentemente “neutrali” organismi europei che da un assetto statuale di forma fascista.

Il nodo, che rimane inespresso, è se la Ue sia riformabile oppure no. In base ai tre punti del documento del Cpn sembrerebbe di sì. Secondo noi, la Ue non è riformabile, per la semplice ragione che, in base ai trattati europei, qualunque modifica va fatta all’unanimità. Inoltre, le politiche neoliberiste non sono accidentali, ma il necessario obiettivo su cui è stata modellata l’architettura dell’euro e della Ue. A questo proposito, c’è un altro punto importante, quello della coerenza delle alleanze e della continuità del percorso. Il maggiore partner della alleanza elettorale promossa dal Prc è Si. Quest’ultima, oltre a continuare a credere che la Ue sia il terreno sul quale si possano sviluppare democrazia e benessere (la genericità dei punti dei due documenti aiuta a tenere insieme posizioni tra loro diverse), ha da sempre fatto pratica di alleanze a geometria variabile. Infatti, si è legata, tutte le volte in cui è stato possibile, al Pd, cioè al partito che maggiormente ha rappresentato gli interessi della grande impresa e più si è fatto interprete della adesione ai vincoli europei. Anche alle recenti elezioni regionali, Si si è presentata con il Pd. È, quindi, legittimo aspettarsi che un cartello meramente elettorale, quale è quello che si prospetta, si scioglierà all’indomani delle elezioni, come avvenuto in tutte le occasioni precedenti. Ultima quella con Potere al popolo, all’indomani delle elezioni politiche del 2018. Non ha molto senso aver lasciato Pap, con cui ci si è presentati alle politiche, per seguire ora alle europee Si.

Per concludere, stante quanto abbiamo detto, quale spazio avrebbe un tale cartello elettoralistico, anche solo in termini di voto? Secondo noi molto piccolo. Il punto è che da dieci anni a questa parte non si riesce a presentare una proposta politica credibile, con cui accumulare forza e realizzare il radicamento nei posti di lavoro e nei territori. Ci si ritrova ripetutamente a ridosso delle elezioni a dover raffazzonare una lista in un’ottica di sopravvivenza e forzatamente politicista, con i risultati che abbiamo visto, cioè il dissolvimento progressivo di quanto esiste a sinistra del Pd. Il problema è quello che qui abbiamo cercato di spiegare: la coazione a ricercare una unità senza contenuti, fittizia e fragile. Sbagliare fa parte dell’esperienza di vita, ma continuare a sbattere la testa sempre contro lo stesso muro, dopo aver sperimentato più e più volte che non si ottiene nulla, è irragionevole. Crediamo che non si possa più continuare in questo modo e che sia necessario lavorare con metodi e finalità differenti.

DOPO LE EUROPEE CAMBIERÀ TUTTO: NE SIAMO SICURI?

L’altro giorno Bagnai l’ha ripetuto per l’ennesima volta: “Dopo le europee la musica cambierà”, facendo intendere che il prossimo bilancio verrà senz’altro negoziato con una Commissione più sensibile agli interessi degli italiani. È un argomento che si sente spesso dalle parte del governo e dei suoi solidali. Ora – tralasciando il fatto paradossale che personaggi che hanno sempre sostenuto (a ragione) l’assoluta irriformabilità dell’Unione europea e in particolar modo dell’eurozona oggi sostengano le virtù salvifiche (addirittura potenzialmente “rivoluzionarie”) delle elezioni europee – mi chiedo: ammesso e non concesso che i personaggi in questione siano in buona fede (e che non sia solo un modo per guadagnare tempo), cosa si aspettano che succeda esattamente dopo le elezioni europee?

Ora, che in quell’occasione si registrerà una crescita significativa dei partiti della destra “anti-establishment”, più o meno ideologicamente affini alla Lega – oltre, ovviamente, alla Lega stessa – mi pare pacifico, così come pare quasi scontato che il blocco “euro-centrista” EPP+S&D perderà la maggioranza assoluta nel Parlamento europeo che detiene da anni. Ciò detto, che questo si tradurrà automaticamente in una situazione più favorevole per l’Italia – nel senso di: “più favorevole all’implementazione di politiche fiscali espansive da parte dell’Italia” – rimane tutto da vedere. Innanzitutto, il blocco euro-centrista EPP+S&D deterrà comunque la maggioranza relativa – e ovviamente porrà il veto all’elezione di qualunque “populista” alla presidenza della Commissione europea – e potrà continuare a contare su una relativa coesione interna, mentre i partiti anti-establishment saranno divisi in gruppi diversi.

Quest’ultimo fatto è esemplificativo del fatto che, sebbene in partiti in questione abbiano posizioni affini su alcuni temi (in primis l’opposizione all’immigrazione), hanno posizioni spesso divergenti sulle questioni economiche. Tanto per fare un esempio, i partiti e i politici considerati più vicini a Salvini – l’AfD in Germania, la FPÖ in Austria, Orbán in Ungheria, ecc. – hanno posizioni più austeritarie e anti-keynesiane in economia degli stessi partiti dell’establishment, ed è dunque altamente improbabile che si mostrino più clementi nei confronti di un “rilassamento” delle politiche di bilancio dell’Italia, e men che meno che si facciano promotori di una riforma dell’architettura europea in senso più keynesiano e solidaristico.

Questo, a sua volta, è esemplificativo di un altro fatto (di cui Bagnai & co. credo siano consapevoli): gli equilibri di potere in seno all’Unione europea e le alleanze che ne derivano non avvengono sulla base di elementi “ideologici” – in altre parole, la mediazione non avviene attraverso l’asse “sinistra-destra” come a livello nazionale (quando le cose funzionano) – quanto sulla base degli interessi strutturali (economico-politici) degli Stati a cui appartengono i vari partiti. Questo è il motivo per cui oggi la Lega, per motivi di consenso elettorale, si fa promotrice di politiche “espansive” che non appartengono certo al suo DNA politico; ma è anche il motivo per cui il partito non può contare sul sostegno dei suoi “alleati” in Europa: semplicemente non è nell’interesse di quei partiti sostenere politiche che non godono del sostegno dell’elettorato dei loro paesi di appartenenza o che sono incompatibili con il “modello di sviluppo” degli stessi. Questo è il motivo, per esempio, per cui i principali partiti tedeschi condividono di fatto la stessa visione “di fondo” sulle questioni macroeconomiche; ed è anche il motivo per cui i partiti “populisti” di nazioni come Austria, Ungheria, ecc. – tutti paesi integrati nella catena del valore tedesca – sono tendenzialmente favorevoli al mantenimento dell’attuale assetto economico dell’Unione.

Per farla breve, oggi – dopo trent’anni di “post-ideologismo” – è la politica, nella maggior parte dei casi, a riflettere l’orientamento dell’economia, non viceversa: per questo non è concepibile qualsivoglia forma di “democrazia sovranazionale” in presenza di modelli economici e sociali così eterogenei. Alla luce di quanto detto, non vi è alcun motivo per ritenere che in seguito alle prossime europee “la musica cambierà”, cioè che emergerà uno scenario più favore al tipo di politiche espansive di cui ha bisogno l’Italia. E questo senza parlare dei vari meccanismi “automatici” di “sorveglianza e punizione” di cui dispone l’Unione europea, nonché del ruolo prettamente politico della BCE, che prescinde dalla configurazione del Parlamento europeo.

Che la scommessa dei nostri, dunque, sia semplicemente che il risultato delle elezioni europee acuisca le contraddizioni interne all’Unione, accelerandone la disintegrazione? È una possibilità, certo, ma anche in questo caso si tratta di un’ipotesi tutt’altro che scontata. È passato quasi un decennio da quando qualcuno pronosticò l’imminente “tramonto dell’euro”, ed invece l’euro è ancora qua e non se la passa neanche così male. Lo stesso, certo, non si può dire dell’Italia.

Thomas Fazi da Facebook

UNA COALIZIONE A PERDERE PER LA “PATRIA EUROPEA”? NO GRAZIE, ABBIAMO GIA’ DATO


Recentemente il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, si è fatto promotore di un percorso che dovrebbe portare a una lista per le elezioni europee. Questo percorso sembra aver raccolto l’interesse anche di alcuni partiti, tra cui il Partito della Rifondazione comunista e Sinistra italiana. Si tratta di una proposta all’altezza delle difficoltà di questa fase storica? La risposta va definita sulla base dell’esperienza degli ultimi dieci anni. In questo periodo sono stati messi in campo molti progetti politici con esiti fallimentari. Non solo perché non hanno portato a eleggere, con l’eccezione dell’Altra Europa (tre deputati eletti al Parlamento europeo) ma soprattutto perché queste coalizioni hanno mostrato la corda o sono state superate all’indomani delle elezioni. L’Arcobaleno, la Federazione della sinistra, Rivoluzione civile, l’Altra Europa, Potere al popolo sono solo alcune delle sigle succedutesi l’una all’altra. In mancanza di continuità non si sono accumulate forze, anzi quelle raccolte sono state disperse, riducendo progressivamente i consensi e il radicamento sociale.
Certamente il difficile contesto economico e politico ha giocato un ruolo importante nell’indebolimento progressivo. In primo luogo il quadro generale della crisi capitalistica ha determinato nuove condizioni oggettive sul piano dell’articolazione di potere delle classi dominanti, nonché sul terreno della composizione di classe dei settori sociali subalterni. Tuttavia, come sempre, i risultati dipendono anche da come reagiamo soggettivamente alle condizioni oggettive. Inoltre, lamentarsi della coazione a ripetere non è sufficiente, bisogna capirne le ragioni. Queste stanno nel fatto che si trattava di coalizioni puramente elettorali senza un progetto condiviso e di lunga durata. Erano coalizioni che riducevano la tattica al tatticismo elettorale, senza rapporto alcuno con una strategia politica e di radicamento sociale. A prevalere era la necessità di mettere insieme la massa critica sufficiente ad eleggere, garantendo la sopravvivenza delle formazioni che ne facevano parte. Formazioni spesso con posizioni diverse sia sul piano delle alleanze (e del rapporto con il Pd) sia sul piano delle tematiche dirimenti.
Ritornando a De Magistris, la sua è una proposta in discontinuità con il passato? Così sembrerebbe in apparenza, a giudicare dall’enfasi sul richiamo alle realtà della società civile e all’invito alle forze politiche – cioè ai partiti – a mettersi in secondo piano. Un atteggiamento che, a ben guardare, è un vecchio leitmotiv, praticato ad esempio da Rivoluzione civile, con i risultati che sappiamo e che sarebbe ingiusto attribuire unicamente alla personalità di Ingroia. Curioso è che sia oggi sia nel 2013 il deus ex machina sia un ex magistrato, che ci si illude possa ricompattare la sinistra e farle spiccare il volo in termini di consensi, in virtù della sua esposizione mediatica. Si tratta di una valutazione ingenua. Da una parte, testimonia la crisi di legittimità e di vitalità dei partiti. Dall’altra parte, l’affidarsi a un personaggio carismatico (che lo sia effettivamente o no nulla cambia) non può compensare la mancanza di un posizionamento politico adeguato. Ciò risulta particolarmente evidente con De Magistris, in particolare da quanto appare da una intervista rilasciata a Argiris Panagopoulos. Qui la coalizione in progetto viene definita come parte di “un fronte popolare paneuropeo contro la destra”. Infatti, oggi la contraddizione principale, per De Magistris, sarebbe quella tra il nazionalismo e il sovranismo, da una parte, e l’Europa, dall’altra. La sua collocazione è, senza dubbi di sorta, nel campo europeo: “Oggi la nostra patria è l’Europa, il mondo intero”.
Si tratta di un approccio vecchio, come dimostrato dalla storia recente. Dopo dieci anni di crisi, sedici di euro e oltre venti di convergenza sui vincoli europei dovrebbero essere ormai chiari due fatti. Il primo è che l’Europa di oggi non è la patria di nessuno ma uno strumento di ribaltamento dei rapporti di forza a favore delle élite, o, per un usare un termine più preciso, del grande capitale e con il procedere della crisi economica mondiale ha accentuato questi aspetti. Non esiste alcuna Europa, esistono la Commissione europea, la Bce e l’euro. Sul piano economico l’euro è lo strumento della deflazione salariale, impedisce la realizzazione di politiche economiche e industriali, e forza alla disciplina di bilancio e alla distruzione del welfare state. Sul piano politico l’euro rappresenta una regressione di portata storica, perché comporta l’eliminazione della sovranità democratica, mediante la neutralizzazione delle istituzioni della democrazia rappresentativa, a partire dai parlamenti. Il secondo dato di fatto è che l’integrazione europea aumenta le divergenze e i divari tra Paesi e, all’interno di essi, la polarizzazione sociale e la povertà. Abbiamo chiaro che non tutto dipende dall’Europa, nel senso che il tema sia il modo di produzione capitalistico ed il suo superamento, ma la domanda è se rimuovendo gli ostacoli che impone l’Europa ci siano condizioni più favorevoli per una battaglia di cambiamento. Su questo crediamo che la risposta sia affermativa.
Se assistiamo ad una recrudescenza del nazionalismo e delle rivalità tra stati-nazione e ad uno sviluppo, senza precedenti nel secondo dopoguerra, della xenofobia e del razzismo, lo dobbiamo in gran parte proprio all’Europa. Del resto sappiamo bene che la fortuna politica di Salvini è un effetto diretto dell’integrazione economica e valutaria europea. Pensare di articolare una strategia contro la destra di Salvini, di Orban, e di Le Pen senza avere chiaro questo contesto, vuol dire continuare a permettere a questi soggetti di accumulare consensi, proprio perché strategicamente ci si subordina al Pd e soprattutto ci si mette alla coda del grande capitale multinazionale europeo che ha ideato e strutturato questa Europa. Il fallimento del Pd e del centro-sinistra europeo è legato proprio alla loro adesione ai vincoli europei e all’integrazione europea, anzi all’esserne stati agenti promotori come e forse più del centro-destra, utilizzando la copertura dell’ideologia europeista. La mancanza di chiarezza su questo aspetto lascia molti spazi a convergenze politiche che nel passato si sono rivelate devastanti per la sinistra e per i lavoratori. Insomma, ci sono tutte le condizioni per l’ennesima coalizione a perdere, difficilmente in grado di eleggere e comunque non in grado andare oltre l’effimero appuntamento elettorale.
Tutto ciò ci lascia ancora più perplessi se consideriamo le vicende degli ultimi mesi di Potere al popolo. Si poteva lavorare per far crescere quella esperienza e, se lo si riteneva, per superarne i limiti. Invece Pap è stata indebolita da serie di diatribe di carattere organizzativistico formale (in particolare sullo statuto), che hanno portato alla scissione del Prc e che di recente sembrerebbe si stiano addirittura trasferendo sul terreno legale dell’uso del nome e del simbolo. Se, invece, la discussione si fosse incentrata sui contenuti e sulla prospettiva strategica forse non si sarebbe arrivati alla scissione. E, anche se ci si fosse arrivati, il dibattito sarebbe stato più utile e ci avrebbe fatto crescere tutti di più, definendo meglio le rispettive posizioni anziché demoralizzare molte persone.
Ad ogni modo, la liquidazione da parte del Prc dell’esperienza di Pap è stata un errore, visibile anche per il fatto che i compagni rimasti in Pap, proprio sulla base del lavoro pregresso, sono riusciti a progredire sul piano programmatico proprio in vista delle elezioni europee. È, infatti, sull’Europa, che la posizione di Pap risulta, a nostro avviso, più avanzata e molto più adeguata alla fase storica di quella che emerge dalla visione di De Magistris. Il programma delle europee di Pap – i cinque punti – prevede un “piano B”, cioè la possibilità di una alternativa politica allo stare in una Europa irriformabile. Si tratta di una posizione che si aggancia ai livello più avanzato del dibattito politico europeo, rappresentato dai partiti del Patto di Lisbona, e che costituisce una base molto più realistica su cui costruire un movimento antagonista al capitale su base continentale. In definitiva, è un orientamento internazionalista invece che di mera riproposizione di un approccio astratto e cosmopolita da “patria europea”. Inoltre, Pap si sforza di inquadrare la questione europea in un percorso, per quanto abbozzato, di trasformazione sociale complessiva, che implica una chiara rottura con le tradizionali e compromesse forze della pseudo sinistra. A questo scopo Pap pone l’obiettivo di misurarsi sulla lunga durata e sull’accumulo delle forze, una discontinuità positiva per una coalizione nata in occasione di una competizione elettorale.
Sarebbe stato saggio, una volta tanto, darsi la possibilità di mettere alla prova e confrontarsi su una prospettiva strategica e contenuti più definiti, piuttosto che liquidare definitivamente una esperienza, gettando a mare il lavoro già fatto. Sarebbe opportuno, riaprire un confronto di merito prima di tutto tra Pap e Prc al fine di costruire anche sul piano elettorale un’opzione coerente ad un progetto di lungo periodo. In special modo, se l’alternativa è un percorso le cui basi e le cui prospettive appaiono particolarmente deboli e contrassegnate dagli stessi errori del passato.
Domenico Moro Fabio Nobile

Un sovranismo democratico per un nuovo europeismo

di Alessandro Somma da Micromega
Un scontro tra europeisti e sovranisti, i primi raccolti attorno a Macron e i secondi guidati da Orbán e Salvini. È questa l’immagine più utilizzata per rappresentare lo scontro in atto, confezionata ad arte per nascondere la sostanziale convergenza di europeisti e sovranisti, fautori i primi di un neoliberalismo cosmopolita e i secondi di un neoliberalismo nazionale. E per impedire di riconoscere che il vero confronto è quello tra i fautori di un ritorno agli Stati per alimentare una guerra per la conquista dei mercati, e chi vuole invece ripristinare la dimensione statale per impiegarla in una guerra ai mercati: terreno sul quale si gioca il rilancio della sinistra.

È dunque un rilancio che passa da un diverso sovranismo. Non quello incentrato su valori premoderni buoni solo a reprimere i conflitti causati dalla modernità capitalistica, bensì quello democratico: volto a ripristinare la sovranità popolare in quanto fondamento della democrazia economica, oltre che della democrazia politica.
Il momento Polanyi

La società, rilevava Polanyi nel corso degli anni Quaranta, è naturalmente portata a difendersi dal mercato autoregolato, a opporre al movimento verso “l’allargamento del sistema di mercato” un “opposto movimento protezionistico”. Si assiste così a un “doppio movimento”, il primo volto ad affermare “il principio del liberalismo economico”, e il secondo quello “della protezione sociale”. Quest’ultimo movimento, verso la ripoliticizzazione e risocializzazione del mercato, può avvenire nel rispetto dell’ordine politico democratico, come è successo con il New Deal statunitense, ma anche attraverso il suo affossamento, come si è verificato nel Ventennio fascista[1].

L’epoca attuale è indubbiamente caratterizzata dal rigetto del mercato autoregolato e dal processo di denazionalizzazione che ha accompagnato la sua affermazione. Lo è naturalmente, dal momento che il neoliberalismo si fonda sul cosmopolitismo, come si ricava da quanto auspicato da von Hayek decenni or sono. Quest’ultimo voleva creare una federazione interstatale e delegarle la costruzione e lo sviluppo dell’ordine economico. Avrebbe rappresentato un vincolo esterno con cui rende agli Stati “chiaramente impossibile influenzare i prezzi dei diversi prodotti”, e dunque ostacolare l’edificazione e lo sviluppo di un mercato autoregolato: tanto che “sarà difficile produrre persino le discipline concernenti i limiti al lavoro dei fanciulli o all’orario di lavoro”[2].

Anche il rigetto del mercato a cui assistiamo ora non sta avvenendo nel rispetto della democrazia. Lo schema seguito è quello del nazionalismo economico: si sta profilando una lotta tra Stati per la conquista dei mercati, unita allo sviluppo di un sistema di socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti. Ci sarebbe invece bisogno di una lotta degli Stati contro i mercati, che tuttavia non prende corpo anche per un erroneo convincimento diffuso a sinistra: che il contrasto del cosmopolitismo implichi un ripudio dell’internazionalismo.

Eppure i due termini non sono affatto coincidenti. Se infatti il cosmopolitismo combatte la dimensione nazionale per promuovere la libera circolazione dei fattori produttivi e con essa il mercato autoregolato, l’internazionalismo valorizza la dimensione nazionale.

Questi concetti sono stati esposti in modo esemplare durante il dibattito parlamentare dedicato all’adesione italiana al Consiglio d’Europa. Allora Lelio Basso ebbe a stigmatizzare il comportamento della borghesia, storicamente espressiva di una “coscienza nazionale”, che aveva abbandonato il “vecchio esasperato nazionalismo” e assunto come sua bandiera il “cosmopolitismo”. E che lo aveva fatto per motivi non certo nobili: voleva resistere alla “pressione di classi che hanno acquistato la coscienza dei propri diritti e che, non potendoli soddisfare nel quadro delle antiquate strutture, minacciano di farle saltare”. Di qui la conclusione che l’emancipazione delle classi subalterne passa dalla loro capacità di togliere “alla nazione il carattere di espressione esclusiva della classe dominate”, ma non anche di abbandonarla come terreno di lotta politica. E ciò equivale a dire che il proletariato deve acquisire “contemporaneamente la coscienza di classe e la coscienza nazionale, ponendo le basi per un vero internazionalismo, per una federazione di popoli liberi”[3].

Nella sinistra storica queste tesi resistono sino alla dissoluzione del Blocco socialista. La ratifica del Trattato di Maastricht è l’occasione per formalizzare il cambio di rotta e affermare che la precedente impostazione era figlia della Guerra fredda. Questa aveva impedito di riconoscere come “l’idea di Europa” fosse “implicita non solo nelle origini internazionaliste, ma anche nella coscienza dell’antifascismo e della Resistenza” [4]: una ricostruzione molto approssimativa e con il senno di poi, da cui trae conferma la sensazione che l’europeismo di oggi costituisca il rimpiazzo, davvero poco meditato sebbene rassicurante come solo sanno essere i dogmi, dell’internazionalismo di ieri, e più in generale della crisi delle idealità ereditate dal passato[5].

Anche per questo si stenta a riconoscere che siamo immersi nel momento Polanyi[6], che occorre pertanto prendere atto del moto verso il recupero della dimensione nazionale, accettarlo in quanto inevitabile reazione della società contro la tirannia dei mercati. E operare affinché tutto ciò si combini con la riaffermazione delle ragioni di una sinistra internazionalista, in quanto tale non anche cosmopolita: le ragioni della sovranità popolare e a monte, nella misura necessaria e sufficiente affinché questa possa esprimersi, della sovranità statale. È l’unico modo per opporre al rinato conflitto tra Stati per la conquista dei mercati una lotta degli Stati contro l’invadenza dei mercati.

Sovranità popolare

Le costituzioni moderne si occupano tutte di sovranità nello Stato, o sovranità popolare, distinguendola dalla sovranità dello Stato o statale: la prima rilevante per i rapporti interni, tra governanti e governati, e la seconda per i rapporti esterni, tra Stati. Per molto tempo ha ciò nonostante resistito il dogma ottocentesco della esclusiva sovranità statale, per cui la sovranità popolare costituiva una mera formula politica, priva di valore giuridico. Le cose cambiano solo nel corso degli anni Cinquanta, quando si afferma la distinzione tra Stato-governo e Stato-società, e si precisa che il primo costituisce un’entità al servizio del secondo: è dunque il popolo il titolare della sovranità anche in senso giuridico, mentre l’apparato statale si limita ad attuare gli intendimenti maturati entro la comunità dei governati.

In altre parole, quando la Costituzione afferma che “la sovranità appartiene al popolo” (art. 1), intende dire che “il popolo resta titolare della potestà di governo, costituente e costituita, dell’una e dell’altra conservando altresì l’esercizio”, mentre lo Stato semplicemente “sostituisce il popolo nel solo esercizio di una parte di tale potestà”[7]. Tanto che, se lo Stato-governo non rispetta la volontà popolare, lo Stato-società ben può esercitare il diritto di resistenza, implicito nel caso non vi sia un’espressa previsione costituzionale in tal senso: come si è sostenuto all’epoca del governo Tambroni per legittimare lo sciopero politico, allora ancora punito dal Codice penale[8].

Alla contrapposizione di governanti e governati occorre però aggiungere quelle tra componenti del popolo in conflitto con riferimento a specifici interessi, come quelli riconducibili al ruolo ricoperto entro il sistema produttivo: gli interessi di classe. La sovranità popolare è cioè radicata in una comunità comprendente entità distinte e contrapposte, come i partiti e le formazioni sorte o emerse dalla loro crisi, tutte investite del diritto di concorrere alla formazione dell’indirizzo politico ben oltre il momento elettorale. E ciò equivale a dire che l’esercizio della sovranità popolare implica forme di rappresentanza dei cittadini destinate a correggere l’ambiguità di fondo della democrazia borghese, incapace di fornire gli strumenti indispensabili a realizzare una “partecipazione continua”[9].

E non è tutto. Siccome l’esito della contrapposizione tra componenti del popolo dipende dalla loro forza sociale, l’esercizio della sovranità richiede l’uguaglianza sostanziale dei cittadini, collegata cioè a un ruolo attivo dei pubblici poteri, chiamati a rimuovere gli ostacoli alla realizzazione della parità. E ciò equivale a dire che l’esercizio della sovranità presuppone, oltre alla libertà e all’uguaglianza, anche la solidarietà: fuori dal mercato, da esprimere con gli strumenti dello Stato sociale, ma anche nel mercato, dove la debolezza sociale deve essere bilanciata dalla forza giuridica. Anche per questo l’esercizio della sovranità popolare passa dalla valorizzazione del lavoro in quanto fonte di uguaglianza e libertà, e dunque dallo sviluppo della democrazia economica. Passa cioè dalla partecipazione diffusa alla vita economica attraverso la programmazione realizzata a livello parlamentare, ma anche con il coinvolgimento dei lavoratori, e non solo di essi, nelle scelte aziendali.

Se così stanno le cose, l’affermazione del principio della sovranità popolare richiede che siano assicurati i diritti della tradizione liberale, ovvero i diritti di libertà: alla libera manifestazione del pensiero, alla libertà personale, alla libertà di associazione, alla libertà di movimento, alla libertà di religione, e così via. È però altrettanto indispensabile la garanzia dei diritti sociali, ovvero la promozione, tra gli altri, del diritto alla salute con la garanzia di “cure gratuite agli indigenti” (art. 32), del diritto all’istruzione inferiore gratuita e superiore assicurata a chi è “privo di mezzi” (art. 34), del diritto al mantenimento e all’assistenza sociale per chi è “inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere”, e del diritto a mezzi adeguati alle esigenze di vita per i lavoratori colpiti da infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria (art. 38).

Tutti i diritti richiamati sono strettamente legati alla sovranità popolare, se non altro in quanto dalla loro previsione essa emerge come vicenda non solamente unitaria: l’esercizio dei diritti sociali, esattamente come dei diritti di libertà, costituisce “espressione permanente di sovranità popolare”, fondamento per la trasformazione del cittadino in “sovrano di se stesso”[10].

Sovranità limitata

Lo Stato moderno nasce come Stato assoluto, del quale il popolo rappresenta semplicemente un elemento costitutivo, essendo l’esercizio della sua sovranità ridotto a una mera funzione: quella concernente l’elezione del parlamento, a cui si riconoscono poteri in quanto organo statale. Le cose cambiano solo in parte con l’affermazione dello Stato di diritto, che mira a istituire un governo degli uomini in luogo del governo delle leggi, e quindi a porre primi condizionamenti all’esercizio della sovranità: non ancora riconosciuta al popolo, ma se non altro limitata a suo favore.

Lo Stato di diritto non rappresenta però un argine contro gli arbitri delle maggioranze contingenti. Questo è l’obiettivo dello Stato costituzionale, nel quale occorrono maggioranze qualificate per modificare le regole relative all’esercizio della sovranità, che oltretutto ha nel frattempo cessato di essere solo statale: la sovranità popolare è tale anche dal punto di vista giuridico e non solo meramente politico. Lo Stato costituzionale arricchisce il catalogo delle limitazioni concernenti l’esercizio della sovranità popolare, efficacemente vincolata a realizzare la parità sostanziale fuori e dentro il mercato, anche e soprattutto per confermare che il suo fondamento risiede nella promozione dell’uguaglianza.

Con lo Stato costituzionale i diritti fondamentali diventano inviolabili. E compongono la cornice entro cui si sviluppa il pluralismo cui rinvia il riconoscimento che il popolo comprende centri di interessi in contrasto tra loro[11], tutti chiamati a concorrere all’esercizio della sovranità popolare. Anche per questo lo Stato costituzionale è tale in quanto identifica la cornice entro cui iscrivere il conflitto democratico: “il pluralismo non degenera in anarchia normativa a condizione che, malgrado la divisione sulle strategie particolari dei gruppi sociali, vi sia una convergenza generale su alcuni aspetti strutturali della convivenza politica e sociale, che si possono così mettere fuori discussione e consacrare in un testo non disponibile da parte degli occasionali signori della legge”[12].

Non vi è pertanto motivo di sostenere che la sovranità popolare si risolva in una sorta di dittatura della maggioranza. Questo sosteneva al principio del Novecento chi voleva denigrare la democrazia per aprire la strada all’involuzione fascista, ma è in fin dei conti quanto affermano coloro i quali considerano il neoliberalismo incompatibile con la democrazia.

Semmai è di dittatura del mercato che occorre parlare: quella indotta dal neoliberalismo che promuove lo scioglimento dell’individuo nell’ordine proprietario, e la funzionalizzazione delle sue condotte al mantenimento del principio di concorrenza. A dimostrazione di come la normalità capitalistica possieda una forza attrattiva tale da impedire la costruzione di un capitalismo dal volto umano: esito inevitabile se la sovranità popolare non viene riconosciuta e alimentata come forza emancipatoria da opporre all’ordine proprietario e al principio di concorrenza.

Sovranità condizionata

Che la sovranità nello Stato presupponga la sovranità dello Stato, era ben presente ai Costituenti, i quali ammisero limitazioni di quest’ultima solo per promuovere un ordine politico incentrato sulla pace e sulla giustizia fra le nazioni, e solo in condizioni di parità con gli altri Stati. Di qui la previsione costituzionale per cui l’Italia “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni” (art. 11). Il tutto per legittimare l’adesione all’Onu[13], il cui statuto così sintetizza i fini dell’organizzazione: “mantenere la pace e la sicurezza internazionale”, nonché “sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto e sul principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’auto-decisione dei popoli” (art. 1).

Erano circoscritte anche le limitazioni della sovranità relativa al funzionamento dell’ordine economico, che a livello internazionale si volle incentrare sulla libera circolazione delle merci, ma non anche dei capitali: era questo il senso del compromesso raggiunto a Bretton Woods, sostenuto anche in quanto fondamento del compromesso keynesiano. Se infatti i capitali circolano liberamente, i governi sono costretti a competere per attirarli comprimendo i salari e la pressione fiscale sulle imprese, e questo contrastava con la volontà di edificare un ordine economico internazionale incentrato sull’economia reale. Il tutto esplicitato durante la conferenza di Bretton Woods, e soprattutto nello statuto del Fondo monetario internazionale[14], dove si legge tutt’ora che “gli Stati membri possono esercitare gli opportuni controlli per regolamentare i movimenti di capitali” (art. 6).

Ma non è tutto: l’intento di promuovere la prosperità richiede talvolta di controllare anche la circolazione delle merci, di ricorrervi come strumento di politiche anticicliche direttamente votate a produrre la piena occupazione. È lo stesso Keynes a mettere in luce questo aspetto in un contributo significativamente intitolato “autosufficienza nazionale”, nel quale si dichiara il definito tramonto dell’internazionalismo economico di matrice ottocentesca: possono circolare “le idee, la conoscenza, la scienza… ma lasciamo che le merci siano prodotte in casa quando è ragionevole e possibile in modo conveniente, e specialmente che la finanza sia soprattutto nazionale”[15].

La costruzione europea ha rappresentato e rappresenta il principale dispositivo utilizzato per rovesciare il compromesso keynesiano e a monte per scardinare la disciplina costituzionale della sovranità[16]: per condizionarla al rispetto dell’ortodossia neoliberale.

L’Europa unita non promuove infatti la pace e la giustizia, né tantomeno rispetta la parità tra Stati: alimentato la circolazione di tutti i fattori produttivi per rovesciare il compromesso di Bretton Woods. Lo ricaviamo in modo esemplare considerando le riflessioni di Guido Carli, Ministro del tesoro che rappresentò l’Italia nei negoziati per la definizione dei contenuti del Trattato di Maastricht. Il banchiere era consapevole che il Trattato avrebbe condotto ad “allargare all’Europa la Costituzione monetaria della Repubblica federale di Germania”. E lo apprezzava proprio per questo, perché avrebbe implicato “la concezione dello Stato minimo” e dunque un “mutamento di carattere costituzionale”, per cui si sarebbero ristrette le libertà politiche e riformate quelle economiche: realizzando in particolare “una redistribuzione delle responsabilità che restringa il potere delle assemblee parlamentari ed aumenti quelle dei governi”, e un ripensamento complessivo delle “leggi con le quali si è realizzato in Italia il cosiddetto Stato sociale”[17].

Proprio questo assetto viene presidiato dal principio della superiorità del diritto europeo sul diritto nazionale. Un principio che a ben vedere non ha un fondamento costituzionale: se come abbiamo detto la partecipazione italiana all’Europa unita non è coperta dalla Costituzione (art. 11), essa si fonda unicamente sugli atti di recepimento dei Trattati, ovvero su leggi ordinarie, il che è “semplicemente illegale”[18].

Ma non è questo, evidentemente, l’orientamento dell’Unione europea, secondo cui il diritto europeo prevale persino sul diritto costituzionale nazionale (Corte di giustizia Cee, Sent. 17 dicembre 1970, 11/70). La Corte costituzionale afferma che ci sono limiti a questo principio: per la precisione “controlimiti all’ingresso delle norme dell’Unione europea”. Questi sono però attivabili solo se sono chiamati in causa precetti “irrinunciabili… per ciò stesso sottratti anche alla revisione costituzionale” (sent. 22 ottobre 2014 n. 238): ad esempio quelli relativi alla forma repubblicana, intangibile per espressa previsione (art. 139). A queste condizioni la riaffermazione della sovranità non si potrà invocare per contrastare la pervasività dell’ortodossia neoliberale. I controlimiti sono cioè “riserve di sovranità” solo “potenziali”, buone solo per legittimare la costruzione europea nei confronti del popolo sovrano: per fungere da “oppiacei”[19].

Questo vale però per l’Italia, ma non per altri Paesi europei più vigili rispetto alle conseguenze di una cessione di sovranità statale al livello sovranazionale. Primo fra tutti la Germania, la cui Corte costituzionale afferma che il parlamento tedesco “in quanto rappresentante del popolo” deve mantenere “un influsso costitutivo sullo sviluppo politico della Germania”. Anche e soprattutto per assolvere al “dovere dello Stato di garantire un giusto ordine sociale”, ovvero per “creare le condizioni minime per un’esistenza dignitosa dei suoi cittadini” (sent. 30 giugno 2009, 2 BvE 2/08).

Il tutto mentre la Legge fondamentale tedesca è stata modificata per chiarire che la Germania aderisce all’Unione economica e monetaria solo nella misura in cui questa si fonda sull’ortodossia neoliberale (art. 88). Con il risultato che l’Unione si potrà modificare solo cambiando la Legge fondamentale tedesca, a riprova di come essa sia oramai radicalmente immodificabile.

Sovranismo democratico

Da tempo si discute di un nuovo costituzionalismo, capace di promuovere e tutelare i diritti fondamentali in assenza dello Stato[20]. È un’opzione suggestiva ma criticabile da diversi punti di vista, innanzi tutto perché prefigura un progetto emancipatorio privo di dimensione politica, con ciò condannato all’inefficacia[21]. Inoltre alimenta l’idea secondo cui, in tempi di globalizzazione, i poteri statuali sono volatili: idea fuorviante in quanto trascura il loro fondamentale contributo al funzionamento del mercato autoregolato. Il nuovo costituzionalismo impedisce cioè di riconoscere la centralità di una lotta per riorientare l’azione dei poteri statuali, e a monte la necessità di recuperare la dimensione nazionale in quanto arena democratica entro cui il conflitto redistributivo si sviluppa in modo equilibrato, e il suo esito viene tradotto in pratica politica. È questo il senso del sovranismo democratico.

La liberazione dal vincolo esterno è insomma indispensabile alla ripoliticizzazione del mercato, per la quale la democrazia deve però svilupparsi in forme ulteriori rispetto a quelle contemplate dalla tradizione borghese. Deve cioè affermarsi in quanto espressione di sovranismo politico, da intendersi però come condizione per consentire lo sviluppo del sovranismo sociale, strumento attraverso cui dar seguito all’esito del conflitto redistributivo. È questo il fondamento del compromesso keynesiano, alimentato dalle mediazioni tra capitale e lavoro in qualche modo presidiate dallo Stato, anche ricorrendo al sistema della sicurezza sociale come forma di salario differito, e più in generale come componente di una politica di piena occupazione[22]. Tutto l’opposto di quanto preteso invece dall’ortodossia neoliberale, che al confronto tra centri di potere economico riequilibrato secondo lo schema della parità sostanziale oppone la polverizzazione di quel potere, funzionale a ridurre i comportamenti degli operatori del mercato a reazioni automatiche ai suoi stimoli, per sterilizzare così il conflitto sociale.

Il vincolo esterno da combattere non è solo quello derivante dalla cessione di sovranità in materia di politica monetaria e a monte di politica fiscale e di bilancio, la prima prevista esplicitamente nei Trattati e la seconda in qualche modo coartata attraverso il meccanismo della governance[23]. Occorre anche contrastare il mercato unico ripristinando i controlli sulla circolazione dei fattori produttivi: soprattutto dei capitali, pena l’insostenibilità del compromesso keynesiano. La circolazione delle imprese e dei lavoratori deve essere limitata in quanto alla base di pratiche odiose di dumping salariale e sociale.

Rispetto alla circolazione dei capitali e dei lavoratori, quella delle merci necessita di minori controlli, che sono tuttavia fondamentali per porre rimedio agli squilibri della bilancia dei pagamenti. La situazione sarebbe in parte diversa, ove nell’Eurozona fossero rispettate le regole relative al buon funzionamento di un’area monetaria ottimale, e in particolare quella per cui i Paesi in surplus devono sostenere la domanda dei loro cittadini e contribuire così, attraverso l’importazione, a riequilibrare la bilancia dei pagamenti dei Paesi in deficit. Accade invece l’opposto, giacché la Germania supera da troppo tempo e in modo esorbitante il limite, peraltro molto generoso, ammesso dalle regole: un surplus delle partire correnti entro una media del 6% del prodotto interno lordo calcolato nel triennio[24].

Il ripristino dei controlli sulla circolazione dei fattori produttivi consente di tutelare l’identità nazionale intesa quale modalità condivisa da una “comunità solidale che stabilisce come distribuire la ricchezza prodotta”[25], ovvero come promuovere la democrazia economica nel rispetto dei principi di uguaglianza, libertà e solidarietà. Nulla a che vedere con il riferimento a ontologie premoderne[26], buone solo ad alimentare il conflitto tra Stati per la conquista dei mercati e a ricomporre il conflitto redistributivo provocato dalla modernità capitalistica.

Un nuovo europeismo

Il sovranismo democratico non ha alternative: l’Europa unita in quanto dispositivo neoliberale è irriformabile ed è pertanto illusorio pensare di democratizzarla, magari nell’ambito di un ampliamento dell’Unione economica e monetaria. Occorre al contrario rinazionalizzare le politiche economiche, presupposto irrinunciabile per riattivare la sovranità popolare e il conflitto sociale quali fondamenti della democrazia economica. E ciò significa recuperare innanzi tutto la sovranità monetaria: non solo per riequilibrare i differenziali di competitività, ma anche perché l’Eurozona in quanto area monetaria non ottimale è inesorabilmente destinata a beneficiare il centro della costruzione europea e a danneggiare la sua periferia.

Peraltro l’enfasi sulla sovranità monetaria può essere fuorviante. In fondo sono le politiche monetarie a plasmare il rapporto tra economia e società, sicché il mero ritorno della moneta nazionale potrebbe creare l’illusione infondata che esso comporti di per sé un recupero del compromesso keynesiano. Mentre è evidente che le politiche realizzate con il ritorno della Lira ben potrebbero essere le stesse di quelle realizzate con l’Euro, soprattutto se le prime sono realizzate dalla stessa classe dirigente a cui si devono le seconde. Di qui l’importanza del conflitto sociale in quanto vicenda capace di riattivare la sovranità popolare e produrre, oltre al ricambio della classe dirigente, un ampliamento delle decisioni affidate alla partecipazione democratica, e dunque sottratte all’impero degli automatismi concepiti dall’ortodossia neoliberale.

Si badi però che il sovranismo democratico non mira alla chiusura nazionalista. Al contrario è il presupposto per rilanciare una diversa forma di europeismo, incentrato sulla democrazia economica oltre che politica, in quanto tale strumento di emancipazione sociale e individuale.

La stessa costruzione europea, sorta nei Trenta gloriosi, è stata inizialmente concepita in modo tale da lasciare spazio a qualche forma di resistenza alle istanze del mercato: i Trattati menzionano la piena occupazione accanto al controllo dell’inflazione come finalità delle politiche economiche, che dunque avrebbero potuto alimentare il compromesso keynesiano. Proprio per rovesciarlo si sono definite politiche economiche ossessionate dalla stabilità dei prezzi, per poi imporre politiche fiscali e di bilancio incentrate sul controllo del deficit e del debito. Il recupero della sovranità popolare ben potrebbe consentire di riavvolgere il nastro di questa storia e alimentare un “patriottismo costituzionale”[27]: potrebbe riportare in auge politiche nazionali di piena occupazione da porre alla base di una diversa costruzione europea, entro cui sviluppare politiche aperte al sostegno della domanda e dunque alla redistribuzione della ricchezza dall’alto verso il basso.

Detto questo, riflettere sul sovranismo democratico è indispensabile a prescindere dai sentimenti suscitati dal ritorno dei confini: i processi di rinazionalizzazione sono inevitabili in quanto reazione alla pervasività del mercato autoregolato. Non riconoscerlo nel nome di un europeismo ideologico e scollato dalla realtà non eviterà l’involuzione e infine il crollo dell’Europa unita, ma semplicemente, quando questo avverrà, consentirà al sovranismo identitario di affermarsi incontrastato.


(l’articolo anticipa e sintetizza i temi del volume di Alessandro Somma “Sovranismi. Stato popolo e conflitto sociale” in uscita per DeriveApprodi)


NOTE


[1] K. Polanyi, La grande trasformazione (1944), Torino, 1974.

[2] F. von Hayek, The Economic Conditions of Interstate Federalism, in 5 New Commonwealth Quarterly, 1939, p. 131 ss.

[3] AC 13 luglio 1949, 10292 ss.

[4] Così Caludio Petruccioli, in AC 28 ottobre 1992, 5251 ss.

[5] A. D’Attorre, Sovranità non è una parola maledetta (14 giugno 2018), https://www.italianieuropei.it/it/italianieuropei-3-2018/item/4049-sovranità-non-è-una-parola-maledetta.html.

[6] S. Cesaratto, Polanyi moment (22 settembre 2017), http://sollevazione.blogspot.com/2016/09/polany-moment-quale-strategia-di.html.

[7] V. Crisafulli, La sovranità popolare nella Costituzione italiana (1954), in Id., Stato, Popolo, Governo, Milano, 1985, p. 91 ss.

[8] G. Amato, I fatti di luglio, il diritto alla resistenza e l’incriminazione dello sciopero politico, in Democrazia e diritto, 1961, p. 124 ss.

[9] L. Carlassare, La sovranità del popolo nel pluralismo della democrazia liberale, in Id. (a cura di), La sovranità popolare nel pensiero di Esposito, Crisafulli, Paladin, Padova, 2004, p. 7.

[10] T.E. Frosini, Sovranità popolare e costituzionalismo, Milano, 1997, p. 214.

[11] E. Cheli, Intorno ai fondamenti dello Stato costituzionale, in Quaderni costituzionali, 2006, p. 263.

[12] G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, 1992, p. 48.

[13] G. Bascheri, L. Bianchi d’Espinosa e C. Giannattasio, La Costituzione italiana, Firenze, 1949, p. 41.

[14] H. Morgenthau, Closing Address to the Conference, in International Monetary Fund and International Bank for Reconstruction and Development, Washington, 1944, p. iv.

[15] J.M. Keynes, National Self-Sufficiency, in 22 Yale Review, 1933, p. 755 ss.

[16] V. Giacché, Costituzione italiana contro Trattati europei, Reggio Emilia, 2015.

[17] G. Carli, Cinquant’anni di vita italiana (1993), Roma e Bari, 1996, p. 432 ss.

[18] G. Itzcovich, Teorie e ideologie del diritto comunitario, Torino, 2006, p. 422.

[19] A. Guazzarotti, Sovranità e integrazione europea, in Rivista AIC, 2017, 3, p. 7.

[20] Ad es. L. Ferrajoli, La sovranità nel mondo moderno, Roma e Bari, 1997, p. 39 ss.
[21] G. Preterossi, Residui, persistenze, illusioni: il fallimento politico del globalismo, in Scienza e politica, 2017, p. 106.
[22] W. Streeck, Tempo guadagnato (2012), Milano, 2013, p. 133.

[23] Cfr. A. Somma, Maastricht, l’Europa della moneta e la cultura ordoliberale, in A. Barba et al., Rottamare Maastricht, Roma, 2016, p. 70 ss.

[24] S. Cesaratto, Chi non rispetta le regole?, Reggio Emilia, 2018.
[25] C. Formenti, Quelle sinistre che odiano il popolo (29 gennaio 2018), http://temi.repubblica.it/micromega-online/quelle-sinistre-che-odiano-il-popolo-contro-lideologia-del-politicamente-corretto.
[26] C. Galli, Sulla sinistra rossobruna (29 giugno 2018), https://ragionipolitiche.wordpress.com/2018/06/29/sulla-sinistra-rossobruna.

[27] S. Fassina, La bussola del patriottismo costituzionale per ricostruire la sinistra, in Id. (a cura di), Controvento, Reggio Emilia, 2017, p. 1 ss.


(1 ottobre 2018)
 




Le doppie morali della crisi europea


Sergio Cesaratto ha scritto un bel libro, Chi non rispetta le regole? (Cesaratto 2018), con l’obiettivo di smontare sistematicamente una particolare lettura della crisi dell’Euro, che assolve completamente la classe dirigente politica ed economica tedesca, e scarica per intero la responsabilità sui paesi della periferia europea. È una lettura moraleggiante, diffusa non solo in Germania, ma anche in ambienti italiani di orientamento liberista. Non è affatto un’invenzione dell’autore. Al contrario, personalmente ho ascoltato diverse volte questo tipo di narrazione quando, nell’autunno del 2013, condussi con Klaus Armingeon una serie di interviste volte a capire in quale maniera funzionari publici, politici e sindacalisti tedeschi interpretassero la crisi dell’Euro e le risposte da dare ad essa (Armingeon e Baccaro 2015).

La lettura “tedesca” della crisi

Esagerando un po’ (ma lasciando inalterata la sostanza), la lettura della crisi che emerse da quei colloqui in Germania si può riassumere nella maniera seguente: a dire degli intervistati, la situazione dei paesi della periferia europea era per molti versi simile a quella della Germania nei primi anni 2000. Anche l’economia tedesca languiva in quel periodo in una crisi profonda. Diversamente però dai paesi del Sud, la Germania scelse di mantenere in ordine i suoi conti pubblici e di introdurre riforme importanti del mercato del lavoro e della protezione sociale (le riforme Hartz). Sindacati e imprese contribuirono alla ripresa economica accordandosi per flessibilizzare il sistema di contrattazione collettiva, in precedenza eccessivamente rigido, e in questo modo consentirono alle imprese, attraverso la moderazione salariale, di riguadagnare la competitività internazionale persa negli anni immediatamente successivi alla riunificazione. Fu un governo di centro-sinistra, il governo Schroeder, ad introdurre le riforme, e ad esse pagò un prezzo politico molto alto: non fu rieletto, ma si dimostrò capace di anteporre gli interessi del paese agli interessi di parte. Grazie alle riforme fatte, la Germania tornò a crescere in capo a pochi anni.

La storia di solito si concludeva con considerazioni su quel che avrebbero dovuto fare i paesi della periferia europea. Come la Germania dieci anni prima, anche per questi l’unica soluzione era imboccarsi le maniche e fare le riforme strutturali troppo a lungo rimandate. La loro spesa pubblica era fuori controllo, i mercati del lavoro eccessivamente rigidi, i sistemi pensionistici troppo generosi, e in più avevano sprecato l’opportunità dei bassi tassi di interesse forniti dall’Euro nei primi anni 2000. Erano responsabili delle proprie sfortune. Pretendere che i loro debiti fossero ripagati da altri paesi era un abuso. Chiedere alla Germania di rinunciare alla propria competitività duramente riconquistata era come chiedere al Barcellona di giocare senza Messi per fare un favore agli avversari (Weidmann 2012).

Questa ricostruzione veniva fornita, con poche variazioni, da personaggi di diversa estrazione: funzionari del ministero delle Finanze e politici di CDU e SPD. Gli unici ad avere una lettura differente della situazione erano i sindacalisti di Ver.Di., il sindacato dei servizi, che mettevano l’accento sulla necessità per la Germania di espandere la domanda interna, ma la loro posizione appariva del tutto isolata, ed incapace di incidere sulle scelte politiche.

È esattamente contro questo tipo di narrazione che il libro di Cesaratto si rivolge, ricordando come un’unione monetaria, l’Euro come il gold standard, si regga su “regole del gioco” implicite. Il sistema è sostenibile solo se ci sono meccanismi e strumenti che consentano l’aggiustamento simmetrico in caso di squilibri della bilancia di parte corrente. In particolare, un paese in surplus dovrebbe consentire ai suoi prezzi interni di crescere più rapidamente dei prezzi dei paesi in deficit in modo da riequilibrare il tasso di cambio reale (che è dato dal rapporto tra i prezzi interni ed esteri) e attraverso questo l’equilibrio di parte corrente. Tali meccanismi non sono però automatici, ma dipendono da decisioni politiche. Se, come nel caso della Germania, il paese in surplus ha un’economia “tirata dalle esportazioni”, il non aggiustamento gli permette di trarre beneficio dalla situazione, almeno per un po’. Dunque una prima conclusione di Cesaratto è che il paese che ha violato le regole (implicite) di funzionamento dell’unione monetaria è la Germania, e lo ha fatto perseguendo scientemente il suo interesse nazionale.

La crisi dell’Eurozona come crisi di bilancia dei pagamenti

Nel dibattito di economia eterodossa, Cesaratto è associato alla tesi che equipara la crisi dell’Euro ad una crisi di bilancia dei pagamenti (Cesaratto 2015). In sintesi, secondo questa tesi l’Eurozona è assimilabile ad un sistema di cambi fissi. È noto che i sistemi di cambi fissi sono soggetti ad un particolare tipo di crisi (verificatasi finora soprattutto nei paesi in via di sviluppo), nota come “arresto improvviso” (Frenkel e Rapetti 2009). Anche la crisi del 2010-2011 ha per Cesaratto le caratteristiche di un arresto improvviso, sia pure sui generis.

Negli anni precedenti alla crisi, i mercati finanziari si erano convinti che il rischio paese fosse scomparso e che il debito pubblico di tutti i paesi dell’Eurozona, compresi quelli periferici, fosse di fatto garantito in solido da tutti i paesi membri. Questa percezione aveva comportato una convergenza dei tassi di interesse nominali a partire dalla metà degli anni ’90. Permanevano tuttavia tassi di inflazione differenti a livello nazionale e questo creava disparità dei tassi di interesse reale, che erano più alti nei paesi a bassa inflazione, in primis la Germania, e più bassi nei paesi ad alta inflazione, quelli della periferia meridionale più l’Irlanda.

Queste differenze nei tassi di interesse reali, note come “effetto Walters” (Walters 1988), rallentavano la domanda nei paesi core e la facevano aumentare nei paesi della periferia, soprattutto nel settore delle costruzioni, tradizionalmente sensibile al tasso di interesse reale, stimolando la concessione di credito da parte del settore bancario e l’indebitamento, in primis privato. Per un certo periodo sembrò che gli squilibri fossero espressione di un processo benefico di convergenza (Blanchard e Giavazzi 2002), che incoraggiava gli investimenti nei paesi della periferia riducendo le disparità di sviluppo. Solo successivamente divenne chiaro che gli investimenti erano in settori a bassa produttività e non generavano convergenza.

Fino all’esplodere della crisi, le banche periferiche prendevano a prestito riserve da quelle dei paesi core, le quali erano ben liete di riciclare le loro riserve in eccesso a tassi un po’ più elevati di quello sui depositi presso la banca centrale (Cesaratto 2016). Dopo il fallimento di Lehmann Brothers, tuttavia, e soprattutto dopo la crisi greca, i flussi interbancari dal centro alla periferia si interruppero bruscamente.

Occorre sottolineare che nel caso dell’Euro, a differenza di un sistema di cambi fissi, non c’è un problema di esaurimento delle riserve valutarie da parte dei paesi sotto attacco, grazie alla presenza di un meccanismo di pagamenti interbancari, il Target 2, che consente ai paesi membri di finanziare il deficit estero (e le fughe di capitali) in maniera potenzialmente illimitata anche quando i flussi transfrontalieri di capitale si bloccano, sostituendo ai prestiti interbancari i prestiti del sistema delle banche centrali. Dunque la conseguenza più immediata dell’arresto improvviso è stata un accumulo di crediti Target 2 da parte della Bundesbank, e un corrispondente accumulo di debiti da parte delle banche centrali dei paesi periferici (Sinn 2014). In assenza del sistema Target 2, le misure di austerità necessarie a far fronte all’arresto improvviso sarebbero state probabilmente assai più gravose.

Gli effetti immediati dell’arresto improvviso di flussi di capitale si manifestarono non nel sistema bancario, ma nel mercato dei titoli pubblici. Preoccupati dall’aggravarsi delle finanze pubbliche di alcuni paesi, appesantite dalla crisi e dagli interventi pubblici per “mettere in salvo” i sistemi bancari (per esempio in Irlanda), i mercati finanziari cominciarono a nutrire dubbi sulla capacità di alcuni governi di ripagare i loro debiti, e dunque domandarono tassi di interesse sempre più elevati per compensare l’aumentato rischio. L’aumento dei tassi di interesse aggravava, invece di alleggerire, il rischio di fallimento. Ad un certo punto alcuni paesi della periferia divennero incapaci di rifinanziare le proprie emissioni di titoli pubblici anche a tassi molto elevati, e dunque furono costretti ad invocare l’intervento della “trojka” proprio come in simili circostanze i paesi in via di sviluppo invocano l’intervento del Fondo Monetario Internazionale. Ed infatti tra i programmi di austerità richiesti dal FMI ai paesi in via di sviluppo e quelli richiesti dalla trojka non c’è grande differenza: entrambi comportano l’aggiustamento fiscale attraverso il taglio della spesa piuttosto l’aumento delle imposte, e la liberalizzazione dei mercati dei prodotti e soprattutto del lavoro.

Insomma, i tratti caratteristici di un arresto improvviso, argomenta Cesaratto, sono chiaramente identificabili anche nella crisi dell’Eurozona: afflusso di capitali esteri (in questo caso per rifinanziare l’espansione di credito bancario nei paesi periferici), improvvisa crisi di fiducia, arresto e fuga di capitali, intervento delle istituzioni monetarie internazionali con annesse condizionalità, e programma di aggiustamento strutturale (ovvero austerità). Per quanto la crisi si sia manifestata nel mercato dei debiti pubblici – un mercato in cui il rischio non è “coperto” dalla BCE, che può fornire riserve in maniera potenzialmente illimitata alle banche, ma non può, a norma di trattati europei, acquistare titoli dai governi – è stata per Cesaratto in primis una crisi di debito privato: alcune parti hanno prestato eccessivamente e in maniera poco prudente, ed altre parti, corrispondentemente, hanno preso in prestito eccessivamente e in maniera poco prudente. Guardare alla situazione, come fa la Germania, solo dal lato del creditore è forse comprensibile, ma del tutto parziale. Le parti in causa sono due e hanno responsabilità simmetriche: il debitore si impegna a ripagare il debito, il creditore concede il credito dopo aver adeguatamente vagliato la solvibilità della controparte.

Cesaratto sottolinea come le regole di governance previste dai trattati europei erano e sono completamente inadeguate a scongiurare il tipo di crisi descritta nel paragrafo precedente, in quanto sostanzialmente disinteressate alle dinamiche del settore privato e interamente finalizzate a limitare la discrezionalità fiscale dei governi. Tali regole presuppongono, in linea con l’economia neoclassica, che il settore privato sia efficiente, e in particolare che il settore finanziario sia in grado di prezzare adeguatamente il rischio, cosa per lo meno discutibile dopo l’ultima crisi. I trattati si preoccupano dunque del problema di “azzardo morale”, ovvero di impedire che il settore pubblico si indebiti più del dovuto sfruttando l’aumentata credibilità derivante dal far parte di un’unione monetaria. Per questo motivo furono introdotti nel Trattato di Maastricht vincoli di deficit e debito pubblico attraverso il Patto di Stabilità e Crescita. Tuttavia, nulla fu previsto per limitare l’indebitamento privato, né per impedire politiche di svalutazione competitiva (reale) all’interno dell’Eurozona.

Il “mercantilismo” tedesco

Per quanto il libro di Cesaratto non prenda posizione esplicita nella disputa accademica sull’importanza delle politiche di contenimento del costo unitario del lavoro in Germania, limitandosi a sintetizzare le varie posizioni (pp. 45-47), si tratta di un tema importante per la tesi centrale del libro, che colei che ha davvero violato le regole (implicite) di un’unione monetaria è stata la Germania.

La disputa, una sorta di “fuoco amico” tra autori che condividono un approccio eterodosso all’economia, ha opposto Flassbeck e Lapavitsas da un lato (2015) e Storm e Naastepad dall’altro (2015). Per Flassbeck e Lapavitsas la causa prima della crisi è da cercarsi nella pluriennale moderazione salariale tedesca, sia nominale (contenimento dei costi unitari del lavoro) che reale (aumenti salariali reali inferiori alla crescita della produttività del lavoro), effetto dell’offensiva padronale per la riduzione dei costi e delle strategie cooperative di sindacati e (soprattutto) consigli di fabbrica delle grandi aziende tedesche, preoccupati oltre ogni cosa di garantire i posti di lavoro dei propri affiliati, e dunque disposti a fare contrattazione concessiva (Baccaro e Benassi 2017). Con l’Euro, e con la conseguente impossibilità di compensare le differenze tra i tassi nazionali di inflazione attraverso l’aggiustamento del cambio nominale, la moderazione salariale ha prodotto una svalutazione del tasso di cambio reale tedesco a svantaggio degli altri paesi dell’Eurozona, ed è dunque di importanza fondamentale, secondo Flassbeck e Lapavitsas (2015), per spiegare l’accumularsi di squilibri delle partite correnti.

Storm e Naastepad ritengono invece che la moderazione salariale e la compressione dei costi unitari del lavoro abbiano un’importanza marginale nello spiegare i surplus di parte corrente tedeschi, dato che, a loro dire, il sistema produttivo tedesco non compete sui costi, ma su livelli qualitativi superiori (resi possibili dalla presenza di istituzioni non liberali nelle relazioni industriali e nella formazione professionale), ed attribuiscono un ruolo più importante ai flussi di capitale dal centro alla periferia dell’Eurozona, che avrebbero causato la perdita di competitività di quest’ultima. Se un effetto della moderazione salariale c’è stato, argomentano Storm & Naastepad, si è fatto sentire più sulla riduzione delle importazioni tedesche che sullo stimolo alle esportazioni. Insomma, mentre per Flassbeck e Lapavitsas la catena causale procede dal mercato del lavoro (moderazione salariale) alle differenze di competitività, per Storm parte dichiaratamente dalla finanza, mentre il mercato del lavoro ha un ruolo secondario e derivato (le perdite di competitività sono conseguenze delle bolle immobiliari).

Cesaratto, come detto, non si schiera esplicitamente, ma un intero capitolo del libro è dedicato al “mercantilismo” tedesco, il che lascia pensare che simpatizzi per la versione di Flassbeck e Lapavitsas. Allo stesso tempo, ci si deve chiedere fino a che punto questa versione (che come detto mette fortemente l’accento sul mercato del lavoro come origine della catena causale) sia conciliabile con la sua tesi che la crisi dell’Euro è crisi di bilancia dei pagamenti, tesi che mette al centro dell’azione i movimenti di capitale e la finanza. In ogni caso, il libro discute i numerosi vantaggi che l’Euro ha fornito alla Germania, ricordando ad esempio che il famoso “salvataggio” della Grecia del 2010 fu in realtà un salvataggio delle banche francesi e tedesche (ancor più francesi che tedesche in verità), fortemente esposte rispetto al sistema bancario greco: se la Grecia avesse fatto default, queste banche avrebbero subito perdite che ne avrebbero compromesso la stabilità finanziaria, costringendo i governi di riferimento a rifinanziarle. Attraverso il salvataggio della Grecia, pagato in maniera proporzionale dai altri partner europei, Parigi e Berlino hanno mutualizzato i costi del loro bail-out. Cesaratto ricorda anche come la Germania abbia beneficiato dalla flight to security seguita alla crisi dei debiti sovrani, ovvero della fuga di capitali dai paesi della periferia verso il centro, che ha condotto ad un ulteriore abbassamento dei tassi di interesse in Germania.

Le proposte di riforma inadeguate

Le riforme di cui la zona Euro avrebbe bisogno dovrebbero consistere nell’introduzione di regole che rendano simmetrici i costi dell’aggiustamento tra paesi, permettendo di restaurare “le regole del gioco”. Un esempio che Cesaratto non discute, ma che andrebbe in questa direzione, riguarda il sistema di contrattazione collettiva, che dovrebbe essere coordinato tra i vari paesi in maniera da assicurare che i tassi di crescita del salario nominale corrispondano in media all’obiettivo di inflazione della BCE più la crescita media della produttività nazionale, in modo da rendere impossibili le svalutazioni competitive (del cambio reale) che hanno caratterizzato i primi anni dell’Euro. Tuttavia, queste e altre regole di bilanciamento incontrerebbero difficoltà e resistenze politiche probabilmente insormontabili, oltre che difficoltà di coordinamento tra attori nazionali (sono i sindacati tedeschi della manifattura disposti a rinunciare alla competitività di costo delle loro imprese?).

Una soluzione che viene di frequente avanzata, e sdegnosamente rifiutata dall’opinione pubblica tedesca, consiste nell’introduzione di trasferimenti fiscali dai paesi in surplus a quelli in deficit. Trasferimenti di questo tipo sono già politicamente difficili da sostenere in paesi in cui vi è comunanza di storia, cultura e tradizioni (si pensi a quanto spinosa sia la questione dei trasferimenti tra Nord e Sud in Italia, o tra Ovest e Est in Germania), figurarsi nell’Unione europea, ove tali condizioni non esistono. In ogni caso, i trasferimenti non risolvono il problema degli squilibri di competitività tra paesi, ma semmai li compensano a posteriori, condannando i paesi della periferia ad un poco dignitoso futuro di dipendenza dalla solidarietà altrui.

Cesaratto sottolinea inoltre l’assoluta inadeguatezza delle proposte di riforma dell’Eurozona al momento in discussione. Lungi dal muovere verso una più equa ripartizione dei costi di aggiustamento, esse mirano a restaurare l’ortodossia monetaria violata, agli occhi dell’élite tedesca, dalla politica monetaria non-convenzionale della BCE di Draghi, e a far applicare le regole di rigore fiscale troppo spesso violate, a dire della Germania, dai paesi del Sud. Spiccano in questo senso il breve documento (detto “non-paper”) fatto circolare da Schaeuble prima di lasciare il Ministero delle Finanze, che chiede una più rigorosa applicazione delle regole fiscali (compreso il Fiscal Compact) da affidarsi ad un organismo tecnico, un fondo monetario europeo, che possa imporre la disciplina a governi recalcitranti, sostituendosi alla Commissione Europea, un organismo ritenuto eccessivamente comprensivo nei riguardi dei governi inadempienti. Contemporaneamente il non-paper rifiuta l’assicurazione comune dei depositi bancari e l’introduzione di Eurobonds, ovvero ogni forma di ulteriore mutualizzazione dei rischi tra paesi europei. Chiede inoltre che ogni intervento di “salvataggio” degli stati sia condizionato ad interventi di ristrutturazione del debito, con perdite per i detentori di titoli. Se tali proposte fossero applicate, fa notare Cesaratto, i tassi di interesse sui titoli italiani aumenterebbero a causa dell’aumentato rischio, mettendo a rischio la sostenibilità del debito pubblico e accelerando, invece di prevenire, una nuova crisi di fiducia.

Anche le recenti proposte francesi, nonostante la gran fanfara con cui sono state accolte, non affrontano la sostanza dei problemi dell’Eurozona e rischiano di peggiorare la situazione. Cesaratto si sofferma sul contributo di 16 economisti francesi e tedeschi (Bénassy-Quéré e et al. 2018), che si propone come una mediazione tra esigenze diverse, e lo considera troppo vicino al non-paper tedesco per rappresentare una soluzione durevole. In particolare, le proposte degli economisti franco-tedeschi incorporano la richiesta tedesca che interventi di sostegno da parte del fondo salva-stati siano subordinati alla ristrutturazione del debito.

Che fare?

Le raccomandazioni di policy che derivano dall’analisi sono sorprendentemente moderate, considerate le prese di posizione precedenti dell’autore (per es. Cesaratto 2016). Non si consiglia di uscire dall’Euro; anzi, se ne mettono in evidenza le incognite e i rischi difficilmente quantificabili data la mancanza di precedenti (pp. 98-105). Quel che l’Italia dovrebbe fare, nell’opinione di Cesaratto, è esigere la non-applicazione delle regole fiscali, in particolare del Fiscal Compact. Invece di impegnarsi a tagliare il debito attraverso attivi di bilancio primario anno dopo anno, cosa che ha effetti recessivi, il governo italiano dovrebbe impegnarsi a stabilizzare il debito, ma non a ridurlo. Con questa proposta, si scommette sul fatto che un aumento del deficit pubblico faccia ripartire la domanda aggregata, e generi un tasso di crescita sufficientemente superiore al tasso di interesse medio pagato sullo stock di debito da stabilizzare il debito pur in presenza di un deficit primario. Questa politica, però, richiede la collaborazione della BCE che deve impegnarsi non solo a mantenere basso il tasso di interesse di riferimento, ma anche a proteggere i titoli del debito pubblico italiano da improvvise crisi di sfiducia dei mercati finanziari, continuando ad acquistarli (o dichiarando di essere disposta a farlo whatever it takes).

C’è molto con cui concordare in questo libro. Personalmente condivido che fosse necessario opporre alla narrazione “tedesca” della crisi una narrazione alternativa e opposta che la bilanciasse. Occorre tuttavia ricordare che non c’è stato nessun raggiro teutonico: le regole che sono state applicate sono quelle inserite nei Trattati europei, che l’Italia ha volontariamente sottoscritto e spesso incoraggiato. Concordo anche sull’analisi della natura della crisi, anche se avrei voluto un po’ più di chiarezza sulla catena causale: la crisi ha origine dalla moderazione salariale tedesca? O dalla creazione di credito bancario nei paesi periferici, conseguenza di tassi di interesse reali troppo bassi (nella periferia)? O le due cose sono inscindibili? È importante rispondere a queste domande, dato che le implicazioni di policy sono differenti. Sono inoltre d’accordo che l’Italia dovrebbe prendere le distanze dalle proposte dell’Eurozona formulate recentemente dai tecnocrati franco-tedeschi.

Quel che mi lascia un po’ insoddisfatto è invece la parte di political economy: non vedo perché i partner europei dovrebbero accettare che l’Italia metta da parte gli impegni già presi sul deficit e sulla riduzione del debito (attraverso il Fiscal Compact), per impegnarsi solo a stabilizzare il debito. Inoltre, quanto è realistico pensare che la BCE sia disposta a intervenire in difesa dei titoli di debito pubblico italiano, soprattutto ora che il mandato di Draghi è in scadenza?

In breve, il programma di Cesaratto, per quanto ragionevole, non mi sembra politicamente realizzabile nelle condizioni attuali. Cesaratto ha ragione che per superare la crisi è necessario che la Germania cambi la direzione della sua politica economica, rilanciando la sua domanda interna, e permettendo agli altri di fare altrettanto. Tuttavia, questo non accadrà perché qualche economista riesce a convincere les elites politico-economiche tedesche che le loro analisi sono sbagliate, ma perché cambiano i rapporti di forza. Concretamente questo significa due cose: primo, un pesce grosso (ovvero di importanza sistemica, come l’Italia) decide che è disposto ad uscire dall’Euro se le cose non cambiano. Questo però è un chicken game molto pericoloso, in cui ci si può fare molto male. Secondo, un pesce grossissimo, come gli Stati Uniti di Trump, costringe la Germania a ribilanciare il proprio modello di crescita minacciando il ritorno al protezionismo. Credo che la seconda minaccia sia più credibile della prima.

*Max Planck Institute for the Study of Societies

Referenze bibliografiche

Armingeon, Klaus e Lucio Baccaro. 2015. “The Crisis and Germany: The Trading State Unleashed.” Pp. 165-83 in Complex Democracy, edito da V. Schneider e B. Eberlein: Springer International Publishing.

Baccaro, Lucio e Chiara Benassi. 2017. “Throwing out the Ballast: Growth Models and the Liberalization of German Industrial Relations.” Socio-Economic Review 15(1):85-115.

Bénassy-Quéré, Agnès e et al. 2018. “Reconciling Risk Sharing with Market Discipline: A Constructive Approach to Euro Area Reform.” Center For Economic Policy Research, Policy Insight No 91.

Blanchard, Olivier e Francesco Giavazzi. 2002. “Current Account Deficits in the Euro Area: The End of the Feldstein-Horioka Puzzle? .” Brookings Papers on Economic Activity 2:147-86.

Cesaratto, S. 2015. “‘Alternative Interpretation of a Stateless Currency Crisis’.” Cambridge Journal of Economics 41(4):977-98.

Cesaratto, Sergio. 2016. Sei Lezioni Di Economia. Reggio Emilia: Imprimatur.

Cesaratto, Sergio. 2018. Chi Non Rispetta Le Regole? . Reggio Emilia: Imprimatur.

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Frenkel, Roberto e Martin Rapetti. 2009. “A Developing Country View of the Current Global Crisis: What Should Not Be Forgotten and What Should Be Done.” Cambridge Journal of Economics 33(4):685-702.

Sinn, Hans-Werner. 2014. “Austerity, Growth and Inflation: Remarks on the Eurozone’s Unresolved Competitiveness Problem.” The World Economy 37(1):1-13.

Storm, Servaas e C. W. M. Naastepad. 2015. “Crisis and Recovery in the German Economy: The Real Lessons.” Structural Change and Economic Dynamics 32:11-24.

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Weidmann, Jens. 2012. “Rebalancing Europe.” Speech at Chatham House in London, 28 March.

Orban, Europa allo Specchio

(da Il Simplicissimus)


Scusate se oso farmi delle domande, circostanza che viola una delle leggi fondamentali della contemporaneità, ma questa faccenda del j’accuse di Bruxelles contro l’Ungheria puzza da qualsiasi parte la si rigiri, nonostante le certezze dei sempre indignati per partito preso. Lo posso fare perché questo blog ha denunciato già nel 2013, attraverso la penna di una intellettuale ungherese cosa stava accadendo a Budapest: Ungheria, prove tecniche di fascismo. Ma lo posso anche fare sulla base delle antinomie e delle contraddizioni che emergono da questa vicenda: come è possibile che a Bruxelles si condanni il regime di Orban per le limitazioni alla libertà di espressione quando quasi contemporaneamente si è approva una legge bavaglio nascondendola dietro il pretesto di arginare le major della rete? E’ certamente legittimo lamentarsi del fatto che l’Ufficio nazionale della magistratura sia stato messo sotto l’influenza politica diretta del governo, ma la dipendenza dei pubblici ministeri dal potere politico è qualcosa di diffuso in tutto il continente, salvo – per fortuna – che in Italia. Quanto agli attacchi del regime a questo o a quel magistrato ricordiamoci il ventennio berlusconiano, ma anche le polemiche in Francia sull’affaire Sarkozy. E per ciò che concerne i muri che vengono opposti alle politiche immigratorie imposte dalla Ue secondo criteri a dir poco grotteschi, esse sono ufficialmente condivise anche da altri Paesi come l’Austria e la Polonia, senza parlare del fatto che Bruxelles ha dato sei miliardi alla Turchia perché facesse da muro per i migranti.
La cosa ancor meno convincente è che tutto questo non è di ieri: la nuova costituzione che permette le cose deprecate dall’Ue è in vigore dal 2013, senza che la cosa abbia mai preoccupato più di tanto i maestrini di Bruxelles. Questi hanno cominciato a preoccuparsi quando la Banca di Ungheria è tornata sotto il controllo dello Stato e l’Fmi è stato tacitato con il pagamento anticipato del debito, tutte cose possibili grazie al fatto che l’Ungheria dispone ancora del Fiorino e non è facilmente ricattabile come la Grecia e l’Italia. Ma si è passati all’azione quando Orban ha cominciato ad attaccare direttamente Soros e la sua Central European University che rappresenta il cuore del progetto neo liberista globale: l’inatteso plebiscito ricevuto da Orban in aprile dagli elettori, ha convinto il magnate a spostare anche la sua famigerata Open Society da Bruxelles a Berlino.
Ora facciamo un apparente salto logico di qualche giorno e vediamo cosa ha detto Orban nel suo discorso a Strasburgo tenutosi prima della votazione: ha parlato di “schiaffo in faccia all’Ungheria” che “ha preso le armi contro il più grande esercito del mondo, l’esercito sovietico, e ha versato il suo sangue per la libertà”. Certo un modo un po’ strano per sottolineare l’alleanza di ferro con la Germania di Hitler, ma viste le vicende ucraine nelle quali il distacco dalla Russia viene giustificato dagli occidentali (e Soros c’entra parecchio anche in questo) con lo stesso argomento, il leader ungherese ha pensato che in qualche modo tali parole arrivassero al cuore di tenebra a quella sub cultura dell’Unione, mai esplicitata, ma in qualche modo operante al fondo di tante vicende. La testa neoliberista ci mette un attimo, come si è visto in Grecia, a galleggiare su un’anima grifagna e tirannica che si nasconde dietro un falso umanitarismo di comodo.
Del resto Viktor Orban nasce come personaggio interamente immerso in quel mondo: Il leader ungherese infatti è tutt’altro che un autoctono sarmatico, dal punto di vista culturale intendo, ma è una scheggia impazzita prodotta dal liberismo rampante degli anni ’90, l’ambiente con il quale ha tutt’ora fortissimi legami. Nell’1989, grazie a una borsa di studio della fondazione Soros, va a prendersi un master ad Oxford e l’anno dopo viene magicamente eletto nel Parlamento di Budapest; nel ’92 diviene leader di Fidesz, il partito conservatore che è tutt’oggi la prima forza politica del Paese; nel ’98 ascende per la prima volta al governo e in piena vicenda balcanica fa entrare l’Ungheria nella Nato; nel 2001 viene convocato da Bush e accetta di partecipare alla guerra infinita in Afganistan, in maniera così entusiasta da essere premiato da due organizzazioni parallele della Nato, la New Atlantic initiative e l’American enterprise institute. In seguito perde due elezioni consecutive vinte dai socialisti e torna al potere nel 2010. Qui inizia una seconda vita segnata dal rifiuto di entrare nell’euro, dalle rinazionalizzazioni (in particolare quella della banca centrale) e l’instaurazione di un regime autoritario con una legge elettorale liberticida e la Costituzione del 2013 che addirittura occhieggia alla monarchia e fa riferimento esplicito a vaste rivendicazioni territoriali.
Ora si dirà che questa frattura rispetto alle linee liberiste di Bruxelles e dell’Fmi gli dovrebbe aver alienato gli ambienti atlantisti e globalisti, anche se le previsioni di disastro economico preannunciate dai soloni economici non solo non si sono realizzate, ma l’Ungheria è uno dei Paesi del continente in cui c’è stata una crescita effettiva e non solo statistica. Però non è così: l’autoritarismo piace istintivamente alle elites economico – finanziarie e ai loro strumenti mediatici e militari: in realtà esse si sentono minacciate proprio dalla democrazia al punto che non perdono occasione di umiliarla, ridurla, disfarla nella noncuranza, salvo esportarne lo scalpo spolpato come feticcio da utilizzare nelle guerre del caos. Solo quando questo autoritarismo esce dai binari stabiliti e funzionali all’egemonia, si sottrae alle logiche globaliste o alle strategie messe a punto nei pensatoi dei ricchi, solo quando si traduce, insomma, in eresia, allora comincia il j’accuse.

Nel caso specifico Orban ha ecceduto in autonomia e sovranismo ed è per questo che la Costituzione in vigore da 5 anni e preparata, discussa, osteggiata nel totale silenzio, dai democratici ungheresi da 6, viene sanzionata solo ora come contraria ai principi europei, perché nel frattempo si è consumata una frattura ben più grave: il ritorno a logiche di cittadinanza che sia pure malamente interpretate, sono del tutto incompatibili con le visioni di una società diseguale e unicamente basata sul profitto. La società neoliberista insomma dove lo stato è solo un secondino dei poteri forti, dove non esiste una dimensione collettiva vera e propria, ma solo pulsioni individuali, attorno alle quali si addensa ciò che rimane dei diritti. Orban in fondo non è altro che l’immagine dell’ Europa oligarchica vista in uno specchio infranto, con destra e sinistra variamente invertite, dimensioni alterate, ma dove tratti e tendenze sono perfettamente riconoscibili.

Cosa si Nasconde Dietro la Legge sul Copyright

di Massimo Bordin (da Micidial.it)



[Questo pezzo di Massimo Bordin da Micidial.it è particolarmente interessante perché nella sua analisi va al di là delle solite (contraddittorie) ovvietà su snippet e compagnia bella. Nell’attuale contesto, ricordiamolo, abbiamo un Romano Prodi che sul Messaggero di oggi esalta il coraggio del Parlamento Europeo, alfiere dei diritti dei cittadini contro lo strapotere dei giganti della comunicazione, nonché di Junker, paladino di un euro in concorrenza del dollaro come valuta globale. Perché, sapete, la disaffezione dei cittadini nei confronti dell’Unione è dovuta alla troppa burocrazia e poca politica. Ecco, finalmente arrivano le decisioni politiche, il diritto d’autore e le sanzioni contro l’Ungheria, dato che, lo sanno tutti, Orban sta agendo in contrasto coi “valori” dell’Unione, la medesima Unione che ha fatto strame della sua madre morale, spirituale e culturale, la Grecia. Rallegratevi, dunque: volevate il ritorno della politica, ma questa non ci ha mai abbandonato, casomai stava affilando i suoi “valori” per poterci pugnalare meglio. (Domenico D’Amico)]

Il 12 settembre il Parlamento Europeo ad ampia maggioranza ha approvato la legge sul copyright. In Italia il Movimento 5 Stelle tuona il suo parere contrario per voce del leader Di Maio, mentre sui più blasonati giornali online si festeggia. Ufficialmente gli articoli 11 e 13, vero cuore della riforma, sembrano indirizzati a preservare i diritto d’autore, ma, come dice il poeta, “fatta la legge trovato l’inganno”.
Lascerei perdere l’idea che il pericolo stia dietro il divieto di pubblicare immagini o spezzoni di contenuti altrui sotto forma di link (chiamati snippet). Se fosse davvero tutto qua ci sarebbe solo da festeggiare: basterebbe infatti evitare di richiamare le puttanate che puntualmente scrivono le testate giornalistiche mainstream e saremo a cavallo. Anzi, messa giù così l’agonia del giornalismo prezzolato subirebbe una forte accelerazione perché le piattaforme più importanti del web come Google e Facebook si troverebbero nella condizione di impedire la divulgazione tramite modalità ipertestuale dei vari Espresso, Repubblica, Corriere, Sole24ore, Huffingtonpost, ecc. Per i blog, i canali privati di youtube e le testate giornalistiche medio-piccole sarebbe una manna caduta dal cielo di Strasburgo.
Siccome le lobby degli editori, invece, hanno fatto pressione proprio nel senso opposto a quello sopra descritto, occorre allora chiedersi che diamine nasconda questa legge.
Il trucco sta tutto negli algoritmi che facebook e google news dovranno implementare per difendere il diritto d’autore. Con ogni probabilità, Zuckerberg e amici dovranno pagare costosissimi algoritmi allo scopo di individuare tutti quei siti e post che non pagano gli editori per avere il diritto di pubblicare un loro link nella forma evoluta dello snippet. In altri termini, se possiedi un sito web che divulga informazioni, alla fine dell’iter attuativo della legge, potresti trovarti bloccato da facebook o da qualsiasi piattaforma internet. Perché?
Per il semplice fatto che queste piattaforme si saranno dotate di un algoritmo che individua i siti dotati di licenza, li lascia scaricare i contenuti, ed al contempo blocca tutti quelli che non hanno la licenza, cioè quelli che non si fanno pagare, come i piccoli blog o le piccole testate giornalistiche. Sembra non aver nulla a che fare col diritto d’autore, e infatti non ce l’ha, quello è solo il pretesto per fermare la libera informazione col trucchetto sorosiano della burocrazia.
Lo scenario peggiore è quello per il quale le grandi case editoriali, tipo l’espresso, pagano una licenza ridicola e l’algoritmo facebookiano le intercetta e le accomoda sulla piattaforma con i loro link, le immagini e tutta la compagnia cantando. Gli altri che non pagano alcuna licenza, ma che lasciano accedere GRATUITAMENTE ai contenuti da essi prodotti, potrebbero però trovarsi bloccati perché un algoritmo così elaborato da ricercare ogni singola foto, ogni musichetta da 5 secondi, ogni citazione ipertestuale, magari da wikipedia, richiede un processo troppo complicato e, al più, esageratamente costoso. Insomma, per semplificare ed abbattere i costi, facebook e google potrebbero bloccare tutta l’informazione NON-mainstream, cioè, e guarda caso, tutta l’informazione che ha sconfitto il clan dei Clinton in America, che ha favorito la Brexit ed ha consentito l’avanzata dei sovranisti nell’Europa Continentale (Italia in primis). Anche qualora un sito web di news riuscisse a rivedere la propria produzione evitando le rassegne stampa, i link e le citazioni, basterà una foto di qualche politico o di qualche incontro pubblico, magari postato agli albori del sito, per vedersi il blocco perenne delle piattaforme internazionali. Hai voglia, dopo, con l’avvocatucolo di Vergate sul Membro, a farsi ripristinare il diritto a postare su facebook avendo a che fare con interlocutori che hanno sede legale a Menlo Park in California …
Molti attivisti ripongono fiducia sull’abilità delle piattaforme di adeguare gli algoritmi in modo da rispettare solo gli snippet, oppure sulla concretezza legislativa delle singole nazioni. Oppure ancora su un cambio di leadership al parlamento Europeo, visto che verrà rinnovato nel 2019.

Comunque vada a finire questa complicata vicenda una cosa è già appurata: non c’è nessuno di più smaccatamente illiberale dei liberisti che hanno preso le redini di questo continente, oramai troppo vecchio e stupido per poter pensare a qualsivoglia unificazione, trincerato in battaglie di retroguardia e incapace di proporre un valido modello alternativo a quello dei satrapi orientali alla Xi Jinping o al bellafighismo hollywoodiano d’oltreoceano.

DOPPIOCIECO

Per una Razionalità Moderatamente Pluralista