Un quarto di secolo con Maastricht: liberiamocene, o sarà fascismo


di Alessandro Somma da Micromega 

Il Trattato di Maastricht, a cui si devono l’Euro e gli attuali assetti politico istituzionali dell’Unione europea, compie un quarto di secolo: venne firmato il 7 febbraio 1992, per poi essere ratificato dagli allora dodici Paesi membri ed entrare in vigore il 1. novembre 1993. In alcuni casi questo passaggio coinvolse direttamente il corpo elettorale: come in Danimarca, dove furono necessari due referendum per poi raggiungere un consenso relativamente contenuto (56,7%), e in Francia, dove i favorevoli rappresentarono una minoranza decisamente risicata (51%). Diversa la situazione nei Paesi in cui la ratifica spettò ai parlamenti nazionali: quasi ovunque il Trattato fu approvato con maggioranze bulgare, a testimonianza di come sui temi europei, e in genere sulle ricette economiche, la distanza tra elettori ed eletti sia da molto tempo incolmabile.
In Italia i Senatori favorevoli alla ratifica del Trattato furono 176 (16 contrari e un astenuto), e 403 i Deputati (46 contrari e 18 astenuti). Il tutto avvenne tra settembre e ottobre 1992, in un clima di forte preoccupazione non tanto per i disastri che avrebbe provocato, quanto per le note vicende legate a Tangentopoli, su cui all’epoca la magistratura aveva da poco iniziato a indagare. Anche per questo nessuno sembrò aver compreso appieno il senso di Maastricht, mentre i pochi che lo intuirono ritenevano che avrebbe rappresentato un’opportunità.

È il caso di Guido Carli, Ministro del tesoro tra il 1989 e il 1992, che rappresentò l’Italia nei negoziati per la definizione dei contenuti del Trattato. Il banchiere era consapevole che Maastricht avrebbe imposto “all’Europa la Costituzione monetaria della Repubblica Federale di Germania”, quindi un “mutamento di carattere costituzionale”. Ma lo apprezzava proprio per questo, perché avrebbe finalmente comportato “la ridefinizione delle modalità di composizione della spesa, una redistribuzione delle responsabilità che restringa il potere delle assemblee parlamentari e aumenti quelle dei governi”, per poi “ripensare in profondità le leggi con le quali si è realizzato in Italia il cosiddetto Stato sociale”[1].

L’Europa prima di Maastricht
Il Trattato di Maastricht rappresenta uno spartiacque che identifica in modo netto un prima e un dopo nella costruzione dell’Europa unita. Quest’ultima è stata concepita come progetto neoliberale, e tuttavia, sino agli anni Settanta, vi erano ancora spazi per impostazioni di altro tipo: spazi che si chiusero quando si avviò il percorso che avrebbe condotto al Trattato di Maastricht.

Ma procediamo con ordine. Il Trattato di Roma, con cui nel 1957 si istituì la Comunità economica europea, si era limitato a creare un mercato unico: una zona di libero scambio per la libera circolazione dei fattori della produzione (beni, servizi, persone e capitali), e tariffe doganali comuni nei rapporti con i Paesi terzi. Non si parlava ancora di Unione economica e monetaria, ma di mero coordinamento delle politiche economiche nazionali, oltretutto a partire da due finalità per molti aspetti contrastanti: la piena occupazione e la stabilità dei prezzi. Il che legittimava politiche di matrice neoliberale, ossessionate dal controllo dell’inflazione, ma anche politiche redistributive incentrale sul sostegno della domanda, ovvero di tipo keynesiano.

Ciò fu possibile perché si era immersi nei cosiddetti Gloriosi Trenta: il periodo tra gli anni Cinquanta e Settanta caratterizzato da una crescita economica relativamente sostenuta e da un accettabile livello di redistribuzione della ricchezza, alla base di un equilibrio altrettanto accettabile tra capitalismo e democrazia. Il tutto assicurato, oltre che dall’ispirazione keynesiana della politica economica, fiscale e del lavoro, anche da un compromesso sulla circolazione dei fattori della produzione: le merci si spostavano liberamente, ma non così i capitali, da sottoporre a penetranti controlli statali. Per questo, sul punto, il Trattato di Roma era rimasto lettera morta.

Le cose sarebbero però cambiate per effetto degli avvenimenti che caratterizzarono gli anni Settanta, dagli shock petroliferi alla fine del sistema di cambi fissi varato a Bretton Woods. Determinanti furono però gli anni Ottanta, il decennio dominato dalle figure di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, fautori di politiche economiche ricavate dalla credenza secondo cui i fallimenti del mercato sono in verità fallimenti dello Stato: il mercato assicura la migliore redistribuzione della ricchezza, sicché i pubblici poteri devono limitarsi ad assicurare il funzionamento della concorrenza. Il che significava rinunciare allo stimolo della domanda, ridurre la pressione fiscale, e svalutare e precarizzare il lavoro: significava cestinare le politiche di matrice keynesiana.

Ma non è tutto. Sul finire degli anni Ottanta il blocco sovietico finì per implodere e questo privò il capitalismo del suo principale competitore, per il quale era stato costretto a non trascurare il tema della giustizia sociale. Seguì a ruota la Riunificazione tedesca, vicenda che alimentò ulteriormente l’illusione circa la bontà di Maastricht. Si pensava infatti che la Germania unita privata del Marco non avrebbe tenuto comportamenti imperialistici nei confronti degli altri Paesi europei[2]: che la moneta unica ci avrebbe salvati dall’Europa tedesca!

Jacques Delors e la svolta neoliberale
Come era intuibile, l’avanzata del neoliberalismo a livello mondiale incise profondamente sull’assetto della costruzione europea. La svolta fu interpretata da Jacques Delors, Presidente della Commissione europea dal 1985 al 1995, formidabile amplificatore del verbo neoliberale e tutore dei centri di interessi beneficiati da quel verbo.

Spiccava tra questi ultimi la Tavola rotonda degli industriali europei, una lobby fondata nella prima metà degli anni Ottanta per iniziativa di un selezionato gruppo di imprenditori, tra i quali compaiono gli italiani Umberto Agnelli e Carlo De Benedetti[3]. Le loro proposte sul modo di procedere verso l’Europa unita, prima fra tutte la piena liberalizzazione nei movimenti di capitali, vennero fedelmente tradotte nel noto Libro bianco confezionato dalla Commissione Delors nei suoi primi mesi di vita[4]. Fu a partire da questo documento che venne predisposto l’Atto unico europeo del 1986, con il quali si dette l’impulso decisivo all’integrazione dei mercati finanziari, e si rafforzò l’indicazione per cui la politica economica doveva definirsi a partire dal controllo dei prezzi.

L’Atto unico europeo certificava insomma che, tra la piena occupazione e la lotta all’inflazione, l’Europa doveva privilegiare il secondo obiettivo e quindi procedere verso il definitivo rigetto delle soluzioni di matrice keynesiana. Questo era peraltro un effetto inevitabile, se si ammetteva la libera circolazione dei capitali: dal momento che gli investitori fanno confluire i loro fondi verso i contesti in cui maggiori sono i profitti, gli Stati sono condannati a competere per essere attrattivi dal punto di vista dei mercati. A vincere sarà così l’ordinamento nazionale che più favorirà la moderazione salariale, renderà la manodopera particolarmente flessibile e abbasserà la pressione fiscale sulle imprese. Il tutto inevitabilmente bilanciato da una riduzione della spesa sociale e da un complessivo ridimensionamento del perimetro di azione dei pubblici poteri, e dunque da un loro arretramento di fronte all’avanzata dei mercati: in sintesi il superamento dell’approccio keynesiano.

I parametri di Maastricht e la moneta unica
L’Atto unico europeo diede inizio alla lunga marcia verso il Trattato di Maastricht, a cui si affidò il compito di costruire l’Unione economica e monetaria nel segno della stabilità dei prezzi, quindi promuovendo per gli Stati “condizioni finanziarie e di bilancio sane ed equilibrate”. Nessuno spazio, dunque, per politiche redistributive alternative a quelle affidate al mercato e al principio di concorrenza: la libera circolazione dei capitali vanificava il ricorso alla leva fiscale, mentre l’indebitamento veniva impedito dal divieto di “finanziamenti monetari di deficit”[5].

Il Trattato di Maastricht chiariva il fine ultimo di queste misure: imporre che l’integrazione europea fosse compatibile unicamente con “un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza”. Indicava poi le tappe del percorso: prima la libera circolazione dei capitali, poi la fissazione irrevocabile di tassi di cambio tra le monete nazionali, e infine l’adozione dell’Euro. Il tutto nel “rispetto dei seguenti principi direttivi: prezzi stabili, finanze pubbliche e condizioni monetarie sane” (art. 3A).

Le politiche economiche continuavano a essere di competenza degli Stati, i quali erano semplicemente tenuti a coordinarsi, ma si trattava oramai di un’affermazione di pura facciata. Il fine ultimo di quelle politiche era infatti individuato attraverso l’attribuzione all’Europa della competenza esclusiva in materia di moneta. I requisiti per essere ammessi nella Zona Euro, i cosiddetti parametri di Maastricht, erano in questo senso perentori, giacché il deficit e il debito pubblico dovevano essere contenuti entro “valori di riferimento”: rispettivamente il 3% e il 60% del pil. E per i Paesi che, dopo l’ammissione nella Zona Euro, si fossero discostati da questi obiettivi, venne prevista una procedura per disavanzo eccessivo, comprendente un complesso impianto sanzionatorio (art. 104C)[6].

La moneta unica venne varata nel 1999 come forma di pagamento non fisica, e dal 2002 come denaro contante. Della Zona Euro fecero parte, fin dall’inizio, undici degli allora quindici Paesi membri dell’Unione europea: Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna (nel caso del Belgio e dell’Italia nonostante fossero lontani dal rispettare i parametri di Maastricht). La Grecia si aggiunse nel 2001, mentre nel 2007 fu la volta della Slovenia, nel 2008 di Malta e Cipro, nel 2009 della Slovacchia, nel 2011 dell’Estonia, nel 2014 della Lettonia e nel 2015 della Lituania.

Pareggio di bilancio
Abbiamo detto che sul piano formale le politiche economiche erano di competenza degli Stati, a cui però le politiche monetarie di Bruxelles sottraevano qualsiasi spazio di manovra. Fu questo il senso di Maastricht, che però rappresentò solo l’inizio di una fase caratterizzata dall’imposizione del verbo neoliberale, con modalità capaci di azzerare le possibilità di equilibrio tra capitalismo e democrazia.

Con il Patto di stabilità e crescita del 1997 si è iniziato a dire che il fine ultimo dell’Unione economica e monetaria era in realtà “l’equilibrio del bilancio, con un saldo prossimo al pareggio o positivo”. Dello stesso tenore il Fiscal compact del 2012, che ha imposto agli Stati di prevedere il pareggio in disposizioni nazionali “vincolanti e di natura permanente, preferibilmente costituzionale”. Il che equivaleva a dichiarare l’incostituzionalità dell’approccio keynesiano, ovvero ad annullare la possibilità di politiche economiche incompatibili con l’ossessione per il controllo dell’inflazione. È contenuta nel Fiscal compact anche l’indicazione, rivolta ai Paesi con un debito pubblico oltre il 60% del pil, a ridurlo “a un ritmo medio di un ventesimo all’anno”. Il tutto mentre il raffronto tra i livelli di indebitamento registrati a partire dall’attuale crisi segnano un notevole incremento per tutti i Paesi europei, e in particolare quelli della Zona Euro: dal 65% del pil nel 2007 a oltre il 90% nel 2015 (dati Eurostat).

Anche il coordinamento delle politiche economiche è stato nel tempo concepito per incidere sugli spazi di manovra degli Stati, in buona sostanza azzerati con l’inasprimento del sistema di controlli preventivi e di sanzioni successive.

Nel merito già il Patto di stabilità e crescita del 1997 aveva imposto ai Paesi membri di fornire annualmente un “programma di stabilità”, con l’indicazione delle misure con cui ottenere un “saldo del bilancio vicino al pareggio o positivo”. E aveva disposto che la procedura di infrazione per disavanzo eccessivo esercitasse la “pressione opportuna” per indurre lo Stato inadempiente a piegarsi al volere di Bruxelles.

Una serie di provvedimenti raccolti sotto l’etichetta di Six-pack, emanati nel 2011, sono poi intervenuti per limitare le valutazioni discrezionali nel coordinamento delle politiche economiche nazionali, reso così un dispositivo tecnocratico azionato da automatismi. Nel contempo si è istituito il cosiddetto semestre europeo: la procedura per cui, nella prima parte di ciascun anno, il Consiglio europeo elabora le linee di politica economica che gli Stati devono tradurre in Programmi di stabilità e in Piani nazionali di riforma in cui illustrare le riforme strutturale per il futuro.

Un ulteriore inasprimento delle procedure volte a coordinare le politiche economiche nazionali si è ottenuto con il cosiddetto Two-pack, due provvedimenti emanati nel 2013. Impongono fra l’altro che le indicazioni formulate durante il semestre europeo siano poi recepite nelle leggi di stabilità, con ciò sottraendo ai parlamenti nazionali qualsiasi potere decisionale, oltre che sul saldo di bilancio, anche sull’individuazione delle coperture e degli oneri.

Il debito come arma
I limiti al deficit e al debito non sono i soli strumenti utilizzati per rendere l’Europa unita una costruzione neoliberale, e sacrificare così la partecipazione democratica sull’altare del cosiddetto libero mercato. Maastricht ha aggiunto a quei limiti il divieto per i Paesi membri di ricorre all’assistenza finanziaria dell’Unione, di altri Paesi membri o delle Banche centrali (art. 104 ss.). In questo modo gli Stati che hanno bisogno di denaro devono rivolgersi al mercato, e questo finisce per assumere la funzione di disciplinare il loro comportamento, o se si preferisce di spoliticizzarlo. Il che è un effetto voluto: come ha poi chiarito la Corte di giustizia, il contrarre debiti essendo “soggetti alla logica del mercato” induce a “mantenere una disciplina di bilancio”[7].

Ciò comporta che gli Stati fortemente indebitati, che le mitiche agenzie di rating stimano in difficoltà a restituire la somma presa a prestito, saranno costretti a remunerare il rischio sopportato dai creditori concedendo interessi elevati: tanto elevati da alimentare la spirale del debito, e in ultima analisi a impedire il rispetto dei parametri di Maastricht. È a questo punto, quando cioè il ricorso al mercato diviene insostenibile, che si possono attivare le procedure previste per il caso in cui forme di assistenza finanziaria siano richieste non tanto per soccorrere lo Stato indebitato, quanto per “salvaguardare la stabilità della Zona Euro nel suo insieme”. Lo ha stabilito una disposizione del Trattato di Lisbona 2007, precisando però che l’assistenza deve essere “soggetta a una rigorosa condizionalità” (art. 136 TFU)[8].

È questo l’attuale fondamento per l’attività della cosiddetta Troika, composta da Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale, che dal 2008 ha finora assistito Cipro, Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Ungheria. Si è di norma seguito un copione identico: l’assistenza finanziaria è stata assicurata in cambio di impegni a diminuire le uscite, a incrementare le entrate e a liberalizzare i mercati, incluso quello del lavoro. Tra gli impegni del primo tipo spiccano le misure volte a contenere la spesa pensionistica e sociale, compresa ovviamente quella per la sanità e l’istruzione, a congelare o ridurre le retribuzioni dei pubblici dipendenti, e in genere a ridimensionare la Pubblica amministrazione. Gli impegni destinati a incrementare le entrate si traducono invece in un programma di privatizzazioni, a cui affiancare un piano di liberalizzazioni, in particolare nei settori dell’energia, delle telecomunicazioni e delle assicurazioni, oltre che nei servizi pubblici locali in genere. Quanto alle riforme del mercato del lavoro, è costante l’impegno a ripristinare più elevati livelli di libertà contrattuale, utili fra l’altro a rimuovere gli ostacoli alla precarizzazione e svalutazione del rapporto di lavoro. Il tutto limitando il potere dei sindacati dei lavoratori, ad esempio con la possibilità di derogare al contratto collettivo nazionale, e forzando la collaborazione con il datore di lavoro, in particolare con il ricorso alla partecipazione dei lavoratori agli utili d’impresa.

Liberiamoci di Maastricht
Insomma, sebbene le politiche economiche siano di competenza nazionale, come confermato dal Trattato di Lisbona del 2007 (art. 5 TFU), esse finiscono per essere decise dal livello europeo come riflesso di politiche monetarie di matrice neoliberale. Ed essendo queste ossessionate da controllo dell’inflazione, sono precluse agli Stati le politiche redistributive incentrate sul sostegno della domanda. Potrebbero teoricamente ricorrere alla leva fiscale, ma la libera circolazione dei capitali impone di non farlo, pena l’ulteriore decremento delle entrate fiscali e la cancellazione di posti di lavoro.

Da questo punto di vista Maastricht ha trasformato la costruzione europea in una sorta di Superstato di polizia economica, impiccando i Paesi membri a parametri che impediscono anche solo di considerare nel dibattito pubblico opzioni diverse da quelle contemplate dal pensiero unico. Così facendo, il Trattato non solo ha affossato approcci di tipo keynesiano all’ordine economico, bensì anche ciò che li aveva ispirati: il controllo democratico sul funzionamento del mercato, poi reso impermeabile a scelte incompatibili con il proposito di presidiare il meccanismo concorrenziale. Giacché nella visione neoliberale la politica non controlla, bensì sostiene il mercato, usa la sua forza per riprodurlo e non certo per arginarlo: si riduce a mera amministrazione desocializzata dell’esistente.

Occorre dunque liberarsi di Maastricht, ristabilire il primato delle politiche economiche sulle politiche monetarie, e a monte tornare ai vincoli nella circolazione dei capitali: una massa di denaro stimata in oltre venti trilioni di dollari a livello planetario, amministrata da manager della ricchezza privi di scrupoli, capaci di sottrarre al fisco 200 bilioni di dollari all’anno[9]. Così facendo si tornerebbe al primato degli Stati nazionali nella scelta del segno di quelle politiche: non tanto per soddisfare un istinto sovranista fine a sé stesso, ma per riportare la partecipazione democratica al centro della costruzione europea. E per consentire di ripensarla come motore di giustizia sociale, di redistribuzione della ricchezza se del caso contro il funzionamento del mercato.

Non sarebbe nulla di rivoluzionario, anzi. Sarebbe semplicemente il ritorno dell’impostazione prevalente sino agli anni Settanta, quando si pensava che l’Europa unita dovesse prima decidere le priorità di politica economica, e solo in un secondo tempo, di riflesso, le politiche monetarie. E quando si sottolineava che il trasferimento di sovranità dal piano nazionale a quello europeo doveva maturare di pari passo con lo sviluppo di forme di democrazia sovranazionale: con il “trasferimento di una corrispondente responsabilità parlamentare dal piano nazionale a quello della Comunità”[10].

È peraltro evidente che un ritorno al Novecento è auspicabile se implica una restituzione alla sovranità popolare di spazi oramai riservati all’azione di una tecnocrazia, tanto determinante quanto oscura nell’individuare le modalità dello stare insieme come società. Per il resto non sono certo riproponibili le ricette pensate per un ordine economico fondato sulla crescita illimitata della produzione e del consumo di massa: un ordine rivelatosi incompatibile con la tenuta ambientale del pianeta, ma anche con la fine del lavoro determinata fra l’altro dall’evoluzione tecnologica.

È comunque dal ripristino del controllo democratico sul funzionamento del mercato, che occorre ripartire. Proprio il Novecento, con l’avventura fascista, ci ha del resto mostrato cosa succede se salta l’equilibrio tra democrazia e capitalismo, ovvero se per salvare il capitalismo scosso da una crisi economica e finanziaria viene sacrificata la democrazia. È di tutta evidenza che la crisi del 2008 ha scatenato reazioni molto simili: prima l’imposizione dell’austerità contro la volontà popolare, e poi la chiusura nazionalista non tanto per combattere l’invadenza del mercato, ma per avviare un conflitto commerciale tra Stati.

Maastricht è alla base di tutto questo. Se la costruzione europea potrà farne a meno, allora si potrà aspirare a un ritorno alla normalità democratica: che di per sé non genera giustizia sociale, ma che se non altro crea i presupposti affinché la si possa generare. Se invece la costruzione europea non riuscirà a liberarsi di Maastricht, allora non resterà che liberarci della costruzione europea. Altrimenti imploderà rovinosamente, riportandoci alla fase più buia del Secolo breve.

NOTE
[1] G. Carli, Cinquant’anni di vita italiana (1993), Roma e Bari, Laterza, 1996, pp. 432 ss.

[2] In questa ricostruzione si ritrovano anche i tedeschi: ad es. M. Sauga, S. Simons e K. Wiegrefe, Der Preis der deutschen Einheit, in Der Spiegel del 27 settembre 2010, p. 34 ss.
[3] Cfr. Changing Scales. A Review prepared for the Roundtable of European Industries (giugno 1985), http://www.ert.eu/document/changing-scales.
[4] Il completamento del mercato interno: Libro bianco della Commissione per il Consiglio europeo (Milano, 28-29 giugno 1985), Com/85/310 def.
[5] Consiglio europeo del 27 e 28 ottobre 1990, Conclusioni della Presidenza.
[6] V. anche il Protocollo sulla procedura per i disavanzi eccessivi, allegato al Trattato di Maastricht, dove sono quantificati i “valori di riferimento” (art. 1).
[7] Sentenza Thomas Pringle contro Governement of Ireland e altri del 27 novembre 2012 (C-370/12).
[8] Questa disposizione si deve alla Decisione del Consiglio europeo che modifica l’articolo 136 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea relativamente a un Meccanismo di stabilità per gli Stati membri la cui moneta è l’Euro (2011/199/Ue), del 25 marzo 2011.
[9] Da ultimo B. Harrington, Capital without Borders. Wealth Managers and the One Percent, Cambridge Ma. e London, Harvard University Press, 2016.
[10] Così il cosiddetto Piano Werner del 1970: Rapporto al Consiglio e alla Commissione sulla realizzazione per fasi dell’Unione economica e monetaria nella Comunità, dell’8 ottobre 1970.

Rottamare il verbo euro liberista

Dopo gli interventi di Brancaccio, Iodice, Fazi e Grazzini proseguiamo il nostro dibattito sull’Europa pubblicando la recensione di Carlo Formenti al volume “Rottamare Maastricht. Questione tedesca, Brexit e crisi della democrazia in Europa” con saggi di Aldo Barba, Massimo D’Angelillo, Steffen Lehndorff, Leonardo Paggi e Alessandro Somma, appena uscito da DeriveApprodi. A seguire anticipiamo il testo dell’introduzione che apre il volume.

di Carlo Formenti da Micromega

 
Agli osservatori più attenti non dev’essere sfuggito che l’inopinata conversione del Presidente del consiglio Renzi al partito dei critici dell’Europa contiene una buona dose di messa in scena (attaccare l’austerità, se nel contempo si ribadisce l’impegno a rispettare i vincoli Ue in materia, suona poco credibile).

Pur subodorando la teatralizzazione – che mira a captare il consenso di un elettorato irritato con le oligarchie europee – i media, i quali non cessano di diffondere il verbo euro liberista, si sono premurati di invitare alla prudenza, celebrando le virtù del modello tedesco e invitando a non mollare la presa sulla barra del timone, onde non perdere la scia della nave ammiraglia pilotata da Frau Merkel. Ma quali sarebbero le “virtù” in questione? Assai meglio dei media, ce lo spiega un libro a più mani (scrivono Aldo Barba, Massimo D’Angelillo, Steffen Lehndorff, Leonardo Paggi e Alessandro Somma) appena uscito da DeriveApprodi: Rottamare Maastricht. Questione tedesca, Brexit e crisi della democrazia in Europa.
Il modello tedesco, imposto a tutti gli stati membri della Ue con le buone o con le cattive (per le cattive vedi il caso greco), si fonda sull’assoluta priorità attribuita alla lotta all’inflazione e all’equilibrio di bilancio (l’ultimo obiettivo, sancito dai trattati, è stato perfino integrato in alcuni ordinamenti costituzionali, fra cui il nostro).

Dal punto di vista “filosofico”, ciò trova fondamento nelle teorie ordoliberiste – nate fra le due Guerre mondiali – che elevano la concorrenza a principio supremo dell’economia di mercato: un mercato concepito come costruzione politica da difendere e proteggere sulla base di un ferreo sistema di regole. Ecco perché, nel libro di cui stiamo parlando, s’insiste giustamente – sulla scia delle tesi di Pierre Dardot e Christian Laval – sul fatto che l’ordoliberismo non vuole “indebolire” lo stato, ma gli affida, al contrario, il compito decisivo di promuovere e garantire la concorrenza.

Al principio filosofico corrisponde, sul piano pratico, l’obiettivo di aumentare la competitività del sistema in modo da favorire le esportazioni, che vengono a occupare il posto della domanda interna come principale fattore di crescita. Peccato che la crescita tedesca sia significativamente inferiore a quella americana, e che il tanto celebrato modello tedesco contribuisca ancor più a rallentare la crescita dei partner europei. Ciò avviene per varie ragioni. In primo luogo, perché non tutti i paesi possono avere esportazioni nette positive: gli avanzi permanenti degli uni generano i disavanzi permanenti degli altri. Poi perché l’altra faccia degli aumenti di competitività è l’attacco a salari e welfare, attacco che, riducendo i redditi dei lavoratori, contrae la domanda interna. In Germania l’impatto di tale politica si è fatto sentire con la proliferazione di mini-jobs, working poor e disuguaglianze, mentre negli altri paesi europei ha provocato effetti ancora più tragici, dovuti al divieto ai finanziamenti monetari dei deficit per i debiti pubblici, e alla concorrenza fra stati, che offrono profitti più elevati alle imprese abbassando i salari, flessibilizzando la forza lavoro, riducendo la pressione fiscale grazie ai tagli alla spesa sociale, privatizzando tutto il privatizzabile, ecc.

Tuttavia non siamo di fronte a “errori”, e neppure all’incapacità di riconoscerli (benché i loro effetti negativi siano ormai evidenti): il punto è che il modello tedesco non mira alla crescita, bensì a ottenere una ridistribuzione dei redditi a favore del capitale e a danno del lavoro, perché i capitalisti preferiscono meno crescita e più profitti, piuttosto del contrario. Il che è evidente anche nel caso degli Stati Uniti, dove si è ugualmente tentato di far convivere la crescita con tassi crescenti di disuguaglianza, con la differenza che non si è puntato sulle esportazioni ma sull’aumento dell’indebitamento. Risultato: la crescita c‘è stata, ma poi è puntualmente arrivato il contraccolpo della crisi finanziaria.

Insomma: il modello liberista genera disastri in entrambe le varianti. Funziona solo per spostare ricchezza dal basso verso l’alto, ma al prezzo di instaurare un ordine oligarchico che distrugge democrazia e diritti del lavoro, e che fa lievitare la tensione sociale fino a livelli di rottura, come ha certificato il voto del popolo inglese contro l’Europa. Si può spezzare il circolo vizioso e riattivare il binomio crescita-equità sociale? Per farlo, argomentano alcuni coautori del libro, occorrerebbe riformare l’Europa dal basso e da sinistra. Personalmente, ritengo che tale prospettiva sia del tutto irrealistica, mentre condivido l’idea che (cito dalla Introduzione): “una ripresa del potere democratico si può determinare, anzitutto, solo ritornando dall’atmosfera rarefatta e irrespirabile della governance al terreno corposo e vitale della sovranità nazionale”. Rottamare Maastricht appunto. Una tesi che sostengo a mia volta in un saggio che approderà in libreria il prossimo 13 ottobre (La variante populista, DeriveApprodi).

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Introduzione a “Rottamare Maastricht. Questione tedesca, Brexit e crisi della democrazia in Europa” (DeriveApprodi)

di Leonardo Paggi
La proposta di rottamare Maastricht con cui abbiamo scelto di riassumere il senso del volume, è nata dalla convinzione che il grande sogno dell’unità europea ha finito per legittimare un ordine oligarchico frontalmente contrapposto alla democrazia e ai diritti del lavoro. Senza il potere delle istituzioni sovranazionali oggi esistenti mai sarebbe stato possibile originare la regressione politica, economica e sociale in cui sta vivendo l’Europa di oggi.
1. La creazione della moneta unica ha fatto sì che si sia a lungo guardato a Maastricht come all’inizio, alla prima tappa, della costituzione di un Europa federale. In realtà a quella scelta si giunge attraverso una esplicita involuzione programmatica, ricostruita nei dettagli da Alessandro Somma, che è approdata a una netta dissociazione tra moneta e stato considerati, ancora negli anni Settanta, come assolutamente inscindibili.

Una vasta esperienza storica sta a testimoniare che solo la creazione di un potere politico fondato sulla unificazione del debito e delle bilance dei pagamenti può portare alla creazione di mercati in espansione. Parla in questo senso, anche se in modi tra loro molto diversi, l’esperienza degli Stati uniti, dell’Italia e della Germania nella seconda metà del xix secolo. In tutti questi casi l’unificazione politica è premessa indispensabile di un più lungo processo di unificazione economica che si traduce nella costituzione ed espansione del mercato interno. Maastricht capovolge, mette scientemente sulla testa, questo rapporto tra politica ed economia. L’obiettivo dichiarato del mercato unico non è in questo caso quello di creare più sviluppo, bensì, nelle parole di Padoa Schioppa, membro autorevole del comitato Delors, di «abbandonare definitivamente il modello di stato centralizzato forgiato dalle grandi monarchie europee» [2].

L’attacco alla sovranità dello stato perseguito a vantaggio della libertà delle grandi masse di capitale finanziario si traduce in un’opera di contenimento e di disciplinamento di tutti i fattori che precedentemente hanno reso possibile la crescita. Il processo di integrazione fornisce dividendi ai paesi europei che ne fanno parte solo fino a quando rimane nei limiti di una unione doganale e di una politica agricola comune. L’eliminazione delle barriere tariffarie è infatti un utile incentivo addizionale per uno sviluppo che ha solide radici nelle politiche keynesiane attivamente perseguite dallo stato nazione europeo che si rilegittima per questa via, dopo la pesante sconfitta subita nella Seconda guerra mondiale.

L’unificazione monetaria si accompagna alla ufficializzazione di una cultura della stabilità che mette in primo piano la lotta all’inflazione e l’equilibrio di bilancio. L’unificazione monetaria entra per questa via in aperta contraddizione con l’unificazione economica, rovesciandosi addirittura in una esasperazione delle distanze e delle differenze tra i paesi componenti l’Ue. La interpretazione che del trattato danno a caldo le figure più rappresentative di Bankitalia, su cui si sofferma diffusamente Leonardo Paggi, esprime compiutamente, ben oltre il caso italiano, il significato coscientemente restauratore del trattato che formalizza e mette in costituzione l’abbandono delle politiche di sviluppo, a partire dalla sconfitta che il movimento operaio ha già subito nel decennio precedente nei più importanti paesi europei.

E tuttavia sarebbe sbagliato rappresentare Maastricht come «un processo senza soggetto», condiscendendo in qualche modo alla sua auto rappresentazione ideologica. La cultura della stabilità, come si annuncia già con la creazione nel 1979 di un sistema monetario europeo, ha il suo punto di riferimento e il suo sostegno nel modello economico tedesco, uscito dalla crisi degli anni Settanta come l’unico capace di affrontare la nuova divisione internazionale del lavoro profondamente modificata dall’ingresso dei paesi in via di sviluppo. Caratteristica fondamentale di questo modello, analizzato con approcci diversi da Aldo Barba e Massimo D’angelillo, è la ricerca continua di aumenti di competitività volti a incrementare indefinitamente il volume delle esportazioni, che finiscono per sostituire la crescita della domanda interna.

La raffigurazione della Germania come «egemone riluttante» su cui è tornato di recente anche Jurgen Habermas [3] appare per più aspetti fuorviante. La storia dello sviluppo capitalistico ha esibito compiutamente i tratti di un modello di egemonia contrassegnato dalla funzione di traino che il mercato americano svolge, fino alla metà degli anni Settanta, per l’intero sistema occidentale. Il modello tedesco basato sul contenimento della domanda interna non solo non offre alcuna possibilità di crescita al resto dei paesi europei, ma chiede anzi loro di perseguire lo stesso obiettivo della competitività con l’abbassamento dei salari e lo smantellamento dei sistemi previdenziali e pensionistici. La Germania è tornata a contendere per un primato europeo sulla base di un modello di relazioni economico-politiche fondato ancora una volta sulla gerarchia, la coercizione e la violenza, come la vicenda greca ha messo definitivamente in luce.

Ma fino a quando può durare l’ordine di Maastricht ?
2. Nel corso degli ultimi tre decenni si è prodotto un cambiamento strutturale nella geografia politica dell’Europa in virtù del quale, per riprendere la terminologia di Albert O. Hirschmann, la protesta sociale in continua crescita tende ad assumere la forma tendenzialmente catastrofica dell’exit invece di quella ritualmente democratica del voice. In precisa corrispondenza con la sparizione della sinistra storica, prendono piedi movimenti che riformulano in chiave neonazionalista e xenofoba il bisogno di protezione sociale degli strati popolari più colpiti dalle politiche di austerità. Negli anni Novanta, infatti, sono proprio i partiti della tradizione socialista che traducono in provvedimenti di governo la nuova filosofia del trattato.

Si tratta di un fenomeno complesso per cui non è facile trovare una spiegazione plausibile. Da una comparazione con precedenti storici non meno significativi sembra si possa dedurre che nel corso del Novecento il socialismo europeo viene puntualmente travolto dalle profonde cesure che scandiscono la storia del capitalismo internazionale. A onta della fratellanza tra i popoli, proclamata negli anni di sviluppo e di pace dei primi anni del secolo, il 4 agosto del 1914 il socialismo europeo blocca i feroci nazionalismi che organizzano la mattanza della prima guerra mondiale. Negli anni Venti il laburismo inglese e la socialdemocrazia tedesca appoggiano la deflazione richiesta dalla politica di ritorno all’oro, considerata da Michael Polanyi come fattore cruciale dell’avanzata del fascismo.

Dopo il 1945 il movimento operaio conosce in Europa occidentale il periodo più fruttuoso della sua storia. La socialdemocrazia (ma anche il Partito comunista italiano) si inserisce come fattore propulsivo e moltiplicativo in una fase di eccezionale sviluppo che prende tuttavia corpo per il concorso di fattori esogeni alla sua volontà e alla sua capacità di influenza.

La tragedia della Seconda guerra mondiale, con i suoi 55 milioni di morti, ha posto un problema del tutto nuovo di difesa e di promozione della vita che trova nel Piano Beveridge, del dicembre 1942, la sua più solenne formulazione. Si realizza negli stessi anni la definitiva legittimazione della economia di piano, che ha messo in campo una produzione di massa di armi sofisticate decisive per la sconfitta del nazismo. È una sfida possente alla cultura del capitalismo che gli Usa raccolgono esportando nel vecchio continente il mercato di massa dei beni di consumo durevoli, che hanno già promosso nel corso degli anni Venti.

Il repentino cambiamento del modello di sviluppo che si apre nei primi anni Settanta, a partire dalla fluttuazione e poi dalla inconvertibilità del dollaro, disarma per la terza volta la sinistra europea. Alla fine del decennio arrivano puntuali le sconfitte strategiche del movimento operaio italiano e inglese, e, a ruota, quella dell’unità delle sinistre in Francia. Dopo il crollo inaspettato dell’Unione sovietica la sinistra europea formalizza negli anni Novanta il suo passaggio dalla «giustizia sociale» al «dinamismo economico».

Il consolidamento nel decennio successivo del trend rappresentato dalla disintegrazione della sinistra e dall’avanzamento del populismo di destra scava lentamente una voragine politica sotto i piedi dell’ordine di Maastricht. Si profilano all’orizzonte anche vere e proprie crisi di rigetto del processo di integrazione. Dopo la bocciatura che il trattato costituzionale conosce nel 2005 sia in Olanda che in Francia, è oggi un intero paese, l’Inghilterra, che denuncia i contratti sottoscritti.

La spiegazione di Brexit come voto dei vecchi contro i giovani ha inteso ridicolizzare il significato di un voto di altissima complessità politica. Esce il paese che in ragione del controllo della propria moneta ha avuto negli ultimi tre anni uno sviluppo superiore non solo a quello della media europea, ma della stessa Germania. Ma ancora: l’economia inglese caratterizzata dai servizi finanziari è particolarmente interessata al mantenimento di integrazioni sovranazionali. Le piazze finanziarie di Londra e Francoforte lavorano insieme da anni. Insomma esce il paese che più di ogni altro godeva i vantaggi della sua presenza in Ue senza dover sopportare il peso della politica di austerità.

Solo sul medio e lungo periodo sarà possibile valutare le conseguenze di questa scelta per l’economia inglese. Il significato politico è invece immediatamente valutabile. È la prima grande delegittimazione di Maastricht in quanto ordine che consacra il potere tedesco attraverso una finta universalità delle regole. Certo ha pesato enormemente, come Teresa May ha riconosciuto nel suo discorso di investitura a Brighton, il voto dei lavoratori meno qualificati, delle imprese meno competitive, dei territori più periferici (anche se il sì e il no si distribuiscono in modo uniforme nel sud e nel nord del paese). Ma sarebbe errato non vedere in quel voto anche un grande problema di identità. Brexit chiama in causa i limiti non solo di uno sviluppo che non cessa di dividere e polarizzare, ma anche di una cultura neoliberista astrattamente cosmopolita che pensava di aver cancellato nello spazio di un ventennio le differenze prodotte da secoli di storia.

Emmanuel Todd ha proposto di leggere Brexit in un’ottica di longue durée, e certo in modo provocatorio ha detto che l’Europa di oggi assomiglia stranamente a quella del 1941, con il continente sotto il tallone tedesco e la Gran Bretagna che resiste in solitudine4. Forse non si sta tornando, come egli sostiene, all’ Europa delle nazioni, che non è stata poi propriamente un paradiso terrestre, ma dall’intreccio sempre più stretto tra questione sociale e questione democratica che sta alla base di Brexit esce la voce forte di un’Europa che non si lascia uniformare dalla governance del terzetto Merkel/Schäuble/Weidmann, che intende mantenersi plurale e cerca un’unità da perseguire nella diversità, fatta, quest’ultima, non solo di livelli di sviluppo difformi ma anche di tradizioni e di storia non facilmente omologabili. È in questo senso complesso che Brexit ripropone alla Ue la centralità della questione democratica. Il messaggio forte mi pare quello di un’Europa che non vuole cancellare il suo pluralismo e che del sistema delle sue differenze intende fare una ragione non di debolezza, ma di forza.

Seppure con logiche del tutte diverse la crisi di Maastricht matura pericolosamente anche in Francia. Dietro la stretta terroristica in cui si sta avvitando il paese c’è l’onda lunga della storia nazionale la cui lettura è in questi mesi oggetto di dibattito serrato. Alla interpretazione del terrorismo come risultato di una radicalizzazione dell’Islam, cui si dovrebbe rispondere con la intensificazione della laicità (Jill Kepel), si risponde affermando la islamizzazione di un radicalismo connesso a una svolta generazionale che ha nel disagio delle periferie il suo luogo di origine(Olivier Roy). Altri, forse con ancor più ragione, parlano di una sofferenza post coloniale. Si ha talvolta l’impressione di assistere a una guerra di Algeria che non riesce a trovare la sua conclusione, e la cui memoria si trasmette, forse inconsciamente, attraverso le generazioni.

Lo spostamento a est dell’asse geopolitico della Ue, supinamente accettato dalla classe dirigente francese, ha imposto al paese l’abbandono di ogni strategia di dialogo mediterraneo, favorendo le forze che al suo interno cercano visibilità e consenso nella moltiplicazione sempre più insensata e autolesionista delle avventure neocoloniali. Ma ancora: nel momento in cui il terrorismo porta alla luce tutti i limiti delle strategie di integrazione fino a oggi seguite, i governi in carica assistono impotenti al moltiplicarsi della disoccupazione, tagliano i livelli del welfare, aggrediscono i diritti consolidati del popolo lavoratore. Tutti i democratici europei guardano con profonda apprensione alle prossime elezioni della primavera del 2017. Saranno i valori della rivoluzione francese a essere messi ai voti!

La radicale incapacità di Maastricht di dare risposte, non solo malthusiane e repressive, alle sfide della globalizzazione è stata tuttavia definitivamente messa in luce dal salto improvviso dei flussi migratori. Dinanzi a una emergenza che richiede se non progetti comuni almeno coordinamento organizzativo degli sforzi è balzata in primo piano tutta la miseria culturale di quella che Steffen Lehndorff chiama la «integrazione che divide», ossia un congegno di governo tutto rivolto a isolare e contrapporre le economie e gli Stati, a impedire qualsiasi sinergia che travalichi la soglia del rispetto dei parametri di stabilità. Dopo nove anni di crisi le élite europee non danno alcun segno di ripensamento.
3. In effetti, che la Germania svolga un ruolo di architrave nell’ordine di Maastricht non autorizza a mettere sullo sfondo l’apporto decisivo di quella che ancora Steffen Lehndorff chiama «la coalizione dei non volenterosi», ossia l’appoggio che i governi degli altri paesi europei (democraticamente eletti, si sottolinea talvolta polemicamente, ma non a torto) danno a politiche Ue che negano sistematicamente qualsiasi principio di collaborazione e di solidarietà.

La ricerca di una alternativa non può non prendere le mosse che dalla identificazione del consenso, del «blocco sociale», che si è saldato intorno alle politiche vigenti. Una distinzione è necessaria tra la Germania e gli altri paesi europei.

Sono elementi portanti del consenso tedesco al modello economico nazionale:

a) Una forte saldatura di interessi tra imprese e sindacati nei settori trainanti delle esportazioni (in primo luogo il settore automobilistico) dove la «riforme» di Schroeder non hanno intaccato il tradizionale regime di alti salari.

b) Il conservatorismo patrimoniale, dice Massimo D’Angelillo, ossia la difesa del risparmio e del potere d’acquisto delle pensioni in un paese con un tasso di natalità fortemente decrescente. Significativi i continui attacchi della stampa tedesca a Draghi per la sua persistente politica di sempre più bassi tassi d’interesse.

c) I surplus commerciali, provenienti dalle esportazioni, che ammontano al 50% del Pil,e che consentono di integrare i bassi salari del secondo settore di un mercato del lavoro apertamente duale (8 milioni di minijobs), e di garantire nello stesso tempo il mantenimento di buoni livelli di welfare.

d) Infine con la riunificazione la Germania si è sbarazzata del senso di colpa per il passato nazista e ha inaugurato una politica di monumentalizzazione della memoria che toglie dall’armadio tutti gli scheletri. Il ritrovato senso di autostima nazionale, sottolinea Leonardo Paggi, produce consenso a un modello economico che mostra la sua superiorità non tanto nella capacità di promuovere gli altri, quanto al contrario in quella di bloccare e reprimere le loro possibilità di sviluppo. Non sorprende dunque che nella conduzione di questo tipo di politica europea, sostenuta da una «grande coalizione» che cancella ogni distinzione tra destra e sinistra, si determini un progressivo spostamento dell’asse ideologico e politico del paese in senso sempre più marcatamente conservativo. Ciò che peraltro rende sempre più difficile l’importazione di mano d’opera straniera di cui l’economia tedesca ha un crescente bisogno, visto il trend demografico in atto.

Tratti solo in parte analoghi tornano nella struttura del consenso di cui Maastricht si avvale negli altri paesi europei:

a) L’industria trainante è in Europa quella più fortemente internazionalizzata (questo vale anche per la parte più competitiva dei nostri distretti), che condivide pertanto la priorità accordata dalla Germania alle esportazioni.

b) Nelle imprese più dinamiche una parte crescente dei profitti è realizzata tramite la presenza sul mercato azionario e comunque sempre più diffusa è la logica di share holder che ha trasformato e americanizzato dall’interno il tradizionale modello produzionista tedesco.

c) Stabilità dei prezzi e assenza di inflazione garantiscano ovunque non solo i creditori, ma anche una popolazione fortemente invecchiata che fa delle pensioni una quota crescente del reddito nazionale.

d) Una volta creatasi la figura dello stato debitore la sua permanente esposizione alla speculazione internazionale, esplicitamente prevista e voluta dal trattato, impone consenso attorno a politiche di pareggio del bilancio come mezzo per evitare mali peggiori. Esemplare in questo senso la formazione del governo Monti, che ha ben dimostrato come il consenso si possa estorcere anche con la forza del ricatto e della coercizione.

e) Dato lo stato dei rapporti di forza, anche in presenza di una crescita bloccata, l’impresa può appropriarsi di una parte crescente della torta senza correre il rischio di una ripresa del conflitto redistributivo quale si avrebbe in un quadro di sviluppo. Non è insomma un caso che le Confindustrie di tutta Europa accettino senza protestare le politiche di austerità.

f) La cultura dell’individualismo darwiniano, che trasuda da tutti i pori del trattato, è tanto più vincente quanto più forte è la stagnazione. Solo con una crescita ritrovata si potrebbe rigenerare il senso della solidarietà e apprezzare il valore dei dividendi provenienti da uno sforzo comune.

Se questi sono alcuni fattori che spiegano almeno in parte lo stato di passività esistente, dove sono le «forze motrici» che possono spingere verso la riapertura di quel circuito tra crescita e eguaglianza che Aldo Barba pone a fondamento della sua analisi critica?

Poiché la dimensione europea é stata messa in sicurezza e quasi sigillata nei confronti dei rischi della politica, una ripresa di potere democratico si può determinare, anzitutto, solo ritornando dall’atmosfera rarefatta e irrespirabile della governance al terreno corposo e vitale della sovranità nazionale.

Di questo concetto si può avere una accezione ideologica e subalterna che tende a sottovalutare o a mettere tra parentesi i livelli di internazionalizzazione e di globalità raggiunti dallo sviluppo capitalistico. Ma della sovranità esiste anche una visione funzionale, realistica, che mette in valore la riconquista dello spazio politicodemocratico, distrutto dalla astratta dimensione sovranazionale della moneta unica. Solo sui terreni nazionali, ossia a contatto con la realtà immediata e tangibile della vita quotidiana, è possibile provocare la crisi del mondo capovolto della moneta unica. Con il noto adagio « ce lo chiede l’Europa» è stato proposta e purtroppo accolta dalle élite europee una totale dismissione della responsabilità politica nazionale. La precedenza dell’Europa si è trasformata in un vero proprio alibi per abbandonare il rapporto con i bisogni, con i territori, con le specificità della storia.

Il processo non è stato tuttavia indolore.

L’ordine di Maastricht è oggi vittima del suo stesso successo. La crisi dei partiti democratici, che corrisponde al crescente potere di decisione dei mercati, ha fatto sì che – lo abbiamo già ricordato – la protesta sociale generata dalla austerità e dalla globalizzazione ha alimentato un populismo sempre più eversivo. Il terrorismo, come fattore potenzialmente endemico, moltiplica ora a vista d’occhio la forza persuasiva della ragione populista. Tornano alla mente le analisi di Franz Neumann sul nesso tra angoscia e politica come fattore propulsivo dello stato autoritario. Ancora una volta la crescente alienazione economica e sociale di massa alimenta una visione cospirativa della storia che compatta il «popolo» contro un nemico esterno.

Questa emergenza impone l’obbligo di lavorare, qui e ora, per un allentamento e una rottura dei vincoli esistenti sul filo di un netto spostamento di ottica e di enfasi dal tema della disciplina a quello delle possibilità. Gli autori di questo volume non credono che il problema sia quello di rinegoziare questo o quel parametro del trattato. È in fondo una riprova di questa loro convinzione anche l’assai scarso successo con cui il nostro Presidente del consiglio cerca in Europa inesistenti spazi di autonomia, con la richiesta di questa o quella «flessibilità», se non addirittura con le invocazioni ad «un’Europa più umana»! Siamo dinanzi a un sistema coerentemente e conseguentemente oligarchico, in cui la negazione dello sviluppo fa tutt’uno con la messa in mora della democrazia.

E tuttavia stiamo vivendo un paradosso che non può essere ignorato. Il monopolio che il populismo detiene della critica della situazione esistente fa sì che il sistema consegua nuova legittimazione, proprio agli occhi di una opinione pubblica democratica, come l’unico possibile depositario del progetto europeo. Se non si spezza la tenaglia che si è creata, con l’ austerità da un lato e il populismo dall’altra, qualsiasi nuova opportunità creata dalla crisi andrà perduta. Per questo ci pare essenziale l’apertura di un dibattito sui principi (non sulle misure specifiche) di una agenda di stabilizzazione democratica della situazione italiana e europea, che favorisca la costruzione di un movimento anti-Maastricht diverso da quello populista.

Fino a oggi la critica della moneta unica non è andato oltre la proposta astrattamente taumaturgica di uscita dall’euro o la previsione irrealistica di un suo inevitabile crollo. L’euro ha dimostrato di saper reggere, forse anche in ragione dell’uso repressivo che di esso hanno fatto e continuano a fare i mercati finanziari. Sono la società, la politica, le identità democratiche che deperiscono. Non sembra saggio aspettare che il cadavere passi lungo il fiume. Le crisi economiche producono una degenerazione del capitalismo (fino al nazismo), mai il suo crollo. Maastricht del resto non è solo una moneta unica, è anche una cultura, una concezione del mondo, una proposta di «civiltà». Per questo morirà, se morirà, solo di una morte politica. È per la costruzione di un movimento ancora inesistente che occorre mettere sul tappeto il problema di una filosofia di governo alternativa e di un programma che indichi, in primo luogo sotto il profilo concettuale, alcuni punti di scorrimento verso un’Europa politica della crescita.
4. La vera scommessa è quella di trasformare la protesta sociale in conflitto redistributivo e in alternativa politica. In questa prospettiva ci sembra utile sottolineare l’importanza di alcuni ordini di problemi, con particolare riferimento alla situazione specifica del nostro paese.

Il recupero del rapporto tra democrazia e sovranità. Premessa essenziale di qualsiasi evoluzione positiva è la condanna e il rigetto aperti della governance che configura la Ue come «uno stato di polizia economica», secondo la definizione di Alessandro Somma. Contro la imposizione di regole punitive e uguali per tutti è essenziale ritrovare lo spazio e il metodo della discrezionalità e della responsabilità politica, aperto a ragionamenti e negoziati capaci di interpretare i bisogni specifici di situazione specifiche. I dadi del resto sono truccati. Le regole sono pensate e scritte in piena conformità all’«eccezionalismo» tedesco, ossia per una economia che ha impostato la crescita sulla leva del surplus commerciale piuttosto che sui consumi e gli investimenti. È in accordo a questa logica che sono nati i parametri del 60% del pil per il debito e del 3% per il deficit, i quali pertanto non sono da rinegoziare ma da respingere in via di principio. Il culto delle regole ha trasformato la Ue in un intollerabile spazio gerarchizzato in cui i Peripherielaender pagano un prezzo crescente in termine di autonomia delle scelte di politica economica, di disoccupazione rampante, di perdita di pezzi di apparato produttivo, quasi sempre a favore di gruppi industriali tedeschi che amano comprare a prezzi stracciati.

La difesa del salario. Una delle misure prese da Frank D. Roosevelt nei suoi primi cento giorni fu la messa sotto protezione del sindacato uscito massacrato dalla rivoluzione tecnologica e dagli attacchi conservatori degli anni Venti. La misura era intesa come passaggio obbligato per ricreare il potere d’acquisto necessario a interrompere la morsa deflattiva in cui era caduta l’economia americana. Per una situazione analoga abbiamo già visto che il quantitative easing non basta. La stagnazione italiana data dalla seconda metà degli anni Novanta e ha la sua prima ragione nell’arresto della domanda interna provocata, in primo luogo, dal blocco della contrattazione salariale. Nelle condizioni di estrema debolezza in cui si trova il sindacato, la difesa della contrattazione collettiva è oggi una misura di governo indispensabile. Si tratta di rovesciare la logica che presiede alle «svalutazioni interne» volute da Maastricht secondo cui in un regime di cambi fissi la competitività e il pareggio di bilancio devono essere assicurati comprimendo i livelli di vita della popolazione.

La ripresa della produttività. È questa la via maestra per la indispensabile ripresa di competitività della nostra economia. I dati che la Banca d’Italia fornisce in proposito parlano di una catastrofe nazionale. L’economia italiana sta perdendo ogni capacità di produrre e distribuire ricchezza. La medicina è nota. Investimenti in capitale umano volti a elevare il livello della formazione professionale, investimenti in ricerca e sviluppo che lo stesso trattato di Lisbona aveva proclamato indispensabili, e che il patto di stabilità vieta perentoriamente, innovazione e internazionalizzazione del sistema delle imprese, innalzamento del livello di efficienza della pubblica amministrazione. L’accettazione passiva dei parametri di Maastricht significa complicità attiva nel processo di distruzione dei livelli di civiltà conseguiti dal nostro paese. Perché il governatore Ignazio Visco non sottomette alla più ampia opinione pubblica del paese i dati di cui è a conoscenza? [5]

Emergenza migrazioni. La fedeltà al principio dell’accoglienza in assenza di qualsiasi programma di gestione della forza lavoro immigrata è destinata sul medio periodo ad accumulare degrado e contraddizioni sociali e politiche sempre più insostenibili. È proprio il Sud a darci l’esempio di due esiti possibili. Il campo di concentramento di Rosano consegna al caporalato la nuova forza lavoro. Il caso di Riace indica quanto la rete dei comuni potrebbe fare in termini di allocazione sensata delle risorse, se convocata, organizzata e diretta dai poteri centrali del governo.

La pace e la guerra. Da tempo l’ Europa ha cessato di essere forza di pace. Maastricht nasce contestualmente all’inizio di una politica di esportazione della democrazia, resa possibile dalla fine degli equilibri della guerra fredda. Si è rivelata nei fatti l’esistenza di una correlazione strettissima tra il conferimento ai mercati di una piena e totale libertà di movimento e l’idea che i confini degli stati siano modificabili ad libitum con l’ausilio delle armi. L’Europa è stata pienamente coinvolta nell’effetto domino che l’invasione dell’Iraq del 2003 ha scatenato in Medio Oriente, nel Mediterraneo e nei rapporti con la Russia. Nel permanere di questo quadro le stesse relazioni intra europee sono destinate a deteriorarsi, come la crisi di Schengen ha già abbondantemente dimostrato.

Con l’indicazione di questi temi, ma molti altri se ne potrebbe aggiungere, si è voluto esprimere la convinzione che un’opposizione politica di governo può nascere solo con un programma che assuma senza mezze misure la profondità dei guasti provocati da Maastricht. Qualcosa si può e si deve fare. Niente di quello che è accaduto deve essere dato per scontato e irreversibile. In definitiva, venticinque anni sono solo un soffio se commisurati ai tempi della storia europea.
NOTE

1. Il testo dell’introduzione è stato redatto da Leonardo Paggi che si è avvalso dei contributi di discussione di Aldo Barba, Massimo D’Angelillo e Alessandro Somma.

2. Cfr. Infra, p. 32.

3. Intervista a «Die Zeit», 7 luglio 2016.

4. Intervista pubblicata su «Atlantico.fr» il 3 luglio 2016.

5. Mi riferisco in particolare all’intervento pronunciato dal Governatore della Banca d’Italia a Bari il 29 marzo 2014 al Convegno Biennale Centro Studi Confindustria su «Il capitale sociale e la forza del paese».

(30 settembre 2016)

Perché è necessario un populismo di sinistra

di Gianpasquale Santomassimo da Il Manifesto


Quando una grande Utopia mostra le prime crepe profonde, quando sembra avvicinarsi il suo crollo, quando le sue promesse sembrano ormai evaporate lasciando presagire solo un futuro di miseria e di rancori, è comprensibile che chi aveva creduto in essa tenda a negare la realtà. Come è ricorrente il richiamo alle idee originarie, fondative, che riesumate e attualizzate potrebbero invertire la tendenza. Solo a distanza di tempo e a mente fredda potrà maturare la necessaria riflessione sull’essenza stessa di quella idea iniziale, su quanto in essa accanto a nobili visioni fossero presenti anche un eccesso di semplificazione, un difetto di analisi realistiche, e un tasso preoccupante di generoso pressappochismo.
E’ accaduto per altre grandi Utopie novecentesche, sta accadendo ora per l’ideale europeistico, che è stato il più grande investimento delle classi dirigenti del continente in un arco ormai lunghissimo di anni. Era stato fin dall’inizio un matrimonio di interessi, ma si volle che sbocciasse anche l’amore tra i sudditi, e si organizzò la più massiccia opera di indottrinamento mai perseguita dalle élites, dalla culla alla bara, come si conviene a ogni idea totalitaria: dai mielosi temi per gli alunni delle elementari al martellamento quotidiano di politici, giornalisti, mezzi di comunicazione di massa.
Nell’arco della sua storia l’ideale europeistico ha conseguito risultati importantissimi, che non andranno lasciati cadere nel progressivo disfacimento dell’Unione: si pensi solo all’armonizzazione dei principi giuridici, all’abolizione della pena di morte che continua imperterrita a restare in vigore in molti Stati degli Usa; si pensi alle grandi conquiste sul terreno dei diritti civili e individuali, che hanno rappresentato del resto la frontiera pressoché unica della sinistra occidentale.
Ma da Maastricht in poi il potere delle élites europee ha proceduto con spietata determinazione a smantellare le fondamenta dello Stato Sociale europeo, vale a dire la creazione più alta che i popoli europei avevano conseguito nella seconda metà del Novecento, distruggendo quindi quello che era ormai l’elemento caratterizzante della stessa civiltà europea. Gruppi di potere che non sarebbero mai stati in grado di conquistare egemonia per via democratica hanno usato spregiudicatamente il «vincolo esterno» per conseguire quei risultati che i rapporti di forza in passato negavano. Il caso italiano è esemplare da questo punto di vista.
L’acquiescenza della sinistra a questo disegno, la sua rinuncia ad opporsi, e in molti casi la sua partecipazione attiva al processo di «normalizzazione» liberista, ha fatto sì che la bandiera della rivolta contro l’establishment sia stata quasi dappertutto brandita dalle destre, che hanno imposto come ossessione dominante il tema, da ogni punto di vista secondario in termini realistici, delle politiche di immigrazione, col rigurgito di xenofobia e nazionalismo risorgente. Sono populismi, si dirà con quella punta di disprezzo delle «folle» che ormai caratterizza il linguaggio delle sinistre come delle élites. Ma in realtà avremmo bisogno di un serio populismo di sinistra, capace di parlare alle masse e di opporsi alle politiche dell’establishment.
Credo che sia illusorio e autolesionistico, per tutti, rilanciare a questo punto le nobili idee originarie, alzare la posta proponendo Stati Uniti d’Europa che non verranno mai e che – a parte piccole cerchie di adepti – nessuno seriamente vuole. Ogni volta che un politico di sinistra dice: “Più Europa”, un uomo del popolo vota Salvini o Le Pen. E ormai la mitica Generazione Erasmus è sommersa dalla Generazione Voucher, che sperimenta sulla sua pelle l’incubo della precarietà in cui si è convertito il «sogno» europeo.
Nell’immane campionario di frasi fatte che costituisce il nerbo dell’ideologia europeistica, accanto all’affermazione ipocrita sull’Europa che avrebbe impedito 70 anni di guerre (la guerra alla Serbia è stata fatta probabilmente dagli esquimesi), spicca anche l’asserito superamento degli Stati-nazione. Si tratta con ogni evidenza di una illusione ottica, perché gli stati nazionali esistenti (e quelli che si aggiungeranno, a partire dalla Scozia per finire probabilmente con la Catalogna) sono l’unica realtà in campo, e ciò che chiamiamo Europa è il risultato della mediazione di interessi ed esigenze tra essi, con una evidente penalizzazione degli stati dell’Europa mediterranea dovuta ai rapporti di forza instaurati dopo Maastricht. In attesa di fantomatici «movimenti europei» la dimensione nazionale è del resto l’unica che può opporsi ai diktat economici delle élites, come dimostrano le piazze francesi in rivolta contro la loi travail che anche noi avremmo dovuto avere un anno fa, se disponessimo ancora di sindacati liberi e combattivi.
È del tutto falso e propagandistico affermare che un recupero di sovranità, assolutamente necessario, porti a nazionalismi sfrenati o addirittura a guerre. Come italiani non dovremmo certo proporci di tornare a Crispi e Mussolini, ma dovremmo guardare piuttosto a Enrico Mattei.
Ciò che resta della sinistra europea dovrebbe affrontare con realismo e con umiltà il trauma del dopo-Brexit, in nessun caso confondendo le sue ragioni con quelle dell’establishment dominante, e tentando con ogni mezzo di imporre una politica diversa, di sviluppo e di sostegno al lavoro, senza accontentarsi di strappare decimali di «austerità compassionevole» che potranno a questo punto venire concessi.
Si tratta di verificare, e per l’ultima volta, se esistono margini di riformabilità di questa Unione Europea, blindata da trattati che sembrano escludere ripensamenti o inversioni di rotta. Se questo non sarà possibile, e la disgregazione procederà tra stagnazione e conflitti, gioverà ricordare che il mondo è molto più grande e più vario rispetto alla prospettiva che si può osservare da Strasburgo e da Bruxelles.

Dino Greco sull’Euro

da rifondazione.it

 Rifondazione dovrebbe ascoltare la parole di persone come Dino Greco, Emiliano Brancaccio e Mimmo Porcaro e sbrigarsi ad assumere una linea chiara e coerente su euro ed Europa. 
A mio modestissimo parere una forza politica come quella di rifondazione comunista ha come unica possibilità di rilancio dell’iniziativa politica, quella di rappresentare un ampio fronte politico-sociale che da sinistra si pone in posizione critica su euro ed Europa. Parlo di realtà come quelle che si riconoscono nel sindacalismo di Giorgio Cremaschi, dei vari partiti e movimenti sovranisti (malgrado il dileggio di certuni fra di loro vi sono persone serie e competententi), del Movimento Essere Sinistra, di cui non conosco la consistenza numerica, ma del quale conosco la serietà e l’impegno, e molte altre realtà locali che è persino difficile ricordare, realtà che prese isolatamente non hanno alcuna possibilità di emergere in un panorama mediatico dominato dal liberismo e dalle sue diverse declinazioni, ma che potrebbero raggiungere la fatidica massa critica una volta unite. Forse è utopia, forse queste realtà non hanno alcuna voglia di dialogare fra loro, ma vale comunque la pena di tentare.
Rifondazione può essere il fattore x in grado di coagulare realtà diverse e non comunicanti fra loro. Deve solo decidersi a sciogliere le sue ambiguità e smettere di dare retta agli europeisti senza sè e senza senno. Poi, una volta acquisito forza e credibilità potrà tornare a confrontarsi con loro. Se proprio non può farne a meno.

 
La Lega cerca – con preoccupante successo – di egemonizzare il movimento antieuropeista su una linea di populismo reazionario, xenofobo, di marca dichiaratamente lepenista.
Assistiamo persino al tentativo di capitalizzare a destra lo stesso straordinario successo di Syriza nelle elezioni greche oscurandone l’imprinting radicalmente anti-liberista.

Anche il M5S cavalca l’onda, sebbene con un profilo più basso e confuso, esibendo come distintivo identitario la pura e semplice propagandistica uscita dall’euro (il referendum).
L’agognato ritorno alla moneta nazionale non è tuttavia auspicato da costoro per restaurare diritti espropriati (welfare, diritto del lavoro), o per proteggere i salari, o per ostacolare il processo di privatizzazione selvaggio, o per definire nuove regole per il commercio e controllare la circolazione dei capitali, o per pubblicizzare banche e asset nazionali.
Tutto il contrario.
Si tratta di un nazionalismo autarchico e reazionario che si sdraia su un senso comune sempre più diffuso e sulla crescente disperazione di un popolo che non sa più a che santo votarsi, per lucrarne un vantaggio politico-elettorale a buon mercato.

E noi?
Noi comunisti nel congresso abbiamo detto: “disobbediamo ai trattati!”, facciamo leva sulle contraddizioni del monetarismo Ue a trazione tedesca, sottraiamoci al ricatto del moderno “Mago di Oz”, di un’Unione europea che gioca con carte truccate.

Ma cosa vuol dire, in concreto, disobbedienza?
Come si declina questa linea, al centro ed in periferia, vale a dire nelle regioni, nei comuni, nelle politiche di bilancio e fiscali?

Ancora: cosa vuol dire opporsi al patto di stabilità che impedisce persino ai comuni “virtuosi” di spendere risorse disponibili?
Ebbene, noi non l’abbiamo ancora detto, col risultato che la nostra proposta rimane chiusa in quella parola, non si traduce in una politica e in una mobilitazione.
Dunque “non morde”, “non si vede”, “non seduce”. E rimane in una “terra di mezzo”, priva di realtà, vaso di coccio fra vasi di ferro.

L’analisi da cui dovrebbe in realtà prendere le mosse ogni scelta politica razionale ed efficace non può accontentarsi di una critica rivolta al liberismo “in generale” e ad un processo di unificazione europea che non avrebbe portato a compimento il suo più ambizioso progetto politico perché rimasta a metà del guado e perché diventata, via via, preda degli spiriti animali del capitalismo. Per cui oggi si tratterebbe di costringere il manovratore a venire a più equi patti, introducendo qualche variante negli ingranaggi esistenti, qualche artifizio economicistico, qualche espediente di tecnica monetaria capace di mutarne l’indirizzo di fondo.
Per capire compiutamente di fronte a cosa ci troviamo non sarà inutile partire…da noi, vale a dire dalla Costituzione italiana del’48.
Ebbene, la C.I. non accoglie né il modello dell’economia di mercato, né il generale principio della libera concorrenza. Anzi: l’articolo 41 dice con chiarezza che la libertà d’azione dei soggetti economici privati trova il suo limite nei “programmi” e nei “controlli” necessari affinché tanto l’attività economica pubblica quanto quella privata “possano essere indirizzate a fini sociali”.
Dunque, la C.I. – in termini di principio e prescrittivi – affida alla legge (e dunque all’autorità pubblica) il disegno globale dell’economia, esattamente per la ragione che Palmiro Togliatti espose nel dibattito alla prima sottocommissione dell’Assemblea Costituente (1947) intorno al tema delle “Relazioni economico-sociali” e a quello che diventerà poi il Titolo III della Carta. E cioè che “il non intervento dello Stato in una società capitalistica equivale ad un intervento a favore della classe dominante”. Vale a dire “al riconoscimento che chi è più forte economicamente può dettare le condizioni di vita di chi è economicamente più debole”.
Ciò di cui si incarica la C.I. è di porre un limite cogente all’asimmetria di forza fra capitale e lavoro.
Ebbene, la decisione di sistema enunciata dall’ordinamento comunitario è radicalmente opposta (antinomica, direbbe il filosofo) rispetto a quella contenuta nella nostra Costituzione.
Perché i trattati sottoscritti a Maastricht nel 1992 e tutto quello che ne è seguito mirano a costruire uno spazio economico senza frontiere interne ispirato al “principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza”.

Aderendovi e applicandone i dispositivi in via esecutiva il parlamento italiano ha sovvertito la gerarchia delle fonti del diritto, generando “norme distruttive ed eversive della stessa Costituzione”.
Non occorre essere fini costituzionalisti per capire che l’antinomia fra le due architetture di sistema condurranno ben presto alla totale liquidazione dell’articolo 41 della Costituzione, trasformandolo nel suo rovescio.
L’esigenza di una nuova lettura della Costituzione nel senso del primato del mercato non può non risolversi nello spostamento delle finalità dell’intervento pubblico “dalla funzione programmatoria alla funzione di rimozione degli ostacoli al funzionamento del mercato, nella subordinazione dei fini sociali a quelli della remunerazione del capitale (cioè del profitto).
Esattamente come nella teoria liberale classica, lo Stato ha la funzione di assicurare e proteggere da ogni e qualsiasi turbativa la proprietà e il modo capitalistico dell’accumulazione privata.
Così stando le cose, tutti i diritti sociali storicamente conquistati dalle classi lavoratrici diventano, nella loro integralità – primo fra tutti il diritto al lavoro – come altrettanti limiti all’esercizio stesso del diritto di proprietà.
Il diritto alla tutela contro il licenziamento ingiustificato, a condizioni di lavoro sane, sicure, dignitose, la protezione in caso di perdita del posto di lavoro cessano di essere “giuridicamente vincolanti”.
Si spiega così la vicenda ormai famosa della lettera che il presidente entrante e quello uscente della Bce indirizzarono al governo italiano il 5 agosto 2011 (un vero memorandum) in cui si subordinava il sostegno ai nostri titoli del debito all’adozione di varie misure fra cui, in particolare, una riforma della contrattazione collettiva che permettesse di “ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende” e “un’accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti (…) in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e i settori più competitivi”.

Ogni diversa soluzione implicherebbe infatti un’interferenza inammissibile rispetto all’obiettivo di “un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza” che è l’unico possibile assetto compatibile con le finalità stabilite dall’articolo 3 del TUE.
In conclusione: mentre la nostra costituzione rifondeva le tradizioni cattolica-comunista-socialista allo scopo di collocare lo Stato – e in esso il lavoro – in una posizione di primazia, attribuendogli potestà rilevantissime in ordine alle decisioni circa cosa, come e per chi produrre, i trattati europei, secondo il dogma liberista, hanno inteso costruire uno spazio retto dalla libera concorrenza.
La C.I. pretendeva di stabilire un proprio ordine entro il quale costringere la libertà degli affari, l’Ue impone un ordine di libertà per il compimento degli affari.
Il fatto è che l’Unione europea è prima di tutto la forma politica di un rapporto sociale e, precisamente, di un rapporto sociale imperniato sul dominio del capitale finanziario: l’architettura monetaria che esso ha posto al suo fondamento (e che trova nell’euro non già un sottoprodotto fenomenico, ma il proprio funzionale apparato strumentale) serve appunto a stabilizzare il potere dell’oligarchia liberista che governa l’Europa.
La complessa impalcatura monetarista si configura cioè come la specifica risposta strategica del capitalismo continentale (a egemonia tedesca) alla caduta del saggio di profitto e la condizione, dentro un quadro politico-sociale in rapida mutazione reazionaria, per riplasmare l’economia nella conservazione di rapporti capitalistici di produzione fortemente compromessi dalla crisi.
L’ambizioso progetto è quello di liquidare in radice il welfare novecentesco, ridurre strutturalmente i salari a livello di sussistenza, consegnare alla marginalità le forme di aggregazione sociale e politica di impronta classista, con l’obiettivo di rendere strutturale l’estrazione di plusvalore assoluto dal lavoro vivo, condizione necessaria in una fase storica in cui la composizione organica e la stupefacente concentrazione del capitale hanno raggiunto un livello tale da non riuscire ad offrire agli investimenti un adeguato rendimento.
Siamo cioè di fronte ad una vera e propria ristrutturazione della formazione economico-sociale capitalistica (nell’accezione marxiana) che coinvolge la struttura economica, cioè il modello di accumulazione, i rapporti sociali e di proprietà, la sovrastruttura politica, i modelli istituzionali ed elettorali e l’ideologia che tiene insieme l’impasto:
il modello di accumulazione: attraverso la costruzione di un paradigma che produce e riproduce il capitale finanziario, parassitario e speculativo;
i rapporti di proprietà: attraverso la spoliazione della proprietà pubblica, la privatizzazione integrale, la messa a profitto di tutto ciò che può assumere i caratteri della merce, la reductio ad unum delle 4 forme di proprietà previste dalla Costituzione repubblicana (statale, privata, comunitaria, cooperativa);
la superstruttura politica e giuridica: attraverso la sterilizzazione del parlamento e l’annichilimento della democrazia rappresentativa in favore della concentrazione di tutto il potere negli esecutivi; lo stravolgimento del modello elettorale in funzione maggioritaria, bipartitica e in forma tendenzialmente presidenziale;
la superstruttura culturale e ideologica: sostenuta da un imponente apparato mediatico, che ha sradicato nella coscienza di larghe masse ogni anelito solidaristico per sostituirvi la concezione individualistica e iper-competitiva della borghesia liberale classica.

L’Europa odierna è dunque tutto meno che uno spazio neutro, più efficace per la lotta nello stato nazionale.
Non è vero che lo spazio statuale più grande, quello europeo, sia il modo migliore per sviluppare la controffensiva di classe al livello del capitale; esso lo è solo quando consente alla classe dominata di esprimere la propria autonomia politica. Quando il dominio di classe assume forma nazionalistica si deve essere internazionalisti, europeisti e in qualche caso autonomisti. Quando invece, come succede in Europa, quel dominio passa proprio attraverso la distruzione dello stato nazionale, si deve elaborare un nazionalismo democratico orientato verso una nuova Europa confederale.

L’Europa non è un soggetto politico che aiuta il multipolarismo e contiene l’espansione Usa, considerato che siamo alla vigilia della sottoscrizione del devastante trattato di libero scambio transatlantico che consegnerà alle multinazionali, ai più rapaci players economici internazionali il potere – con tanto di legittimazione giuridica e tribunali al seguito – di subordinare all’attesa di profitto ogni aspetto delle legislazioni nazionali, mettendo la mordacchia ad intere Costituzioni nazionali.
L’Europa non è neppure un’entità sovranazionale che riequilibra le legislazioni e prepara un assetto federativo.
La costruzione forzosa di un’unica area valutaria aumenta la divaricazione fra i paesi perché impone una moneta unica ad economie del tutto diverse. E perché questa moneta “incorpora” le “virtù” del marco: deflazione, indipendenza della Bce e stabilità monetaria, i tre dogmi su cui è costruito l’euro, le tre cause, o concause, della distruzione dell’unità europea.

L’euro serve anche a rendere stabile la gerarchia fra nord e sud, fra paesi creditori e paesi debitori.
Il comportamento del creditore nord-europeo è solo apparentemente illogico. Perché incaponirsi in politiche che riducendo la domanda dei paesi debitori, riducono il mercato per i prodotti del nord, considerato che il 70% delle esportazioni di quei paesi avvengono nell’area europea?
Per due motivi: perché diminuire il salario dei lavoratori del sud, in buona parte terzisti del nord, significa diminuire i prezzi dei prodotti del nord stesso; e perché la generale deflazione del sud abbatte il costo del patrimonio industriale ed immobiliare dei paesi colpiti. La logica che guida queste scelte è una logica semi-coloniale, che punta a costruire un sistema industriale ed un mercato del lavoro duali, concentrando la proprietà nelle mani del nord e trasformando il sud in un mare di mano d’opera a basso costo.
La logica dell’euro è la più cocente smentita di chi crede che l’Unione europea sia terreno più favorevole per la lotta di classe.

L’Europa è oggi un meccanismo non democratizzabile perché distrugge deliberatamente, con metodo, il solo soggetto che potrebbe democratizzarla: il lavoro.
Non è forse superfluo ricordare la lettera a firma congiunta con cui alla fine del 2011 Draghi e Trichet intimavano all’Italia di mettere mano a pensioni, salari, diritti del lavoro e privatizzazioni e come Napolitano abbia investito poi Mario Monti del ruolo di esecutore testamentario di queste direttive; o il documento con cui J.P. Morgan, nel maggio del 2012, ribadiva lo stesso concetto, con un “taglio”, per così dire, più sistemico, dove ad essere messe all’indice erano le costituzioni antifasciste troppo venate di socialismo; o – per tornare a casa nostra – la determinazione con cui il compito demolitore del giuslavorismo moderno è stato mirabilmente interpretato da Matteo Renzi.

Uno sguardo alla situazione della Grecia
Ha ragione Emiliano Brancaccio: le ricette della troika saranno ricordate come uno dei più colossali inganni nella storia della politica europea.
La Grecia le applica già da 4 anni con enormi (e crescenti) sacrifici per la popolazione.
Rispetto al 2010 la pressione fiscale è aumentata di 8 punti percentuali rispetto al pil e la spesa pubblica è diminuita di quasi 4 punti, corrispondenti ad un crollo di 30 mld;
i salari monetari sono caduti di 12 punti percentuali e il loro potere d’acquisto è precipitato in media di 14 punti, con picchi negativi di oltre 30 punti in alcuni comparti.

La Commissione europea ha sempre sostenuto che queste politiche non avrebbero depresso l’economia. Ma le sue previsioni sull’andamento del pil greco sono state totalmente smentite: per il 2011 la Commissione previde un pil stazionario, che in realtà crollò di 7 punti; per il 2012 annunciò addirittura una crescita di un punto, e fu sconfessata da una caduta di 6 punti e mezzo; nel 2013 la previsione fu di crescita zero, e invece il pil greco precipitò di altri 4 punti.
Anche per il 2014 si registra uno scarto fra le rosee previsioni di Bruxelles e la realtà dei fatti ad Atene.

La verità, che ormai riconoscono a denti stretti persino al Fmi, è che le ricette della Troika rappresentano la causa principale del crollo della domanda e della conseguente distruzione di produzione e occupazione avvenuta in Grecia: negli ultimi 5 anni, ben 800.000 posti di lavoro in meno.
Né si può dire che tali ricette abbiano stabilizzato i bilanci: il crollo della produzione ha implicato un esplosione del rapporto fra debito pubblico e pil, aumentato in 5 anni di 30 punti percentuali.
“Questi soggetti – osserva ancora Brancaccio – stanno ottenendo quello che volevano: perché dovrebbero mutare la loro posizione a seguito di una vittoria di Tsipras? Al limite offriranno un’austerità appena un po’ mitigata, un piatto avvelenato che – se accettato – condannerebbe Syriza alla stessa agonia che ha ridotto ai minimi termini il Pasok di Papandreu.”
Il rigetto di una parte del debito accumulato sarebbe una soluzione logicamente razionale. Un problema, tuttavia, esiste: la disapplicazione unilaterale del Memorandum, il ripudio anche solo di una parte del debito indurrebbe la Bce a bloccare le erogazioni e determinerebbe una nuova crisi di liquidità.
A quel punto la Grecia e il suo nuovo governo di sinistra sarebbero costretti ad abbandonare l’euro per tornare a stampare moneta nazionale.

Ora, il Qe varato dalla Bce è stato rappresentato come il tentativo di correggere – di fronte al generale scivolamento deflattivo – lo sciovinismo economico rigorista di marca tedesca.
La Banca centrale si è sì decisa – sia pure in una forma edulcorata, cioè scaricando la parte di gran lunga più cospicua dei rischi sulle banche centrali dei paesi membri – a stampare moneta per l’acquisto massiccio di titoli del debito nazionali. Peccato che gli acquisti di titoli di Stato non avverranno – a differenza di quanto avvenuto negli Usa e in Giappone – rastrellandoli sul mercato primario, direttamente dagli organi emittenti, cioè dai ministeri del Tesoro dei singoli stati. Gli acquisti saranno fatti sul mercato secondario, cioè dalle grandi banche della zona euro. “Si tratta, quindi – come osserva Domenico Moro – dello stesso meccanismo già deciso da Draghi nel 2011, e basato sull’offerta di liquidità a tassi ridottissimi alle banche affinché acquistassero titoli di Stato. Una mossa che non ha sortito alcun effetto positivo sull’economia e sull’occupazione, che hanno continuato a peggiorare. Infatti, la liquidità erogata dalla Bce non si tradusse in prestiti alle famiglie dei salariati, agli artigiani e alle piccole imprese, ma rimase nelle banche”.

“Ad avvantaggiarsene – continua Moro – furono le banche stesse che guadagnarono sul differenziale tra i finanziamenti a tasso zero della Bce e gli interessi pagati dallo Stato. Il risultato fu che i bilanci delle banche, gravati dalle perdite della crisi del 2007-2008, migliorarono notevolmente, grazie alla crescita degli utili.
Un meccanismo simile si verificherà anche questa volta. Di fatto, l’operazione è a carico delle singole nazioni. Insomma, dove sta la svolta, dov’è la solidarietà e l’azione finalmente combinata a livello europeo?
Il rischio sovrano si è internalizzato ancora di più, con sollievo della Germania.
In terzo luogo, gli acquisti verranno effettuati non selettivamente, in base alle difficoltà dei singoli Stati nel finanziare il proprio debito, ma in modo proporzionale alle quote di capitale detenute dai singoli stati nella Bce. Dunque, la Germania, che paga già interessi reali già negativi sul suo debito, verrà “beneficiata” da questa operazione in proporzione come la Grecia che paga alti tassi d’interesse”.

“Dunque – conclude Moro – l’obiettivo di Draghi non è quello di rilanciare il Pil, cioè la produzione, e l’occupazione, ma di tenere alti i profitti delle banche e delle grandi imprese soprattutto multinazionali.
Il Qe ha come obiettivo il contrasto alla deflazione, perché questa riduce i profitti o ne inibisce l’aumento, in quanto il calo dei prezzi erode i margini operativi delle imprese. Una inflazione troppo forte beneficia i debitori rispetto ai creditori e questo è eresia in un ambiente capitalistico, soprattutto per le banche. Ma l’inflazione troppo bassa o peggio la deflazione erodono i profitti. Inoltre, il Qe ha già cominciato a svalutare l’euro rispetto al dollaro e altre valute, facilitando le esportazioni che sono pressoché di esclusiva pertinenza delle imprese di grandi dimensioni e multinazionali”.
Si tratta di segni piuttosto evidenti che l’ingranaggio è in crisi, che le misure adottate non fanno che confermare il carattere organico della crisi capitalistica e, ancora, che la diga eretta per scongiurarne il cedimento rischia di rivelarsi alquanto fragile poiché la manovra rimane pur sempre incardinata sull’impalcatura monetaria che ha prodotto l’austerity e non è arduo prevedere che i suoi effetti si riveleranno del tutto modesti.
Allora, tornando al tema iniziale, attenzione a spiegare che se si mette in discussione l’euro significa essere anti-europei;
attenzione a dire che la rivendicazione della sovranità popolare (che, non dimentichiamolo, sta scritta nell’articolo 1 della Costituzione) significa, “necessariamente”, portare acqua ai nazionalismi xenofobi e fascistoidi;
attenzione a dire che chi vuole fare saltare questo ingranaggio infernale non fa che “lavorare per il re di Prussia”, altrimenti si corre il rischio che qualcuno il re di Prussia lo invochi davvero e magari che lo scontro si concluda non con una restaurazione della democrazia ma proprio con l’avvento dei populismi reazionari.

Del resto, non ci sono evidenze empiriche – come ci spiegano Emiliano Brancaccio e Nadia Garbellini – che l’uscita dall’euro provocherebbe una svalutazione delle proporzioni che si paventano e, soprattutto, che lo scenario sarebbe in quel caso peggiore della drammatica deriva in corso.
Lo dico perché il “diavolo” capitalista fa le pentole, ma non sempre riesce a trovare i coperchi e fra non molto, potremmo trovarci di fronte alla caduta dell’euro per…autocombustione…, cioè per autonoma decisione del potere finanziario, una volta condotti a termine lo sventramento del welfare, il processo di privatizzazione integrale, la riduzione a simulacro della democrazia rappresentativa, l’annichilimento del potere di contrasto del soggetto lavoro.

Il punto, allora, è cosa fare per impedire che si intraprenda questa strada, proprio per l’incapacità delle classi dominanti di perseguire una rotta diversa.
Allora tocca a noi dire in modo chiaro che all’uscita dall’euro dovrà corrispondere una nuova politica economica e sociale:
proteggendo i salari attraverso un rilancio delle lotte e del ruolo contrattuale dei sindacati;
reintegrando i diritti del lavoro espropriati dalla crociata anti-operaia in corso;
rilanciando l’indicizzazione delle retribuzioni al costo della vita;
ricostruendo un regime previdenziale che così com’è precluderà il diritto alla pensione a due generazioni di italiani;
riducendo su scala nazionale e in tutti i settori l’orario di lavoro;
varando nuove politiche fiscali che restituiscano progressività all’imposta sul reddito e prevedendo una tassa strutturale sui grandi patrimoni;
ponendo un tetto alle retribuzioni e alle pensioni;
nazionalizzando le banche e i principali asset industriali a partire dalla siderurgia;
ridefinendo le regole che disciplinano gli scambi commerciali e i movimenti di capitale.

Si tratta insomma di costruire le premesse per un’uscita da sinistra dalla crisi e riscattare l’Europa dal giogo della finanza e dei proprietari universali che stanno succhiando il sangue dei popoli.
Certo, per fare queste cose occorrono altri rapporti di forza, e si può a buon titolo obiettare che siamo lontani dalla capacità di mettere in campo una forza d’urto quale sarebbe necessaria, ma con questa piattaforma potremo rivolgerci sul serio ai proletari di questo paese e alle forze intellettuali non compromesse con la vulgata corrente, usando argomenti, parole, programmi, proposte che nessun altro può, sa, vuole utilizzare. Proposte che abbiano in sé la forza di rilanciare le lotte e dare il senso di una mobilitazione nazionale, ma non nazionalista, solidale, ma non corporativa, europeista, ma non prigioniera dei dogmi del monetarismo liberista.
Ne abbiamo la forza? Nella situazione presente, no. Ma avere una linea chiara oppure non averla non è la stessa cosa.
Del resto, una posizione attendista produrrebbe tre effetti massimamente negativi:
consegnerebbe la protesta contro l’austerity alla demagogia parafascista di Matteo Salvini, consentendo alla destra più reazionaria di riscuotere la rappresentanza di ampi strati popolari e di ridurre la dialettica politica italiana ad un duello fra la “nuova” Lega in versione lepenista e il partito democratico organico al liberismo europeo;
genererebbe, di fronte ad una deflagrazione dell’euro, la peggiore delle condizioni, perché il ritorno alla moneta nazionale – senza adeguate contromisure – rovescerebbe sui lavoratori, sui disoccupati, sugli strati più deboli della popolazione uno tsunami sociale di proporzioni devastanti;
contribuirebbe all’isolamento della Grecia di Syriza, che invece di schiudere le porte di un’altra Europa si ritroverebbe sola, stritolata fra le ganasce della tenaglia dei poteri forti europei.

La questione tedesca: alcuni fatti stilizzati

di Alberto Bagnai da goofynomics

Un amico che stimo, Charlie Brown, biasima spesso le menti strategiche statunitensi per aver riportato di attualità per la terza volta in un secolo e senza che se ne sentisse veramente il bisogno la questione tedesca. Lo hanno fatto (a voi è chiaro) gestendo l’Europa non solo e non tanto nell’interesse degli Stati Uniti (e questo era un loro buon diritto, essendo loro una delle due potenze vincitrici), ma soprattutto a immagine e somiglianza degli Stati Uniti, cioè imponendoci un percorso di integrazione, quello degli “Stati Uniti d’Europa”, che era forse funzionale ai loro interessi militari, ma che era del tutto disfunzionale rispetto al nostro percorso storico (oltre ad essere antistorico in senso lato, come Alesina vedeva prima di avere interesse a non vederlo).
Avallando l’euro gli Stati Uniti ci hanno e si sono condannati a una nuova Dresda.
Sarà magari una Dresda in tono minore, grazie a Dio, anche se il motivo per il quale lo sarà non deve essere di grande soddisfazione: se non saremo bombardati, ciò non accadrà perché l’umanità sarà diventata migliore, ma perché l’Europa sarà diventata sostanzialmente irrilevante. Come diceva una simpatica coattella sul 64: “Er peggior disprezzo è l’indifferenza!”. Con una ere, ovviamente. Verità da autobus, che possono diventare verità storiche…

Trovo nelle osservazioni di Charlie Brown una certa plausibilità. Del resto, se gli imperi crollano un motivo ci sarà, e magari fra questi motivi potrebbe rientrare anche qualche errore strategico, o, come oggi si dice, di visione (che insieme a narrazione è una delle due parole delle quali avremmo fatto a meno e che fanno rima con chi le usa).

Credo che gli Stati Uniti pensino di poter fare a meno dell’Europa (se non come uno dei tanti outlet per i loro prodotti). Sarà la storia a dire se avranno avuto ragione. Io credo che dell’Europa il mondo non possa fare facilmente a meno: non vorrei che quanto dico fosse interpretato come la rivendicazione di una supremazia che in effetti non ha particolare ragione di esistere e soprattutto non si saprebbe in quale metrica valutare, ma vorrei ricordare che per tanti motivi nell’Europa divisa è stato fatto un lavoro di lettura e interpretazione della realtà del quale oggi ancora tutti possiamo beneficiare. Rinnegarlo, abolirlo, significherebbe perdere molto, col rischio di esporsi a errori strategici.

Pensate ad esempio a quella storia del reale e del razionale, ve la ricordate? Qui trovate una sintetica spiegazione a cura di Diego.

Dice: sò parole…

Eh, sì, sò parole, però servono, se le sai usare, e a usarle per tempo forse qualche lutto ce lo saremmo risparmiato. Possiamo però sempre farne un uso postumo, e ve ne fornisco due esempi.

Esempio numero uno. Nel mio articolo sui paradossi dell’Europa (che è piaciuto molto a Thirlwall, ma naturalmente non posso portare a un concorso) mi pongo la domanda: ma perché i governi europei hanno concordemente avallato un regime nel quale l’unica valvola di sfogo è il taglio dei salari? E la risposta è hegeliana: per tagliare i salari. Il reale è razionale (che poi è quella cosa che Polonio diceva parlando di follia e metodo, come ricorderete…).

Esempio numero due. Ieri, al corso che sto tenendo presso Spaziottagoni, mi sono posto un’altra domanda: ma perché i governi europei hanno concordemente avallato un regime nel quale la disoccupazione, ineludibile conseguenza della necessità di tagliare i salari, può essere alleviata solo facilitando l’emigrazione dai paesi deboli? E la risposta è hegeliana: per facilitare l’immigrazione nei paesi forti.

Naturalmente, se la razionalità del taglio dei salari è facilmente intuibile (comandano i potenti, i capitalisti, che nel taglio dei salari vedono un aumento dei propri profitti, pensando di poter lasciare il cerino del crollo della domanda in mano altrui), la razionalità dell’immigrazione, per essere dimostrata, richiede un passaggio in più. Perché gli immigrati sono diversi, sono brutti (chi è ricco, ben educato, istruito, lavato, sbarbato, profumato, ed esercita professioni ad alto valore aggiunto, fa il turista,  non l’emigrato) e in quanto tali perturbano il paesaggio: non si sa dove metterli. Quindi perché caricarseli? Perché questo sarebbe razionale? In altre parole: Maastricht collima con la razionalità della potenza egemone, ma Schengen?

Bè, qui se ne è già parlato, ma vale la pena di aggiungere un paio di dettagli. Curiosando sul sito dell’Eurostat potrete trovare questa tabella, dalla quale vi propongo un paio di excerpta in forma grafica.

Voi sapete che la Germania è in crisi demografica, e che questo mette a rischio la sostenibilità delle sue finanze pubbliche nel lungo termine. Ce lo ripete ogni singolo anno a settembre la Commissione nel suo rapporto sulla sostenibilità fiscale, dove ogni singolo anno, da prima che venissero perpetrate le ultime riforme, vediamo grafici di questo tipo:


(…nota per gli ignari: S2 è la soglia di sostenibilità a lungo termine, i paesi sotto la linea rossa – Italia e Croazia – hanno finanze pubbliche sostenibili, quelli sopra le hanno insostenibili, l’indicatore è a lungo termine nel senso che tiene conto delle passività per il bilancio statale derivanti dal carico futuro del sistema pensionistico…)

Questi grafici certificano come l’Italia abbia finanze pubbliche sostenibili a lungo termine sia perché ha una posizione fiscale favorevole (siamo in surplus primario da decenni), sia perché la sua evoluzione demografica a lungo termine è favorevole, mentre la Germania è messa nei guai proprio dalla demografia, come la Commissione ogni anno ci ripete:


Questo grafico e questo commento vengono dall’edizione 2015, ma se andate indietro nel tempo troverete che negli anni precedenti le cose erano poste esattamente in questi termini. Ogni anno la commissione fa un copia e incolla di questo paragrafo e di questo grafico dall’edizione precedente, il che non stupisce: le variabili demografiche hanno una certa inerzia, per cui non è così strano che di anno in anno la situazione non cambi radicalmente.

E, del resto, io ricordo distintamente (e vi avevo anche chiesto di cercarmene il podcast) le parole di Quadrio Curzio che, il giorno dopo la riforma Fornero, intervistato in radio, disse: “Questa riforma delle pensioni non era necessaria perché la riforma Dini aveva risolto i nostri problemi, ma abbiamo dovuto farla perché ce l’hanno chiesta i mercati”.

[a chi mi trova questo podcast offro due biglietti al #goofy5]

E, alla stessa stregua, ricordo (e quello devo cercarlo io) un occasional paper del Fmi che a metà anni ’90, e quindi prima della riforma Dini, già certificava come la sostenibilità del sistema pensionistico italiano fosse di gran lunga superiore a quella dei sistemi dei paesi del Nord Europa, e sempre per il solito motivo: perché “Italians do it better, or at least more often”…

Naturalmente i collaborazionisti locali negano questa evidenza: il loro scopo è infatti quello di spremere a noi risorse (affossando il nostro settore pubblico con la scusa di salvarlo), per trasferirle alla potenza egemone che, come il grafico dimostra, ne ha bisogno. Aggiungo un paio di grafici, tanto per chiarire il concetto. Questo è il tasso di variazione naturale della popolazione (differenza fra nati e morti nell’anno) nei tre paesi più popolosi dell’Europa continentale:


Notate niente? In Francia è positivo, in Germania è negativo, da noi era nullo ma dall’inizio della crisi ha puntato decisamente in territorio negativo.

Ah, queste donne egoiste, che non danno figli alla patria (ma non era Mussolini a ragionare così?), e che, così facendo, rendono necessario l’apporto dei migranti! Oppure le cose stanno in un altro modo? Forse, visto che l’agenda della comunicazione la detta chi comanda, non è poi strano che qui da noi prevalga l’idea che “abbiamo bisogno di migranti”. In effetti, non ci sono grandi evidenze che in termini strettamente economici ne avremmo bisogno (il che, lo ribadisco ad uso dei tanti cretini, non significa che si debba lasciar morire la gente in mare), ma ne ha certamente bisogno la Germania, e quindi…

Ma il problema prescinde dalla questione umanitaria (che va gestita con le logiche e gli strumenti appropriati, i quali peraltro vengono a mancare se ci condanniamo da soli al sottosviluppo), e preesiste ad esso. Per capire la logica della costruzione europea, basta osservare cosa è successo al tasso di migrazione (differenza fra immigrati ed emigrati) prima della crisi dei rifugiati, ma dopo la crisi economica:


Si capisce, no, a cosa servono l’euro e Schengen? A trasformare l’intero continente europeo in una tonnara la cui camera della morte è la Germania. È lì, e solo lì, che i lavoratori devono andare a finire quando uno shock colpisce il sistema, a casa della potenza egemone, perché la potenza (localmente) egemone ne ha bisogno. La gestione della crisi da parte del tandem Draghi/Merkel (ora litigano, ma per tanto tempo sono andati d’accordo) ha avuto due esiti evidenti: permettere al governo tedesco di finanziarsi a tassi negativi, e al sistema industriale tedesco di approvvigionarsi di mano d’opera istruita nei paesi periferici, i quali vengono ora penalizzati per aver sostenuto il costo dell’istruzione proprio di quella mano d’opera della quale l’egemone beneficia. Perché, come sappiamo, sono sempre i migliori che se ne vanno (e non mi riferisco tanto alla morte, che ultimamente si sta dimostrando imparziale, quanto al fatto che in presenza di barriere culturali l’emigrazione è skill biased, come vi ho dettagliatamente ricordato qui).

Il reale è razionale.

Ribadisco che il grafico ovviamente non tiene conto di quanto è successo nel 2015 grazie all’oculata gestione della crisi siriana da parte della signora Merkel: le dinamiche che vedete rappresentate sono quelle tipiche di paesi sottoposti al processo di svalutazione interna (cioè di aumento della disoccupazione, con connessa fuga all’estero). Un processo che reca benefici al paese che ha una componente di crescita naturale della popolazione negativa, e che quindi, non a caso, è un acceso fan della svalutazione interna.

Perché con la svalutazione esterna (quella del cambio) il problema si risolverebbe in un altro modo. Verrebbe infatti da dire, ai nostri amici tedeschi: “Fate l’amore, non fate la guerra”, o, almeno, tornate in vacanza in Romagna, che se proprio non avete voglia ci pensiamo noi. Ma purtroppo la loro valuta sottovalutata (l’euro), o, se volete, la nostra valuta sopravvalutata (l’euro), impedisce questa piacevole composizione del conflitto, che verrebbe realizzata rimuovendo la principale causa di attriti europei: l’impasse demografica di un paese che da due millenni aspira ad essere una potenza mondiale, e che non lo sarà mai.

E quando dico mai, intendo mai.

Accetto scommesse: hanno cinque miliardi di anni per provarci, anche se, come sapete, sono cinque miliardi teorici, perché potrebbe arrivare Apollo a scombinare le carte.

Ah, per i diversamente astrofili mi affretto a specificare che non mi riferisco al simpatico fondo avvoltoio americano, ma a questo oggetto qui, che, peraltro, se il Signore nella sua infinita lungimiranza e misericordia deciderà in tal senso, potrebbe atterrare anche su Wall Street.

Buona visione (e non dimenticate l’ombrello)…

(…d’altra parte, i tedeschi vanno anche capiti: meglio la svalutazione interna a casa altrui, che le corna in casa propria…

Europa anti-costituzionale: "Per la riconquista dell’autonomia politica ed economica del nostro paese". Un appello.

da Politica&Economia
 

Appello originale qui
 

“Perché votare NO nel referendum costituzionale di ottobre – per la riconquista dell’autonomia politica ed economica del nostro paese contro la tirannia tecnocratica sovranazionale e dei trattati europei”.

Siamo di fronte a una delle più grandi mistificazioni politiche e culturali dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.

La contro-riforma costituzionale adottata dal governo Renzi, il c.d. DDL Boschi, viene presentata, dal governo e dalla quasi totalità dei media nazionali, come la più importante razionalizzazione delle istituzioni mai realizzata nel nostro paese, dopo decenni di politica degenerata e corrotta, da parte di una classe politica “nuova”, giovane e risoluta. In realtà, con questo disegno di legge costituzionale, di cui va considerata la sinergia con la “nuova” legge elettorale, l’Italicum, siamo di fronte ad una delle più grandi mistificazioni, politiche e culturali, a partire dalla fine della II Guerra Mondiale, pari se non peggiore della stessa “riforma” costituzionale di Berlusconi, Bossi e Fini del 2005, sonoramente battuta col voto referendario del 25-26 giugno 2006 dalla maggioranza del popolo italiano. 
L’attuale classe politica non appare certo migliore di quella del recente passato, soltanto perché giovane e, nella propria autorappresentazione, nuova. Essa agisce con grande determinazione e sfrontatezza, verbale e legislativa, oltre a scontare un vuoto culturale e del rispetto delle regole democratiche senza precedenti nel periodo repubblicano. Con questo atto il governo Renzi intende realizzare un progetto davvero ambizioso quanto pericoloso: esautorare il parlamento dalle sue fondamentali prerogative e porre il nostro paese, definitivamente, sotto il diretto controllo politico ed economico del capitale finanziario transnazionale, di cui l’Europa dell’Unione monetaria è parte integrante.  
Avalla e consolida le “riforme” imposte dai trattati europei che esautorano le politiche economiche nazionali ed erodono i principi democratici costituzionali
  1. A partire dalla seconda metà degli anni ’80 del secolo scorso, con l’Atto Unico europeo, prima, ed il Trattato di Maastricht, adottato nel 1992 ma con particolare accentuazione negli anni successivi, a partire dall’ingresso dell’Italia nell’area della moneta unica, le più importanti istituzioni europee e mondiali (Commissione europea, Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale, Organizzazione Mondiale del Commercio, G-8) insieme ai governi più forti e influenti dell’occidente hanno a più riprese auspicato e poi imposto al nostro paese le tanto sbandierate “riforme”, cioè: – le riduzioni delle tutele e del potere di acquisto del lavoro e delle pensioni; – l’esautoramento di ogni autonoma politica economica nazionale; – l’adozione e la ratifica dei successivi e formidabili trattati europei, tanto invasivi quanto scellerati (fiscal compact, six pack accolto questo con l’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione, passo che non era affatto imposto, ma che entra nell’indirizzo politico di governo con il PNR 2011, deliberato dal Consiglio dei ministri il 13 aprile 2011, al punto 2.2 a). In tal modo sono poste le premesse per la distruzione dell’apparato produttivo industriale, pubblico e privato, del paese e il conseguente impoverimento generale, ed è preclusa al paese l’adozione di sue proprie politiche di sviluppo a tutto vantaggio dei paesi più forti dell’Europa, Germania in testa, che in questi anni hanno goduto, anche grazie a ciò, di un ulteriore vantaggio competitivo.

Ma ciò, evidentemente, non era ancora sufficiente.

Diventava, infatti necessario (come raccomandato da J.P. Morgan Chase nel maggio 2013 con un suo Paper) mutare la cornice generale della convivenza civile e politica all’interno di ciò che rimane della residua sovranità popolare degli stati europei, specie nei paesi più fragili e periferici, e dunque attuare un superamento definitivo delle Costituzioni nazionali ove ancora è presente il riconoscimento dei diritti sociali, ed in particolare della nostra Costituzione repubblicana del ’47, essendo tutto ciò visto e additato quale portato “ideologico” novecentesco di compromesso tra capitale e lavoro da superare secondo il volere dei ” mercati” dei capitali (finanziari).

I Governi che negli ultimi anni si sono succeduti alla guida del paese hanno tutti attuato politiche controproducenti sul versante dello sviluppo quanto improntate alla più arcaica diseguaglianza, secondo il canone dell’austerità; con gradazioni diverse tra l’uno e l’altro, si sono dimostrati i più diligenti esecutori dei voleri del capitale transnazionale e, così facendo, hanno aggravato la crisi, tuttora in corso, oltre che reso ancora più lontane le condizioni fondamentali di convergenza tra i paesi centrali e periferici dell’eurozona, spingendo questi ultimi in una posizione di crescente “mezzogiornificazione”, ossia sempre più nelle retrovie dello sviluppo. 2. Negli ultimi 25 anni i trattati europei si erano del resto già progressivamente sovrapposti alle costituzioni novecentesche, con particolare accentuazione nei confronti della nostra Carta fondamentale, imbalsamandola nella sua intera prima parte e nei principi fondamentali, con la conseguenza pratica della disapplicazione nei suoi stessi principi supremi (a cominciare dal principio di uguaglianza, riconoscimento e tutela dei diritti sociali e del lavoro, ripudio della guerra, limitazioni di sovranità in condizioni di parità) che, al contrario, per consolidata giurisprudenza costituzionale sono considerati immodificabili. Queste due fonti hanno origini e programmi politici e culturali profondamente diversi e sotto certi aspetti antitetici. I trattati traducono in economia un programma liberale-liberista e consolidano una tecnocrazia a-democratica sul versante politico.

Le Costituzioni, in particolare la nostra, mirano invece ad una democrazia sociale con un’economia mista e con una significativa presenza del pubblico nei settori nevralgici per l’economia e la società quali industria, scuola, salute, credito, energia. In questo si traduce la forte affermazione di un principio di eguaglianza formale e sostanziale, di diritti e libertà nella I parte della Carta, che fu ad un tempo la novità storica della Costituzione del 1947 e la chiave per la sintesi delle diverse culture politiche che in essa si ritrovarono. Ma la I parte della Costituzione chiede di essere attuata e presuppone, a tal fine, politiche appropriate. Ma gli indirizzi di governo si definiscono nelle forme che assumono le istituzioni e ne sono decisivamente condizionati. L’attuazione della I Parte della Costituzione presuppone una forma di governo parlamentare incardinata su assemblee elettive ampiamente rappresentative. Come ha statuito la Corte costituzionale dichiarando la illegittimità costituzionale del Porcellum con la sent. 1/2014, rappresentanza politica, partecipazione democratica, voto libero e uguale sono le pietre angolari della nostra democrazia, e ne definiscono la forma e la sostanza. Questo assetto è radicalmente negato dalla riforma della Costituzione ora proposta, con la soppressione del Senato elettivo e la concentrazione del potere su Palazzo Chigi. Parimenti stravolgente è la legge elettorale già approvata, per la previsione di un altissimo premio di maggioranza a un solo partito, l’eventualità di un ballottaggio senza soglia, parlamentari in prevalenza sottratti alla scelta degli elettori con il voto bloccato sui capilista. “Riforme” devastanti, poste in essere da un parlamento sostanzialmente delegittimato per la certificata incostituzionalità del suo fondamento elettorale, e da maggioranze posticce alimentate dai cambi di casacca e pronte a ogni forzatura delle norme costituzionali e regolamentari. “Riforme” che non si giustificano certo con gli esili argomenti di una governabilità che rimane solo apparente e di irrisori risparmi nei costi delle istituzioni.

Questo contrasto deve essere sciolto opponendo per via referendaria alle politiche in atto la voce del popolo, e anzitutto vincendo il referendum costituzionale.

E ciò deve essere il primo passo per ripristinare la democrazia sociale costituzionale; a seguito del quale rivedere l’aberrante modifica dell’art.81 della Costituzione.

Votare NO nel referendum costituzionale significa, dunque, votare contro la tecnocrazia sovranazionale che, grazie alla presente manomissione della Costituzione potrà appoggiarsi ad una monocrazia nazionale, ancor più vassalla delle oligarchie europee e del capitale transnazionale, che continuerà ad affossare lo sviluppo del paese con ancor più risolutezza.
Il NO nel referendum è un SI’ al rilancio della democrazia prevista nella nostra Costituzione fondata sulla sovranità popolare.
Primi firmatari: Bruno Amoroso, Paolo Bagnoli, Patrizia Bernardini, Lanfranco Binni, Michelangelo Bovero, Nicola Capone, Antonio Caputo, Francesco Cattabrini, Sergio Cesaratto, Angelo Raffaele Consoli, Anna Fava, Thomas Fazi, Gianni Ferrara, Guglielmo Forges Davanzati, Roberto Lamacchia, Gerardo Marotta, Massimiliano Marotta, Siliano Mollitti, Tomaso Montanari, Daniela Palma, Andrea Panaccione, Marco Veronese Passarella, Roberto Passini, Marcello Rossi, Mario G. Rossi, Luca Rovai, Cesare Salvi, Gianpasquale Santomassimo, Francesco Sylos Labini, Stefano Sylos Labini, Paolo Solimeno, Lanfranco Turci, Massimo Villone. Questo documento è stato elaborato all’interno dell’Associazione Hyperpolis, (www.Hyperpolis.it) in vista del referendum costituzionale che verrà indetto nel corrente anno. Per adesioni: redazione@Hyperpolis.it

W Marx, W Lenin, W Revelli. Un passo di lato e due indietro

Della opportunità di uscire dall’euro si è detto scritto e riscritto fino allo sfinimento, adesso chi vuol capire capisca. Delle affabulazioni sull’Europa, mito moderno e ultima spiaggia degli irriducibili dell’ontologia antimetafisica, ma non per questo coi piedi per terra, si è pure detto e scritto tanto, che mi viene la nausea. Il solo pensare che basti immaginare un teatro di conflitto e imbastire storie romantiche sugli ultimi che scalzano la strega Merkel e la serva BCE, per far si che questa diventi una narrazione minimamente realistica, è da deficenti. 
Cosa altro c’è da dire se non che la logica e il buon senso è l’ultima inesplorata frontiera che ci rimane.
Ci fossero un Lenin o un Marx invece di un Revelli o un Frantoianni, avrebbero già capito da un pezzo che occorrono non due, ma tre passi indietro. Avrebbero capito che considerare l’Europa il baricentro politico di una politica progressiva, quando questa appare come un diposistivo impenetrabile e congegnato unicamente per far funzionare il liberismo, favorendo alcuni paesi a scapito di altri, è da pazzi. Olte tutto avrebbero colto la vaghezza e l’incostintenza di una proposta politica che più vaga e fumosa non si può, fatta di proclami, appelli, del “vogliamo un’Europa che…” del “sintonizzare i sentimenti”, delle “nuove narrazioni” ecc ecc. Avrebbero capito che riaffermare la sovranità di uno stato per poter riaffermare allo stesso tempo diritti e redditi, non è una sconfita, o far tornare indietro le lancette della storia, ma una tappa obbligata per poter davvero scrivere un nuovo capitolo. Se la sinistra avesse spiegato quello che era già chiaro 40 anni fa e cioè che l’Europa era una trappola congegnata dalle oligarchie per affermare il libero mercato e comprimere i diritti dei lavoratori, studiando sodo la maniera di uscirne, e spiegando la convenienza ai lavoratori ed anche alle piccole imprese e a quella parte del capitalismo più illuminato (ammesso che ne esista uno), a quest’ora avremmo un obiettivo chiaro e un’arma potente da puntare contro queste infami oligarchie europee. 
Cari compagni, se persino Napolitano, l’ex compagno Napolitano aveva capito cosa stava succedendo, e ci metteva in guardia contro la moneta unica in un suo discorso al parlamento, perché voi avete perseverato nell’ignoranza e nell’ideologia? Sapevate cosa comportava Maastricht e nonostante tutto avete continuato ad alimentare l’idea di un Europa che con quella di Ventotene c’entrava ben poco. Possibile che l’ideologia vi abbia, ci abbia appannato la mente così tanto? Ce  la siamo presa con i compagni comunisti greci perché, forse a torto, osteggiavano Tsipras, ma non pensate adesso che magari un po’ di ragione ce l’avessero pure loro? 
Parliamo di piani B. Ben vengano, ma dovete convincere prima di tutti  voi stessi e e poi tutti noi che possano costituire materia di un programma chiaro e condivisibile. Per avere l’entusiamo necessario a portarlo avanti dobbiamo crederci. 
Per adesso rimango convinto che occorra far un passo di lato e due indietro.

DOPPIOCIECO

Per una Razionalità Moderatamente Pluralista