Capitalismo e lotta di classe: una risposta a Alessandro Barile

da Micromega

Alessandro Barile è stato attento lettore di due miei libri recenti, “Utopie letali” e “La variante populista”, da lui commentati sul sito Carmilla con una posizione lontana dalle reazioni scandalizzate di molti intellettuali delle sinistre (cosiddette) radicali o antagoniste. In particolare, è stato fra i pochi ad apprezzare (o almeno a considerare stimolanti e legittime) due delle mie tesi di fondo: 1) quella secondo cui, oggi, lo scontro sociale non si presenta nella tradizionale forma bipolare capitale/lavoro bensì come conflitto fra potere liberal liberista e un eterogeneo blocco di soggetti sociali unificati dalla rabbia contro gli effetti del processo di globalizzazione, piuttosto che da una qualche forma – ancorché embrionale – di coscienza di classe; 2) quella che identifica nel relativismo ideologico – figlio del relativismo epistemologico  delle filosofie postmoderniste – la radice culturale della perdita di ogni riferimento alla realtà sociale da parte delle sinistre radicali (in primis postoperaiste).

Recensendo – sempre su Carmilla – il mio ultimo lavoro, “Il socialismo è morto. Viva il socialismo” (di cui i lettori di Micromega hanno avuto accesso a un ampio estratto), Barile replica nella prima parte il precedente giudizio, che implica la disponibilità a raccogliere la sfida del populismo, da considerare non come ideologia (il populismo non è un’ideologia né mai lo è stato, semmai è una mentalità e una tecnica di comunicazione e di mobilitazione politica) bensì come la modalità che il conflitto sociale assume nell’attuale contesto storico – una modalità da attraversare per proiettare il movimento verso obiettivi e livelli di coscienza politica più avanzati.  Tra l’altro Barile coglie giustamente le risonanze “neo giacobine” del mio discorso: decenni di guerra di classe dall’alto hanno distrutto rapporti di forza, forme organizzative e culture del proletariato, per cui si tratta in primo luogo di ricostruire margini minimi di democrazia. Detto altrimenti: la ripresa della lotta di classe passa dalla rivolta dei citoyens contro il regime liberale.

Nella seconda parte della sua lunga recensione, esprime invece perplessità nei confronti di due aspetti, che considera inediti rispetto ai precedenti lavori, che a suo avviso segnerebbero un salto di paradigma tale da interrompere ogni possibilità di dialogo – sia pure critico – con le sinistre. Forse ha ragione, ma, dal momento che le sue argomentazioni restano nei confini di un dissenso teorico motivato e civile (lontano da certe sgangherate denunce della mia presunta svolta “rossobrunista”) gli devo una risposta.

I due nodi “incriminati” sono di natura diversa. Il primo è politico-economico e si riferisce alle modalità con cui pongo la questione nazionale al centro della battaglia democratica contro il capitalismo globale: Barile mi accusa di applicare senza mediazioni il vecchio modello delle lotte anticoloniali alla contraddizione fra Paesi centrali e periferici in Occidente. Il secondo è filosofico e riguarda la mia critica del “modernismo progressista” che caratterizza da sempre la cultura marxista, a partire dallo stesso Marx, una critica, sostiene Barile, che mi collocherebbe al di fuori di ogni possibilità di superamento dell’esistente. Nelle righe seguenti sosterrò brevemente: 1) che la prima critica è falsa, nella misura in cui sorvola sugli argomenti teorici con cui sostanzio le mie tesi; 2) che la seconda è invece pertinente, nel senso che sono effettivamente convinto, all’opposto di Barile e dei marxisti più o meno “ortodossi”, che l’eredità del modernismo progressista contribuisca a negare alle sinistre ogni chance di produrre un reale cambiamento dello stato di cose esistente.

Partiamo dal primo nodo. Lo schema centro-periferia teorizzato da autorevoli economisti marxisti come Wallerstein e Arrighi, secondo Samir Amin (altro pezzo da Novanta del pensiero marxista) non funziona solo per il rapporto fra potenze imperialiste e Paesi ex coloniali, ma anche fra Paesi forti e Paesi deboli del campo capitalista occidentale. Del resto Amin riformula lo schema del conflitto fra ex imperi coloniali ed ex colonie a partire dalle mutazioni del sistema mondo successive alla crisi degli anni Settanta, e lo considera applicabile anche al conflitto fra centro e periferie europee perché il capitalismo globalizzato e finanziarizzato non è più associabile alle vecchie classi borghesi. La marxiana borghesia non esiste letteralmente più, spodestata da élite globali sostenute da strati neoborghesi (che Piketty valuta attorno al 30% della popolazione occidentale attiva) in posizione subordinata (creativi, operatori dei media, quadri di impresa, nuove professioni, percettori di rendite mobiliari e immobiliari, ecc.). Questo blocco ha tutto l’interesse di conservare un mondo aperto ai flussi di merci, capitali, servizi e persone e professa quindi un’ideologia cosmopolita, progressista sul piano dei diritti civili, reazionaria sul piano dei diritti sociali. È un blocco sociale che vota compatto a sinistra (il che non è affatto un trascurabile dato sociologico, come sostiene Barile) e usa la neolingua politicamente corretta come arma contro le rozze masse popolari degli “sdentati” (Hollande) e dei “dementi” che votano Trump (Bifo).

In questa guerra fra centro e periferie sociali e geografiche, che si svolge anche all’interno dei singoli Paesi (vedi le ricerche del geografo francese Guilluy che ho recensito su queste pagine), le seconde hanno interesse a recuperare una cornice di sovranità nazionale che è l’unica a garantirgli la possibilità di strappare migliori condizioni di lavoro e di vita, diritti, livelli di reddito, ecc. È la battaglia per andare verso ciò che Amin chiama delinking, cioè quello sganciamento dal mercato globale in assenza del quale non è pensabile nessun balzo dalla lotta per la democrazia alla lotta per il socialismo.

Passiamo al nodo filosofico. Ebbene sì, io penso – in sintonia con Walter Benjamin, con l’ultimo Tronti e molti altri – che non sia vero che gli orrori della modernità (guerre mondiali, regimi totalitari, annientamento di intere culture e forme di vita, tecnologie distruttive di ambiente, esseri umani e mondi vitali) sono tali perché “la modernità è stata troppo poco moderna”, come scrive Barile, ma perché l’idea di modernità e progresso sono immanenti al modo di produzione capitalista e alla cultura liberale, e ogniqualvolta le classi subalterne hanno tentato di appropriarsene hanno ottenuto l’unico risultato di rafforzare l’avversario. L’idea che il superamento del capitalismo sia inscritto nelle “leggi” della storia, l’esito necessario dello sviluppo delle forze produttive, oltre che smentita degli eventi empirici, è un residuo ideologico in cui convergono evoluzionismo ottocentesco e metafisica hegeliana. Sono convinto, con David Harvey, Nancy Fraser e altri, che le chance di rottura e superamento non siano interne, immanenti, al modo di produzione, bensì esterne: si collocano al confine fra il modo di produzione e le relazioni sociali, le forme di vita, le identità soggettive che il capitalismo deve costantemente cercare di colonizzare perché da solo non è in grado di garantire la sua riproduzione allargata (rileggere Luxemburg e Polanyi).

In conclusione: la lotta di classe è qualcosa di assai più ampio e complesso della vecchia lotta (posto sia mai esistita in questa forma “pura”) fra operai e borghesi.

Carlo Formenti

UNA RIFLESSIONE SUL ’68 E SULLO ‘SPIRITO DEL CAPITALISMO’

di Andrea Zhok

Ieri riflettevo su uno dei passaggi cruciali nella storia contemporanea, ovvero sugli esiti paradossali della quasi-rivoluzione del ’68.

Come recenti analisi (la più nota è quella di Boltanski & Chiapello) hanno mostrato, il ’68 ha giocato un ruolo paradossale nel facilitare sul piano ideologico la svolta neoliberista.

Nel progetto quasi-rivoluzionario del ’68 hanno operato in modo inizialmente indistinto istanze emancipative rivolte da un lato contro il residuo autoritarismo della cultura borghese del secondo dopoguerra, e dall’altro contro l’organizzazione del lavoro capitalista e l’ingiustizia sociale.
La prima direzione di protesta si incarnò in forme di contestazione all’autorità scolastica e legale, alla struttura famigliare, allo Stato. La seconda si indirizzò contro il taylorismo e il governo del denaro.

Il capitale e i suoi ideologi sono riusciti ad utilizzare magistralmente la prima istanza contro la seconda.
Le istanze di emancipazione individuale vennero infatti giocate in chiave individualista e ‘anarchica’, mettendo sotto pressione le strutture istituzionali protettive (stato, sindacato, famiglia), e creando la perfetta arena per un’organizzazione capitalista meno chiaramente gerarchica, più fluida, flessibile, reticolare, esternalizzata, dove non c’era più nemmeno qualcuno contro chi protestare.

Quest’operazione consentiva alla prima componente della protesta, quella compatibile con l’approccio liberale, di occupare l’intero spazio rivendicativo, riducendo ai minimi termini la capacità di fare fronte comune contro l’ingiustizia sociale e la plutocrazia. Questo è ciò che è plasticamente testimoniato dall’oblio in cui sono caduti i diritti sociali (artt. 22-27 della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo), facendo coincidere nel discorso comune diritti umani e diritti individuali.

Ciò che è interessante osservare è come la protesta di natura emancipativa rivolta verso le ‘istituzioni borghesi’ (famiglia e Stato innanzitutto) abbia sofferto di una drammatica povertà di analisi, concependo famiglia e Stato come entità in qualche modo intrinsecamente connesse con la borghesia, e dunque con il capitalismo, laddove, ovviamente si trattava di ordinamenti millenari che semplicemente il capitalismo aveva, in parte, colonizzato.

Si pensi alla contestazione virulenta, e non immotivata, all’ipocrisia come tratto manifesto della famiglia borghese. In effetti l’ipocrisia è uno degli effetti collaterali più evidenti, già nell’800, della colonizzazione dell’ordine famigliare da parte del capitalismo. Le ragioni sono evidenti: da un lato la realtà sociale che si stava imponendo sempre più chiaramente era una realtà dove a contare erano solo il peso economico e i relativi margini di profitto, dall’altro ci si continuava a rifare, necessariamente, ai valori dei precedenti ordinamenti sociali (onore, lealtà, cultura, educazione, ecc.). Infatti una società dove la brutale realtà del potere economico fosse venuta alla luce senza veli sarebbe stata ingiustificabile, incomprensibile e ingestibile per chi vi viveva. I valori elaborati nei secoli e millenni precedenti vennero perciò invasi dal meccanismo sociale capitalistico, che, come un parassita, nutrendosi di essi, li consumava.
Questa è la tara ereditaria chiamata ‘ipocrisia borghese’ che troviamo tratteggiata in infiniti romanzi ottocenteschi (si pensi agli agghiaccianti dialoghi dei romanzi di Jane Austen, dove donne e uomini vengono letteralmente pesati a colpi di sterline per consentirne o meno l’accoppiamento, ma poi questa brutale sostanza è intessuta di un meraviglioso e delicatissimo discorso tutto incentrato su altre, più o meno effimere, virtù).

Il ’68 non riesce a discernere tra la famiglia in sé e i meccanismi dissimulativi della famiglia nell’epoca del dominio del capitale. Di conseguenza attacca la famiglia in quanto tale, ritenendo di fare un’opera rivoluzionaria e progressiva, mentre di fatto sega il più fondamentale dei rami su cui ciascun individuo poggia. L’esito di questo attacco è un definitivo indebolimento dell’ordine famigliare, che, con tutti i suoi limiti, anche nella sua incarnazione borghese aveva rappresentato un argine e una base di formazione umana secondo istanze differenti dalla mera ricerca del profitto. Tutto ciò che appartiene all’ordine famigliare e alla sua normatività viene mortalmente screditato, lasciando dietro di sé non una società di persone più libere ed autonome, bensì le macerie di una società di individui sempre più fragili e ricattabili.

Simili considerazioni possono essere svolte nei confronti dello Stato (o della Patria), che sono stati anch’essi colonizzati dal capitale e soffrono perciò anch’essi di una discrasia tra gli ideali ufficialmente promossi e la realtà crudamente economicistica che sottende i rapporti di potere. Anche qui il ’68 si è mosso buttando il bambino con l’acqua sporca: ha ritenuto di liberarsi dell’ingiustizia capitalistica liberandosi dell’autorità dello Stato, dove però abitavano ancora, per quanto dissimulate e compromesse, istanze di contenimento e correzione del dominio capitalista. L’esito è stato, naturalmente, quello di spianare la strada ad un’imposizione unilaterale di tempi e forme di vita da parte dei meccanismi di autoriproduzione del capitale, paradossalmente nel nome di una maggiore libertà individuale.

Molte lezioni si possono trarre da questo passaggio storico, ma la più importante per guidare l’azione politica odierna è ricordare come il capitale non sia una cosa, bensì una LOGICA (io la nominavo in un vecchio lavoro come ‘Spirito del denaro’), una logica che può incarnarsi in molte forme diverse. Oggi essa si incarna in certe persone (Draghi, Lagarde, ecc.) e certe istituzioni (WTO, FMI, UE, ecc.), ma non è l’abbattimento di tali incarnazioni ciò su cui dobbiamo concentrare l’attenzione, bensì sulla logica che le muove.
Può darsi, naturalmente, che tale logica non sia più separabile di fatto dalle istituzioni in questione, che diventano perciò a tutti gli effetti pratici istituzioni nemiche, senza alternative.
Tuttavia il punto di principio resta e va tenuto fermo, perché il capitalismo non è nessuna delle sue incarnazioni storiche, ma è la logica della pratica monetaria. Esso, come certi alieni della fantascienza, può trasferirsi di ospite e assumerne le sembianze, e dunque è solo la sua logica, i suoi meccanismi, ad essere inemendabili e a dover essere identificati, abbattuti, superati.

da Facebook

I Giganti – L’Élite del Potere Globale

di Robert J. Burrowes (da Z Net Italy)
Sviluppando la tradizione disegnata da C. Writgh Mills nel suo classico del 1956 The Power Elite[L’élite del potere], il professor Peter Phillips inizia esaminando la transizione dalle élite del potere dello stato-nazione descritte da autori come Mills, all’élite transnazionale del potere centralizzata sul controllo del capitale globale. Così, nel suo studio appena pubblicatoGiants: The Global Power Elite,[Giganti: l’élite del potere globale], Phillips, professore di sociologia politica alla Sonoma State University, USA, identifica le diciassette società di gestione di patrimoni maggiori del mondo, quali BlackRock e J.P.Morgan Chase, ciascuna con più di un trilione di dollari di capitali d’investimento in gestione, come i “Giganti” del capitalismo mondiale. Le diciassette società gestiscono in totale più di 41 trilioni di dollari USA in una rete di auto-investimenti di capitali interconnessi che copre il globo.
Questi 41 trilioni di dollari rappresentano la ricchezza investito per profitto da migliaia di milionari, miliardari e imprese. I diciassette Giganti operano in quasi ogni paese del mondo e sono “le istituzioni centrali del capitale finanziario che alimenta il sistema economico globale”. Investono in qualsiasi cosa sia considerata redditizia da “terre agricole sulle quali i coltivatori indigeni sono sostituiti da investitori dell’élite del potere” ad attività pubbliche (quali le reti elettriche e idriche).
Inoltre Phillips identifica le reti più importanti dell’Élite del Potere Globale e i singoli membri. Egli nomina 389 individui (un piccolo numero dei quali è costituito da donne e un numero simbolico di essi proviene da paesi diversi dagli Stati Uniti e dai paesi più ricchi dell’Europa Occidentale) al centro delle reti non governative di pianificazione delle politiche che gestiscono, agevolano e difendono la continua concentrazione del capitale globale. L’Élite del Potere Globale svolge due funzioni unificanti, egli sostiene: mettono a disposizione giustificazioni ideologiche per i loro interessi condivisi (promulgate attraverso i media industriali) e definiscono i parametri d’azione per le organizzazioni governative transnazionali e per i gli stati-nazione capitalisti.
Più precisamente, Phillips identifica i 199 amministratori dei diciassette Giganti finanziari globali e offre brevi biografie e informazioni pubbliche del loro patrimonio netto. Questi individui sono strettamente interconnessi attraverso numerose reti associative tra cui il World Economic Forum, la International Monetary Conference, affiliazioni universitarie, vari comitati politici, circoli sociali e imprese culturali. Per un assaggio di alcuni di questi circoli si veda questo resoconto di The Linksa New York. Come osserva Phillips: “E’ certamente sicuro concludere che tutti si conoscono l’un l’altro personalmente oppure si conoscono nel contesto condiviso delle loro posizioni di potere”.
I Giganti, documenta Phillips, investono gli uni negli altri ma anche in molte centinaia di società di gestione degli investimenti, molte delle quali sono semi-Giganti. Il risultato sono decine di trilioni di dollari coordinati in una singola vasta rete di capitali globali controllati da un numero molto limitato di persone. “Il loro obiettivo costante è trovare opportunità di investimenti sicuri sufficienti a garantire un ritorno sul capitale che consenta una crescita continua. Opportunità inadeguate di collocamento del capitale conducono a pericolosi investimenti speculativi, acquisto di beni pubblici e una permanente spesa per la guerra”.
Poiché gli amministratori di queste diciassette società di gestione degli investimenti rappresentano il nucleo centrale del capitale internazionale “gli individui possono ritirarsi o morire, e altre persone simili occuperanno il loro posto rendendo la struttura complessiva una rete autoperpetuante di controllo globale dei capitali. In quanto tali, queste 199 persone condividono un obiettivo comune di massimo ritorno degli investimenti per sé e per i propri clienti, e possono cercare di ottenere ritorni con ogni mezzo necessario, legale o no …. Le soluzioni istituzionali e strutturali all’interno dei sistemi di gestione del denaro del capitale globale cercano incessantemente di ottenere il massimo ritorno dagli investimenti e … le condizioni per le manipolazioni – legali o no – sono sempre presenti.”
Come alcuni ricercatori prima di lui, Phillips identifica l’importanza di quelle istituzioni transnazionali che assolvono a una funzione unificante. La Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, il G20, il G7, l’Organizzazione Mondiale del Commercio(WTO), il World Economic Forum(WEF), la Commissione Trilaterale, il Gruppo Bilderberg, la Banca dei Regolamenti Internazionali, il Gruppo dei 30 (G30), il Council on Foreign Relations, e la International Monetary Conference operano da meccanismi istituzionali per la costruzione del consenso in seno alla classe capitalista transnazionale e per la formulazione e l’attuazione delle politiche dell’élite del potere. Queste istituzioni internazionali servono gli interessi dei Giganti finanziari globali appoggiando politiche e regole che cercano di proteggere il flusso libero, non ostacolato del capitale e della raccolta di debito a livello mondiale.
Ma all’interno di questa rete di istituzioni transnazionali Phillips identifica due organizzazioni importantissime della pianificazione delle politiche dell’élite globale: il Gruppo dei Trenta(che ha 32 membri) e il comitato esecutivo ampliato della Commissione Trilaterale(che ha 55 membri). Queste società senza fini di lucro, che hanno ciascuna personale di ricerca e supporto, formulano politiche d’élite e diffondono istruzioni per la loro attuazione da parte di istituzioni governative transnazionali come G7, G20, FMI, WTO e Banca Mondiale. Le politiche d’élite sono anche attuate seguendo le istruzioni del relativo rappresentante, compresi i governi, nel contesto. Questi rappresentanti, poi, operano secondo le istruzioni ricevute. Così, questi 85 membri (perché due si sovrappongono) del Gruppo dei Trenta e della Commissione Trilaterale costituiscono un gruppo centrale di agevolatori del capitalismo globale, assicurando che “il capitale globale resti protetto, sicuro e crescente”.
Così, anche se molte delle maggiori istituzioni internazionali sono controllate da rappresentanti di stati-nazione e da banchieri centrali (con un potere proporzionale esercitato da sostenitori finanziari dominanti, quagli gli Stati Uniti e i paesi dell’Unione Europea), Phillips è più interessato ai gruppi transnazionali di politiche che sono non governativi perché tali organizzazioni “contribuiscono a unire le élite di potere della TCC [Classe Capitalista Transnazionale) come classe” e gli individui coinvolti in queste organizzazioni agevolano il capitalismo mondiale. Operano come élite politiche che perseguono la continua crescita del capitale nel mondo.
Sviluppare questa lista di 199 amministratori delle maggiori società del mondo di gestione del denaro, sostiene Phillips, è un passo importante verso la comprensione di come funziona oggi globalmente il capitalismo. Questi amministratori dell’élite del potere globale prendono le decisioni riguardanti l’investimento di trilioni di dollari. Apparentemente in competizione, la ricchezza concentrata che condividono impone loro di collaborare per il loro bene maggiore identificando opportunità di investimento e soluzioni di condivisione dei rischi e di operare collettivamente per soluzioni politiche che creino vantaggi per il loro sistema di generazione di profitto nel suo complesso.
La loro priorità fondamentale consiste nel garantire un ritorno medio dagli investimenti compreso tra il 3 e il 10 per cento, o anche più. La natura dell’investimento è meno importante di ciò che produce: continui ritorni che supportino la crescita nel mercato complessivo. Dunque l’investimento di capitali nel tabacco, in armi belliche, in sostanze chimiche tossiche, nell’inquinamento e in altri beni e servizi socialmente distruttivi è giudicato unicamente in base al rendimento. L’interesse per i costi sociali e ambientali dell’investimento è inesistente. In altri termini, infliggere morte e distruzione va bene, perché è redditizio.
Allora qual è lo scopo dell’élite globale? In poche frasi Phillips lo descrive così: l’élite è largamente unita a sostegno dell’impero militare USA/NATO che persegue una guerra repressiva contro gruppi avversari – tipicamente definiti “terroristi” – intorno al mondo. Lo scopo reale della “guerra al terrore” è la difesa della globalizzazione transnazionale, il flusso non ostacolato di capitale finanziario in tutto il mondo, l’egemonia del dollaro e l’accesso al petrolio; non ha nulla a che fare con la repressione del terrorismo che genera, perpetua e finanzia per offrire copertura al suo piano reale. E’ per questo che gli Stati Uniti hanno una lunga storia di interventi militari e della CIA nel mondo ufficialmente a difesa degli “interessi nazionali”.
Ricchezza e potere
Un punto interessante che emerge, per me, dalla lettura dalla ponderata analisi di Phillips è che c’è una chiara distinzione tra gli individui e le famiglie che possiedono ricchezza e gli individui che possiedono (a volte in misura considerevole) meno ricchezza (che, tuttavia, resta considerevole) ma che, grazie alla loro posizione e ai loro collegamenti, esercitano una gran quantità di potere. Come Phillips spiega questa distinzione “la sociologia delle élite è più importante dei particolari individui d’élite e delle loro famiglie”. Solo 199 individui decidono come saranno investiti più di 40 trilioni di dollari. E questo è il punto centrale. Lasciatemi approfondire brevemente.
Ci sono nel mondo alcune famiglie realmente ricche, in particolare comprendenti le famiglie Rotschild (Francia e Regno Unito), Rockefeller (USA), Goldman-Sachs (USA), Warburg (Germania), Lehmann (USA), Lazards (Francia), Kuhn Loebs (USA), Israel Moses Seifs (Italy), Al-Saudi (Arabia Saudita), Walton (USA), Koch (USA), Mars (USA), Cargill-MacMillan (USA) e Cox (USA). Tuttavia non tutte queste famiglie perseguono apertamente il potere per piegare il mondo ai loro desideri.
Analogamente gli individui estremamente ricchi del mondo, quali Jeff Bezos (USA), Bill Gates (USA), Warren Buffett (USA), Bernard Arnault (Francia), Carlos Slim Helu (Messico) e Francoise Bettencourt Meyers (Francia) non sono necessariamente collegati in modo tale da esercitare un enorme potere. In realtà possono avere scarso interesse al potere in quanto tale, nonostante il loro ovvio interesse per la ricchezza.
In essenza alcuni individui e famiglie si accontentano di approfittare semplicemente di come funzionano il capitalismo e i suoi strumenti governativi e transnazionali ausiliari, mentre altri sono più politicamente impegnati nella ricerca di manipolare grandi istituzioni per ottenere risultati che non solo massimizzino il loro profitto, e dunque la loro ricchezza, ma anche modellino il mondo stesso.
Così, se si scorre la lista dei 199 individui che Phillips identifica al centro del capitale globale, essa non include nomi come Bezos, Gates, Buffett, Koch, Walton o persino Rothschild, Rockefeller o Windsor (la regina d’Inghilterra) nonostante la loro ricchezza ben nota e straordinaria. Come digressione, molti di tali nomi non sono presenti neppure nelle liste compilate da gruppi come Forbese Bloomberg, ma la loro assenza da tali liste è dovuta a una ragione molto diversa, considerati la propensione di molti individui e famiglie realmente ricche di evitare certi tipi di pubblicità e il loro potere di assicurarsi di evitarla.
Diversamente dai nomi appena elencati, nell’analisi di Phillips nomi come Laurence (Larry) Fink (presidente e amministratore delegato di BlackRock), James (Jamie) Dimon (presidente e amministratore delegato di JPMorgan Chase) e John McFarlane (presidente di Barclays Bank), anche se non ricchi come quelli citati più sopra, esercitano molto più potere grazie alle loro posizioni e collegamenti in seno alla rete dell’élite globale di 199 individui.
Prevedibilmente allora, osserva Phillips, questi tre individui hanno stili di vita e orientamenti ideologici simili. Credono che il capitalismo sia un bene per il mondo e anche se disuguaglianza e povertà sono problemi importanti, credono che la crescita del capitale alle fine risolverà tali problemi. Sono relativamente inespressivi riguardo ai temi ambientali, ma riconoscono che le opportunità di investimento possono mutare in risposta alle “modificazioni” del clima. Da milionari sono proprietari di molte case. Hanno frequentato università d’élite e hanno salito rapidamente i gradini della finanza internazionale per arrivare al loro status attuale di giganti dell’élite del potere globale. “Le istituzioni che amministrano sono state dimostrate coinvolte in collusioni illegali con altri, ma le sanzioni amministrative legali da parte dei governi sono essenzialmente considerate come semplice parte dell’attività affaristica”.
Infine, come caratterizzerei questa descrizione, sono privi di un quadro legale o morale che guidi le loro azioni, che sia in relazione agli affari, agli altri esseri umani, alla guerra o all’ambiente e al clima. Sono evidentemente tipici dell’élite.
Ogni apparente interesse per le persone, come quello manifestato da Fink e Dimon in reazione alla violenza razzista a Charlottesville, USA, nell’agosto del 2017, è semplicemente inteso a promuovere “stabilità” o, più precisamente un clima stabile (cioè redditizio) per gli investimenti e i consumi.
L’assenza di interesse per le persone e per i problemi che potrebbero preoccupare molti di noi è evidente anche considerando l’ordine del giorno delle riunioni dell’élite. Si consideri la International Monetary Conference. Fondata nel 1956 è una riunione privata annuale delle poche centinaia di banchieri al vertice nel mondo. L’Associazione dei Banchieri Statunitensi (ABA) funge da segreteria della conferenza. Ma, come segnala Phillips, “nulla nell’ordine del giorno pare affrontare le conseguenze socioeconomiche degli investimenti per stabilire gli impatti sulle persone e sull’ambiente”. Una lettura casuale dell’agenda di qualsiasi riunione dell’élite rivela che questo commento di applica ugualmente a ogni forum dell’élite. Si veda, ad esempio, l’agenda della recente riunione del WEF a Davos. Qualsiasi discorso di “preoccupazione” è retorica fuorviante.
Dunque, nelle parole di Phillips, i 199 amministratori dei Giganti globale sono “un insieme molto selezionato di persone. Si conoscono tutti personalmente o sanno gli uni degli altri. Almeno 69 hanno partecipato al World Economic Forum dove spesso sono membri di comitati o tengono presentazioni pubbliche. Hanno prevalentemente frequentato le stesse università e interagiscono in ambienti dell’alta società nelle maggiori città del mondo. Sono tutti ricchi e detengono un numero considerevole di azioni in uno o più dei Giganti finanziari. Sono tutti profondamente dediti all’importanza di mantenere la crescita del capitale nel mondo. Alcuni sono sensibili a temi ambientali e di giustizia sociale, ma sembrano incapaci di collegare tali temi alla concentrazione globale del capitale”.
Naturalmente l’élite globale non può gestire da sola il sistema mondiale. L’élite ha bisogno di rappresentanti per svolgere molte delle funzioni necessarie per controllare le società nazionali e le persone al loro interno. “Gli interessi dell’Élite del Potere Globale e della TCC sono pienamente riconosciuti dalle maggiori istituzioni della società. Governi, servizi di spionaggio, decisori della politica, università, forze di polizia, esercito e media industriali operano tutti a sostegno dei loro interessi vitali”.
In altri termini, per elaborare il punto di Phillips e ampliarlo un po’, attraverso il loro potere economico i Giganti controllano tutti gli strumenti mediante i quali sono attuate le loro politiche. Che si tratti di governi, forze militari nazionali, “militari a contratto” o mercenari (con almeno 200 miliardi di dollari spesi globalmente per la sicurezza privata, l’industria impiega attualmente circa quindici milioni di persone in tutto il mondo) usati sia in guerre “all’estero” ma anche suscettibili di essere impiegati in futuro nel controllo interno, o di agenzie chiave di “intelligence”, di sistemi legali e di forze di polizia, di grandi organizzazioni non governative o delle accademie, delle industrie dell’istruzione, delle “pubbliche relazioni”, dei media industriali, delle industrie mediche, psichiatriche e farmaceutiche, tutti gli strumenti sono pienamente rispondenti al controllo dell’élite e sono progettati per disinformare, ingannare, togliere potere, intimidire, reprimere, imprigionare (in un carcere o in un manicomio), sfruttare e/o uccidere (a seconda dell’elettorato) il resto di noi, come è facilmente evidente.
Difesa dell’élite del potere
Phillips osserva che l’élite del potere si preoccupa continuamente della ribellione “delle turbolente masse sfruttate” contro la sua struttura di ricchezza concentrata. E’ per questo che l’impero militare statunitense svolge da lungo tempo il ruolo di difensore del capitalismo globale. In conseguenza gli Stati Uniti hanno più di 800 basi militari (alcuni studiosi suggeriscono 1.000) in 70 paesi e territori. In confronto il Regno Unito, la Francia e la Russia hanno circa 30 basi all’estero. Inoltre le forze militari statunitensi sono oggi schierate nel 70 per cento delle nazioni del mondo con il Comando delle Operazioni Speciali USA (SOCOM) che ha soldati in 147 paesi, un aumento dell’80 per cento dal 2010. Queste forze conducono regolarmente attacchi antiterrorismo, tra cui assassinii con i droni e incursioni di uccisione/cattura.
L’impero militare statunitense ha alle spalle centinaia di anni di sfruttamento coloniale e continua ad appoggiare governi repressivi, sfruttatori che collaborano con il programma imperiale del capitale globale. Governi che accettano investimenti esterni di capitale, di cui beneficia un piccolo segmento dell’élite del paese, lo fanno sapendo che il capitale pretende un ritorno dagli investimenti che comporta esaurire risorse e persone per guadagno economico. L’intero sistema prosegue la concentrazione di ricchezza per le élite e un’accresciuta disuguaglianza abietta per le masse…”
Comprendere la guerra permanente come una valvola economica di sfogo per il surplus di capitale è una parte vitale della comprensione del capitalismo oggi nel mondo. La guerra offre opportunità di investimenti per i Giganti e le élite della TCC e un ritorno garantito sul capitale. La guerra svolge anche una funzione repressiva mantenendo le masse sofferenti dell’umanità impaurite e obbedienti”.
Come elabora Phillips: è per questo che la difesa del capitale globale è il principale motivo per il quale oggi i paesi della NATO rappresentano l’85 per cento della spesa militare mondiale; gli Stati Uniti spendono per l’esercito più del resto del mondo messo insieme.
In essenza “l’Élite del Potere Globale usa la NATO e l’impero militare statunitense per la sua sicurezza mondiale. Questo fa parte di una strategia in espansione di dominio militare statunitense nel mondo, mediante il quale l’impero militare USA/NATO, consigliato dall’Atlantic Council dell’élite del potere, opera al servizio della Classe Industriale Transnazionale per la protezione del capitale internazionale ovunque nel mondo.”
Questo comporta “ulteriore impoverimento della metà in basso della popolazione mondiale e un’incessante spirale al ribasso dei salari per l’80 per cento del mondo. Il mondo sta affrontando una crisi economica e la soluzione neoliberista consiste nello spendere meno per i bisogni umani e più per la sicurezza. E’ un mondo di istituzioni finanziarie finite fuori controllo in cui la risposta al collasso economico consiste nello stampare più moneta attraverso alleggerimenti quantitativi, inondazione della popolazione con trilioni di nuovi dollari che producono inflazione. E’ un mondo di guerra permanente, nella quale spendere per la distruzione richiede altra spesa per ricostruire, un ciclo che avvantaggia i Giganti e le reti globali del potere economico. E’ un mondo di uccisioni mediante droni, assassinii extragiudiziali, morte e distruzione in patria e all’estero.”
Dove sta andando tutto questo?
Dunque quali sono le implicazioni di questo stato di cose? Phillips risponde in modo inequivocabile: “Questa concentrazione di ricchezza protetta conduce a una crisi di umanità, nella quale la povertà, la guerra, la fame, l’alienazione di massa, la propaganda mediatica e la devastazione dell’ambiente stanno diventando una minaccia a livello di specie. Ci rendiamo conto che il genere umano è a rischio di possibile estinzione”.
Egli prosegue affermando che l’Élite del Potere Globale è probabilmente la sola entità “in grado di correggere questa situazione senza grandi disordini, guerra e caos” ed elabora un fine importante del suo libro: suscitare la consapevolezza dell’importanza del cambiamento sistemico e della ridistribuzione della ricchezza sia tra i lettori generali del libro, sia anche presso l’élite “nella speranza che possa avviare il processo di salvare l’umanità”. Il poscritto del libro è “Una lettera all’Élite del Potere Globale”, cofirmata da Phillips e da 90 altri, che implora l’élite di agire in conformità.
Non è più a lungo accettabile per voi credere di poter gestire il capitalismo in modo che si apra la via crescendo dalle grossolane disuguaglianze che tutti oggi viviamo. L’ambiente non può accettare altro inquinamento e sprechi e a un certo punto diventano inevitabili dovunque agitazioni civili. L’umanità ha bisogno che voi vi facciate avanti ad assicurare che ciò che è lasciato calare dall’alto diventi un fiume di risorse che raggiunga ogni bambino, ogni famiglia e tutti gli esseri umani. Vi sollecitiamo a usare il vostro potere per operare i cambiamenti necessari per la sopravvivenza dell’umanità”.
Ma egli sottolinea anche che i movimenti sociali nonviolenti, usando la Dichiarazione dei Diritti Umani come codice morale, possono accelerare il processo di ridistribuzione della ricchezza esercitando pressioni perché l’élite agisca.
Conclusione
Peter Phillips ha scritto un libro importante. Per quelli di noi interessati a comprendere il controllo del mondo da parte dell’élite questo libro è un’aggiunta vitale alla propria libreria. E come ogni buon libro, come vedrete dai miei commenti più sopra e di seguito, ha sollevato per me ancora altre domande, pur contemporaneamente rispondendo a molte.
Nel leggere lo stimolante e schietto resoconto di Phillips riguardo al comportamento dell’élite mi sono ricordato, ancora una volta, che l’élite per potere globale è straordinariamente violenta e del tutto folle: felice di uccidere persone in gran numero (attraverso la fame o la violenza militare) e di distruggere la biosfera per profitto, con zero senso del futuro oggi limitato dell’umanità. Si veda The Global Elite is Insane Revisited’ e ‘Human Extinction by 2026? A Last Ditch Strategy to Fight for Human Survival’ con spiegazioni più dettagliate della violenza e della follia qui: Why Violence?’ and ‘Fearless Psychology and Fearful Psychology: Principles and Practice’.
Per questo motivo io non condivido la sua fiducia in appelli morali all’élite, come articolati nella lettera del suo poscritto. Fare un appello va bene, ma la storia non offre alcuna evidenza che suggerisca che ci sarà una qualche reazione significativa. La morte e la distruzione inflitte dalle élite sono notevolmente redditizie, vecchie di secoli e continue. Ci vorranno campagne nonviolente potenti, focalizzate strategicamente (o il collasso della società) per forzare i cambiamenti necessari del comportamento delle élite. Dunque io sottoscrivo pienamente il suo appello ai movimenti sociali nonviolenti perché forzino l’azione dell’élite nel caso non fossimo in grado di operare i necessari cambiamenti senza il suo coinvolgimento. Se vedanoA Nonviolent Strategy to End Violence and Avert Human Extinctionand Nonviolent Campaign Strategy.
Incoraggerei anche l’azione indipendente, in uno o più di numerosi modi, da parte di quegli individui e comunità sufficientemente forti per condurla. Ciò include far crescere individui forti facendo My promise to Children”, partecipando a “The Flame Tree Project to Save Life on Earthe firmando l’impegno in rete di “The People’s Charter to Create a Nonviolent World”.
Fondamentalmente “Giants: The Global Power Eliteè una chiamata all’azione. Il professor Peter Phillips è profondamente consapevole della nostra emergenza – politicamente, socialmente, economicamente, ambientalmente e climaticamente – e del ruolo critico svolto dall’élite del potere globale nel generare tale emergenza.
Se non riusciamo a convincere l’élite del potere globale a reagire sensatamente a tale emergenza, o non riusciamo in modo nonviolento a costringerla a farlo, il tempo dell’umanità sulla terra è davvero limitato.
Robert J. Burrowes è impegnato da una vita a comprendere la violenza umana e a porvi fine. Conduce estese ricerche dal 1966 in un tentativo di comprendere perché gli esseri umani siano violenti ed è un attivista nonviolento dal 1981. E’ autore diWhy Violence?”.Il suo indirizzo email èflametree@riseup.nete il suo sito web è qui.
Da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo
traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2018 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.

Democrazia, capitalismo e “rottura populista”

di Carlo Formenti da Micromega

 
La lunga recensione (quasi un saggio breve) a “La variante populista” (DeriveApprodi) apparsa su queste pagine e firmata da Alessandro Somma (che ringrazio vivamente per l’attenzione con cui ha letto e analizzato il libro) mi stimola a compiere alcune precisazioni in merito alle tesi da me sostenute, nonché a marcare convergenze e divergenze fra i nostri punti di vista. L’intervento di Somma si articola in varie sezioni, ma può essere sostanzialmente ricondotto a due parti: la prima, in cui ripercorre la pars destruens delle mie argomentazioni (che mi pare condivida in larga misura), la seconda, più breve, in cui analizza le mie proposte politiche e nella quale si concentrano i dissensi. Andrò quindi di fretta sulla prima parte per arrivare al nocciolo della discussione contenuto nella seconda.

Provo a riassumere così le cose su cui siamo sostanzialmente d’accordo: 1) Somma riprende e articola le mie critiche alle tesi di coloro che vedono nel cosiddetto “capitalismo della conoscenza” il presupposto di una transizione spontanea e indolore a una società postcapitalista – critiche che io muovo a partire soprattutto dai lavori di Antonio Negri e André Gorz (anche seguendo le argomentazioni di Dardot e Laval) e dai teorici della New Economy come Yochai Benkler, mentre lui allarga il campo a Paul Mason e al suo Postcapitalismo; 2) riprende inoltre il tema della non neutralità delle forze produttive (cruciale per superare le visioni “oggettiviste” della transizione al socialismo, presenti nello stesso Marx); 3) riprende infine la mia analisi (che arricchisce in relazione al caso Uber) sulle mistificazioni della sharing economy che, assieme alle nuove forme di “lavoro del consumatore” mediate dai social network, rappresenta un nuovo, formidabile dispositivo di potenziamento delle forme di sfruttamento e controllo del capitale sul lavoro.

Passiamo alle osservazioni critiche che mi vengono rivolte nella seconda parte. Le elenco qui di seguito per poi discuterle singolarmente: 1) in riferimento alla metafora delle “tessere del mosaico”, che io utilizzo per alludere al lavoro di ricostruzione di un fronte unitario dei soggetti sociali e politici che la “guerra di classe dall’alto” (per usare la definizione di Gallino) del capitale globale è riuscito a disarticolare, Somma mi rimprovera di averne una visione rigida e riduttiva, cui contrappone la maggiore flessibilità con cui le sinistre radicali tedesche guardano alla costruzione di un blocco controegemonico, di un attore anticapitalista eterogeneo; 2) in questo blocco Somma schiera a pieno titolo quei movimenti che, nel secondo capitolo del libro, io considero invece integrati nella governance neoliberista; 3) mi attribuisce poi una piena adesione alle tesi di Laclau sul populismo, con conseguente semplificazione/banalizzazione del conflitto sociale, ridotto alle coppie oppositive popolo/élite, alto/basso; 4) critica il mio discorso sulla sovranità popolare e nazionale come regressivo e, non ritenendo sufficiente la variante post-nazionale che ne suggerisco, ribadisce che, a suo parere, questi termini, in quanto patrimonio della narrazione di destra, sono inservibili a sinistra; 5) infine – ribadito che dal suo punto di vista non si danno diritti sociali se non si riconoscono i diritti civili (il riferimento è alla mia polemica contro l’inversione gerarchica a favore dei secondi ad opera delle sinistre sia moderate che radicali) – rifiuta la mia idea del divorzio fra liberalismo e democrazia, rivendicando la possibilità di coniugare superamento del capitalismo e liberal democrazia.

Per quanto riguarda il primo punto: non ho mai preteso di dare una definizione completa ed esaustiva dei soggetti arruolabili in un blocco anticapitalista, tanto è vero che, a un amico che nel corso di una presentazione mi ha detto che il libro finisce là dove dovrebbe iniziare, ho risposto che il mio proposito è sollevare i problemi nodali su cui considero urgente aprire la discussione, perché la loro soluzione non può arrivare dal contributo di un singolo ma non può che essere collettiva. Ciò detto, resto convinto che nessun blocco sociale può essere una mera sommatoria di soggetti ma va costruito gerarchicamente, a partire dall’identificazione di quelle classi, movimenti, comunità politiche e culturali, ecc. che più di altre sono portatrici di un potenziale antagonista. Ciò non significa che creda nell’esistenza di avanguardie definibili apriori come tali (quasi “naturalisticamente”) e a chi (non Somma, mi pare) mi rivolge tale accusa, replico che si tratta di identificare, di volta in volta, la “composizione politica” di classe – cioè quegli strati sociali che attivamente e concretamente lottano contro il neoliberismo – composizione che per definizione appare mutevole e contingente.

Quanto appena affermato ci porta direttamente al terzo punto (saltando il secondo, su cui tornerò più avanti), nella misura in cui chiama in causa il concetto gramsciano di egemonia. Curiosamente Somma nella sua recensione non cita mai Gramsci, mentre mi attribuisce, come scrivevo poco fa, una posizione appiattita sul pensiero di Laclau. Ora il merito di Laclau consiste, a mio avviso, nell’aver saputo descrivere empiricamente la dinamica della “rottura populista” che viene a determinarsi a partire dall’incapacità dei sistemi neo liberisti di dare risposta differenziale ai bisogni dei vari soggetti sociali, la cui rabbia e frustrazione tende appunto a convergere in un fronte populista e a innescare l’opposizione antagonista fra popolo ed élite, alto e basso (tipica la parola d’ordine di Occupy Wall Street: “We the 99%”). Ciò detto, io rivolgo una serie di critiche radicali alle sue tesi (ripudio dell’analisi di classe, esaltazione del ruolo del leader carismatico, difesa delle istituzioni rappresentative, illusioni neo socialdemocratiche, ecc.) e le reinterpreto appunto alla luce delle categorie gramsciane di blocco sociale, egemonia, farsi partito e farsi stato delle classi subordinate, guerra di posizione, ecc. Se il populismo – sia esso di sinistra o di destra, perché esistono anche le “rivoluzioni passive” – è la forma che la lotta di classe tende ad assumere nell’era dell’eclissi delle sinistre storiche e dell’impotenza di quelle radicali, la sua declinazione gramsciana dovrebbe essere la valorizzazione del suo potenziale di rottura antisistemica, la spinta alla creazione di istituzioni di democrazia diretta e partecipativa (vedi i processi costituenti delle rivoluzioni bolivariane, pur con tutti i loro limiti) e la lotta egemonica all’interno di tali processi per orientarli in senso anticapitalista.

Passiamo alla questione della sovranità popolare e nazionale. Somma afferma che: a) si tratta di una visione irrealistica e nostalgica e che b) chiama in causa parole irreversibilmente “contaminate” dalla narrativa di destra. Su a): oggi la lotta di classe si presenta anche e soprattutto come conflitto fra flussi globali (di merci, denaro, informazioni, membri delle élite) e luoghi (i territori colonizzati dai flussi dove vivono, lavorano e lottano le classi subalterne) – una diagnosi confermata dalle dichiarazioni del direttore del Wall Street Journal, il quale, in un’intervista al Corriere della Sera, ha dichiarato che il conflitto sociale sarà sempre meno fra progressisti e conservatori e sempre più fra globalisti e populisti – ; ma se questo è vero, irrealistica mi pare piuttosto l’idea di competere al livello globale, laddove il capitale controlla tutte le regole del gioco, mentre l’unica chance di rottura sistemica si dà a livello di territorio locale (regionale e/o nazionale). Né rimpiango lo stato nazione del trentennio glorioso (che poi tanto glorioso non era), ma penso a forme di aggregazione federativa, dal basso, di entità post nazionali (non fondate cioè su basi identitarie, ma su comunità di lotta, lavoro, ecc.). La sovranità non è necessariamente quella descritta dalla filosofia politica classica, può assumere anche le forme descritte da Hannah Arendt, o sperimentate nelle esperienze storiche del consiliarismo. Quanto a b): le narrazioni cambiano, e consegnare certe parole alla destra senza lottare per mutarne il significato mi pare un grave errore; egemonia è anche e soprattutto lotta per il controllo del linguaggio, del senso comune.  

Siamo al punto 5 e qui compare, dopo Gramsci, un secondo “convitato di pietra”, cioè Norberto Bobbio, il quale mi pare faccia implicitamente capolino dietro quel Benedetto Croce che Somma cita alla fine del suo articolo, a proposito della sua polemica con Einaudi e della tesi di un possibile divorzio fra democrazia liberale e capitalismo. Il vero dissidio è qui, ed è lo stesso che in altre occasioni mi ha visto discutere amabilmente con altri amici come Stefano Rodotà: sono infatti convinto che, mentre il divorzio fra democrazia e capitalismo è ormai fatto compiuto, liberalismo politico e liberismo siano strettamente interconnessi e che la lotta per la riconquista della democrazia passi inevitabilmente per il superamento del liberismo economico e del liberalismo politico. Del resto gli argomenti con cui questa tesi è già stata da altri sostenuta sono arcinoti. Per citarne solo un paio: il liberalismo politico comporta la delega della sovranità popolare attraverso il meccanismo della democrazia rappresentativa, ma le elezioni non assicurano la prevalenza della volontà generale se le risorse economiche e i mezzi d’informazione appartengono alla proprietà privata; il liberalismo politico riconosce a ognuno un diritto uguale, ma senza equità sociale tale riconoscimento resta una mera affermazione di principio.

A fronte di questi problemi i teorici della democrazia radicale riconoscono come tale solo la democrazia diretta e partecipativa, l’autogoverno, o, nel caso si diano forme di rappresentanza, chiedono che vengano vincolate al mandato breve e imperativo e alla possibilità di revocare l’eletto in qualsiasi momento. Ecco dove affonda le radici la differenza attorno alla questione della relazione gerarchica fra diritti civili e diritti sociali: per Somma, come detto, non si possono dare diritti sociali senza diritti civili, per me è il contrario (e qui, com’è ovvio, è in questione anche la relazione gerarchica fra diritti individuali e diritti collettivi). Ecco perché ho inserito nel secondo capitolo (quello sull’eutanasia delle sinistre) la critica di quei movimenti che hanno progressivamente abbandonato la lotta per i diritti sociali in favore di quella per i diritti civili, ed ecco perché Somma, al contrario, mi invita a riaccoglierli nel mio Pantheon di soggetti anticapitalisti.

Non credo si tratti di stabilire chi ha torto e chi ha ragione, perché siamo di fronte a due paradigmi differenti (forse anche a due modelli etici ed epistemologici differenti: realismo politico versus costituzionalismo, come una volta mi ha detto Rodotà). Le due posizioni sono necessariamente incompatibili? No, perché abbiamo un obiettivo comune, cioè uscire dal capitalismo, poi si tratta di vedere come, ma soprattutto si tratta di vedere cosa fare una volta che se ne sia usciti, ma questo, purtroppo è a tutt’oggi un problema remoto.     

Capitalismo frocio e proletariato uterino

I pasdaran dell’indignazione illuminata da equazioni sbilenche etico economiciste (cazzo ho capito l’utero in affitto è un’infamia… le povere donne che vendono ai ricchi froci malati di narcisismo riproduttivo…la mercificazione dei corpi…il classismo biologico…ecc ecc) si affannano a ostentare rancore e indignazione per le povere donne che affittano una parte del loro corpo, più per persuadere se stessi che difendere le povere donne. Certo che qualcuno ci guadagna, si guadagna su tutto da secoli. Certo che i ricchi comprano tutto, ma strano a dirsi il problema è un ricco (benestante va) frocio e comunista. Non sta bene, se io fossi frocio e ricco…già che faresti? E poi quelli del: abbiamo chiesto il parere del nascituro? Che identità avrà nascendo e sapendo di essere uno spermatozoo incubato da un oocita di passaggio con gli occhi a madorla? Povera mendicante sfruttata, riserva di organi di parvenu occidentali e pure ricchioni. Il donare non conta niente, ti posso donare un rene, ma… cazzo un utero seppure a tempo no, è troppo. La metamorfosi antropologica fa paura e si nega finchè si può. Gli stessi allarmismi c’erano anche sui figli dei divorziati. Come crescerà il figlio di un divorziato additato dai compagnucci figli di una famiglia normale con un normale padre violento che picchia la moglie e va a puttane? Insomma dai, è sempre sfruttamento nudo e crudo, classismo puro. Ve lo concedo, c’è del classismo, ma ne riparliamo quando avremo abolito il lavoro salariato e il capitalismo. Alt! dove lo metti il feticismo delle merci? Non lo so dove lo metto, ma forse se ci limitassimo a scindere il valore di scambio dell’utero dal suo valore d’uso, magari ci potremmo mettere d’accordo. In fondo si tratta solo di accettare il fatto compiuto. La società del futuro vedrà figli di lesbiche, trans, omosessuali e di madri in affitto, sedere accanto a quello della sentinella in piedi ( gli venissero le emorrodi e questi). Rassegnatevi.
E’ dura lo so, accettare il cambiamento fa paura, ma è meglio di uno psicologismo d’accatto o di un’idea stato di natura che considera naturale l’esistenza  di personaggi intonacati e non che non posso nominare perché di denunce ne ho abbastanza, e innaturali i figli amati mai più di altri, di una coppia gay.

La forza dell’Impero

intervista a Leo Panitch di Nicola Melloni da Micromega

 
Leo Panitch è professore all’Università di York, a Toronto, editore del Socialist Register e, recentemente, autore, con Sam Gindin, di “The Making of Global Capitalism”, un libro di fondamentale importanza per capire le origini e le evoluzioni del capitalismo moderno e l’egemonia americana.

Iniziamo parlando delle tendenze del capitalismo globale alla luce della crisi finanziaria del 2007. Il capitalismo del XX secolo ha avuto diverse trasformazioni, scaturite da crisi sistemiche ma mai irreversibili. Nel vostro libro, tu e Sam Gindin sostenete che lo Stato moderno è comunque e sempre uno Stato capitalista le cui istituzioni sono costruite ed implementate per favorire gli interessi e la riproduzione del capitale: lo Stato Sociale è stato lo strumento per mercificare il lavoro, la finanziarizzazione è stata la risposta alla crisi degli Anni 70 per agevolare le occasioni di profitto e di consumo. Questa nuova crisi cosa modifica nel Capitalismo del XXI secolo?

La prima e più importante considerazione da fare è che questa crisi ha soprattutto mostrato la forza strutturale, la capacità di resistenza e quella di contenimento della crisi dello Stato capitalista. Non vi sono dubbi che lo sviluppo capitalista mostra moltissime contraddizioni, fallimenti, irrazionalità, ma questa fase di globalizzazione iniziata non negli anni 80, ma nel 1944 sotto l’egida di quello che chiamiamo Impero Americano non si è fermata.
Certo, non tutto funziona perfettamente. Geopoliticamente sono in corso mutamenti con la formazione di blocchi regionali antagonisti all’America, ma per ora senza nessuna vera possibilità di contrastarne l’egemonia.
Il contenimento della crisi ha mostrato grande efficienza da parte delle istituzioni americane, ma molto meno in Europa – dove è soprattutto la Germania ad avere grandi responsabilità. L’austerity ha danneggiato la ripresa economica ed acuito la crisi, eppure solo in un paese, la Grecia, un governo socialista ha preso il potere e pure quel caso è stato normalizzato nel giro di pochi mesi, confermando appunto la forza delle istituzioni del capitale.

Queste contraddizioni, però, rischiano di acuirsi, mi sembra. La politica economica europea è fallimentare e foriera di una nuova ondata nazionalista, mentre un po’ ovunque si ricomincia a parlare di protezionismo economico e politiche del tipo beggar thy neighbour. Tu hai scritto che la principale differenza tra la congiuntura attuale ed il 1929 è proprio il fatto che la globalizzazione del capitale non si sia fermata e che la crisi viene risolta in maniera pacifica. Ma non c’è un rischio che queste contraddizioni ancora in nuce possano esplodere?

Il più grave pericolo arriva dalla destra europea, aiutata enormemente dalle politiche di austerity della UE. Le colpe sono chiaramente della Germania che ha dimostrato di essere molto meno capace degli Stati Uniti di rispondere alle crisi economiche, e, soprattutto, recalcitrante ad assumersi le sue responsabilità di leader all’interno dell’Europa. Questa situazione non è per nulla ben vista in America, dove si teme una divisione europea che danneggerebbe il commercio transatlantico e gli interessi del capitale globale – non a caso gli Stati Uniti hanno fatto pressioni, inascoltate, per condizioni più morbide sul caso greco. La destra europea comunque si è fatta più forte. Non è chiaro se Marine Le Pen vincerà le elezioni in Francia ma la cosa non si può certamente escludere. La differenza fondamentale con gli anni 30 è, però, che le borghesie nazionali europee, che pure esistono, non sono pronte, né capaci, di puntare sull’autarchia e sulla rottura della globalizzazione economica. Il capitalismo americano le ha rese transnazionali nelle loro relazioni economiche.
Il problema non è però solo economico ma anche e soprattutto culturale, la libertà di movimento e Schengen sono messe sotto pressione, e questo potrebbe portare a sviluppi imprevisti per la sopravvivenza della UE.
Anche a sinistra, ovviamente, qualcosa si muove: non solo Syriza e Podemos ma anche l’incredibile vittoria di Corbyn e la rinascita del Labour su basi di sinistra, una novità storica all’interno di un partito di quel genere, dove la sinistra di Tony Benn è sempre stata minoranza. Qualche vero cambiamento sarà però possibile solo nel lungo periodo, nel breve periodo non ci sono le forze sufficienti per modificare le relazioni di forza che sono chiaramente sfavorevoli. Almeno finché non vedremo cambiamenti politici in senso progressista in Francia, Germania e nei paesi scandinavi.

Andiamo indietro un attimo ai cambiamenti del capitalismo globale, questa volta dal lato politico. Il capitalismo ha dimostrato di funzionare benissimo con la liberal-democrazia, che pure si è evoluta con i cambiamenti della struttura economica – dalla re-distribuzione e compromesso sociale del Welfare State, fino all’accesso al mercato del credito e all’illusione monetaria del finanz-capitalismo, che per inciso ha portato alla crisi dei subprime proprio per favorire il consumo dei ceti più disagiati. La crisi attuale ha ripercussioni importanti su questo modello sociale, perché blocca l’economia del debito (tanto pubblico che privato) e non riapre certo canali di redistribuzione del profitto. Lo scontento è cresciuto e così la repressione poliziesca. Non pensi che la democrazia occidentale rischi di entrare in crisi?

Iniziamo dicendo che sarebbe meglio non romanticizzare e sopravvalutare gli spazi democratici che c’erano in passato. I socialisti ed il mondo del lavoro, è vero, erano forti e si erano conquistati spazi e diritti, ma comunque nel contesto di un capitale molto forte – che non permetteva di andare oltre un certo limite. Non bisogna dimenticare quanto fosse forte e violenta la repressione negli anni 60 e 70, non possiamo minimizzare il ruolo avuto dalle forze di sicurezza in molte pagine nere della democrazia occidentale, soprattutto nel vostro Paese, in Italia. Si trattava di una violenza che era in qualche modo una risposta alla forza della sinistra – e non mi riferisco certo al Terrorismo che in Italia conoscete bene – quanto alla forza reale tanto dei movimenti quanto della sinistra istituzionale impegnata in un confronto aspro con il Capitale. Per meglio capire la forza politica della repressione e gli spazi limitati della democrazia, basti pensare che una delle più importanti svolte politiche del PCI, quella Berlingueriana del Compromesso Storico, fu dettata dalla paura della repressione dopo il colpo di Stato in Cile. E che forse la deriva a destra del PD attuale può trovare le radici proprio in quella svolta. Quegli anni, è vero, erano basati anche su un compromesso tra Capitale e Lavoro, ma era un compromesso fragile e c’erano forze all’interno della sinistra che se ne rendevano conto e puntavano al superamento della socialdemocrazia (si riferisce a Tony Benn nel Labour, al Piano Meidner in Svezia e pure a Pietro Ingrao nel PCI, nda).
La repressione è in realtà calata solo quando quei movimenti sono stati sconfitti e i partiti di sinistra hanno smesso di lottare per cambiare il sistema.
Ora vediamo un ritorno della repressione, di sicuro il peggiorare delle condizioni materiali, la mancanza di accesso al credito induriscono lo scontro sociale. Allo stesso tempo la nascita di movimenti come Occupy o gli Indignados aumenta la repressione delle classi dominanti, appunto come in passato.
C’è di più. Se la destra europea dovesse continuare la sua crescita, a sinistra si riproporrebbe l’opzione dei Fronti Unitari contro la destra – che le classi dominanti accetterebbero solo in cambio di una rinuncia ad ogni pretesa di cambiamento, riducendo di conseguenza gli spazi politici e democratici. E’ uno scenario fosco perché sarebbe un dilemma che porterebbe comunque ad una sconfitta – lotta contro la destra per difendere la democrazia, al costo di una netta riduzione degli spazi di agibilità politica – ed ad una contraddizione insanabile nella dialettica democratica.

Che spazi ci sono, allora, per la Sinistra. Anche Syriza, a prescindere dalla resa finale, non sembrava aver un piano davvero di cambiamento radicale del sistema, ricordo un famoso articolo di Varoufakis sul Guardian dove si spiegava che il compito storico della sinistra era, ad oggi, di salvare il capitalismo europeo dai capitalisti.

Il problema in Grecia è il bilanciamento delle forze a livello europeo – e globale. Tanto Varoufakis che Tsipras avevano detto fin dall’inizio che erano disposti a lottare solo all’interno dello spazio europeo, e questo spazio alla prova dei fatti è risultato inesistente. Tsipras ha cercato una sponda nel Sud-Europa, chiaramente non da Renzi, ma piuttosto sperando in una vittoria di Podemos in Spagna. In ogni caso, anche questo non sarebbe bastato. Varoufakis stesso non aveva nessun vero piano B per uscire dall’Euro. Le possibilità di cambiare a livello europeo esistono solo qualora le cose cambino in Francia e Germania.
Su una cosa poi bisogna essere molto chiari. Gran parte della sinistra europea chiede una Unione politica più forte per fronteggiare moneta e mercato unico. Si tratta di uno sbaglio clamoroso: così si accentra solo il potere, lo si porta lontano dai luoghi sociali, si restringono le possibilità di azione della sinistra.
Quello, invece, da cui la Sinistra deve ripartire sono pratiche sociali diverse, dalla produzione al consumo che siano in contrasto con i paradigmi non solo economici ma anche culturali del capitalismo dominante. Certo serve mobilizzarsi, serve manifestare, serve l’azione politica, ma serve soprattutto la ricostruzione di una coscienza sociale, di classe, alternativa.

Parliamo del Canada. Un paese per molti misterioso, un mix di liberalismo progressista – diritti dei gay, aperto all’immigrazione, sanità pubblica – ma anche una sorta di protettorato americano. Spesso, fuori dai confini candesi, non è molto chiara la prepotente svolta a destra che si è compiuta negli ultimi dieci anni sotto il governo di Harper. Un paese che ha fatto molto meglio di altri durante la crisi finanziaria ma che è ora in recessione, soprattutto a causa del crollo del prezzo delle materie prime, di cui è grande esportatore. Cosa ci puoi dire?

Per molti miei amici americani, progressisti e socialisti, il Canada è un po’ la Svezia d’America. In realtà, è mancata la percezione di quanto a destra siano stati i mandati di Harper. La guida politica è in mano a ideologi neo-liberali che hanno costruito una base di consenso attraverso una serie infinita di tax breaks per le più svariate categorie sociali a cui si è aggiunta una alleanza con la destra cristiana fondamentalista. L’aspetto che però io considero più allarmante e deteriore di questo governo è l’affermazione di una cultura militarista, totalmente estranea alla cultura del Canada. Questa non è una destra libertaria, come quella di Ron Paul in America, ma una destra retriva e conservatrice, reazionaria. Il Canada non ha mai avuto un tale DNA – non aveva partecipato alla guerra in Vietnam, e neanche all’invasione dell’Iraq – ed invece Harper ha spinto in questa direzione con forza. Basta assistere ad un qualsiasi evento pubblico o sportivo, dove al pubblico è richiesto di alzarsi per applaudire qualche persona in divisa. E’ un cambiamento culturale profondo molto preoccupante.
Naturalmente anche in passato c’era un notevole livello di ipocrisia da parte dei liberali al governo, ma quantomeno non si insisteva in modo così plateale su una cultura militarista come col governo attuale. Jean Chretien (allora Primo Ministro, ndr) non mandò le truppe in Iraq – naturalmente aumentò il contingente canadese in Afghanistan, ma almeno si fece passare il messaggio, non da poco, che non si possono fare guerre senza mandato ONU.
Lo stesso tipo di atteggiamento smodato e vergognoso lo si rileva su un tema importante quale quello dei cambiamenti climatici: quando erano al governo i liberali predicavano bene ma razzolavano male, ma per quanto condannabile questo atteggiamento rimane ben diverso da quello dei conservatori che negano il global warming e che semplicemente se ne infischiano delle conseguenze delle loro azioni. E’ un cambiamento molto significativo, e molto sinistro.
La cosa positiva è che sembra che ora finalmente ci sia una reazione da parte della maggioranza dei canadesi. I conservatori alle ultime elezioni hanno ottenuto il 39%, ma ora i sondaggi li danno ai 29%. Un quarto di meno. E anche se riusciranno a raggiungere il 34%, il significato sarà comunque molto chiaro: la maggioranza dei canadesi rigetta questa svolta a destra.
Le motivazioni economiche ci sono, ma non sono decisive: i canadesi hanno sempre saputo che la recessione ha colpito di meno le nostre banche solo grazie all’intervento pubblico e che la recessione è stata contenuta – ma comunque sanguinosa – grazie al prezzo del petrolio, allora alto. Anche ora sanno che la recessione è figlia di una congiuntura economica estremamente sfavorevole – e certo di un modello economico sbagliato – ma l’attesa sconfitta dei conservatori, io credo, parte soprattutto da un rigetto del modello culturale della destra. E penso che questo sia uno sviluppo estremamente positivo, anche a prescindere dalla pochezza delle alternative, i liberali e l’NDP.

Parliamo allora di queste alternative. L’NDP era un partito socialista, elettoralmente marginale che alle ultime elezioni per la prima volta è arrivato secondo – divenendo l’opposizione ufficiale al governo conservatore – ed ora è dato in testa ai sondaggi per le elezioni di Ottobre. In 10 anni il Partito ha decuplicato i seggi, ma questo è avvenuto con un graduale spostamento verso il centro, puntando a rimpiazzare i liberali come principale partito progressista – a tal punto che ora i Liberali criticano da sinistra l’NDP per non voler rompere definitivamente il ciclo dell’austerity e rimanere fedele al feticismo del pareggio di bilancio. Cosa ci puoi dire sulla sinistra canadese?

L’NDP è un partito con una lunga storia di sinistra, socialista, per quanto da sempre anti-comunista. Ha sempre avuto un forte radicamento nella provincia canadese ed è stato all’avanguardia nello stabilire un sistema sanitare pubblico e non mercificato (il Canada ha una sanità pubblica molto simile a quella italiana, ndr). Naturalmente lungo la strada ha perso le sue ambizioni progressiste, come è successo d’altronde ai partiti socialisti europei. Ha sostituito il cambiamento sociale con la difesa della sanità – ed in fondo va bene così. Non possiamo farci illusioni: ogni volta che è andato al governo a livello locale, l’NDP si è sempre compromesso con i poteri forti, accettando la logica dell’austerity, dei tagli. Per molti dirigenti l’orizzonte è divenuto quello della Terza Via blairiana, abbracciando la mercificazione dei rapporti sociali invece di combatterla. L’obiettivo è chiaramente sostituire i Liberali (da sempre il partito del potere, in Canada, ndr). Trovo terribile che un partito che si dichiara di sinistra si riferisca ai capitalisti come “creatori di posti di lavoro”, esaltandone il coraggio e cancellando completamente, anche nell’immaginario collettivo, la dialettica sociale e le contrapposizioni tra capitale e lavoro.
Detto questo, l’NDP offre un piano per una scuola materna universale, difende la sanità pubblica, e soprattutto si oppone alla mercificazione del settore farmaceutico. Sono chiaramente cose positive. Come è positivo che i Liberali li pungolino da sinistra con proposte di politica economica keynesiane.
L’aspetto più importante non è tanto il cambiamento che un nuovo governo potrà introdurre, quanto, appunto, l’opposizione a questa destra. NDP e Liberali hanno diverse somiglianze e dovranno probabilmente governare insieme (forse con un governo di minoranza dei primi) ma non riescono a raggiungere una intesa minima sulla strategia elettorale, nella forma quantomeno di una desistenza nei collegi dove una divisione tra Liberali e NDP favorirebbe una vittoria conservatrice (nel Canada vige un sistema maggioritario secco, ndr).

Finiamo parlando degli Stati Uniti. L’aspetto che mi sembra più interessante analizzare è una qual certa radicalizzazione e polarizzazione della politica americana. Come noto, il sistema politico americano si è da sempre basato sul binomio Repubblicani-Democratici. Come scrivi nel tuo libro, nonostante ci siano delle differenze, entrambi i partiti sono espressione di un certo tipo di interessi, quelli del capitale e dell’ “impero” americano, più militaristi i Repubblicani, mentre i Democratici, con Clinton ad esempio, sono stati decisivi per la penetrazione del capitale finanziario in tutti gli angoli del globo. Quello cui ci troviamo però di fronte ora sono fenomeni se non nuovi, quantomeno non usuali. Negli ultimi anni abbiamo avuto Occupy e i Tea Party, ora abbiamo Bernie Sanders (l’unico senatore americano che si definisce socialista) e anche Donald Trump. Cosa ci puoi dire su questa possibile evoluzione della democrazia americana?

Pare anche a me che ci sia una certa polarizzazione. A destra c’è una radicalizzazione evidente con i Tea Party. Non è un fatto nuovo, in realtà questa destra “esaltata” è sempre esistita negli Stati Uniti, risorgendo a livello nazionale a intervalli regolari. Come scrive il mio amico Frances Fox Peven, esperto di movimenti sociali americani, è sempre esistito un 30% di americani “politicamente certificabili come squilibrati i a destra”; era vero nel 1930 con Father Coughlin (un predicatore radiofonico, ndr) e nel1840 con il Know Nothing Movement (un movimento anti-cattolico e anti-immigrazione, ndr) e ora vedi Trump o Fiorina, e sembrano tornati quei tempi lugubri. Non bisogna sottovalutarli, perché sono molto forti nel Congresso e hanno una vera influenza politica. Allo stesso tempo non sono mai davvero riusciti a bloccare lo Stato americano, il Tesoro, la FED. Perché? Perché sanno che i bond americani, che lo Stato americano, è il centro fondamentale ed imprescindibile del capitalismo globale – un santuario intoccabile. E’ comunque assai curioso che sia la destra estrema e non certo la sinistra a mettere in pericolo l’impero americano. Di sicuro questo dimostra la disfunzionalità della politica americana, e certo è preoccupate vedere questi movimenti prendere forma e forza così spesso negli Stati Uniti.
A sinistra, insieme al radicalismo quasi anarchico di Occupy, ci sono stati anche molti movimenti locali e grassroot auto-organizzati di lavoratori, di consumatori, di cittadini. Sono organizzazioni molto vive e molto attive che sorprenderebbero tanti osservatori europei. Non esiste però alcuna forma di strutturazione e di organizzazione politica, soprattutto a livello nazionale, e questi movimenti spariscono in fretta come sorgono, non lasciando purtroppo molte tracce. La candidatura di Sanders è una cosa ottima, su una piattaforma molto progressista su molti punti. Nuovamente però, si tratta, credo, di una candidatura, per quanto importante, un po’ fine a se stessa perché senza le ambizioni di costruire qualche cosa che duri nel tempo, oltre la campagna elettorale.
Non ho molte aspettative a dire il vero. Nel Partito Democratico è impossibile che Sanders possa davvero vincere la nomination, la sua candidatura è estranea alla natura di quel Partito e sono sicuro che se si avvicinasse ad una impresa del genere, verrebbe fuori all’ultimo momento un nuovo candidato per unificare il resto del Partito contro di lui. E’ vero che nel passato i Democratici hanno già avuto momenti di radicalizzazione, non bisogna dimenticare la campagna di Jesse Jackson e soprattutto il movimento che portò alla candidatura di McGovern nel 1972 e che fu poi distrutto dai Sindacati che preferirono vedere Nixon vincere piuttosto che la Sinistra conquistare il paese. Per concludere, c’è sicuramente una nuova ondata di movimentismo politico, ma non mi sembra in grado di mettere davvero in difficoltà la forza dell’ “Impero” Americano. 

Derive post-operaiste e cattura cognitiva

di Carlo Formenti da Kainos
Analizzando la svolta liberista delle socialdemocrazie europee, Luciano Gallino1 parla di “cattura cognitiva”, riferendosi alla doppia capitolazione delle organizzazioni tradizionali del movimento operaio di fronte alla controrivoluzione neoliberista: mancata opposizione agli attacchi del nemico di classe e sostanziale accettazione dei suoi paradigmi teorici (Gramsci avrebbe parlato di egemonia e di rivoluzione passiva). In un testo recente2, ho tentato di dimostrare come il processo di cattura cognitiva sia andato ben oltre i confini della socialdemocrazia, coinvolgendo anche la cultura dei movimenti e delle sinistre radicali. La breccia che ha consentito lo “sfondamento” del fronte ideologico anticapitalista è stata la rinuncia a descrivere il conflitto sociale in termini di lotta di classe. Nel testo citato nella nota precedente, ho messo al centro della mia analisi critica: 1) i “nuovi movimenti” che, dall’inizio degli anni Ottanta, hanno progressivamente spostato l’asse dei conflitti sociali verso le contraddizioni di genere, le tematiche ambientali e la lotta per l’estensione dei diritti individuali nel quadro della “democrazia reale” (con estrema approssimazione, si potrebbe parlare di uno slittamento dalla lotta per l‘uguaglianza socioeconomica alla lotta per il riconoscimento delle differenze culturali); 2) la lunga deriva del pensiero post-operaista, a sua volta in progressivo allontanamento dal concetto di classe. In questa sede mi occuperò esclusivamente di questo secondo bersaglio polemico, concentrando l’attenzione su un testo di Maurizio Lazzarato3 che ho potuto leggere solo successivamente alla pubblicazione del mio ultimo libro.

La mia critica di fondo – attorno alla quale ruotano tutte le altre – a Negri e allievi riguarda l’incapacità di prendere atto della natura storicamente determinata – e dunque contingente – del paradigma teorico fondato sulla figura dell’operaio massa. Dopo la destrutturazione della fabbrica fordista, che ha annientato la forza contrattuale della classe operaia occidentale, la tradizione inaugurata dai Quaderni Rossi si è avvitata nella nostalgica ricerca di nuovi soggetti in grado di incarnare il dogma secondo cui sarebbero sempre i comportamenti del lavoro a determinare il corso dello sviluppo capitalistico. Il glossario neo/post operaista si è così arricchito di una serie di categorie – operaio sociale, moltitudini, ecc. – nello sforzo di mantenere in vita il mito dell’autonomia delle classi subalterne, proprio mentre la «guerra di classe dall’alto»4 andava distruggendo l’uno dopo l’altro tutti gli spazi di autonomia reale. Gli ultimi anelli di questa catena di illusioni sono stati i lavoratori della conoscenza e i lavoratori autonomi di seconda generazione, descritti, rispettivamente, i primi come nuova avanguardia in grado di incarnare il punto più alto della contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione, i secondi come pionieri di un “esodo” consapevole e spontaneo dalla condizione di lavoratore dipendente. Illusioni frustrate dalla doppia crisi della “nuova economia” digitale (2001) e dei suprime (2007) che ha fatto strame delle velleità di leadership economica e culturale delle “classi creative” e ha evidenziato il carattere eteronomo dei processi di fuoruscita dal lavoro dipendente. La dura lezione della crisi avrebbe potuto e dovuto suggerire una riflessione autocritica: occorreva tornare a ragionare sulla relazione fra conflitto sociale e composizione di classe (allargando necessariamente il campo di analisi al sistema mondo), ma soprattutto sarebbe stato necessario rispolverare la “cassetta degli attrezzi” marxista (sia pure con le ovvie esigenze di aggiornamento e rinnovamento), accantonando le suggestioni post strutturaliste che hanno ispirato il pensiero tardo operaista. Non è successo e benché lo scossone, come conferma il lavoro di Lazzarato sul quale concentrerò l’attenzione da qui in avanti, qualche effetto lo abbia prodotto, la deriva prosegue, continuando a generare i suoi involontari effetti di cattura cognitiva da parte del campo ideologico avversario.

L’analisi della crisi da cui prende le mosse l’argomentazione di Lazzarato è ormai condivisa dalla maggioranza delle sinistre radicali, non solo da quelle di tendenza post operaista; tale analisi si basa su due assunti di fondo: 1) per il nuovo modello di accumulazione capitalistica la crisi non rappresenta più un’eccezione bensì la norma; 2) tutte le chiacchiere in merito alla necessità di mettere mano alle regole (o meglio, di reintrodurre regole che da tempo non esistono più) di funzionamento del sistema finanziario sono, appunto, chiacchiere, dal momento che oggi ciò significherebbe mettere in discussione il capitalismo stesso. Si potrebbe dire che il primo assunto si limita a riproporre una tesi che la marxiana critica dell’economia politica aveva avanzato già più di un secolo e mezzo fa: le crisi non sono incidenti dell’economia capitalistica ma ne rappresentano il normale meccanismo di funzionamento. La novità consiste nel fatto che, nella attuale fase del capitalismo finanziarizzato e globalizzato, la crisi tende ad assumere un carattere che va al di là dell’evento ciclico: sia perché la volatilità diventa, a mano a mano che i mercati finanziari si rendono autonomi dai mercati industriali, uno stato permanente, sia, o meglio soprattutto, perché la crisi è oggi il principale strumento di governo delle classi subordinate. Una volta accettato il primo assunto, il secondo ne discende come un corollario: quanto più l’accumulazione assume carattere finanziario, tanto più il sistema tende a divenire irriformabile, per cui i sogni di un nuovo New Deal sono destinati a rimanere tali.

Non meno condivisibile suona la critica che Lazzarato avanza, proprio a partire dalla diagnosi sulla natura della crisi, nei confronti del concetto foucaultiano di governamentalità. Il regime dell’austerità comporta infatti, tanto a livello di un potere politico che prescinde ormai dalle tradizionali forme di ricerca del consenso, sia a livello di un potere aziendale che, accantonati i miti “orizzontalisti” degli anni Novanta, regredisce verso forme di accentramento gerarchico, il ricorso a tecniche di imposizione, divieto, norma, direzione, comando, ordine e normalizzazione (l’elenco è di Lazzarato). Ancora più clamoroso appare il fallimento del progetto ideologico di sostituire – attraverso la categoria del “capitale culturale” – la figura del lavoratore salariato con quella dell’imprenditore di sé. Il fallimento non si riferisce tanto allo sforzo di cattura cognitiva delle classi subalterne da parte del potere politico ed economico, che non subisce alcuna interruzione (basti pensare alle ossessive celebrazioni mediatiche delle virtù taumaturgiche di auto-imprenditoria, startup, ecc.), quanto alla delegittimazione di tutti quei discorsi che, “da sinistra” contribuivano ad alimentare analoghe illusioni (capitalismo molecolare, lavoro autonomo di seconda generazione, ecc.), attribuendo una patente di “ambiguità” ai processi di privatizzazione/individualizzazione finalizzati a smembrare il corpo di classe. Purtroppo Lazzarato non sviluppa queste intuizioni in una critica coerente e radicale del paradigma teorico che sostanzia il concetto di governamentalità; al contrario, il suo discorso resta saldamente ancorato al pensiero post strutturalista di Foucault, Deleuze e Guattari, finendo in questo modo per dare a sua volta il proprio contributo alla cattura cognitiva. Per dimostrarlo, prenderò in considerazione alcuni nodi tematici del suo discorso: la condizione dell’indebitato come nuovo criterio dell’appartenenza di classe; il capitalismo come macchina astratta e la distinzione fra capitale e capitalismo; il rapporto fra stato e capitale; la tesi della natura ciclica dell’accumulazione originaria; la tesi secondo cui il capitale non avrebbe più limiti esterni; la riproposizione della categoria del rifiuto del lavoro.

Partiamo dal tema del debito. L’indebitamento come tecnica di assoggettamento delle classi subordinate non è una novità storica, anche se è indubbio che il peso del debito nei meccanismi dell’attuale crisi finanziaria – sia in quanto debito privato (basti pensare alla bolla del debito immobiliare scoppiata nel 2007 e a quella del debito studentesco destinata a scoppiare nei prossimi anni), che in quanto debito pubblico – sia decisivo; ma basta questo per affermare che la divisione di classe non è più fra capitalisti e salariati ma fra debitori e creditori? Personalmente penso che si tratti di un’assurdità, come ho già argomentato a proposito di analoghe tesi avanzate da Antonio Negri e Michael Hardt5. L’ipertrofia del debito privato nasce: 1) dall’onda lunga della compressione dei salari, a sua volta provocata dall’esigenza capitalistica di recuperare i margini di profitto erosi dalla crisi e dalle lotte operaie degli anni Settanta, 2) dalla necessità di sostenere i consumi falcidiati dai tagli salariali. Invece Lazzarato rovescia la relazione causa effetto: non si costruisce un’economia del debito per ovviare agli effetti dei bassi salari ma si abbassano i salari per costruire un’economia del debito. È grazie a questa inversione prospettica che si arriva ad affermare che la divisione di classe non è più fra capitalisti e salariati bensì fra debitori e creditori, mettendo in secondo piano la lotta di classe dall’alto che ha massacrato i salari (il rifiuto del lavoro salariato, inteso come tendenziale riduzione a zero del livello salariale, è oggi la parola d’ordine dei capitalisti piuttosto che quella dei proletari i quali, ridotti a working poor appaiono costretti a pietire un lavoro qualsiasi in cambio di salari di fame). Lazzarato arriva addirittura ad affermare che «gli operai non rappresentano più una classe politica e non la rappresenteranno mai più». Si tratta di una tesi quanto meno bizzarra, ove si consideri che la classe operaia non è mai stata tanto numerosa a livello mondiale, e che nei Paesi in via di sviluppo le sue lotte sono in continua crescita. Ma soprattutto si tratta di abdicazione di fronte alla sfida teorica di analizzare le mutazioni di una classe operaia occidentale che, mentre “dimagrisce” nelle forme classiche del proletariato industriale, prolifera sotto forma di una galassia di soggetti (disoccupati e sottoccupati, working poor, migranti, lavoratori del terziario arretrato, precari, ecc.) che sta a sua volta iniziando a organizzarsi e a lottare (basti pensare alle mobilitazioni del 18 e 19 ottobre 2013 a Roma e alle lotte dei lavoratori americani delle grandi catene commerciali).

Tuttavia Lazzarato, esponente di quella curiosa genia di “operaisti senza operai” in cui si sono trasformati lui e i suoi compagni di strada, non può riconoscere l’identità di classe di questi soggetti perché, intrappolato com’è nel paradigma foucaultiano, deve fondare i rapporti sociali sulla genealogia delle tecniche di controllo, piuttosto che sui rapporti di sfruttamento socioeconomico. Per questo descrive la relazione fra debitori e creditori come un dispositivo che induce i primi a interiorizzare le relazioni di potere a partire dal debito vissuto come colpa. Tesi che si accompagna a una riflessione critica nei confronti delle teorie psicoanalitiche e antropologiche che riconducono il debito al peccato originale, laddove esso sarebbe piuttosto «il prodotto delle società gerarchizzate, statalizzate, monoteiste», si tratterebbe, dunque, di una dimensione artificialmente indotta dalle tecniche di dominio politico. Sarebbe agevole dimostrare come l’unificazione sotto un’unica categoria di tutte le forme storiche di dominio sopra elencate non regga: nel corso del tempo il debito ha assunto forme diversissime, affondando le radici in dimensioni socioculturali che spesso esulavano dalla sfera politica, la quale, in ogni caso, se ne è servita con le modalità più diverse. Preferisco tuttavia richiamare l’attenzione su un altro aspetto, evidenziato da Federico Chicchi in una recensione6 – peraltro assai elogiativa – del lavoro di Lazzarato: oggi la psicanalisi – perlomeno quella di scuola lacaniana – non richiama affatto l’attenzione sulla colpa bensì su un altro, più potente, motore inconscio che alimenta l’indebitamento, vale a dire su quella “ingiunzione al godimento” senza limiti (jouissance) che rappresenta il punto di intersezione fra culture “desideranti” e consumismo7.
Passiamo ora alla distinzione fra capitale e capitalismo. «Il capitale non conosce né uomo, né donna, né sesso, né genere, né corpo, né razza: nei flussi di denaro de territorializzati non ci sono soggetti, oggetti, individuo, collettivi, professioni, mestieri, e nemmeno linguaggi, immagini, discorsi o classi». Partendo da questa asserzione di Lazzarato ci si potrebbe aspettare l’avvio di una riflessione convergente con le mie critiche8 nei confronti dei movimenti che attribuiscono alle differenze di genere, etnia, ecc. valenza antagonistica, non solo nei confronti del patriarcato e altre forme di dominio/oppressione, ma anche del capitalismo – illusioni ideologiche smentite dal fatto che il capitalismo si è rivelato capace di integrare questi conflitti nei suoi meccanismi di accumulazione, trasformando le domande di riconoscimento identitario in altrettanti bisogni da soddisfare attraverso il mercato. Ma Lazzarato non può imboccare tale direzione perché il concetto di capitale cui si riferisce non è quello di Marx, bensì quello elaborato dalla coppia Deleuze-Guattari. Partendo dal pensiero di questi due autori, egli distingue infatti fra capitale e capitalismo: il primo coincide con la deleuziana “macchina astratta”, il secondo, anzi i secondi essendo qui il plurale d’obbligo, sono i capitalismi reali, “incarnati” nelle differenti forme concrete che hanno assunto nei differenti contesti nazionali, culturali, istituzionali, ecc. E qui è d’obbligo aprire una parentesi epistemologica. A uno sguardo superficiale, potrebbe sembrare che il capitale descritto da Marx sia a sua volta una macchina astratta. Come spiegare altrimenti il fatto che molte delle sue “leggi” trascendono le contingenze empiriche e funzionano tuttora, pur in un contesto storico radicalmente mutato? Ma le cose non stanno affatto così: il capitale descritto da Marx è una “astrazione concreta”, non è, cioè, né un “idealtipo” weberiano, né una “struttura” (con buona pace di Althusser e discepoli), è piuttosto una descrizione semplificata della realtà storica del capitalismo industriale del XIX secolo, e se molti elementi di tale descrizione hanno ancora senso oggi, ciò non dipende dalla bontà del “modello”, bensì dalla capacità di durare nel tempo di alcuni elementi di quel concreto modo di produzione. Una continuità che si riferisce, in primo luogo, al conflitto di classe, cioè alla categoria fondante di un pensiero che non andava in cerca di “leggi” (preoccupazione che lasciava volentieri agli economisti borghesi) ma si poneva come critica dell’economia politica, come pensiero-azione del tutto interno alla lotta di classe. La marxiana “ontologia dell’essere sociale”, come ha ben compreso Gyorgy Lukacs9, non conosce distinzione fra struttura e sovrastruttura (un’opposizione inventata da epigoni maldestri) ma coglie i rapporti sociali nella loro concreta unità storica, senza disconoscere la reciproca autonomia delle loro articolazioni economiche, culturali e politiche.
Torniamo ora a Lazzarato/Deleuze. Nemmeno nel suo caso la macchina astratta è un “modello” nel senso weberiano del termine, visto che rispecchia piuttosto il concetto di struttura che sta alla base di tutto il recente pensiero filosofico transalpino. La struttura è qualcosa di assolutamente reale (in un senso non molto diverso da quello in cui sono reali le idee della filosofia classica) che tuttavia, per manifestare la propria realtà, deve “incarnarsi”. Ecco perché la macchina capitalistica astratta (che Lazzarato descrive anche come «un operatore semiotico incluso nell’infrastruttura») necessita di un processo di “personificazione”. Anche qui siamo dunque in presenza di una tensione verso l’immanenza, che tuttavia, a differenza dell’immanenza marxiana, non è originaria, costituiva dell’unità del reale, bensì derivata. Se partiamo dalla macchina non troviamo soggetti concreti10 ma solo relazioni astratte che, come abbiamo appena visto, devono essere “personificate”. Questo compito spetterebbe, secondo Lazzarato, allo Stato: è lo Stato a produrre letteralmente dal nulla tutti i soggetti che le incarnano. In sostanza, ci troviamo di fronte all’intersezione fra l’anti-statalismo ideologico della tradizione operaista (sempre più vicina alla tradizione anarchica) e il pensiero genealogico di Foucault, che ricostruisce la storia di tutte le forme moderne della soggettività come “produzioni” del potere. La promettente riflessione critica di Lazzarato sui limiti del concetto di governamentalità (vedi sopra) va così a farsi benedire, riassorbita da questa idea di una potenza produttiva in grado di “plasmare” i soggetti.

Da dove viene questa potenza? La domanda si fa impellente laddove Lazzarato ripropone una tesi che è patrimonio di tutta la tradizione marxista rivoluzionaria, quando afferma cioè che il capitalismo non è mai stato liberale, ma è sempre stato capitalismo di stato, nel senso che a garantire il funzionamento della smithiana “mano invisibile” non sono gli automatismi del mercato, bensì gli effetti di una “vittoria politica” che sta a monte del mercato . Giusto, ma la vittoria politica di chi su chi? O si ritorna alla buona immanenza marxiana, vale a dire al concetto dello stato come comitato di affari della borghesia (che oggi la simbiosi fra lobby finanziarie e caste politiche rende più attuale che mai), o ci si smarrisce nella cattiva immanenza foucaultiano-deleuziana, che neutralizza la soggettività antagonista ingabbiandola fra la macchina astratta del capitale e la potenza produttiva del potere. Una volta imboccata la seconda strada, quali sono i soggetti antagonisti? Gli indebitati? Difficile, visto che lo stesso Lazzarato ammette che faticano a esteriorizzare il conflitto proiettandolo su un nemico di classe. I lavoratori autonomi? Ancora più improbabile, visto che sono gli stessi cantori del Quinto Stato e dei lavoratori autonomi di seconda generazione i primi a riconoscere l’individualizzazione e la totale assenza di consapevolezza politica di questo strato sociale11? I “cognitari”? Purtroppo quella che negli anni Novanta veniva salutata come la nuova classe emergente, alla fine del primo decennio del XXI secolo non esiste letteralmente più: una esigua minoranza è stata cooptata nelle stanze dei bottoni delle multinazionali hi tech, gli altri sono sprofondati nell’inferno della sottoccupazione e dei working poor. E allora? La risposta di Lazzarato, come chiarisce Federico Chicchi nella già citata recensione, si fonda su tre “classiche” categorie neo/post operaiste: bioproduzione, moltitudini, rifiuto del lavoro.

Parlare oggi di rifiuto del lavoro salariato suona quanto meno bizzarro, dal momento che, come ricordavo in precedenza, a praticarlo assai più dei proletari sono i capitalisti, i quali nei paesi ricchi (ex ricchi, per la maggioranza della popolazione) offrono sempre meno lavoro retribuito (se e quando lo offrono, si tratta di lavoro sotto retribuito, precario saltuario e, non di rado, gratuito), mentre nei Paesi in via di sviluppo ne offrono tantissimo creando una enorme massa di nuovi operai che il lavoro non lo rifiutano ma, semmai, lottano per strappare salari più elevati, riduzioni di orario e ritmi produttivi accettabili. Ma non è a questo lavoro che si riferisce Lazzarato, il quale pensa piuttosto al concetto di bioproduzione elaborato da Antonio Negri e Michael Hardt, pensa cioè alla tesi secondo cui, grazie ai processi di digitalizzazione e finanziarizzazione, il capitalismo è oggi in grado di mettere al lavoro la vita stessa, di appropriarsi dell’intero universo delle relazioni sociali e di tutto il tempo vita, che divengono materia prima dei nuovi processi di valorizzazione. Chi scrive, pur non utilizzando il concetto di bioproduzione, ha sviluppato idee analoghe analizzando i meccanismi di funzionamento del capitalismo digitale, la sua capacità di appropriarsi dei saperi, delle conoscenze, delle relazioni sociali e delle emozioni dei prosumer interconnessi in Rete12. La differenza è che il sottoscritto non ha mai scambiato la parte per il tutto, le tendenze per la realtà assoluta: il capitalismo digitale non è il capitalismo tout court e non sopravvivrebbe un secondo senza l’enorme mole di attività produttive che si svolgono al difuori della sua sfera di azione e di dominio. I post operaisti, che al contrario eleggono la tendenza a realtà assoluta, sono costretti a difendere il dogma secondo cui oggi non esisterebbe più alcun fuori dal capitalismo, in palese e stridente contrasto con l’altra loro asserzione, assai più sensata e condivisibile, la quale afferma che l’accumulazione primitiva non è un processo che si è svolto una volta per tutte nella fase aurorale del capitalismo ma si ripete ciclicamente, dal momento che il capitalismo non può evolversi senza condurre periodiche campagne di appropriazione di risorse, energie, culture, conoscenze, soggettività, relazioni, ecc. che stanno appunto “fuori” (sia dal punto di vista territoriale, sia in quanto irriducibile “scarto” di relazioni e attività extra mercato presenti all’interno dei suoi stessi confini). Si tratta di una verità ben nota a Rosa Luxemburg, che l’aveva meglio compresa di Lenin e dello stesso Marx – verità che smaschera l’assurdità dell’idea un “capitalismo infinito”, senza limiti né confini. Del resto, se non esistesse un fuori il capitalismo sarebbe già morto o agonizzante, il che, secondo lo sfrenato ottimismo post-operaista, è appunto quanto sta avvenendo perché, se davvero non c’è più fuori, la contraddizione non è più quella fra capitale e lavoro bensì quella fra capitale e vita: «Oggi il rifiuto del lavoro, chiosa Chicchi commentando le tesi di Lazzarato, mette in discussione più profondamente il capitale di quanto non abbia fatto il rifiuto operaio, perché riguarda la società nel suo insieme e la soggettività in tutte le sue dimensioni, ciò che è in gioco è l’antropologia della modernità». Pensiero stupendo ma vuoto, dato che la «soggettività in tutte le sue dimensioni», privata di ogni connotato di classe, non è un soggetto antagonista ma una assurda astrazione. Un’astrazione che, ricondotta con i piedi per terra, non si incarna nelle nuove forme di lotta del proletariato globale cui accennavo in precedenza, bensì nel volto rabbioso delle classi medie impoverite: populismi cinquestellari, forconi e dintorni.


Note al testo

1Vedi, fra gli altri testi in cui Gallino usa tale definizione, Il colpo di stato di banche e governi, Einaudi, Torino 2013.

2C. Formenti, Utopie letali. Contro le ideologie postmoderne, Jaca Book, Milano 2013.

3M. Lazzarato, Il governo dell’uomo indebitato, Derive Approdi, Roma 2013.

4Cfr. L. Gallino, la lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari 1012.

5Cfr. M. Hardt, A. Negri, Questo non è un manifesto, Feltrinelli, Milano 2012.

6Cfr. l’articolo di F. Chicchi sul sito di “Alfabeta2”, consultabile all’indirizzo: http://www.alfabeta2.it/2013/12/15/il-governo-delluomo-indebitato

7A tale proposito cfr. M. Fiumanò, L’inconscio è il sociale. Desiderio e godimento nella contemporaneità, Bruno Mondadori, Milano 2010.

8Cfr. Utopie letali, op.cit.

9Cfr G. Lukacs, Ontologia dell’essere sociale, 4 voll., Pgreco Edizioni, Milano 2012.

10Notiamo, per inciso, che a sparire non sono solo gli operai ma anche i capitalisti: non ci sbarazza solo della fatica di analizzare la mutazione della composizione del proletariato mondiale, ma anche dello sforzo, di cui si sono fatti carico autori come Gallino (vedi note precedenti), di dare volto, nome e cognome ai membri della nuove élite che governano il mondo.

11Cfr. in proposito, G. Allegri, R. Ciccarelli, la furia dei cervelli, manifestolibri, Roma 2011 e S. Bologna, D. Banfi, Vita da freelance, Feltrinelli, Milano 2011.

12Cfr. C. Formenti, Felici e sfruttati, Egea, Milano 2011.


DOPPIOCIECO

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