Perché la Brexit è la scelta migliore per il Regno Unito: una prospettiva di sinistra

Alan Johnson spiega sul New York Times perché la sinistra dovrebbe rallegrarsi della Brexit. L’abbandono dell’Unione Europea non è un’occasione per isolarsi dal mondo, bensì la decisione necessaria per rifiutare l’ideologia liberista di cui l’UE è impregnata. Gli inglesi hanno rifiutato il modello UE, fondato sulla subordinazione delle istituzioni democratiche e del benessere delle persone al capriccio delle élite e allo sfruttamento delle classi subalterne da parte di chi ne ha i mezzi. L’unico ambiente adatto per ripristinare la socialdemocrazia sono gli stati-nazione, in cui dovrà essere ridefinito il popolo – demos – non tanto in contrapposizione alle altre nazionalità, ma in contrapposizione alle élite neoliberiste predatrici.

di Alan Johnson da Vocidallestero


Londra — Mercoledì  il Primo Ministro del Regno Unito, Theresa May, manderà una lettera al Presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, per informarlo che, dopo 44 anni di appartenenza, il Regno Unito lascerà l’Unione Europea. Tra circa due anni, al termine delle negoziazioni sui termini dell’uscita, l’Unione perderà in un solo colpo “un ottavo della sua popolazione, un sesto del PIL, metà dell’arsenale militare e un seggio al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite”, come ha fatto notare recentemente Susan Watkins, editrice della New Left Review.
La Watkins è una “Lexiteer”, ossia una sostenitrice di sinistra della “Brexit”, come me. Non siamo stati una forza significativa tra il 52% dei britannici che hanno votato a favore dell’uscita nel referendum del 23 giugno. Ma abbiamo avuto una certa influenza. I Lexiteers – un contrappeso a coloro che cavalcavano le paure anti-immigrazione come l’ex leader di destra dell’UKIP, Nigel Farage – sostengono la Brexit da un punto di vista democratico, internazionalista e di sinistra. Questa posizione è stata espressa perfettamente da Perry Anderson, l’ex editore di vecchia data della New Left Review:  “L’UE è ormai largamente vista per quello che è diventata: una struttura oligarchica, piena di corruzione, costruita sulla negazione di ogni tipo di sovranità popolare, sull’applicazione di un duro regime economico di privilegi per pochi e sacrifici per molti”.
Nonostante i Lexiteer non abbiano alcuna simpatia per il nichilismo nazionale degli “uomini di Davos”, ossia l’élite globalista, non siamo degli xenofobi. Abbiamo votato “Leave” perché crediamo che si essenziale preservare le due cose a cui crediamo di più: un sistema politico democratico e una società social-democratica. Temiamo che il progetto autoritario dell’Unione Europea di integrazione neoliberista sia il terreno di cultura dell’estrema destra. Sottraendo al processo democratico così tante decisioni politiche, inclusa l’imposizione di misure di austerità a lungo termine e di immigrazione di massa, l’unione ha rotto il patto tra i politici nazionali mainstream e i loro elettori. Questa situazione ha aperto le porte ai populisti di destra che ritengono di rappresentare “il popolo”, già arrabbiato a causa dell’austerità, contro gli immigrati.
È stato l’economista liberista Friedrich Hayek, l’architetto intellettuale del neoliberalismo, che nel 1939 invocava un “federalismo interstatale” in Europa per evitare che gli elettori potessero utilizzare la democrazia per interferire con le operazioni del libero mercato. In altre parole, come ha detto il Presidente della Commissione Europea (l’organo esecutivo dell’unione), Jean-Claude Juncker:  “Non ci possono essere decisioni democratiche che si oppongono ai Trattati Europei”.
Le istituzioni e i trattati dell’unione sono stati progettati di conseguenza. La Commissione Europea viene nominata, non eletta, ed è orgogliosamente libera da ogni responsabilità nei confronti degli elettori. “Non cambiamo le nostre decisioni a seconda di come vanno le elezioni ” così il vice presidente della Commissione Jyrki Katainen ha commentato la vittoria del partito anti-austerità Syriza, in Grecia, nel 2015.
Il Parlamento Europeo non è un vero Parlamento. Non ha vero potere legislativo; i suoi delegati non elaborano programmi politici  né portano avanti idee che propongono agli elettori. Le elezioni, tenute in collegi elettorali assurdamente estesi, con affluenze pietosamente basse, non cambiano nulla. Come ha detto un membro dello staff parlamentare a un Seminario per la Ricerca Europea alla London School of Economics: “Le uniche persone che ascoltano i Parlamentari Europei sono gli interpreti”.
Il Consiglio Europeo, un organo intergovernativo dove risiede il vero potere legislativo, specialmente se pensiamo alla tedesca Angela Merkel, è formato dai Capi di Stato dei vari Stati membri, che normalmente si incontrano quattro volte all’anno. Non sono eletti direttamente dagli abitanti delle Nazioni che governano. Se poi parliamo del principio di “sussidiarietà” dell’Unione, una presunta preferenza per il governo decentrato, esso viene ignorato in tutte le questioni pratiche.
I desideri dell’elettorato vengono regolarmente ignorati. Quando, nel 2005, la proposta di una Costituzione Europea è stata rigettata dagli elettori di Francia e Olanda (la maggior parte dei Governi non ha nemmeno permesso che avvenisse un voto popolare), questo fatto non ha cambiato niente per i sostenitori del Progetto Europeo. Con qualche cambiamento cosmetico, la Costituzione è stata comunque imposta; solo che è stata ridenominata Trattato di Lisbona (l’Irlanda, unico stato a consentire un referendum sul Trattato, votò contro. Di conseguenza fu chiesto agli irlandesi di rivotare, finché non avessero votato nella maniera giusta. Questa è la democrazia secondo l’Unione Europea).
A prescindere da cosa avrebbe potuto essere l’Unione, sin dagli anni ’80 essa ha integrato nel suo progetto l’economia neoliberista Nel farlo, si è trasformata in quello che il sociologo tedesco Wolfgang Streeck ha definitoun potente motore di liberalizzazione a servizio di una profonda ristrutturazione della vita sociale in senso prettamente economicista”. La combinazione di mercato unico, Trattato di Maastricht, moneta unica e Patto di Stabilità e Crescita ha imposto politiche di deregolamentazione, privatizzazione, regole contro il lavoro, regimi di tassazione regressivi, tagli al welfare e finanziarizzazione, e le hanno poste al di sopra della volontà dei popoli.
Occorre notare che gli strumenti economici Keynesiani, su cui poggia la socialdemocrazia, sono ora illegali in Europa, e perfino The Economist ne è nauseato, e ha scritto che queste regole “sembrano molto poco raccomandabili politicamente”. Per quanto riguarda l’accordo di scambio tra Unione Europea e USA, il TTIP, sembra di vedere le fantasie di Hayek prendere vita, dato che potenzialmente esso consente alle multinazionali di far causa ai governi democraticamente eletti se questi osano ascoltare quanto gli chiedono di fare gli elettori.
Un’altra istituzione chiave dell’unione neoliberale è la Banca Centrale Europea. I governatori della banca, persone non elette e che non devono rispondere a nessuno del proprio operato, sono vincolate per trattato a preferire la deflazione alla crescita, a proibire gli aiuti di stato alle industrie in difficoltà e a imporre le misure di austerità. Analogamente, la moneta unica agisce da cappio per intere regioni europee, che non possono né svalutare la propria moneta (come possono fare le nazioni sovrane) per recuperare competitività, né uscire dalla stagnazione attraverso la crescita, perché sono costrette tramite austerità a far crollare la propria economia.
Il costo umano è stato spaventoso. La tortura economica a cui l’Unione Europea ha sottoposto la Grecia ha causato il taglio del 25% degli stanziamenti per gli ospedali e del 50% della spesa in medicine, mentre il tasso di infezioni da HIV si è impennato, i casi di depressione grave sono raddoppiati, i tentativi di suicidio sono aumentati di un terzo e il numero dei bambini nati morti è aumentato del 21%. Quattro bambini greci su dieci sono stati spinti nella povertà e un sondaggio ha stimato che il 54% dei Greci oggi è sottoalimentato. Philippe Lagrain, un ex consulente di Manuel Barroso, allora Presidente della Commissione Europea, ha osservato che in quanto “creditore europeo per eccellenza” la Germania ha “calpestato valori come democrazia e sovranità nazionale e creato uno stato vassallo”.
In casi estremi, i governi nazionali vengono di fatto allontanati a forza e rimpiazzati con tecnocrati compiacenti, come George Papandreou in Grecia e Silvio Berlusconi in Italia hanno potuto constatare. In cima a tutto poi c’è la Corte Europea di Giustizia, che ha emesso sentenze che subordinano il diritto di sciopero dei lavoratori al diritto dei datori di lavoro di fare affari con le mani libere. Hayek sorriderebbe nel vedere cose come questa.
Anche se lo slogan del “Leave” è stato oggetto di scherno, la Brexit ha davvero significato la possibilità di “riprendere il controllo”. La Democrazia ha bisogno di un demos, un popolo, che sia l’origine, il tramite e l’obiettivo del suo Governo. Senza un demos, quello che rimane è una gestione elitaria, il diritto dei trattati e la redistribuzione verso l’alto della ricchezza. Ma come sarà costruito “il popolo”? La politica lo deciderà. Un populismo di sinistra non cercherà di definire il popolo come fa la destra, in contrapposizione con gli immigrati o altre categorie, ma in contrapposizione alle potenti élite neoliberiste, che non sono più in grado, usando le parole del Professor Streeck, “di formare una struttura sociale intorno al nucleo centrale della corsa al profitto capitalista.”
È stato un errore colossale da parte della gente di Davos di sinistra, pensare che gli Stati-nazione siano un anacronismo ostile alla democrazia. Anziché essere una minaccia alla democrazia, gli Stati-nazione sono l’unico fondamento stabile che abbiamo individuato per sostenere gli impegni, i sacrifici e la fiducia sociale di cui una democrazia e uno stato sociale hanno bisogno.
In questo momento, la sinistra europea sta giocando le sue carte seguendo il manuale di un’altra parte politica, in una competizione truccata. Una parte della Nazione, i vincitori, hanno “usato il mondo globalizzato come fosse il loro grande campo da gioco” come dice il professor Streeck. Uno, o forse l’unico, significato della Brexit è che, avendo perso la fiducia nelle sciocche promesse di una globalizzazione “che vada bene per tutti”, la rimanente parte della nazione – i perdenti, le vittime e gli esclusi – hanno deciso, per disperazione, di fare un gesto sovrano: cambiare le regole per ritornare alla politica degli Stati-nazione, per poter ritornare a una situazione equilibrata. “Cercano rifugio”, per usare le parole di Streeck, nella “protezione democratica, nelle leggi del popolo, nell’autonomia locale , nei beni collettivi e nelle tradizioni egualitarie”.
Anziché lasciare il campo alle destre “nativiste”, alcuni di noi della sinistra democratica si uniscono a loro.

Il fallimento della governance europea.

di Tonino D’Orazio
 
Indipendentemente da chi, e come, sceglie questa Europa con passione, la situazione di crisi sembra essere sempre più evidente. Un gruppetto di paesi, intanto a quattro, e ironia della sorte tre sono mediterranei in difficoltà e un altro, la Germania, in cerca di assodare la sua area di dominio economico e politico si “associano” contro gli altri. E cosa fanno i tre vituperati Pigs (ricordare …) mediterranei? Si affondano, con le pezze al sedere, in un progetto di fuga in avanti. Progetto che, in questa fase, richiederebbe maggior cautela, soprattutto perché il nord e l’est dell’Unione scalpitano. La Commissione a trazione tedesca gioca l’ultima carta e “tutela” i forti-deboli, ma soprattutto se stessa. In più: “l’euro solo per chi vuole”. (sic)
L’uscita della Gran Bretagna (Brexit), con toni sempre più severi per una separazione costosa e sgradevole, e la Grecia (Grexit) sempre più alle strette dall’essere “cacciata” se non continua, a morte, il principio dell’austerità, (se non fosse che rimane ancora qualcosa da spolpare l’avrebbero già fatto),sono la dimostrazione della degenerazione e di un vero fallimento di quel che si voleva fare dell’Europa e di quel che rimane dell’Unione.
La Comunità era una associazione volontaria di paesi i cui governi avevano cercato di assicurare la pace e la cooperazione. Gli attuali leader invece, Commissione in testa, sembrano voler vendicarsi di qualsiasi governo che vuole “lasciare” o che metta in discussione il malgoverno attuale, l’ideologia attuale, tra l’altro sancito da un buffo, e al dunque deludente, Trattato dell’Unione. E che si fa? Un gruppetto dei “forti”, tra cui l’Italia, batte chiodo? Stringe il laccio? Continua imperterrito sulla stessa strada? La Germania non vuole “sbattere” da sola? (Dicitura di molti economisti mondiali Nobel compresi).
E’ un Trattato buffo per la democrazia, e dà ragione a chi non lo voleva in questi termini, perché spostava i processi democratici, dal Parlamento Europeo eletto, a una Commissione non rappresentativa e “non eletta da nessuno”. Tra l’altro con una immaginazione veramente limitata, pensando che tutti, economicamente sotto strozzinaggio bancario, avrebbero potuto pagare il debito pubblico in questo modo irrealizzabile. Draghi e la BCE cominciano a rendersene conto con qualche finta “apertura”,(“si potrebbe anche uscire dall’euro”, pagando! Con cosa, magari rendendo la carta stampata euro ricevuta?), ma tant’è, chi ha avuto ha avuto e non possono tornare indietro. Non è l’idea di avere l’euro in comune che manca, è la sua gestione speculativa contro i popoli e i milioni di poveri dell’Unione. Che prima o poi, se la storia è la storia,qualcosa pur diranno in qualche modo.
Tra l’altro i governi nazionali non detengono più il potere formale di determinare le politiche economiche che riguardano i loro cittadini, soprattutto nella zona euro, con vincoli discutibili in merito ai valori che dovrebbe avere la Comunità nata e sperata per 60 anni meno gli ultimi 20. Questo è uno degli elementi maggiori che minano la fiducia dei cittadini, in tutta Europa. Le elezioni appena passate e le prossime rappresentano solo questo, contro una governance ingessata e fortemente prepotente, se non strafottente. Se pensiamo solamente al trattamento sadico verso una Grecia, che in fondo rappresenta solo 1% del Pil dell’Unione, la sensazione popolare in tutta Europa è stata molto emotiva sul tono minaccioso della Commissione o la banda dei “5 presidenti”. Potrebbe succedere a tutti.
Si intravvede in questa governance Commissariale come non siano i rappresentanti eletti a determinare le politiche, ma una forma ristretta di “responsabilità democratica” del Trattato. Da qui le minacce, notate sempre di più in questi ultimi anni, contro gli stati che utilizzerebbero i referendum contro le loro imposizioni, dopo aver già fatto modificare quasi tutte le Costituzioni nazionali. Minacce ridicole che rinsaldano il risentimento popolare montante, suffragate da una disuguaglianza sociale evidente e da un fallimento complessivo. Ognuno può personalmente verificare dove si trova negli ideali e verso il futuro.
Dal punto di vista della democrazia i poteri concessi alla Commissione sono estremamente problematici. Essa “impone” le procedure per gli squilibri macroeconomici di un paese utilizzando i governi e i piani di azione correttivi che ritiene opportuno, indipendentemente da tutto, in nome delle “regole” da loro stessi stabilite. Anzi, quando parla di “coordinamento delle politiche fiscali ed economiche”, mai attuate, sembra considerarle un problema apolitico. Negli errori drammatici commessi in questi anni, sia sul sociale che sull’economico, sembra non debba pagare nessuno. E così è, la Commissione non è sanzionabile da nessuno, nemmeno politicamente. Non ha bisogno dell’approvazione dei parlamenti nazionali. Però, è poco, ma si fa strada la sanzione “morale” di un Europa che storicamente si è costruita “sul sociale” e sulle lotte del mondo del lavoro.
Forse la sanzione arriverà dalle varie tornate elettorali nazionali. Sui 60 anni di Europa si spera di tornare insieme alla casella 40, ai concetti di Comunità e armonizzazione dei popoli che non può che essere la pace e la redistribuzione della ricchezza. Può essere l’unico obiettivo credibile della sinistra europea se vuole sopravvivere. All’orizzonte non c’è nulla di questo. Per la pace rischiamo addirittura di costruire un esercito europeo anti Russia. La Germania, dopo due guerre micidiali, non ha ancora imparato la lezione. Per la redistribuzione forse basta non dare al sistema bancario quello che non gli è dovuto, in ringraziamento del “furto” complessivo della ricchezza dei propri paesi. Le banche sembrano ancora presi dalla ludopatia borsistica e speculativa e non riescono a smettere di giocare con i nostri soldi.
Se questa governance doveva ottenere l’abolizione dei diritti del mondo del lavoro, affamare il popolo e ridurlo in individui necessitosi, alleggerire gli stati dalle loro risorse sul sociale (sanità, previdenza, pensioni, educazione …); sulle infrastrutture (strade, comunicazioni, telefonia …) e spostarle in privatizzazioni arricchendo i “pochi” amici; rendere i beni comuni, acqua compresa, merci, concetto identico per la forza lavoro, si può dire allora che la Commissione non ha assolutamente fallito nel suo impegno e nel suo programma.

Un 2017 inquieto


di Tonino D’Orazio

L’arrivo alla presidenza degli Stati Uniti di Trump sta mostrando l’asprezza del dibattito politico in corso, che, per quel che rappresenta quel paese, diventa per forza mondiale. Obama, nelle sue ultime settimane, sta mostrando come impiantare ingenuamente mine ritardate sul tragitto del successore. L’establishment finanziario neoliberista, profondamente legato ai democratici, non si fida di un miliardario che “si è fatto da solo” e ha minacciato più volte di ripulire la corruzione profonda di Wall Street e della borsa di New York. E’ in corso una inquietante “muoia Sansone con tutti i filistei”, con alti dirigenti che si dimettono prima di essere mandati via, non senza lasciare qualche strascico di veleno. Tanti sassolini, l’aumento dei tassi di interessi della Fed, quasi zero nell’era Obama, che porterà “turbolenze” sui mercati internazionali; alcuni prigionieri di Guantanamo spostati negli ultimi giorni del mandato; intervento della Fed; crisi della Cia e della Nsa; cacciata di 35 diplomatici russi pur di dare peso all’informativa sull’ackeraggio durante le elezioni, far planare il concetto e il sospetto di falso risultato ed innescare divisioni future in eventuali “buoni rapporti con la Russia”. Molti credono che sia tutta una farsa montata ad arte dall’amministrazione Obama e lo stesso New York Time ammette (6 gennaio) che “veramente non vi sono prove inconfutabili”. Lo stesso direttore del Fbi JRClapper, forse per salvare la pelle, dichiara: “non ci sono prove contro Mosca” (10 gennaio). Sarebbe allora un ultimo colpo di coda. Non si tratta di difendere Trump ma di verificare che se tutti questi sassolini fossero ingenui sarebbe veramente imbarazzante e inquietante nel metodo e nella sostanza. Tanto, per il resto del mondo, nulla cambierà poiché lo slogan “L’america prima di tutto” suggerisce la continuità politica e storica, Si tratta forse di vedere se sarà più o meno brutale, dato il personaggio imprevedibile, e in che modo.
Hackeraggio delle elezioni americane e guerra cibernetica? La tecnica è sempre uguale: nascondere la sostanza dietro la forma. Non è grave il contenuto penalmente pesante delle mail della Clinton, ma grave è il fatto di averle divulgate da parte di un traditore “prigioniero politico”, E. Snowden, che si è rifugiato addirittura nell’aeroporto internazionale di Mosca. Non è la sostanza ad essere incriminata ma il fatto di “aver voluto denigrare” la Clinton. La cattiva morale vuole che quelle mail dovevano rimanere nascoste e il popolo non era tenuto a conoscerle. In quanto all’intromissione nelle elezioni del paese, solo il Guardian inglese (5 gennaio), ancora scocciato per l’intromissione proprio di Obama nel Brexit, ha ricordato puntualmente quante volte, quanti anni, in quale modo e in quale paese del mondo vi è stata profonda ingerenza degli Stati Uniti, anche armata. Come dire “chi la fa, l’aspetti”. Oppure del comportamento dei suoi amici neoliberisti europei, socialisti compresi, per esempio nell’ingerenza in Grecia. Vale la pena ricordare l’operazione Prism, rinnovata e più tecnologica dopo lo scandalo Echelon, programmi di sorveglianza elettronica, (ma non spionaggio e sue conseguenze!), esteso al mondo intero da Cia e Nsa,(sono state intercettate per anni telefonate, sms e mail del mondo intero, compresi di governi, politici, banche, industrie, privati, anche e soprattutto “amici”). Appena da ridere quello italiano ultimo dove prima o poi non c’entrano gli americani ma sicuramente Putin che non ci dormiva la notte per ascoltare le barzellette di Renzi. Oppure lo scandalo rivelato in “Wikileaks” dal giornalista e attivista australiano Julian Assange, “prigioniero politico”, per ritorsione, che vive da anni recluso nell’ambasciata ecuadoriana di Londra. In sostanza hanno svelato al mondo tutte le porcherie perpetrate, sottoscritte e documentate, dalle amministrazioni americane e europee nelle guerre sporche, “secretate” come affari, o segreti, di stato.
In fondo stanno dando al mondo lo spettacolo “democratico” e di basso livello politico per quello che sono realmente, sia i democratici che i repubblicani. Non bisogna dimenticare che i repubblicani, che fra l’altro hanno la maggioranza stizzosa sia al congresso che al senato, non hanno digerito, era palese durante la campagna elettorale, l’intruso Trump, vincitore anche contro il loro establishment, che da moralità. o mani grondanti di sangue, non aveva nulla da invidiare ai democratici.( Basta pensare alla famiglia Bush). Questa è una incertezza, l’instabilità politica, ed un’inquietudine dirompenti per tutti.
Per esempio è rinato il senso dell’industrializzazione nazionale. Vedi le decisioni di Ford e le minacce doganali di Trump alla General Motors e alla Toyota che fabbricano veicoli in Messico a basso costo e vendono negli Usa. E’ la stessa capitolazione del sergente Marchionne con la Chrysler (che ha acquistato la Fiat). Altri seguiranno. Più in generale il ritorno delle grandi imprese in patria. Tocca anche noi e tutta l’Europa per bloccare le delocalizzazioni? Oppure il rafforzamento previsto del dollaro sulle altre monete mondiali, e in particolare sull’euro del cortile di casa, legato a forme produttive di autarchia, indicano previsione di ulteriori disastri delle economie EU? Questo previsto rafforzamento sta già indebolendo il bitcoin, nuova moneta e valuta di sostituzione del dollaro, puramente elettronica e in fase di sviluppo a livello mondiale.
Quale peso avrà la nuova, si fa per dire, gestione americana per esempio nelle prossime campagne elettorali francesi, tedesche e italiane (malgrado il blocco presidenziale e del Pd) del 2017? Questa grande voglia di riprendersi i “propri giocattoli” dalle grinfie finanziarie internazionali e discutere di progresso di “prossimità”, che si nasconde dietro il termine “populismo”, appioppato anche al vincitore Trump, riuscirà a bloccare il nefasto neoliberismo? Questi “populismi” nascenti e già sviluppatisi porteranno a miglior consiglio la ferocia della troika di Bruxelles? Reggerà ancora la valuta euro, visto che il tasso medio di insolvenza delle obbligazioni ad alto rendimento che oggi è del 3,77 per cento nel 2017 raggiungerà un picco del 25 per cento?
Vi sarà, nei primi mesi sicuramente, qualche situazione da commedia dell’arte. Il primo voltagabbana, uomo di esperienza, lo statista Alfano:”bisogna pensare a un rientro della Russia”, anticipando Gentiloni, Hollande (poco interessato perché va via) e la Merkel. Le reti televisive e i “giornalisti” non potranno continuare per molto ad accusare e offendere Trump, (in fondo la mamma america), a sostenere i perdenti Obama-Clinton ancora onnipresenti. Sarà divertente individuare quando inizierà la capriola, solo per vedere a che momento ne riceveranno l’ordine.
Tutti i mass media padronali, strumenti di “addomesticazione” del popolo ai poteri forti tramite contenuti culturali “deboli” ricorrenti e anestetizzanti, continueranno a sbagliare tutto ed essere scoperti e individuati per quel che sono? L’inquietudine per l’incertezza della conoscenza di dati e informazioni veri che riguardino l’economia, la finanza, il lavoro (cioè il vero non-lavoro) fanno temere, rendendole sempre più contraddittorie, l’incapacità di molti a capire realmente cosa succede. Le cifre sono contraddittorie ad arte. Abbiamo visto che la “somministrazione” puntuale di informazioni confezionate non riscuote più un grande successo, anzi riduce il diritto all’informazione, di cui è inutile ribadire l’importanza preminente nelle nostre società, ne abolisce il senso di democrazia e ultimamente funziona da bastian contrario, malgrado “l’insistenza” scientifica. Si sovrappongono libertà di stampa, o di pensiero, e manovalanza intellettuale nella fabbrica dei prodotti padronali confezionati e di scopo “commerciali”. Prodotti ripetitivi e stanchi.
L’inquietudine per un anno che, per tutti gli aspetti sociali e di vita reale dei cittadini, si presenta in drammatica continuità e in acuità, (con:“le riforme vanno avanti”), uguale a quello precedente se non peggio già dai primi dati, eccetto per le banche, non può che tradursi in ulteriore sconforto.
Diciamo con certezza che la luce alla fine del tunnel, promesso da almeno dieci anni, non ci sarà.

Rottamare il verbo euro liberista

Dopo gli interventi di Brancaccio, Iodice, Fazi e Grazzini proseguiamo il nostro dibattito sull’Europa pubblicando la recensione di Carlo Formenti al volume “Rottamare Maastricht. Questione tedesca, Brexit e crisi della democrazia in Europa” con saggi di Aldo Barba, Massimo D’Angelillo, Steffen Lehndorff, Leonardo Paggi e Alessandro Somma, appena uscito da DeriveApprodi. A seguire anticipiamo il testo dell’introduzione che apre il volume.

di Carlo Formenti da Micromega

 
Agli osservatori più attenti non dev’essere sfuggito che l’inopinata conversione del Presidente del consiglio Renzi al partito dei critici dell’Europa contiene una buona dose di messa in scena (attaccare l’austerità, se nel contempo si ribadisce l’impegno a rispettare i vincoli Ue in materia, suona poco credibile).

Pur subodorando la teatralizzazione – che mira a captare il consenso di un elettorato irritato con le oligarchie europee – i media, i quali non cessano di diffondere il verbo euro liberista, si sono premurati di invitare alla prudenza, celebrando le virtù del modello tedesco e invitando a non mollare la presa sulla barra del timone, onde non perdere la scia della nave ammiraglia pilotata da Frau Merkel. Ma quali sarebbero le “virtù” in questione? Assai meglio dei media, ce lo spiega un libro a più mani (scrivono Aldo Barba, Massimo D’Angelillo, Steffen Lehndorff, Leonardo Paggi e Alessandro Somma) appena uscito da DeriveApprodi: Rottamare Maastricht. Questione tedesca, Brexit e crisi della democrazia in Europa.
Il modello tedesco, imposto a tutti gli stati membri della Ue con le buone o con le cattive (per le cattive vedi il caso greco), si fonda sull’assoluta priorità attribuita alla lotta all’inflazione e all’equilibrio di bilancio (l’ultimo obiettivo, sancito dai trattati, è stato perfino integrato in alcuni ordinamenti costituzionali, fra cui il nostro).

Dal punto di vista “filosofico”, ciò trova fondamento nelle teorie ordoliberiste – nate fra le due Guerre mondiali – che elevano la concorrenza a principio supremo dell’economia di mercato: un mercato concepito come costruzione politica da difendere e proteggere sulla base di un ferreo sistema di regole. Ecco perché, nel libro di cui stiamo parlando, s’insiste giustamente – sulla scia delle tesi di Pierre Dardot e Christian Laval – sul fatto che l’ordoliberismo non vuole “indebolire” lo stato, ma gli affida, al contrario, il compito decisivo di promuovere e garantire la concorrenza.

Al principio filosofico corrisponde, sul piano pratico, l’obiettivo di aumentare la competitività del sistema in modo da favorire le esportazioni, che vengono a occupare il posto della domanda interna come principale fattore di crescita. Peccato che la crescita tedesca sia significativamente inferiore a quella americana, e che il tanto celebrato modello tedesco contribuisca ancor più a rallentare la crescita dei partner europei. Ciò avviene per varie ragioni. In primo luogo, perché non tutti i paesi possono avere esportazioni nette positive: gli avanzi permanenti degli uni generano i disavanzi permanenti degli altri. Poi perché l’altra faccia degli aumenti di competitività è l’attacco a salari e welfare, attacco che, riducendo i redditi dei lavoratori, contrae la domanda interna. In Germania l’impatto di tale politica si è fatto sentire con la proliferazione di mini-jobs, working poor e disuguaglianze, mentre negli altri paesi europei ha provocato effetti ancora più tragici, dovuti al divieto ai finanziamenti monetari dei deficit per i debiti pubblici, e alla concorrenza fra stati, che offrono profitti più elevati alle imprese abbassando i salari, flessibilizzando la forza lavoro, riducendo la pressione fiscale grazie ai tagli alla spesa sociale, privatizzando tutto il privatizzabile, ecc.

Tuttavia non siamo di fronte a “errori”, e neppure all’incapacità di riconoscerli (benché i loro effetti negativi siano ormai evidenti): il punto è che il modello tedesco non mira alla crescita, bensì a ottenere una ridistribuzione dei redditi a favore del capitale e a danno del lavoro, perché i capitalisti preferiscono meno crescita e più profitti, piuttosto del contrario. Il che è evidente anche nel caso degli Stati Uniti, dove si è ugualmente tentato di far convivere la crescita con tassi crescenti di disuguaglianza, con la differenza che non si è puntato sulle esportazioni ma sull’aumento dell’indebitamento. Risultato: la crescita c‘è stata, ma poi è puntualmente arrivato il contraccolpo della crisi finanziaria.

Insomma: il modello liberista genera disastri in entrambe le varianti. Funziona solo per spostare ricchezza dal basso verso l’alto, ma al prezzo di instaurare un ordine oligarchico che distrugge democrazia e diritti del lavoro, e che fa lievitare la tensione sociale fino a livelli di rottura, come ha certificato il voto del popolo inglese contro l’Europa. Si può spezzare il circolo vizioso e riattivare il binomio crescita-equità sociale? Per farlo, argomentano alcuni coautori del libro, occorrerebbe riformare l’Europa dal basso e da sinistra. Personalmente, ritengo che tale prospettiva sia del tutto irrealistica, mentre condivido l’idea che (cito dalla Introduzione): “una ripresa del potere democratico si può determinare, anzitutto, solo ritornando dall’atmosfera rarefatta e irrespirabile della governance al terreno corposo e vitale della sovranità nazionale”. Rottamare Maastricht appunto. Una tesi che sostengo a mia volta in un saggio che approderà in libreria il prossimo 13 ottobre (La variante populista, DeriveApprodi).

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Introduzione a “Rottamare Maastricht. Questione tedesca, Brexit e crisi della democrazia in Europa” (DeriveApprodi)

di Leonardo Paggi
La proposta di rottamare Maastricht con cui abbiamo scelto di riassumere il senso del volume, è nata dalla convinzione che il grande sogno dell’unità europea ha finito per legittimare un ordine oligarchico frontalmente contrapposto alla democrazia e ai diritti del lavoro. Senza il potere delle istituzioni sovranazionali oggi esistenti mai sarebbe stato possibile originare la regressione politica, economica e sociale in cui sta vivendo l’Europa di oggi.
1. La creazione della moneta unica ha fatto sì che si sia a lungo guardato a Maastricht come all’inizio, alla prima tappa, della costituzione di un Europa federale. In realtà a quella scelta si giunge attraverso una esplicita involuzione programmatica, ricostruita nei dettagli da Alessandro Somma, che è approdata a una netta dissociazione tra moneta e stato considerati, ancora negli anni Settanta, come assolutamente inscindibili.

Una vasta esperienza storica sta a testimoniare che solo la creazione di un potere politico fondato sulla unificazione del debito e delle bilance dei pagamenti può portare alla creazione di mercati in espansione. Parla in questo senso, anche se in modi tra loro molto diversi, l’esperienza degli Stati uniti, dell’Italia e della Germania nella seconda metà del xix secolo. In tutti questi casi l’unificazione politica è premessa indispensabile di un più lungo processo di unificazione economica che si traduce nella costituzione ed espansione del mercato interno. Maastricht capovolge, mette scientemente sulla testa, questo rapporto tra politica ed economia. L’obiettivo dichiarato del mercato unico non è in questo caso quello di creare più sviluppo, bensì, nelle parole di Padoa Schioppa, membro autorevole del comitato Delors, di «abbandonare definitivamente il modello di stato centralizzato forgiato dalle grandi monarchie europee» [2].

L’attacco alla sovranità dello stato perseguito a vantaggio della libertà delle grandi masse di capitale finanziario si traduce in un’opera di contenimento e di disciplinamento di tutti i fattori che precedentemente hanno reso possibile la crescita. Il processo di integrazione fornisce dividendi ai paesi europei che ne fanno parte solo fino a quando rimane nei limiti di una unione doganale e di una politica agricola comune. L’eliminazione delle barriere tariffarie è infatti un utile incentivo addizionale per uno sviluppo che ha solide radici nelle politiche keynesiane attivamente perseguite dallo stato nazione europeo che si rilegittima per questa via, dopo la pesante sconfitta subita nella Seconda guerra mondiale.

L’unificazione monetaria si accompagna alla ufficializzazione di una cultura della stabilità che mette in primo piano la lotta all’inflazione e l’equilibrio di bilancio. L’unificazione monetaria entra per questa via in aperta contraddizione con l’unificazione economica, rovesciandosi addirittura in una esasperazione delle distanze e delle differenze tra i paesi componenti l’Ue. La interpretazione che del trattato danno a caldo le figure più rappresentative di Bankitalia, su cui si sofferma diffusamente Leonardo Paggi, esprime compiutamente, ben oltre il caso italiano, il significato coscientemente restauratore del trattato che formalizza e mette in costituzione l’abbandono delle politiche di sviluppo, a partire dalla sconfitta che il movimento operaio ha già subito nel decennio precedente nei più importanti paesi europei.

E tuttavia sarebbe sbagliato rappresentare Maastricht come «un processo senza soggetto», condiscendendo in qualche modo alla sua auto rappresentazione ideologica. La cultura della stabilità, come si annuncia già con la creazione nel 1979 di un sistema monetario europeo, ha il suo punto di riferimento e il suo sostegno nel modello economico tedesco, uscito dalla crisi degli anni Settanta come l’unico capace di affrontare la nuova divisione internazionale del lavoro profondamente modificata dall’ingresso dei paesi in via di sviluppo. Caratteristica fondamentale di questo modello, analizzato con approcci diversi da Aldo Barba e Massimo D’angelillo, è la ricerca continua di aumenti di competitività volti a incrementare indefinitamente il volume delle esportazioni, che finiscono per sostituire la crescita della domanda interna.

La raffigurazione della Germania come «egemone riluttante» su cui è tornato di recente anche Jurgen Habermas [3] appare per più aspetti fuorviante. La storia dello sviluppo capitalistico ha esibito compiutamente i tratti di un modello di egemonia contrassegnato dalla funzione di traino che il mercato americano svolge, fino alla metà degli anni Settanta, per l’intero sistema occidentale. Il modello tedesco basato sul contenimento della domanda interna non solo non offre alcuna possibilità di crescita al resto dei paesi europei, ma chiede anzi loro di perseguire lo stesso obiettivo della competitività con l’abbassamento dei salari e lo smantellamento dei sistemi previdenziali e pensionistici. La Germania è tornata a contendere per un primato europeo sulla base di un modello di relazioni economico-politiche fondato ancora una volta sulla gerarchia, la coercizione e la violenza, come la vicenda greca ha messo definitivamente in luce.

Ma fino a quando può durare l’ordine di Maastricht ?
2. Nel corso degli ultimi tre decenni si è prodotto un cambiamento strutturale nella geografia politica dell’Europa in virtù del quale, per riprendere la terminologia di Albert O. Hirschmann, la protesta sociale in continua crescita tende ad assumere la forma tendenzialmente catastrofica dell’exit invece di quella ritualmente democratica del voice. In precisa corrispondenza con la sparizione della sinistra storica, prendono piedi movimenti che riformulano in chiave neonazionalista e xenofoba il bisogno di protezione sociale degli strati popolari più colpiti dalle politiche di austerità. Negli anni Novanta, infatti, sono proprio i partiti della tradizione socialista che traducono in provvedimenti di governo la nuova filosofia del trattato.

Si tratta di un fenomeno complesso per cui non è facile trovare una spiegazione plausibile. Da una comparazione con precedenti storici non meno significativi sembra si possa dedurre che nel corso del Novecento il socialismo europeo viene puntualmente travolto dalle profonde cesure che scandiscono la storia del capitalismo internazionale. A onta della fratellanza tra i popoli, proclamata negli anni di sviluppo e di pace dei primi anni del secolo, il 4 agosto del 1914 il socialismo europeo blocca i feroci nazionalismi che organizzano la mattanza della prima guerra mondiale. Negli anni Venti il laburismo inglese e la socialdemocrazia tedesca appoggiano la deflazione richiesta dalla politica di ritorno all’oro, considerata da Michael Polanyi come fattore cruciale dell’avanzata del fascismo.

Dopo il 1945 il movimento operaio conosce in Europa occidentale il periodo più fruttuoso della sua storia. La socialdemocrazia (ma anche il Partito comunista italiano) si inserisce come fattore propulsivo e moltiplicativo in una fase di eccezionale sviluppo che prende tuttavia corpo per il concorso di fattori esogeni alla sua volontà e alla sua capacità di influenza.

La tragedia della Seconda guerra mondiale, con i suoi 55 milioni di morti, ha posto un problema del tutto nuovo di difesa e di promozione della vita che trova nel Piano Beveridge, del dicembre 1942, la sua più solenne formulazione. Si realizza negli stessi anni la definitiva legittimazione della economia di piano, che ha messo in campo una produzione di massa di armi sofisticate decisive per la sconfitta del nazismo. È una sfida possente alla cultura del capitalismo che gli Usa raccolgono esportando nel vecchio continente il mercato di massa dei beni di consumo durevoli, che hanno già promosso nel corso degli anni Venti.

Il repentino cambiamento del modello di sviluppo che si apre nei primi anni Settanta, a partire dalla fluttuazione e poi dalla inconvertibilità del dollaro, disarma per la terza volta la sinistra europea. Alla fine del decennio arrivano puntuali le sconfitte strategiche del movimento operaio italiano e inglese, e, a ruota, quella dell’unità delle sinistre in Francia. Dopo il crollo inaspettato dell’Unione sovietica la sinistra europea formalizza negli anni Novanta il suo passaggio dalla «giustizia sociale» al «dinamismo economico».

Il consolidamento nel decennio successivo del trend rappresentato dalla disintegrazione della sinistra e dall’avanzamento del populismo di destra scava lentamente una voragine politica sotto i piedi dell’ordine di Maastricht. Si profilano all’orizzonte anche vere e proprie crisi di rigetto del processo di integrazione. Dopo la bocciatura che il trattato costituzionale conosce nel 2005 sia in Olanda che in Francia, è oggi un intero paese, l’Inghilterra, che denuncia i contratti sottoscritti.

La spiegazione di Brexit come voto dei vecchi contro i giovani ha inteso ridicolizzare il significato di un voto di altissima complessità politica. Esce il paese che in ragione del controllo della propria moneta ha avuto negli ultimi tre anni uno sviluppo superiore non solo a quello della media europea, ma della stessa Germania. Ma ancora: l’economia inglese caratterizzata dai servizi finanziari è particolarmente interessata al mantenimento di integrazioni sovranazionali. Le piazze finanziarie di Londra e Francoforte lavorano insieme da anni. Insomma esce il paese che più di ogni altro godeva i vantaggi della sua presenza in Ue senza dover sopportare il peso della politica di austerità.

Solo sul medio e lungo periodo sarà possibile valutare le conseguenze di questa scelta per l’economia inglese. Il significato politico è invece immediatamente valutabile. È la prima grande delegittimazione di Maastricht in quanto ordine che consacra il potere tedesco attraverso una finta universalità delle regole. Certo ha pesato enormemente, come Teresa May ha riconosciuto nel suo discorso di investitura a Brighton, il voto dei lavoratori meno qualificati, delle imprese meno competitive, dei territori più periferici (anche se il sì e il no si distribuiscono in modo uniforme nel sud e nel nord del paese). Ma sarebbe errato non vedere in quel voto anche un grande problema di identità. Brexit chiama in causa i limiti non solo di uno sviluppo che non cessa di dividere e polarizzare, ma anche di una cultura neoliberista astrattamente cosmopolita che pensava di aver cancellato nello spazio di un ventennio le differenze prodotte da secoli di storia.

Emmanuel Todd ha proposto di leggere Brexit in un’ottica di longue durée, e certo in modo provocatorio ha detto che l’Europa di oggi assomiglia stranamente a quella del 1941, con il continente sotto il tallone tedesco e la Gran Bretagna che resiste in solitudine4. Forse non si sta tornando, come egli sostiene, all’ Europa delle nazioni, che non è stata poi propriamente un paradiso terrestre, ma dall’intreccio sempre più stretto tra questione sociale e questione democratica che sta alla base di Brexit esce la voce forte di un’Europa che non si lascia uniformare dalla governance del terzetto Merkel/Schäuble/Weidmann, che intende mantenersi plurale e cerca un’unità da perseguire nella diversità, fatta, quest’ultima, non solo di livelli di sviluppo difformi ma anche di tradizioni e di storia non facilmente omologabili. È in questo senso complesso che Brexit ripropone alla Ue la centralità della questione democratica. Il messaggio forte mi pare quello di un’Europa che non vuole cancellare il suo pluralismo e che del sistema delle sue differenze intende fare una ragione non di debolezza, ma di forza.

Seppure con logiche del tutte diverse la crisi di Maastricht matura pericolosamente anche in Francia. Dietro la stretta terroristica in cui si sta avvitando il paese c’è l’onda lunga della storia nazionale la cui lettura è in questi mesi oggetto di dibattito serrato. Alla interpretazione del terrorismo come risultato di una radicalizzazione dell’Islam, cui si dovrebbe rispondere con la intensificazione della laicità (Jill Kepel), si risponde affermando la islamizzazione di un radicalismo connesso a una svolta generazionale che ha nel disagio delle periferie il suo luogo di origine(Olivier Roy). Altri, forse con ancor più ragione, parlano di una sofferenza post coloniale. Si ha talvolta l’impressione di assistere a una guerra di Algeria che non riesce a trovare la sua conclusione, e la cui memoria si trasmette, forse inconsciamente, attraverso le generazioni.

Lo spostamento a est dell’asse geopolitico della Ue, supinamente accettato dalla classe dirigente francese, ha imposto al paese l’abbandono di ogni strategia di dialogo mediterraneo, favorendo le forze che al suo interno cercano visibilità e consenso nella moltiplicazione sempre più insensata e autolesionista delle avventure neocoloniali. Ma ancora: nel momento in cui il terrorismo porta alla luce tutti i limiti delle strategie di integrazione fino a oggi seguite, i governi in carica assistono impotenti al moltiplicarsi della disoccupazione, tagliano i livelli del welfare, aggrediscono i diritti consolidati del popolo lavoratore. Tutti i democratici europei guardano con profonda apprensione alle prossime elezioni della primavera del 2017. Saranno i valori della rivoluzione francese a essere messi ai voti!

La radicale incapacità di Maastricht di dare risposte, non solo malthusiane e repressive, alle sfide della globalizzazione è stata tuttavia definitivamente messa in luce dal salto improvviso dei flussi migratori. Dinanzi a una emergenza che richiede se non progetti comuni almeno coordinamento organizzativo degli sforzi è balzata in primo piano tutta la miseria culturale di quella che Steffen Lehndorff chiama la «integrazione che divide», ossia un congegno di governo tutto rivolto a isolare e contrapporre le economie e gli Stati, a impedire qualsiasi sinergia che travalichi la soglia del rispetto dei parametri di stabilità. Dopo nove anni di crisi le élite europee non danno alcun segno di ripensamento.
3. In effetti, che la Germania svolga un ruolo di architrave nell’ordine di Maastricht non autorizza a mettere sullo sfondo l’apporto decisivo di quella che ancora Steffen Lehndorff chiama «la coalizione dei non volenterosi», ossia l’appoggio che i governi degli altri paesi europei (democraticamente eletti, si sottolinea talvolta polemicamente, ma non a torto) danno a politiche Ue che negano sistematicamente qualsiasi principio di collaborazione e di solidarietà.

La ricerca di una alternativa non può non prendere le mosse che dalla identificazione del consenso, del «blocco sociale», che si è saldato intorno alle politiche vigenti. Una distinzione è necessaria tra la Germania e gli altri paesi europei.

Sono elementi portanti del consenso tedesco al modello economico nazionale:

a) Una forte saldatura di interessi tra imprese e sindacati nei settori trainanti delle esportazioni (in primo luogo il settore automobilistico) dove la «riforme» di Schroeder non hanno intaccato il tradizionale regime di alti salari.

b) Il conservatorismo patrimoniale, dice Massimo D’Angelillo, ossia la difesa del risparmio e del potere d’acquisto delle pensioni in un paese con un tasso di natalità fortemente decrescente. Significativi i continui attacchi della stampa tedesca a Draghi per la sua persistente politica di sempre più bassi tassi d’interesse.

c) I surplus commerciali, provenienti dalle esportazioni, che ammontano al 50% del Pil,e che consentono di integrare i bassi salari del secondo settore di un mercato del lavoro apertamente duale (8 milioni di minijobs), e di garantire nello stesso tempo il mantenimento di buoni livelli di welfare.

d) Infine con la riunificazione la Germania si è sbarazzata del senso di colpa per il passato nazista e ha inaugurato una politica di monumentalizzazione della memoria che toglie dall’armadio tutti gli scheletri. Il ritrovato senso di autostima nazionale, sottolinea Leonardo Paggi, produce consenso a un modello economico che mostra la sua superiorità non tanto nella capacità di promuovere gli altri, quanto al contrario in quella di bloccare e reprimere le loro possibilità di sviluppo. Non sorprende dunque che nella conduzione di questo tipo di politica europea, sostenuta da una «grande coalizione» che cancella ogni distinzione tra destra e sinistra, si determini un progressivo spostamento dell’asse ideologico e politico del paese in senso sempre più marcatamente conservativo. Ciò che peraltro rende sempre più difficile l’importazione di mano d’opera straniera di cui l’economia tedesca ha un crescente bisogno, visto il trend demografico in atto.

Tratti solo in parte analoghi tornano nella struttura del consenso di cui Maastricht si avvale negli altri paesi europei:

a) L’industria trainante è in Europa quella più fortemente internazionalizzata (questo vale anche per la parte più competitiva dei nostri distretti), che condivide pertanto la priorità accordata dalla Germania alle esportazioni.

b) Nelle imprese più dinamiche una parte crescente dei profitti è realizzata tramite la presenza sul mercato azionario e comunque sempre più diffusa è la logica di share holder che ha trasformato e americanizzato dall’interno il tradizionale modello produzionista tedesco.

c) Stabilità dei prezzi e assenza di inflazione garantiscano ovunque non solo i creditori, ma anche una popolazione fortemente invecchiata che fa delle pensioni una quota crescente del reddito nazionale.

d) Una volta creatasi la figura dello stato debitore la sua permanente esposizione alla speculazione internazionale, esplicitamente prevista e voluta dal trattato, impone consenso attorno a politiche di pareggio del bilancio come mezzo per evitare mali peggiori. Esemplare in questo senso la formazione del governo Monti, che ha ben dimostrato come il consenso si possa estorcere anche con la forza del ricatto e della coercizione.

e) Dato lo stato dei rapporti di forza, anche in presenza di una crescita bloccata, l’impresa può appropriarsi di una parte crescente della torta senza correre il rischio di una ripresa del conflitto redistributivo quale si avrebbe in un quadro di sviluppo. Non è insomma un caso che le Confindustrie di tutta Europa accettino senza protestare le politiche di austerità.

f) La cultura dell’individualismo darwiniano, che trasuda da tutti i pori del trattato, è tanto più vincente quanto più forte è la stagnazione. Solo con una crescita ritrovata si potrebbe rigenerare il senso della solidarietà e apprezzare il valore dei dividendi provenienti da uno sforzo comune.

Se questi sono alcuni fattori che spiegano almeno in parte lo stato di passività esistente, dove sono le «forze motrici» che possono spingere verso la riapertura di quel circuito tra crescita e eguaglianza che Aldo Barba pone a fondamento della sua analisi critica?

Poiché la dimensione europea é stata messa in sicurezza e quasi sigillata nei confronti dei rischi della politica, una ripresa di potere democratico si può determinare, anzitutto, solo ritornando dall’atmosfera rarefatta e irrespirabile della governance al terreno corposo e vitale della sovranità nazionale.

Di questo concetto si può avere una accezione ideologica e subalterna che tende a sottovalutare o a mettere tra parentesi i livelli di internazionalizzazione e di globalità raggiunti dallo sviluppo capitalistico. Ma della sovranità esiste anche una visione funzionale, realistica, che mette in valore la riconquista dello spazio politicodemocratico, distrutto dalla astratta dimensione sovranazionale della moneta unica. Solo sui terreni nazionali, ossia a contatto con la realtà immediata e tangibile della vita quotidiana, è possibile provocare la crisi del mondo capovolto della moneta unica. Con il noto adagio « ce lo chiede l’Europa» è stato proposta e purtroppo accolta dalle élite europee una totale dismissione della responsabilità politica nazionale. La precedenza dell’Europa si è trasformata in un vero proprio alibi per abbandonare il rapporto con i bisogni, con i territori, con le specificità della storia.

Il processo non è stato tuttavia indolore.

L’ordine di Maastricht è oggi vittima del suo stesso successo. La crisi dei partiti democratici, che corrisponde al crescente potere di decisione dei mercati, ha fatto sì che – lo abbiamo già ricordato – la protesta sociale generata dalla austerità e dalla globalizzazione ha alimentato un populismo sempre più eversivo. Il terrorismo, come fattore potenzialmente endemico, moltiplica ora a vista d’occhio la forza persuasiva della ragione populista. Tornano alla mente le analisi di Franz Neumann sul nesso tra angoscia e politica come fattore propulsivo dello stato autoritario. Ancora una volta la crescente alienazione economica e sociale di massa alimenta una visione cospirativa della storia che compatta il «popolo» contro un nemico esterno.

Questa emergenza impone l’obbligo di lavorare, qui e ora, per un allentamento e una rottura dei vincoli esistenti sul filo di un netto spostamento di ottica e di enfasi dal tema della disciplina a quello delle possibilità. Gli autori di questo volume non credono che il problema sia quello di rinegoziare questo o quel parametro del trattato. È in fondo una riprova di questa loro convinzione anche l’assai scarso successo con cui il nostro Presidente del consiglio cerca in Europa inesistenti spazi di autonomia, con la richiesta di questa o quella «flessibilità», se non addirittura con le invocazioni ad «un’Europa più umana»! Siamo dinanzi a un sistema coerentemente e conseguentemente oligarchico, in cui la negazione dello sviluppo fa tutt’uno con la messa in mora della democrazia.

E tuttavia stiamo vivendo un paradosso che non può essere ignorato. Il monopolio che il populismo detiene della critica della situazione esistente fa sì che il sistema consegua nuova legittimazione, proprio agli occhi di una opinione pubblica democratica, come l’unico possibile depositario del progetto europeo. Se non si spezza la tenaglia che si è creata, con l’ austerità da un lato e il populismo dall’altra, qualsiasi nuova opportunità creata dalla crisi andrà perduta. Per questo ci pare essenziale l’apertura di un dibattito sui principi (non sulle misure specifiche) di una agenda di stabilizzazione democratica della situazione italiana e europea, che favorisca la costruzione di un movimento anti-Maastricht diverso da quello populista.

Fino a oggi la critica della moneta unica non è andato oltre la proposta astrattamente taumaturgica di uscita dall’euro o la previsione irrealistica di un suo inevitabile crollo. L’euro ha dimostrato di saper reggere, forse anche in ragione dell’uso repressivo che di esso hanno fatto e continuano a fare i mercati finanziari. Sono la società, la politica, le identità democratiche che deperiscono. Non sembra saggio aspettare che il cadavere passi lungo il fiume. Le crisi economiche producono una degenerazione del capitalismo (fino al nazismo), mai il suo crollo. Maastricht del resto non è solo una moneta unica, è anche una cultura, una concezione del mondo, una proposta di «civiltà». Per questo morirà, se morirà, solo di una morte politica. È per la costruzione di un movimento ancora inesistente che occorre mettere sul tappeto il problema di una filosofia di governo alternativa e di un programma che indichi, in primo luogo sotto il profilo concettuale, alcuni punti di scorrimento verso un’Europa politica della crescita.
4. La vera scommessa è quella di trasformare la protesta sociale in conflitto redistributivo e in alternativa politica. In questa prospettiva ci sembra utile sottolineare l’importanza di alcuni ordini di problemi, con particolare riferimento alla situazione specifica del nostro paese.

Il recupero del rapporto tra democrazia e sovranità. Premessa essenziale di qualsiasi evoluzione positiva è la condanna e il rigetto aperti della governance che configura la Ue come «uno stato di polizia economica», secondo la definizione di Alessandro Somma. Contro la imposizione di regole punitive e uguali per tutti è essenziale ritrovare lo spazio e il metodo della discrezionalità e della responsabilità politica, aperto a ragionamenti e negoziati capaci di interpretare i bisogni specifici di situazione specifiche. I dadi del resto sono truccati. Le regole sono pensate e scritte in piena conformità all’«eccezionalismo» tedesco, ossia per una economia che ha impostato la crescita sulla leva del surplus commerciale piuttosto che sui consumi e gli investimenti. È in accordo a questa logica che sono nati i parametri del 60% del pil per il debito e del 3% per il deficit, i quali pertanto non sono da rinegoziare ma da respingere in via di principio. Il culto delle regole ha trasformato la Ue in un intollerabile spazio gerarchizzato in cui i Peripherielaender pagano un prezzo crescente in termine di autonomia delle scelte di politica economica, di disoccupazione rampante, di perdita di pezzi di apparato produttivo, quasi sempre a favore di gruppi industriali tedeschi che amano comprare a prezzi stracciati.

La difesa del salario. Una delle misure prese da Frank D. Roosevelt nei suoi primi cento giorni fu la messa sotto protezione del sindacato uscito massacrato dalla rivoluzione tecnologica e dagli attacchi conservatori degli anni Venti. La misura era intesa come passaggio obbligato per ricreare il potere d’acquisto necessario a interrompere la morsa deflattiva in cui era caduta l’economia americana. Per una situazione analoga abbiamo già visto che il quantitative easing non basta. La stagnazione italiana data dalla seconda metà degli anni Novanta e ha la sua prima ragione nell’arresto della domanda interna provocata, in primo luogo, dal blocco della contrattazione salariale. Nelle condizioni di estrema debolezza in cui si trova il sindacato, la difesa della contrattazione collettiva è oggi una misura di governo indispensabile. Si tratta di rovesciare la logica che presiede alle «svalutazioni interne» volute da Maastricht secondo cui in un regime di cambi fissi la competitività e il pareggio di bilancio devono essere assicurati comprimendo i livelli di vita della popolazione.

La ripresa della produttività. È questa la via maestra per la indispensabile ripresa di competitività della nostra economia. I dati che la Banca d’Italia fornisce in proposito parlano di una catastrofe nazionale. L’economia italiana sta perdendo ogni capacità di produrre e distribuire ricchezza. La medicina è nota. Investimenti in capitale umano volti a elevare il livello della formazione professionale, investimenti in ricerca e sviluppo che lo stesso trattato di Lisbona aveva proclamato indispensabili, e che il patto di stabilità vieta perentoriamente, innovazione e internazionalizzazione del sistema delle imprese, innalzamento del livello di efficienza della pubblica amministrazione. L’accettazione passiva dei parametri di Maastricht significa complicità attiva nel processo di distruzione dei livelli di civiltà conseguiti dal nostro paese. Perché il governatore Ignazio Visco non sottomette alla più ampia opinione pubblica del paese i dati di cui è a conoscenza? [5]

Emergenza migrazioni. La fedeltà al principio dell’accoglienza in assenza di qualsiasi programma di gestione della forza lavoro immigrata è destinata sul medio periodo ad accumulare degrado e contraddizioni sociali e politiche sempre più insostenibili. È proprio il Sud a darci l’esempio di due esiti possibili. Il campo di concentramento di Rosano consegna al caporalato la nuova forza lavoro. Il caso di Riace indica quanto la rete dei comuni potrebbe fare in termini di allocazione sensata delle risorse, se convocata, organizzata e diretta dai poteri centrali del governo.

La pace e la guerra. Da tempo l’ Europa ha cessato di essere forza di pace. Maastricht nasce contestualmente all’inizio di una politica di esportazione della democrazia, resa possibile dalla fine degli equilibri della guerra fredda. Si è rivelata nei fatti l’esistenza di una correlazione strettissima tra il conferimento ai mercati di una piena e totale libertà di movimento e l’idea che i confini degli stati siano modificabili ad libitum con l’ausilio delle armi. L’Europa è stata pienamente coinvolta nell’effetto domino che l’invasione dell’Iraq del 2003 ha scatenato in Medio Oriente, nel Mediterraneo e nei rapporti con la Russia. Nel permanere di questo quadro le stesse relazioni intra europee sono destinate a deteriorarsi, come la crisi di Schengen ha già abbondantemente dimostrato.

Con l’indicazione di questi temi, ma molti altri se ne potrebbe aggiungere, si è voluto esprimere la convinzione che un’opposizione politica di governo può nascere solo con un programma che assuma senza mezze misure la profondità dei guasti provocati da Maastricht. Qualcosa si può e si deve fare. Niente di quello che è accaduto deve essere dato per scontato e irreversibile. In definitiva, venticinque anni sono solo un soffio se commisurati ai tempi della storia europea.
NOTE

1. Il testo dell’introduzione è stato redatto da Leonardo Paggi che si è avvalso dei contributi di discussione di Aldo Barba, Massimo D’Angelillo e Alessandro Somma.

2. Cfr. Infra, p. 32.

3. Intervista a «Die Zeit», 7 luglio 2016.

4. Intervista pubblicata su «Atlantico.fr» il 3 luglio 2016.

5. Mi riferisco in particolare all’intervento pronunciato dal Governatore della Banca d’Italia a Bari il 29 marzo 2014 al Convegno Biennale Centro Studi Confindustria su «Il capitale sociale e la forza del paese».

(30 settembre 2016)

SI debole perché NO è onnicomprensivo


di Tonino D’Orazio 23 settembre 2016.
Bratislava (summitdei leader europei) sancisce con profonde divergenze una ulteriore spaccatura di questa Unione. Il non aver capito che la “risoluzione” dei rapporti con l’Urss dei cosiddetti paesi del’est passasse soprattutto tramite una forte concezione di identità nazionale, sembra un grosso sbaglio. Prodi compreso che facendo di tutto per inglobarli urgentemente nell’Unione, seguendo un “forte consiglio” della Nato, ha tentato di barare sui tempi necessari. Non si sono sganciati da una Urss prepotente per infilarsi in una Europa altrettanto irrispettosa.  Che questa Unione stia arrivando alla fine per implosione interna, avendo messi tutti i paesi uno contro l’altro in una competitività dissennata e sotto una regia unica e ferrea tedesca (bisogna ribadire che i francesi non contano), che fa solo i propri interessi di classe (con gran parte dei lavoratori tedeschi che si avviano alla povertà), lo ha sancito la riunione di Bratislava. Basta vedere i dati di Eurostat invece di sentire i luoghi comuni sul benessere generale del popolo tedesco o di qualche premio annuale solo nelle grandi industrie automobilistiche. Ma principalmente la “salita” a due decimali (aspettando l’Austria) delle formazioni politiche di “ultra-destra” rivendicative di identità. Il rifiuto di ubbidire ai mille laccioli di Bruxelles ( che non sono “regole” e che nascondono interessi tedesco-francesi precisi, dallo zucchero nei mosti ai formaggi con polvere di latte ecc…), con i polacchi in testa (hanno appena dato il loro premio nazionale al migliore politico europeo all’ungherese Orban) e a seguire anche gli altri. Il Brexit è già fatto. Soldi (e armi Nato) contro servitù non è sufficiente, come non lo era con l’Urss.
Le scintille? L’immigrazione incontrollata (o auspicata) e l’austerity della Troika di Bruxelles. Alle prime elezioni che si presentano (cioè a quelle in cui ancora si riescono a votare), in tutti i paesi della cosiddetta Unione arriva, in un modo o nell’altro, una profonda protesta “contro” i propri governi, anche se le maggioranze innaturali tengono. Persino Renzi lo ha capito e con la solita giravolta, tornando da Bratislava, si scaglia a parole contro l’austerity che invece persegue nei fatti, aspettando il prossimo voto del popolo italiano. Il primo, oltre alcune grosse sconfitte amministrative, è quello sulla sua nuova costituzione autoritaria che inficia la sovranità popolare, come richiestogli dai poteri oligarchici e “forti”, cioè non democratici, esterni al nostro paese.
Una volta capito questo, e le pressioni internazionali arrivano forti e puntuali, a dire il vero manca all’elenco qualche piccola strage (sempre arrivata puntuale nei momenti di svolta dell’Italia) che rimetta il popolo nella sua iconoclastica paura, diventa difficile non individuare in questo voto, procrastinato e allontanato al limite, è pur vero con tutti i vari regolamenti vigenti, ma già con un parere tardivo della Cassazione che glielo permette, un NO onnicomprensivo di tutti i problemi e gli scempi politici ed economici tragici sul tappeto. Può essere un NO cosiddetto “della pancia”. E forse più che altro dalle menzogne continue del governo (“punti di vista diversi sui dati”), su tutto, puntualmente scoperte da altre informazioni. Lavoro, jobs act fallito, emigrazione alle stelle (250/300.000 all’anno, come nel 1890 e più del dopoguerra), voucher invece di retribuzione e previdenza corrette tali da affossare anche il futuro dell’Inps, (tra l’altro continuamente derubato dal governo), disoccupazione giovanile e non, pensionati alla fame, come gran parte delle famiglie italiane, neo-pensionati nelle mani delle banche(da piangere per il ridicolo, se non fosse che sarà un altro flop), correntisti timorosi e allo sbando per i propri soldi (bail in), saccheggio della Cassa Depositi e Prestiti per regalare alle banche i risparmi degli italiani, tassazioni dirette e indirette alle stelle e sempre insufficienti, sanità allo sbando (cioè avviata alla privatizzazione) e specialistica vitale inaccessibile a molti, insegnanti che “viaggiano” in tutta Italia spaccando la vantata e non più reale sacralità della “famiglia”, privatizzazioni del pubblico a cooperative per pagare i lavoratori al ribasso, alta mortalità sul lavoro malgrado una enorme massa in disoccupazione. Paura dell’immigrazione, problema snobbato dall’Unione e gestito solo con il nostro pietismo francescano, che però ha anche un limite prima o poi. Tutti i giorni ci vengono forniti dai mass media informazioni sulla povertà degli italiani e il “benessere” degli immigrati, quanto costano al giorno, di sfratti e hotel, in un crescendo di irrazionalità rabbiosa. (Vedi soprattutto la Lega di Salvini ma sarei curioso di sentire il “popolo silenzioso”). Il problema andrà al voto come sta succedendo in tutti gli altri paesi europei?
Mi dite, in questo mix, perché se l’occasione si presenta (e sembra proprio l’ultima, date le deforme previste dalla nuova costituzione dei ragazzini sotto l’ombrello di un ultra decano ancora in fase di disastri politici) di mandare possibilmente a casa gran parte di questa fallita dirigenza politica con un NO pesante, non lo si debba fare? Non mischiamo le cose? Le cose sono mischiate e diventa difficile anche a quelli del Sì uscirne fuori. E’ come se sostenessero questa impossibilità di sperare in un futuro migliore. Anzi, da Ciampi in poi, tutti hanno mentito, e Padoan continua imperterrito, sulla “riduzione delle tasse”, nemmeno su una sua migliore gradualità. Sono diminuite solo quelle delle imprese. Le grandi però, quelle appetibili dall’estero, perché le piccole (con 85% della manodopera italiana) continuano a fallire.  C’è una menzogna enorme sul debito “pubblico” dove lo stato è obbligato a prendere i soldi al 5% dalle banche private, in funzione di strozzinaggio, che invece lo prendono a 0,5% dalla Bce. Non è ineluttabile, è semplicemente un furto ai danni del popolo che aggrava scientificamente “il debito pubblico” e lo tiene “prigioniero” da anni e per anni. Se ne è accorto?
Forse da noi non sarà un NO esplicito contro l’Unione, e molti tenderanno a minimizzare, ma poco ci manca, soprattutto se dovesse vincere. Il Sì è la continuità del disastro, velenosamente sancito nella deforma, perché chiude all’angolo con vari sofismi, proprio la pericolosa sovranità popolare. La popolazione che andrà a votare percepisce questo?  Se sì, allora hanno ragione le oligarchie politico-bancarie internazionali a preoccuparsi di un successivo Italexit, sicuramente più disastroso del Brexit, che pur ha fatto tremare l’establishment e continua a dimostrare contro tutti e contro tutto, una rinnovata vitalità di quel paese. Era solo un problema di identità di quel Regno confederale mai realmente Unito? O le imposizioni dell’Unione a egoistica trazione tedesca avevano creato un mix economico-finanziario altrettanto asfissiante di quello italiano, dei paesi mediterranei o dei paesi dell’est, tipo colonie? Hanno votato “con la pancia” contro i neoliberisti i lavoratori britannici, considerati dalle oligarchie della City “ignoranti e ubriaconi”? La mappa del voto dà una netta vittoria del Brexit nei quartieri popolari e dove il degrado e la povertà erano maggiori e non per grazia ricevuta.
A questo si può aggiungere che ogni partito (o spezzoni) rifiuta le modifiche perché ritiene le proprie prioritarie. In genere la destra, compresa F.I. e pezzi del NCD, dicono NO  e chiedono il presidenzialismo (così caro a Berlusconi e a Napolitano che l’ha esercitato senza “permesso” costituzionale per 10 anni), la Lega un nuovo federalismo (con l’arma “di pancia” dell’immigrazione così redditizia in tutta l’Unione), il M5S il decentramento e un ritorno al proporzionale per ribadire la sovranità popolare e di partecipazione il più diretta possibile, il PD francamente difende il suo segretario, e la troika di Bruxelles (con “ce lo chiede l’Europa” con ulteriore cessione di sovranità), con il Sì mentre una parte più tradizionale difende il NO. La Sinistra,tutti compresi, difendono la Costituzione così come definita dalla Resistenza, pur ritenendo parti tecniche migliorabili ma non sui principi generali di rappresentanza e dei diritti.
Certamente, se il NO si carica anche di tutte le frustrazioni nazionali, se non individuali, della difficoltà di vivere e meno sulla valutazione di merito, articolo su articolo, possiamo anche dire che sarà di “protesta”, e Renzi dovrà andare via, insieme al suo governo verdiniano e ambiguo, lasciando una scia terremotata con problemi di “ricostruzione”. Allora, affinché tutto cambi e niente cambi, invece di andare al voto, (anche perché l’Italicum è in fase di aggiustamento per l’asso piglia tutto, come la legge ungherese, controllate per favore), si dovrà designare un altro “tecnico” di “provata esperienza”, e non potrà essere che un banchiere di Goldman Sachs, Padoan, o qualche altro genio bancario. 

Il grande circo è iniziato


di Tonino D’Orazio, 15 settembre 2016. 
Ovvero la cintura di sicurezza internazionale intorno a Renzi. Il referendum contro la deforma costituzionale fa paura ai poteri forti. Infatti tutto il dibattito del circo Barnum si svolgerà, (grazie a questa Costituzione), non sui diritti democratici di cittadinanza, ma solo sugli aspetti più interessati dei padroni nostrani e mondiali. Hanno imposto la finanza e l’economia (che non sarà mai una scienza esatta, per questo a tensione umana psicopatica) come unico dogma al posto del sociale. Si chiama ipocritamente economia del sociale.
La nostra Costituzione, antifascista e fondata sul lavoro, è stata sempre oggetto di tentativi di distruzione sin dalla nascita, oppure come si dice oggi di “riforme”. Non vi riuscirono, né Valerio Borghese né Licio Gelli (i cui iscritti alla P2 sono oggi in molti gangli dello stato e in parlamento),ma potrebbe riuscirvi lo sgretolamento costante dei suoi principi, l’oligarchia non eletta dell’UE, il sistema bancario internazionale e i loro agenti prezzolati e  già impostati in molti gangli di potere. In Europa magari già dai tempi di Barroso.
L’ambasciatore statunitense a Roma:”Se vince il NO non vi saranno più investimenti e l’Italia torna indietro”. Il nostro servile (o il loro) ministro degli Esteri, Orlando:”è solo il consiglio di un paese amico”. L’avevamo capito.
Anche la Merkel, Junkers e tra poco anche Hollande, aspettando tutti gli altri intrusi, sono per il Sì alla deforma. Ma allora voteremo NO anche contro tutte queste interferenze?
Il FMI: “Se vince il NO per l’Italia sarà un disastro”. L’esito del referendum “è certamente un fattore nelle decisioni di investimento che condiziona le prospettive (outlook)”. In altre parole, e in pratica, se vince il “NO” l’Fmi può fare facilmente un report catastrofico sull’economia e indirizzare altrove gli investimenti. E i “mercati” potranno scatenare attacchi speculativi ed impaurire una parte della popolazione. Questo dopo aver decretato che Il “Fmi prevede una recessione lunga vent’anni”. Si salvi chi può.
L’Economist teme che la vittoria del NO spiani la strada al governo del M5S, rassicurando tutti però che la Costituzione attuale non permette un referendum sull’euro. Quella deformata, se non “Nuova costituzione” dei ragazzini Renzi-Boschi (se si cambiano ben 47 articoli!), modifica i referendum portandoli tutti al quorum del 50% (tanto non passano mai e poi si può anche non applicarne le scelte se non piacciono, es. l’acqua bene comune) e le richieste passeranno da 500 mila a 800 mila. Le firme per le leggi di iniziativa popolare passano da 50.000 a 150.000. Giusto per fare piacere a J.P.Morgan (e alla Troika di Bruxelles) che ne chiedeva addirittura l’abolizione perché residuo storico del ‘900.
JpMorgan? E’ la banca più drastica nel chiedere le modifiche costituzionali, da mesi, poi presentate da Renzi-Boschi nella “Nuova costituzione”, e nel rifiutare la filosofia anti-fascista di quella ancora attuale. “In Europa il fascismo non esiste più”. Quando si guarda solo ai soldi è anche possibile pensare che non stia crescendo nulla di nuovo in tutta Europa, a meno che sotto altro nome “riformista” i gruppi di estrema destra non facciano piacere. Purché si abolisca la sovranità popolare. L’ultimo esempio di raffinata brutalità? Imporre a Renzi e alla Bce (immediatamente ubbidienti), un certo Morelli di loro fiducia, perché già funzionario proveniente da JpMorgan, come a.d. del disastrato e balcanizzato MPS. Che importa se questo signore (si fa per dire) era stato multato (2013) dalla seppur corrotta Banca d’Italia per operazioni non “onorabili” e quindi non “adeguato” (secondo norme Bce) a dirigere nuovamente banche. Oppure per conflitto enorme di interesse perché già amministratore, in Italia, della Bofa Merrill Lynch, presente nel consorzio stesso che dovrebbe partecipare all’aumento di capitale del MPS.   
In Italia aveva iniziato il circo Barnum il Centro Studi della Confindustria già qualche mese fa. La vittoria del NO avrebbe fatto perdere l’1,7% del PIL che invece dovrebbe crescere nel 2017 del 2,3% (Livello mai raggiunto dall’entrata in vigore dell’euro dal 2001!). La menzogna è stampata sul loro quotidiano che molti vantano per la sua imparzialità in economia, il Sole 24 Ore. Per ringraziamento, finiti i soldi del job act e relativi licenziamenti “a tempo indeterminato”, Padoan ha appena annunciato una diminuzione delle tasse sulle imprese. Cosa farà per ringraziare il Sì della Cisl, che in genere firma tutto in bianco da anni!
Continua Goldman Sachs (anche lei fa parte del consorzio di garanzia per la ricapitalizzazione del MPS): una eventuale vittoria del NO al referendum costituzionale potrebbe seriamente compromettere l’operazione di aumento di Mps. Con il NO crescerebbe dunque “la probabilità di una ristrutturazione di Mps con fondi pubblici”: il che vorrebbe dire l’azzeramento dei risparmi di milioni di italiani attraverso il meccanismo del bail in (i debiti della banca li pagano i clienti). Gli investitori (ovvero speculatori), compreso JpMorgan sono “già in ansia”.
A Renzi servirebbe il superamento dei livelli di deficit da concordare con Bruxelles per realizzare una serie di tagli fiscali promessi e gli aumenti retributivi, minimi, a pioggia, nel momento in cui i dati mostrano che l’economia italiana è in recessione da tempo. Ce lo spiegano meglio gli altri. Il Times “Renzi spera che rilanciare la spesa possa contribuire a conquistare il favore dell’elettorato prima del referendum” e gli consigliano un allentamento provvisorio dell’austerity sui poveri. Molti osservatori ricordano che “Bruxelles ha dimostrato tolleranza verso Francia, Spagna e Portogallo sul NON rispetto dei vincoli di bilancio” (linguaggio mafioso-economico, significa: dopo la “Brexit” i “Poteri” hanno PAURA di “perdere Renzi”, anzi hanno Paura di perdere Padoan. Uno che, guardia e servo esecutore delle volontà di Goldman Sachs dalla quale proviene, come Monti, sa benissimo quello che “deve essere fatto”. Questo è un governo Padoan. Anzi permettetemi, ma non è solo mia, una valutazione futura prevedibile perché senza fantasia e nella continuità di questi anni. Se Renzi viene mandato a casa, non si capisce se va via o no e da chi, sicuramente Mattarella incaricherà come nuovo tecnico (per “traghettare” il 2017) proprio Padoan (a modo di Napolitano-Monti) per continuare il blocco della democrazia e lo sfacelo del mercato del lavoro.
Il giornalista Paolo Barnard ricorda alcune delle minacce: “Se il referendum costituzionale non passasse… i titoli di Stato italiani potrebbero essere venduti”;”La vittoria del NO potrebbe comportare la nomina di un governo tecnico”(per un altro “europeista” non eletto); “Le prospettive dell’Italia sono offuscate dai rischi legati al referendum e ai guai del settore bancario, così come l’impatto del “Brexit” sul commercio e l’incertezza”. Non hanno digerito il Brexit che si sta dimostrando il contrario dell’apocalisse. Sapremo tutti i giorni, a tutte le ore, il cosiddetto “pericolo nucleare” del disastro del nostro Monte dei Paschi e quello della “incapacità” di governo del M5S. Alla domanda “Perché Confindustria, Wall Street Journal, New York Times, Financial Times, Paìs, Economist, Times, Silicon Valley, gli uomini dell’industria globale e dei mercati (quindi USA, UE ed altri…) temono che “Quel voto pesa più di Brexit”? In fondo la Gran Bretagna, già fuori dall’euro, c’era e non c’era nell’Unione, eppure i suoi lavoratori hanno dato un segnale, un ceffone, di “basta” al neoliberismo e al loro proprio impoverimento per l’arricchimento dei pochi.  C’è una sola risposta: ancora una volta hanno paura… soprattutto perché c’é di mezzo l’Italia, quindi l’Euro, l’Unione Europea, gli USA, il Mediterraneo e i mercati… insomma il Mondo intero! Mai siamo stati cosi interessanti. Per gli interessi degli altri.
Magari questa turpitudine politica attuale possa rappresentare, anche per noi mondo del lavoro e Cgil, i sobbalzi di un sistema oligarchico agonizzante e con il NO ripristinare una nuova forza democratica di sovranità popolare e di giustizia sociale. Prima che sia troppo tardi.

Lavoratori, ONU e Brexit

di Tonino D’Orazio

Pochi ricordano che all’ONU c’è una sezione per il rispetto dei diritti umani e all’interno vi è una Commissione Economico Sociale e Culturale, che ogni 5 anni, più o meno, o su richiesta, si focalizza sulla situazione di un paese, soprattutto se quest’ultimo chiede prestiti internazioni. Essa verifica se viene rispettata la Convenzione firmata dagli Stati in merito agli obblighi sottoscritti. Per esempio la salvaguardia dei diritti umani nell’adozione di programmi di risanamento di bilancio, compresi i programmi di adeguamento strutturale e programmi di austerità , come condizione per l’ottenimento di prestiti. Vale la pena ricordare alcuni articoli.
La Commissione (indipendente) tutela una serie di diritti della Convenzione internazionale quali i diritti economici, sociali e culturali. Più a rischio sono i diritti del lavoro, tra cui il diritto al lavoro (art.6); il diritto a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro, compreso il diritto a salari equi e a un salario minimo che permette ai lavoratori una vita decente per se stessi e le loro famiglie (art. 7); il diritto alla contrattazione collettiva (art. 8); il diritto alla sicurezza sociale, anche per i sussidi di disoccupazione, l’assistenza sociale e le pensioni di vecchiaia (artt. 9 e 11); il diritto a un adeguato standard di vita, compreso il diritto al cibo e il diritto alla casa (art. 11); il diritto alla salute e l’accesso a un’adeguata assistenza sanitaria (art. 12); il diritto all’istruzione (artt. 13 e 14). Le famiglie a basso reddito, soprattutto con i bambini, e i lavoratori con le qualifiche più basse sono colpiti in modo sproporzionato con misure come la perdita del posto di lavoro, il congelamento del salario minimo e i tagli delle prestazioni di assistenza sociale, potenzialmente con conseguente discriminazione per motivi di origine sociale o di proprietà (art. 2, par. 2). Inoltre, la riduzione dei livelli di servizi pubblici forniti o l’introduzione o l’aumento delle tasse degli utenti in settori come la cura dei bambini e pre-scolastica o servizi di pubblica utilità e dei servizi di sostegno alle famiglie, hanno un impatto sproporzionato sulle donne, e, quindi, possono costituire una passo indietro in termini di parità di genere (arti. 3 e 10). Insomma un concetto socialista esteso in un contesto neoliberista pregnante. Prendiamo ad esempio la relazione del 29 giugno 2016 sulla Gran Bretagna.Il verdetto è schiacciante in quanto il Regno Unito ha violato il diritto internazionale dei diritti umani perseguendo una politica di austerità basata sul regresso della maggioranza della popolazione.
Sorprendentemente (?), sembra che il massimo voto Leave sia situato in roccaforti tradizionali del lavoro in cui l’UKIP di Farage ha vinto, cioè in zone che hanno subito la peggiore avversità economica e quindi abbia votato più fortemente per il Brexit, ritenendone responsabile anche Bruxelles. 

Il reddito delle famiglie nelle zone meno ricche del paese (quindi entroterra e campagne in giornalistico “contrasto” con le città) sono probabilmente più dipendenti da prestazioni sociali statali e servizi pubblici. La stessa pressione, percepita sui servizi pubblici in diminuzione, ha sicuramente contribuito ad una maggiore resistenza all’immigrazione. Allo stesso modo, la promessa di spesa in più disponibile per il servizio sanitario nazionale sembra essere stato convincente. A me sembra che il contrasto all’austerità della troika di Bruxelles, metodi e finalità, abbia contato (brutto esempio in prospettiva) molto più di quel che si dice, in questo referendum.

Ed è per questo che il rapporto insolitamente critico delle Nazioni Unite è così importante .

La relazione è stata emessa da un comitato di esperti indipendenti (senza retorica e propaganda) che controlla la protezione dei diritti economici, sociali e culturali negli Stati, in particolare per i gruppi svantaggiati.

Le sue conclusioni sono dure: le riforme previdenziali e i tagli ai servizi pubblici hanno avuto un impatto sproporzionatamente negativo sulle famiglie a basso reddito e “dovrebbe” essere invertito. Le riforme regressive alle imprese, riduzione dell’imposta di successione e dell’IVA hanno diminuito le capacità del Regno Unito “per affrontare la persistente disuguaglianza sociale”, mentre non si sta facendo abbastanza per combattere l’evasione fiscale da parte delle imprese e degli individui con patrimoni ingenti. Spesso il piccolo beneficio del sanziona mento è speso male e in modo abusivo. Il deficit abitativo è ora “critico” e contribuisce agli “eccezionalmente elevati livelli di senzatetto”. E’ stata presa una azione insufficiente per affrontare la crescente dipendenza dalle banche del cibo. I livelli delle prestazioni lasciano molti in uno stato persistente di indigenza.

E nonostante tutto i sacrifici i bei tempi propagandati non sono mai venuti. Secondo il Comitato, il “salario minimo nazionale” “non è sufficiente a garantire un livello di vita dignitoso”; i livelli di occupazione sono in aumento, ma troppe persone sono mal pagate e i posti di lavoro sono poco qualificati o con contratti a zero ore. Anche prima del Brexit, l’Institute for Fiscal Studies proiettava la povertà infantile in aumento del 50%, con quasi uno su cinque che vivrà in assoluta povertà entro il 2020. L’austerità, nel Regno Unito. ha dimostrato di essere molto più severa per alcuni rispetto ad altri. Nulla di nuovo se non essere il verdetto della Commissione delle Nazioni Unite durissimo.

Il senso di divisione, la disillusione e la diffidenza del pubblico a cui il programma di austerità ha contribuito, ovviamente non spiega tutto del voto referendario vinto dal Brexit, ma è importante riconoscere la sua parte e non disconoscerla con argomenti svianti e fare finta di non capire.

O discorsi speciosi. Con nuove sirene ma con i soliti argomenti.

Esempio la Lagarde del FMI che continua con le lacrime di coccodrillo a dire quanto abbiano sbagliato, tutti, a comprimere in questo modo i popoli con una austerità che non permette più né consumi e né guadagni (anche per loro) e sa che in realtà inizia ad esserci una pericolosa repulsione di massa verso il potere oligarchico delle banche e dei politici, ovviamente asserviti. Finché era la Grecia, dove comunque una piccola scintilla è partita, pazienza, poiché mentre esigeva ferocemente il rimborso del “debito” con i soldi “elargiti al popolo greco” dalla BCE, chiedeva all’Europa di “tagliare” e ristrutturare il proprio debito. Cosa che nessuno ha fatto, forse un giorno, al di là del 2018. Erano solo chiacchiere di approcci dissuasivi per rinfocolare una sempre presente linea politica di speranza per il futuro. Tanto i poveri ci cascano sempre, altrimenti come spiegare democraticamente la drammatica realtà attuale della sopraffazione dei pochi sui molti. 
I conservatori inglesi, insieme ai laburisti di Tony Blair, in questi ultimi venti anni, sono responsabili o no del degrado del proprio paese? Nel nostro, ForzaItalia/Lega Nord e il Pd, sono responsabili nella non applicazione della Convenzione sui Diritti Umani della Nazioni Unite in merito al diritto al benessere e non alla miseria del proprio popolo? Perché stupirsi del messaggio del nuovo primo ministro inglese Theresa May, sempre dei conservatori, che promette di governare gli inglesi per il lavoro piuttosto che per i privilegiati. Il suo primo intervento da premier è stato dedicato a milioni di inglesi laboriosi, promettendo, davanti alla porta di Downing Street, No10, di governare “per loro”. In un messaggio successivo ha insistito che sarebbe stata dalla parte dei sacrificati e di quelli che combattono ogni giorno per far quadrare i conti. Cavalca lei stessa il programma un po’ più “operaista” del Labour di Corbyn, approfittando delle difficoltà dovute alla spaccatura tra base e vertici (parlamentari pro-eurocratici) di quel partito. La May è un po’ come un prete che abiura a parole la propria religione per recuperare qualche voto, e non fare crollare l’impalcatura, forse già la baracca, ideologica del neoliberismo, che un duro colpo ha pur preso dal Brexit. Non è diffidenza, è solo storia e memoria politico-sociale.

Brexit e banche, parla l’economista Galloni: “Si può uscire dal baratro senza l’Europa che alimenta la turbofinanza”

Negli anni Ottanta, da funzionario, fu isolato per le sue posizioni ostili ai trattati e critiche su euro, sistema finanziario e banche. Oggi le sue teorie vengono prese a prestito anche da chi lo avversava. “Bisogna ribaltare i paradigmi senza venire a patti con le istituzioni: sono parte del problema e non hanno soluzioni”, è la sua ricetta. Ai Cinque Stelle che attingono alle sue tesi dice: “Sono disponibile, ma per un progetto senza compromessi”

di Thomas Mackinson da ilfattoquotidiano

Alle cronache dell’epoca era passato come “l’oscuro funzionario che fece paura a Helmut Kohl”. Da una posizione di vertice al ministero del Bilancio dell’Italia anni Ottanta aveva osato avversare apertamente i trattati europei. Profetico, a tratti perfino eversivo nelle sue teorie macroeconomiche, metteva già in discussione le politiche neoliberiste, il futuro della moneta unica, il dogma degli investimenti senza debito. E ora, a distanza di trent’anni e di molti libri e conferenze, anche chi governa nei consessi internazionali, perfino chi manovra la nave dell’eurozona alla deriva, inizia a parlare la sua strana lingua. Chiamiamo Antonino Galloni che è sera. Il “pericoloso funzionario”, ormai vicino alla pensione, è alle prese con un pollo ruspante a chilometri zero, da cucinare con lime, vino, carote e timo: “Un peccato non usare certe ricette”, sospira. Le sue le ha scodellate da tempo al servizio di tutti ma per diversi decenni sono rimaste confinate sullo scaffale degli economisti eterodossi, quelli che i politici non ascoltano perché propongono cambiamenti radicali. Ex funzionario del ministero del Bilancio, direttore generale di quello del Lavoro, un tempo docente universitario, Nino Galloni non ha perso per strada le sue convinzioni che ha perfezionato nel tempo, soprattutto alla luce degli sconvolgimenti in corso. Le spiega con pazienza, al telefono, e si premura di avvertire i Cinque Stelle che tante volte alle sue tesi hanno attinto: “Sono pronto a dare una mano, purché l’ansia di governare non li faccia piegare alle richieste delle istituzioni internazionali di dimostrarsi affidabili a tutti i costi, perché così non cambierà nulla. Se qualcuno cerca un programma avanzato per uscire dal baratro, ecco, io ce l’ho”.
Partiamo dal baratro: le banche, i mercati e la finanza
Sempre lì siamo. E’ il conto che tutti paghiamo al dominio del pensiero unico di matrice neoconservatrice, quello che dagli anni Ottanta ha imposto un modello capitalistico irresponsabile che oggi non è più nemmeno di mercato ma guidato da algoritmi matematici. Il suo obiettivo è massimizzare l’emissione di titoli e i debitori – Stati compresi – perché siano deboli, poco solvibili e sottomessi. Questo costringe a far aumentare la circolazione di derivati e swap (scommesse su tutto, ci spiega). Così si fanno milioni di miliardi di dollari di titoli tossici. Il punto è come uscirne, perché è ormai chiaro che il soccorso che trasferisce Pil a copertura dei debiti delle banche non potrà durare per sempre. I titoli tossici e fasulli in circolazione, a livello planetario, rappresentano 54 volte il Pil mondiale. Stiamo salvando il peggio.

Appunto, come se ne esce?
C’è chi pensa a passare la nottata invece di fermare la roulette impazzita. Possiamo partire proprio dalle banche, ipotizzando un ruolo e una contabilità diversa. Si deve tornare alla separazione tra chi eroga credito operando come agente di sviluppo sul territorio e chi fa raccolta a fini speculativi. Nel credito, poi, si dovrebbe ragionare su una contabilità vera che metta nel conto economico delle banche tutti i versamenti delle rate a titolo di estinzione dei debiti, mentre ora vengono calcolati solo gli interessi.

Cosa cambierebbe?
Quella che oggi si chiama “perdita” o sofferenza sarebbe correttamente contabilizzata per quello che è: un mancato arricchimento. Si abbatterebbe il margine operativo, che resterebbe però sempre a livelli stratosferici, dell’ordine del 50-60%, detratti i costi di funzionamento della banca. E su quelli potrei fargli pagare le tasse, con un’aliquota che diventa bassa per tutti, ricavando così un gettito che concorra a tenere in piedi il sistema.

Un esempio, per capire…
Mettiamo che lei abbia un’impresa di spettacolo e si fa finanziare un milione di euro. Paga gli operai, i costi, l’intermediazione bancaria e alla fine riesce a restituire solo la metà. Ebbene quei 500mila euro, detratti i costi bancari che poniamo siano del 10%, la banca incassa comunque un attivo di 450mila euro netti. E’ una perdita o un guadagno? E più in generale: oggi si finanzia solo ciò che porta profitto ma siamo fuori dall’età della scarsità delle risorse e lo sviluppo responsabile potrebbe essere limitato solo dalla disponibilità del fattore umano, se solo si annoverassero tra le attività necessarie per un Paese i servizi alla persona, la cura dell’ambiente, l’innovazione tecnologica e tutti quei fattori che sono alla base dello sviluppo.

Perché non lo si fa?
Perché significherebbe avere piena occupazione e aumento dei salari, la gente non sarebbe più asservita e dunque un mondo rispetto al quale il vecchio modo di governare, basato sulla soggezione della gente, non funziona più e salta. Le soluzioni all’attuale crisi economica ci sono ma comportano un’emancipazione delle popolazioni, un aumento alla partecipazione democratica, il ripristino della classe media al posto della categoria dei cittadini-sudditi. Oggi la gente è disperata: non trova lavoro, non riesce a pagare il mutuo, ha paura di quello che può accadere al primo imprevisto. E sta buona. Senza questa sottomissione economica le classi dirigenti andrebbero in crisi: e come facciamo noi a sopravvivere?, si chiedono i parassiti.

E’ un fan delle teorie del controllo sociale alla Bildenberg?
I poteri forti esistono e dominano perché non c’è una classe politica degna di questo nome. Quando ci sono i Roosevelt, i Kennedy, i Moro, i Mattei è chiaro che questi poteri occulti hanno meno peso e importanza. Attraverso gli squilibri finanziari, monetari e bancari mantengono il controllo sulla formazione delle stese classi dirigenti che poi vanno formalmente a governare i paesi.

Che margini ci lasciano?
Si potrebbe ancora rovesciare il tavolo delle regole, forse. Ad esempio autorizzando i disavanzi dei Paesi in funzione del tasso di disoccupazione e non di parametri finanziari decisi chissà dove e come. Ma certo non lo può fare questa Unione Europea e le istituzioni che sono parte del problema.

E perché?
Perché sono lontanissime e tendenzialmente ostili a favorire la consapevolezza delle masse che un certo meccanismo si è rotto. E tendono a tamponare le situazioni per mantenere lo status quo. Le democrazie che guidano sono in crisi perché non sono riuscite a stabilire la differenza tra cittadino e suddito. Per ristabilirla, serve recuperare sovranità e capire quale è il modello economico oggi sostenibile. Ritengo che sia arrivato il momento di infrangere dei tabù e di tentare politiche opposte, di aumento dei salari e della spesa pubblica in disavanzo, di riconoscere la sostenibilità dei rendimenti negativi una volta si sia capito che credito e moneta sono a costo zero non hanno bisogno di copertura ma solo di stimolare la produzione di quei servizi necessari alla comunità di cui si dice erroneamente che mancano i soldi.

Ma abbiamo il debito pubblico alle stelle…
E’ vero. Ma su questo si deve fare un ragionamento finalmente vero e più onesto. Quando andiamo in banca ad accendere un mutuo ci viene concessa una somma fino a cinque volte il nostro reddito annuale. Il reddito di un Paese è il Prodotto interno lordo, ma il debito va paragonato al patrimonio che è di gran lunga superiore. Questa idea per cui siamo appesi ai conti economici delle entrate e delle uscite è una mistificazione che comprime le possibilità di sviluppo e di piena occupazione.

Da molto tempo è ai piani alti del ministero del Lavoro. Come sta andando l’occupazione?
Oggi ho incarichi di controllo ma non ho mai smesso di ragionare su dati, parametri e interventi che di volta in volta vengono fatti. Purtroppo non si è cambiato strada, le esigenze della società continuano a non trovare una risposta attraverso il lavoro. Un errore fondamentale è stato fatto quando ero direttore generale, allora lo denunciavo e oggi timidamente qualche ammissione arriva anche dal ministro. La flessibilizzazione è diventata sciaguratamente precarizzazione perché non si è realizzato il principio secondo cui il lavoratore flessibile doveva costare di più alle imprese di uno stabilizzato.

E le misure del governo?
Col Jobs Act si sono ridotti i diritti dei lavoratori stabili per renderli più appetibili alle imprese e ha funzionato, tuttavia ha eroso la stabilità di chi era garantito. L’effetto lo si vede nell’esplosione dei 500mila voucher che hanno portato altrettanti lavoratori sotto lo schiaffo del caporalato segnando una grande sconfitta per il ministero, per il governo e per il Paese. Tocca chiedersi cosa succederà: se pretendiamo il rispetto della legalità finiremo per togliere lavoro a questa gente per poi reimportare arance e pomodori dal Nord Africa. E’ questo il sacco in cui si trova il lavoro. E tocca capire anche cosa succederà dopo tre anni, quando termineranno gli incentivi previdenziali. Nel frattempo assistiamo a un paradosso: in certi momenti l’occupazione (precaria) è cresciuta più del Pil, e allora il grande successo di queste politiche è… far calare la produttività.

Cosa pensa della Brexit? E’ il segno della disgregazione dell’Europa?
Ha creato un po’ di panico a livello delle classi dirigenti perché si è visto che la gente non si è fatta condizionare e ha scelto in base alla valutazione dei propri interessi. Significa che, in fondo, era stato sottovalutato l’impatto che le classi più umili, le persone più anziane, percepivano delle situazione come negativa. Gli inglesi che hanno votato “si” vogliono liberarsi di una serie di vincoli e problemi e tornare a un maggior realismo in economia, a una maggiore centratura sul livello locale e in parte anche sulle tradizioni. Ma in concreto a breve cambierà poco perché già la Gb non faceva parte dell’euro e ora potrà negoziare accordi di comune interesse. Se la sterlina si svaluta andremo in vacanza a Londra spendendo di meno e verranno meno turisti inglesi da noi. Ma la conseguenza più grande è che si possono rimettere in gioco parecchi equilibri.

Tanto rumore per nulla?
Diverso è se si considera la cosa a livello geopolitico. E’ chiaro che la Corona inglese non si sia spesa per il “remain”. Significa che aveva strategie alternative, come quelle mai nascoste di recuperare il controllo della sua colonia preferita cioè gli Usa che in questo  momento sono un po’ allo sbando. Quindi tramite la finanza e altri strumenti che sono il nocciolo duro dell’Inghilterra pensa di avvicinarsi di più ai cugini d’Oltreoceano. Non significa che il Regno Unito, se tale rimane, si allontani dall’Europa ma certo si avvicinerà di più all’America e potrebbe ad esempio rilanciare il TTIP, che era mezzo morto.

Se ci fosse un referendum in Italia come finirebbe?
Non è questo il punto. Se usciamo dall’Europa è per andare dove? Penso che l’Italia potrebbe giocare un ruolo fondamentale nel dialogo Usa-Russia per spostare il baricentro dell’economia europea verso il Mediterraneo che è necessario anche per gestire i flussi migratori e respingere il terrorismo a sfondo religioso. Paradossalmente, per giocarsela in Europa, l’Italia dovrebbe rompere con essa e fare un accordo restrittivo con la Russia, ma meglio portare avanti un dialogo tra Usa-Russia di cui siamo i principali referenti e beneficiari. Il governo italiano dovrebbe battersi per il superamento delle sanzioni.

Come reagirebbe l’Europa?
Il problema è che Renzi o chiunque altro, anche se legittimati da un referendum no euro, non potrebbero cogliere questa prospettiva  perché Francia e Germania non lo consentirebbero: loro che hanno avuto maggiori vantaggi di noi da questa Europa a due velocità, già soffrono e non ci stanno a perdere peso.

Le sue tesi piacciono al M5S che oggi ambisce a governare. Risponderebbe a una “chiamata”?
Sì, ma mi preme chiarire un aspetto. Dall’origine del Movimento ad oggi è successo qualcosa di importante e potenzialmente rischioso. Quando l’orizzonte era l’opposizione la mediazione era esclusa, non si scendeva a patti col potere. Oltre all’esigenza del consenso però il Cinque Stelle oggi coltiva l’ambizione del governo e questo sdoppia la sua matrice. Da una parte continua la deriva positiva degli anti-sistema al grido “onestà-onestà”, dall’altra una crescente propensione ad accreditarsi come referenti affidabili, anche presso i consessi internazionali. Ecco, se prevalesse la logica del “vedete, siamo bravi ragazzi” temo che anche mettendo a disposizione le mie ricette non cambierebbe nulla. Se invece vincesse lo spirito delle origini a favore di programmi e posizioni radicalmente innovativi, beh, io ci sarò”.

Brexit, il mondo è caduto dalle nuvole

Isteria. Indignazione. Catastrofismo. “Lesa maestà”. La scomposta reazione mondiale all’esito del referendum britannico stupisce. Perché le avvisaglie erano molte. Eppure si continua a tuonare contro i populismi, dimenticando che è l’involuzione autoritaria della politica continentale ad aver spinto gli inglesi fuori dall’Unione. L’unico modo per superare la crisi dell’Europa non è criminalizzare la Brexit ma infondervi democrazia, abbandonando il dogma dell’austerità neoliberista.

di Marco D’Eramo da Micromega
Ma i cavalli dei cosacchi non si stanno abbeverando a Trafalgar square né la svastica sventola su Buckingam palace. Eppure proprio questo verrebbe da credere stando alla reazione, ai limiti dell’isteria, all’esito del referendum britannico sull’uscita dall’Unione europea. I mitici “mercati” (sempre al plurale, e sempre “razionali”) hanno bruciato in un giorno, dopo il voto, 2.000 miliardi di dollari, più dell’intero prodotto interno lordo annuo dell’Italia.

Ora i britannici hanno sì compiuto una scelta critica, ma in definitiva non hanno fatto che rescindere il contratto di adesione a un’associazione internazionale, già piuttosto malconcia di per sé. Ammettiamo pure che per qualche oscura ragione i “mercati” non avessero previsto l’esito del voto. E allora? Per decenni i cantori della globalizzazione ci hanno frastornato le orecchie raccontandoci che il capitale si è deterritorializzato, che non ha più radici, che è gioiosamente nomade come un soggetto di Guattari o di Rosi Braidotti, che è apolide e in perpetuo movimento. Perciò, se anche i quartier generali di banche, assicurazioni e fondi d’investimento dovessero emigrare da Londra in un’altra global city, siamo sicuri che i mercati nella loro infinita razionalità troverebbero una residenza vivibile per continuare a macinare profitti.

Né è spiegabile la ben orchestrata indignazione europea che questo voto ha suscitato. Mutatis mutandis, se la Scozia si fosse separata dall’Inghiterra (e magari lo farà), sarebbe stata una lacerazione ben più grave e dolorosa, visto che scozzesi e inglesi hanno condiviso la stessa nazione, la stessa lingua, lo stesso impero coloniale per più di trecento anni, ma certo non avrebbe suscitato l’indignazione che ha sollevato la Brexit, che pure ha deciso la separazione di un’unione durata solo 43 anni, ma mai davvero celebrata e tanto meno consumata, senza comunità di progetto e di obiettivi (il Regno unito non ha mai fatto propria la carta fondamentale dei diritti europei, ha aderito solo a quelle norme del trattato di Lisbona che non contraddicono la sua legislazione, e così via). Il Regno unito non fu uno dei fondatori dell’Unione europea e anzi ha sempre remato contro, sempre recalcitrante; ma ora improvvisamene l’Europa scopre che la Gran Bretagna era il suo socio più importante e che senza di lei la catastrofe incombe.

Anche all’interno dello stesso Regno unito la reazione è stata tutt’altro che british. La sola proposta di far ripetere il referendum è assai più che balzana. Immaginate se in Italia nel 1946 i monarchici avessero voluto far ripetere il referendum che instaurò la repubblica, o se nel 1974 la Chiesa cattolica avesse lanciato una campagna di massa per far replicare il referendum che aveva rifiutato l’abrogazione della legge sul divorzio. Non solo è insensato, ma è una sfida alla democrazia e costituisce un precedente pericolosissimo, dalle conseguenze, queste sì, incalcolabili. Sulla proposta di ripetere il voto ha scritto Wolfgang Munchau sul Financial Times: “Non riesco a immaginare una singola misura che produca più acrimonia, più divisione e più danno economico della decisione di ignorare un voto democratico”. Eppure questa proposta letteralmente eversiva è stata appoggiata con giulivo entusiasmo dai più benpensanti organi di stampa europei, dalla Repubblica alla Süddeutsche Zeitung.

Dietro la proposta di ripetere il voto, si delinea, neanche tanto nascosta, l’idea di invalidare la volontà popolare. È quel che l’Europa fece esattamente un anno fa con Atene quando cancellò il voto dei greci nel loro referendum sull’austerità. Allora la Troika decise di chiarire al mondo che le schede elettorali i greci potevano usarle solo come carta da toletta e che la volontà popolare non ha alcun potere di fronte alla superiore volontà dei banchieri, dei mercati e delle cancellerie. I greci erano abbastanza deboli da dover ingoiare questo pitone salato (altri rettili avrebbero ingerito in seguito). Con il Regno unito l’Europa ha provato la stessa mossa: costringere la classe politica inglese a vanificare il voto britannico. Solo che l’Inghilterra non è la Grecia (la Grecia non siede nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, non è la quinta economia al mondo, non ha un arsenale atomico, non è un ex impero coloniale, non ospita il più importante centro della finanza mondiale). Ma ciò non vuol dire che alla lunga non si riesca ad annullare il voto britannico, come si è annullato quello greco.[1]

La definizione più precisa della scomposta reazione mondiale alla Brexit è quella di “lesa maestà”.

Gli inglesi hanno osato sfidare, “ledere” il volere dei partner europei, della grande finanza, del padronato industriale, della potenza imperiale (gli Usa). È questa sfida all’ordine costituito che ha mandato tutti nel pallone e ha fatto dare a tutti di matto. Se avessero potuto, avrebbero emanato una lettre de cachet per l’intero popolo inglese per rinchiuderlo tutto nell’equivalente odierno della Bastiglia.

Eppure le avvisaglie c’erano. Intanto in Gran Bretagna, dopo Edward Heath nel lontano 1973, nessun politico nazionale ha mai osato esporsi come europeista convinto. Nessun premier si è mai dichiarato fautore dell’Unità europea, semplicemente perché sapeva che avrebbe perso voti. C’era chi era poco o molto antieuropeista, come i laburisti Wilson e Callaghan, i conservatori Thatcher, Major e Cameron, o più possibilista verso l’Europa come Tony Blair. Il consenso nazionale era che la Gran Bretagna avrebbe dovuto far parte del mercato unico europeo, ma mai e poi mai di un’entità politica europea (e questo consenso è durato solo finché persino la semplice appartenenza al mercato unico non ha significato anche frontiere aperte agli immigrati europei).

In secondo luogo, per 40 anni con i tabloid in testa – ma non solo –, la stampa britannica – anch’essa controllata da quel gran capitale che oggi recrimina – , ha martellato l’opinione pubblica inglese descrivendo l’Europa come l’origine di tutti i mali, come la pretesa di legiferare sui minimi aspetti della vita degli inglesi (litri invece di pinte, chili invece di libbre), come una burocrazia stolta, tracotante, pignola e parassita.

Da tempo frequento la Gran Bretagna (e non solo Londra, a differenza di molti) e mai ho sentito una voce che spingesse per più Europa. Al massimo, invece degli insulti, un silenzio pudico. Perciò non aveva la minima possibilità di successo una campagna basata sul ricatto della paura: “o l’Europa o la catastrofe”. Scrive sempre Munchau a proposito della reazione al voto: “Gli anti-Brexit sono ancora intrappolati nella seconda delle cinque fasi del lutto: la fase della rabbia. La prima fase è il rifiuto, che è quella in cui sono rimasti durante tutta la campagna: negavano persino la possibilità che la parte opposta potesse vincere e negavano il disastro politico di una campagna basata sul Progetto Paura”.

L’antieuropeismo inglese è così radicato che nel 2012, solo quattro anni fa, uno dei padri spirituali dell’Unione politica europea, Jacques Delors, invitava Londra a lasciare l’Europa: “Se i britannici non seguono la tendenza che va verso una maggiore integrazione nell’Unione europea, potremmo malgrado tutto restare amici, ma in un’altra forma”, “una forma come quella dello spazio economico europeo”, o un accordo di libero scambio”.[2]

Perciò nel voto di uscita dall’Unione l’unica cosa che stupisce è lo stupore che ha suscitato. Tutti caduti dalle nuvole.

Questo stupore, questo sdegno è stato condito dal solito, ennesimo vituperio del populismo. E sempre più si dimostra che questa categoria, “populismo”, è totalmente inutile da un punto di vista euristico. Anzi, essendo usata come puro insulto, impedisce di capire quel che sta succedendo e funziona da paraocchi perché veicola solo un malcelato disprezzo per il volgo, per la plebe, per la teppaglia sempre irrazionale, sempre bestiale, sempre preda dei demagoghi. En passant, fu la Santa Alleanza monarchica e reazionaria che in nome dell’amore imprigionò i demagoghi, come avvenne con i Decreti di Carlsabd (1819) e per l’Hambacher Fest (1832) con la vituperata (ma oggi rivalutata) Demagogenverfolgung (“persecuzione dei demagoghi”).[3]

Usando la categoria del “populismo” qualunque evento viene letto in chiave regressiva, di ritorno al tribalismo, ricaduta nella barbarie. O tempora, o mores!

È ancora sotto i nostri occhi il sorrisino sprezzante con cui ci è stato annunciato che i fautori del Restare (in Europa) erano giovani, colti, agiati (magari anche belli), mentre i fautori della Brexit erano poveri, ignoranti e anziani.

Tutto vero, mi si obietterà, ma intanto chi è uscito vincitore dalla Brexit in Inghilterra è Nigel Farage, leader dell’Ukip (United Kingdom Independence Party) e in Europa Marine Le Pen del Front National francese. A parte il fatto che la Francia non ha aspettato la Brexit per far volare il lepenismo: già 14 anni fa, nel 2002, il candidato della sinistra Lionel Jospin fu estromesso dal secondo turno delle elezioni presidenziali che si giocarono tutte a destra tra Jacques Chirac e Jean-Marie Le Pen, va rilevato che questo spauracchio dell’estrema destra è curiosamente selettivo e viene sbandierato solo in alcuni casi e mai in altri. Il fascista Viktor Orbán in Ungheria non preoccupa nessuno, come viene tollerato che in Polonia governi l’altrettanto fascista partito Prawo i Sprawiedliwość (Diritto e Giustizia) di Jarosław Aleksander Kaczyński; mentre si regalano miliardi di euro a un aspirante dittatore come il premier turco Recep Tayyip Erdoğan (leader del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) che tiene l’Europa sotto ricatto aprendo e chiudendo il rubinetto dei rifugiati, mentre imprigiona oppositori e chiude giornali critici.

Non solo, ma con la “vibrata indignazione” nei confronti del populismo, ci si esime dal capire perché in Francia i comuni delle banlieues rouges siano passati da giunte di sinistra a giunte lepeniste, perché a Roma le borgate e le roccaforti del Pci siano tutti passate ai 5 Stelle.

Questa narrazione ci fa dimenticare che a votare per la Brexit è stato il proletariato inglese in massa, sono state le aree del declino industriale, mentre a votare per l’Europa sono stati i quartieri bene, i centri finanziari, i suburbi residenziali delle classi agiate. E ci fa regalare la Brexit alla destra. Mentre è vero l’inverso (non il contrario) e cioè che è l’involuzione autoritaria della politica continentale, lo svuotamento progressivo della democrazia sia a livello nazionale, sia a livello europeo ad aver spinto gli inglesi fuori dall’Europa.

Non è la Brexit che mette in crisi l’Unione europea, ma è la crisi dell’Unione europea a provocare le spinte all’uscita. Come ha scritto prima del voto un lettore della (assai di sinistra) London Review of Books,[4] “La Ue di cui la Gran Bretagna è membro, è la stessa Ue che ha brutalizzato il popolo greco. È la stessa Ue che attualmente, con un piccolo aiuto della Nato, cerca di respingere i disperati rifugiati dalla Siria, dall’Afghanistan, dall’Eritrea e da altrove. È la stessa Ue che sta conducendo trattative segrete sul Ttip (il trattato commerciale transatlantico), sul Ceta (Ue-Canada Comprehensive Economic and Trade Agreement) e Tisa (Trade in Services Agreement), trattati che mirano a rafforzare il ruolo delle corporations multinazionali e a scalzare le regole che proteggono le persone da esse. I socialisti non dovrebbero scusarsi per lanciare una campagna indipendente e internazionalista contro l’Ue”.

Resto convinto che se l’Europa non avesse trattato la Grecia come ha fatto, se non avesse dato questa brutale dimostrazione di come si schiaccia una volontà popolare in nome di ragioni sovranazionali, forse il voto inglese sarebbe stato diverso. Non ci rendiamo conto che di quest’Europa è restato ben poco da difendere. Destra e sinistra propongono le stesse politiche, tanto che spesso, come in Italia e in Germania, governano insieme, mentre in Francia la politica di Hollande è indistinguibile da quella di Sarkozy. Non sono i partiti cosiddetti populisti a svuotare la democrazia, ma è lo svuotamento della politica a produrre le scelte elettorali a cui assistiamo. Cosa deve fare un elettore che non la pensa come i benpensanti moderati unanimi gli impongono di pensare? Sono decenni che la sinistra non offre più soluzioni “di sinistra”, ma fa propria la vulgata neoliberista secondo cui l’equità costituirebbe un ostacolo all’efficienza economica (e quindi, all’inverso, l’ingiustizia va ricercata per avere un’economia più “efficiente”).

Non so se per opportunismo, calcolo, per vocazione o per convinzione, ma Angela Merkel è stata nell’ultimo decennio la regista della più grande controrivoluzione sociale a livello continentale che l’Europa abbia mai visto. L’Ue della Merkel ha fatto a livello europeo quello che alla Thatcher non era pienamente riuscito in ambito inglese: lo smantellamento dello stato sociale, l’annientamento dei sindacati, lo sbriciolamento della sinistra politica. Negli ultimi 10 anni in tutti i paesi, Germania compresa, la diseguaglianza è cresciuta (l’indice Gini è aumentato), in tutti i paesi (Germania compresa) i cittadini delle fasce basse hanno perso potere d’acquisto e hanno visto scemare il loro tenore di vita. Le protezioni sociali sono state smontate, le possibilità di ascensione sociale stoppate. A un numero sempre crescente di giovani è stato letteralmente scippato il futuro.

Perciò l’unico modo per superare la crisi dell’Europa non è criminalizzare la Brexit, non è tuonare contro i populismi o il ritorno al tribalismo. È infondervi democrazia, è invertire rotta nelle politiche sociali, abbandonare il dogma dell’austerità neoliberista. Solo così saranno sottratti argomenti all’euroscetticismo. A meno di non ritenere che la ricetta giusta fosse quella ironicamente suggerita da Bertold Brecht quando lesse che il segretario generale dell’Unione degli scrittori della Ddr, di fronte ai moti operai del 1953 aveva detto: ”Il popolo ha tradito la fiducia che il governo gli aveva riposto: ora dovrà lavorare il doppio per riconquistarla”. Brecht disse “Non sarebbe più facile se il governo sciogliesse il popolo e ne nominasse un altro?”[5].

NOTE

[1] Anche Etienne Balibar ha accostato Brexit e vicenda greca su Libération del 27 giugno: “la debolezza della Grecia, abbandonata da tutti coloro che logicamente avrebbero dovuto sostenere le sue rivendicazioni, ha portato a un regime di esclusione interiore; la forza relativa del Regno unito (che può contare su solidi appoggi in seno all’Ue) porterà senza dubbio a una forma accentuata di inclusione esteriore”.

http://www.liberation.fr/debats/2016/06/27/le-brexit-cet-anti-grexit_1462429.

[2] “Delors invite Londres à quitter l’UE”, L’Express del 28 dicembre 2012. http://www.lexpress.fr/actualite/politique/jacques-delors-invite-le-royaume-uni-a-quitter-l-union-europeenne_1203673.html

[3] Sempre di passaggio, potremmo far osservare agli implacabili censori del populismo, che nel vertice a tre con i leader di Canada e Messico, il 29 giugno, di fronte al messicano Peña Nieto che appunto attaccava il populismo, il presidente Usa Barack Obama abbia rivendicato questa nozione e abbia detto “Io sono populista”. https://www.youtube.com/watch?v=4le6FhgZBHg [4] Vol. 38, n. 7, 31 marzo 2016, Letters. http://www.lrb.co.uk/v38/n07/letters [5] Nach dem Aufstand des 17. Juni Ließ der Sekretär des Schriftstellerverbands In der Stalinallee Flugblätter verteilen Auf denen zu lesen war, daß das Volk Das Vertrauen der Regierung verscherzt habe Und es nur durch verdoppelte Arbeit Zurückerobern könne. Wäre es da Nicht doch einfacher, die Regierung Löste das Volk auf und Wählte ein anderes?

(1 luglio 2016)

Brexit, la certezza del regime.


di Tonino D’Orazio 1 luglio 2016
 
Anche perché mai come adesso è uscito fuori cosa pensa veramente la borghesia del popolo. Anche la piccola borghesia intellettualoide, pur in uno stato di sindrome di Stoccolma (la vittima che ama l’aguzzino), quasi come il “popolo”. I perdenti insultano, negano, minacciano, fanno persino ostruzione, bisogna rivotare (si cercano i cavilli) e ognuno si riprende i propri giocattoli. Tutti in coro, a reti e giornali unificati e in tutte le lingue. Compresa la paura scatenata nel voto spagnolo dalle minacce nemmeno velate della troika di Bruxelles sul Brexit. E per gli altri a seguire. Alla ola del:”Brexit? Britannici fuori e subito!”. Allora è veramente successo qualcosa. Si è sgretolato uno strano edificio, si è spezzato un cerchio magico che sembrava senza alternativa. Eppure abbiamo già visto che i referendum popolari non vengono mai applicati e spesso subdolamente elusi in un modo o in un altro. Tutti.
L’elemento principale è che il referendum non serve quando si perde e che a votarlo sono spesso degli ignoranti da educare. Questi propositi indicano a che punto il regime totalitario è arrivato culturalmente, senza che nessuno si stupisca più di tanto.
La crema degli intellettuali europei ciancia di “calda Europa” dei popoli, luminosa e democratica, magari il popolo, più realisticamente, subisce la fredda Europa dei tecnocrati, autoritaria e burocratica sulla propria pelle. Altrimenti perché metà della popolazione europea (sondaggi paese per paese) vorrebbe uscire dalla dittatura del quarto reich? E statene certi che alla fine ci riuscirà, anche se con le ossa rotte.
I benestanti che dall’ineguaglianza istaurata da questa Unione, in fondo, ne traggono vantaggio e non sono masochisti, trovano che il Brexit è banalmente il risultato di un uso irresponsabile del voto. Plaudiranno al suo imbrigliamento, o dilazionamento tecnico, parimenti alla concezione che hanno del popolo. Mica gli si può lasciar fare o pensare quello che vuole al popolo. Addirittura qualcuno, indecentemente, sul Fatto Quotidiano, che in genere non è tenero contro la politica dell’austerityinutile e dannosa della Troika di Bruxelles (motivo principe della decisione popolare, ma un po’ scomparso dal dibattito e rimpiazzato dai banditori con la paura degli immigrati), cito: “Si può chiedere un maggiore ricorso al voto popolare soltanto se gli elettori prendono sul serio il proprio compito, se danno un voto consapevole, faticoso. In caso contrario la democrazia diretta diventa circonvenzione di incapace”.
Lasciamo fare a chi è capace e competente, oppure a chi, da minoranza da almeno 20 anni, pensa di modificare l’Unione dall’interno (compreso il Labour), ma soprattutto è meglio non analizzare realisticamente i risultati. Che addirittura il referendum non si dovesse proprio fare si sono schierati, in Italia, i peggior politici oligarchici e autoreferenziali di questi ultimi anni: Napolitano, Monti, la Fornero, la liberaldemocratica Repubblica e tutti i giornali e le reti televisive, i rappresentanti della Confindustria, intellettuali prezzolati, in pippe di commi e controcommi, Renzi (che è stato obbligato a indirne uno – ah santi Padri Costituzionali!- e sentito l’aria che tira non sa più cosa fare). Anche qualcuno a “sinistra”, ma sarà un ultimo retaggio del sistema della “rappresentanza” oligarchica e illuminata del vecchio PCUS, risultata storicamente abbastanza lontana dal popolo.
Insomma questo abbindolabile popolo bue, insultato e impoverito, operaista e ubriacone (è stato scritto anche questo), senza speranza di futuro e che aspetta la “fine del tunnel” promesso da almeno un decennio, in tutta Europa, ha avuto l’ardire di pensare, di non crederci più e di non essere d’accordo, e in fondo di disdire la loro fiducia ai partiti tradizionali e alle istituzioni dell’Unione. In fondo anche alla “sinistra” che lo dovrebbe, storicamente rappresentare. Che roba contessa! Non ha più voluto votare contro i propri interessi. La maggioranza, seppur risicata, del popolo britannico ha votato contro una Europa neoliberale, contro una oligarchia di burocrati al servizio del capitale, anche se si cerca di nasconderlo il più possibile con altri argomenti non di fondo. Che tenerezza Cameron che dopo aver “combinato questo gran casino” per uso politico personale (è quello che gli rimproverano i suoi) chiede le dimissioni del presidente del Labour, Corbyn (“Per l’amore del cielo, vattene!”). Ha ragione Corbyn a non dimettersi, a ricominciare dalla base, scremando tutti i “mediatori” blairiani ancora ancorati a concezioni e mediazioni centriste, e tentando di ricostruire un rapporto con il popolo, i diseredati, frutto delle politiche della Troika, e il mondo del lavoro. Negli ultimi discorsi Corbyn e il suo stretto alleato, il cancelliere ombra, John McDonnell, hanno presentato una posizione molto forte per la sinistra di “rimanere” e di lottare per un radicale cambiamento economico, sociale e democratico nella UE. Strano, subentrata la paura alla spagnola, la stessa cosa sembrano dire oggi i 5Stelle, tra l’ironia dell’alleato separatista inglese Nigel Farage.  E’ possibile togliere il potere dall’interno ad una oligarchia di non eletti, imposti dall’esterno (aggregati bancari multinazionali), che non rispondono a nessuna istituzione democraticamente eletta, che smantella tutta la storia sociale europea con l’acquiescenza blindata e la partecipazione della “sinistra” europea?  Ma il problema di un referendum è quello di cancellare destra e sinistra o opzioni preconfezionate su un unico tema, senza mediazioni, perché in queste vincono sempre i più forti. In questo caso è valido il tema del basso contro l’alto? E’ successo veramente?
La reazione dei ricchi, delle oligarchie finanziarie e bancarie, pronte a “punire” un popolo intero, a tagliargli, da strozzini, eventuali risorse, sembra non colpire nessun intellettualmente onesto liberaldemocratico. Già prima del referendum Standard & Poor’saveva “avvertito”, senza pizzino, che in caso di Brexit la Gran Bretagna avrebbe potuto perdere il fantomatico rating AAA. Prontamente effettuato il giorno dopo. Moody’s ha annunciato che il credit rating britannico è stato appena ridotto da “stabile” a “negativo”.  Poteva mancare al coro il compare Ficht? Parigi e Berlino (ma anche Milano, “proprietà” della City, e questo non fa ancora ridere nessuno) si sono offerti ad ospitare le società e le multinazionali che forse vorrebbero “scappare” dalla Borsa di Londra. Penso però che la Gran Bretagna non sia la Grecia, la Spagna e altri paesi impauriti e proni davanti ai padroni internazionali. Il commercio e il mercantilismo appianeranno gli scogli, altrimenti è a perdere per tutti e per oggi bastano le perdite per le sanzioni alla Russia. E poi, chi impedisce più di rendere veramente la City ancora più area free tax? La Merkel, Hollande o Renzie?
L’esperienza ci dice: che la Troika non mollerà, perché per sua esistenza non può riconoscere i referendum,  che si troverà un nuovo sistema di relazioni commerciali privilegiate (la Germania già piange per l’esportazione futura delle sue macchine), come quello Efta preesistente all’Unione, che la Nato supplirà la “difesa comune” insieme alla Gran Bretagna contro il nemico comune, insieme agli americani, la sempiterna Russia, che per il passaggio delle frontiere per gli europei, forse solo turisti, è bastato il commento rassicurante di Cameron nel dire che non cambierà nulla, ecc… Che i tagli allo stato sociale se li faranno da soli. Il referendum è quasi recuperato di fatto.
Non si può che augurare il bene possibile al popolo, ai popoli. La democrazia è il governo del popolo, attraverso il popolo, per il popolo. Il resto è altro, anche se ben nascosto e travestito da grande idea generosa, umanista e progressista, l’Unione. L’altra idea, scippata e distrutta, era la Comunità Europea dei popoli fino al Libro biancodi Delors, della pace, del sociale e del lavoro, di 30 anni fa.
Si può ricominciare, se si vuole o si deve, solo da lì. Se non è troppo tardi.
DOPPIOCIECO

Per una Razionalità Moderatamente Pluralista