Medicine alternative: una iattura per la sinistra (e non solo)


Riposto questo vecchio post del 2009 anche se mi farò molti nemici e farò arricciare il naso a molti amici. 

L’articolo contiene argomentazioni che oggi non ripeterei, ma in buona sostanza i concetti di fondo rimagono inalterati

di Franco Cilli

Come possano persone raziocinati credere nelle stravaganze e nelle assurdità delle cosiddette medicine alternative, è per me motivo di sorpresa ed anche di preoccupazione. Lo so, non dovrei sorprendermi, le spiegazioni ci sono, ma evidentemente il mio lobo limbico non si arrende e continua a produrre emozioni in risposta a stimoli stereotipati. Amici che conosco da una vita, medici, professionisti che lavorano col cervello, persone ragionevoli, credono che esista una “medicina alternativa”, cioè una scienza che la medicina ufficiale ripudia, oscura, mette all’angolo, ostacola scientemente per biechi motivi di profitto, censura o semplicemente ignora. Lo credono perché vogliono crederci. Per me è una sorta di dissociazione psicotica, di delirio: una parte del loro ego non è disposta ad accettare le evidenze della ragione, malgrado le infinite confutazioni che ridicolizzano le loro credenze. La cosa buffa è che ci credono per una sorta di dover essere, a scatola chiusa, senza neanche preoccuparsi di quale sia la materia del contendere, quella pratica deve essere buona. Punto. Se citi, ad esempio, il dottor Andrew Still e le sue bizzarre teorie, che hanno dato origine all’osteopatia, rimangono a bocca aperta. Andrew Still chi? Ti chiedono. Non conoscono né lui, né le sue teorie: anatomia, anatomia, e poi ancora anatomia (sembra di sentire Lenin)! La patologia che deriva da un’interruzione dell’integrità dell’organo, le manipolazioni, il movimento delle ossa craniche, hai presente? Boh! Nessuna reazione da parte dell’interlocutore fedele. Una mia carissima amica mi spiega pazientemente, con un sorriso di compatimento, che “loro”, gli osteopati, manipolano, ergo fanno qualcosa di pratico, non sono fantasie. Manipolano? E allora? Questa sarebbe una prova di efficacia? Chiunque è capace di manipolare. In base a questa logica i ceramisti ed i fornai sarebbero degli eccellenti terapeuti. Ma loro hanno studiato, e pure tanto! Studiato che?

Questo è il punto. Si può studiare qualcosa per secoli, ma ciò non significa che l’oggetto di studio sia una vera scienza, e che tale presunta scienza dia risultati concreti. Guardate la psicoanalisi. Bisogna provarlo. Non solo, ma le ipotesi di partenza, ciò che costituisce, diciamo così, la parte creativa della ricerca, devono essere anch’esse credibili: se ipotizzo che lo zinco può interferire in determinati meccanismi cellulari che portano poi allo sviluppasi del morbo di Alzheimer, faccio un’ipotesi fondata su una mole di studi precedenti che avvalorano la mia ipotesi di partenza e mi consentono di elaborare un progetto di studio e di ricerca, non dico una cosa campata per aria. Se ipotizzo invece, che un dato fiore, solo perchè assomiglia a un mio cugino grasso e un po’ allegrotto, sia in grado di risintonizzare la mia energia vitale con quella dell’universo, dico solo una patente assurdità (i fiori di Bach! Altra bella chicca).

L’idea in sé di “medicina alternativa” appare, a ben pensarci, alquanto balzana. Oggi medici cosiddetti allopatici e cosiddetti olistici, concordano sulla necessità di un superamento del concetto di “medicina alternativa”, in quanto, come è logico supporre, non esiste una “medicina alternativa”, almeno fino a quando non esisteranno “malattie alternative”. Esiste, si dice, una medicina efficace ed una non efficace, una medicina basata sulle evidenze ed una che poggia su basi poco solide. Vero, sebbene l’idea di una conoscenza alternativa, che si ponga al di fuori dei paradigmi della scienza ufficiale, permane. Questa idea ha radici lontane ed ha rappresentato in passato la necessità di tenere in vita una cultura ed una scienza, come quella tramandata attraverso lo gnosticismo prima ed il movimento delle streghe successivamente, che proclamavano una visione alternativa a quella totalizzante della chiesa ufficiale, decisa a recidere qualunque legame con forme di conoscenza tradizionale ancorate a retaggi precristiani. Secondo uno schema storico di sfida/risposta, il movimento alternativo delle streghe rappresenterebbe una sfida all’avanzare del cristianesimo ed alle sue pretese totalizzanti. Il temine “alternativo”, in relazione alle streghe, evoca quindi una reazione al dispotismo ed alla autorità che è apparso molto suggestivo in epoca recente, soprattutto se agli aspetti esoterici ed antiautoritari si mescolano forti elementi di libertà sessuale e di eguaglianza della donna.

Gli echi di questa cultura sono pervenuti nella nostra epoca, riproponendo in forme nuove la dinamica della sfida/risposta. Ma la società aperta di oggi non è quella della chiesa istituzionalizzata di ieri, e riproporre quella sfida tradotta in termini antiscientifici ed esoterici appare una totale assurdità. Seppure ci rappresentassimo come classe separata e contrapposta ad una classe dominante, sarebbe difficile considerarci estranei ad un sistema di produzione della scienza e del pensiero che ci pongano al di fuori della scienza e del sapere “istituzionale”. La “socializzazione” della produzione e del sapere ci rende tutti “complici” ad un certa maniera del sistema. La cultura alternativa diviene quindi una delle forme di produzione alternativa fra le tante, che non hanno alcun aggancio con la scienza vera e propria.

A questo punto, anche se non amo farlo, vista la mole di pubblicazioni in merito, è necessario parlare di omeopatia, esempio paradigmatico, per le persone razionali, dell’inconsistenza delle medicine alternative e della loto totale assenza di basi scientifiche. Conosciamo tutti (almeno spero), la storia del Dott. Hahnemann, il quale si convinse del principio divenuto famoso del similia similibus curantur dopo aver assunto ripetute volte dosi di Cinchona succirubra, la fonte del chinino, che gli aveva provocato sintomi quali: mani e piedi freddi, stanchezza e sonnolenza, ansia, tremore, prostrazione, mal di testa pulsante, arrossamento delle guance e sete, ma senza innalzamento della temperatura, una febbre senza febbre insomma. Quella che secondo alcuni, con ogni probabilità, non fu nient’altro che una reazione di natura allergica a detta pianta, divenne la fonte di ispirazione di una rivoluzione nel campo della medicina, rivoluzione che Hannemann stesso paragonò alla riforma protestante in campo religioso: per guarire una malattia bisogna creare una malattia artificiale che scacci la vera malattia.

Facciamo un breve riassunto. Forse risulterà pedante, considerato il numero di insigni giornalisti e studiosi che da anni ormai ci spiegano il significato delle diluizioni omeopatiche, ma un po’ di ripetizione non guasta. Il Prof Hahnemann era convinto, come abbiamo già accennato, che una quantità infinitesimale di quella stessa sostanza che provoca i sintomi nel sano, era in grado di curare quegli stessi sintomi nella persona malata. Le diluizioni centesimali per Hannemann, in base alla sua esperienza personale, rappresentavano la soluzione del problema. In pratica 1CH corrisponde ad un grammo di tintura madre diluita cento volte, 2CH ad una diluizione centesimale della prima diluizione, 3CH ad un ulteriore diluizione centesimale e così via, fino ad arrivare ad una diluizione di 30CH, una di quelle preferite da Hahnemann. Tradotto in numeri, 30 CH corrisponde ad 1 diviso 1 con 60 zeri. Qualcuno ha stimato che un grammo di sostanza iniziale a una diluizione centesimale di 30CH, finisce diluito ad un volume pari a 714 milioni di miliardi il volume del sole. Ai tempi di Hahnemann il principio di Avogadro formulato solo nel 1860 era sconosciuto (Hahnemann muore nel 1843). Tale principio stabilisce che una grammomecola o mole (peso molecolare espresso in grammi) contiene un numero fisso di molecole pari a 6,022×10²³. Una diluizione pari a 12CH non contiene praticamente neanche una molecola del composto originario e successive diluizioni non fanno che diluire una soluzione idroalcolica con altra soluzione idroalcolica. A questo punto sembrerebbe tutto risolto. Quella che poteva essere una teoria interessante per i tempi si rivela del tutto infondata alla prova dei fatti. Non è così semplice. Il motivo del persistere dell’omeopatia, come delle altre medicine alternative infatti non risiede nella loro validità comprovata e nemmeno nei loro fondamenti scientifici, il motivo risiede, come ho già detto, nel tasso di dissociazione psicotica presente nella popolazione di un società umana. Sappiamo benissimo che il delirio ha come principale caratteristica l’impermeabilità dei propri contenuti a qualsiasi confutazione, e nel momento in cui una tesi non è più sostenibile, il delirio permane ma in forme mutate. Ora sarebbe interessante fare una dissertazione sul significato di verità e sull’arbitrarietà del concetto di delirio, che non sarebbe altro che una convinzione non condivisa dalla maggioranza delle persone, ma bisogna ammettere che se la società è andati avanti nelle sue conquiste questo non è stato grazie alle paralogie del pensiero primitivo o al potere del pensiero magico e né all’evocazione di oscure divinità che animano il cielo durante i temporali o all’animismo che considerava la malattia un perturbazione dell’anima. Il progresso è avvenuto nel momento in cui si è affermato un procedimento empirico, un metodo di indagine della realtà e di ragionamento basato sulle evidenze dell’osservazione. Il delirio come pure il pensiero magico sono parte di una visione delle cose che misura la realtà di un fenomeno in base alla pura percezione soggettiva del vero e del falso.

Parlando di dati empirici, occorre sottolineare che il metodo non va confuso con la filosofia che da tale metodo trae origine, cioè con una visione del mondo che considera il dato empirico come elemento fondante della realtà e come criterio atto a raggiungere la verità. La confusione è derivata dall’identificazione, almeno inizialmente, della figura dello scienziato con quella del filosofo. Tale identificazione ha fornito poi il pretesto in epoche recenti per accomunare scienza e filosofia della scienza, facendo confusione fra chi usa la zappa per coltivare l’orto e chi fa discorsi sul significato e il valore della zappa. Oggi il valore euristico di un qualsivoglia metodo di ricerca, per uno scienziato, è solo funzionale al risultato della scoperta e non certo alla ricerca della verità o all’asservimento al paradigma di turno. La filosofia della scienza rappresenta spesso un campo per intellettuali che conoscono poco la puzza dei laboratori e che sanno poco o niente dei problemi degli scienziati.

In tutto questo contesto il pensiero paralogico e delirante rimangono sussunti all’interno del corpo sociale e ne rappresentano una costante storica.

Intendiamoci, non c’è nulla di male di per sé nel delirio, esso può essere l’epifenomeno di una malattia psichica, oppure come accennato un’attitudine del pensiero umano. Il problema nasce quando un tale pensiero assume una rilevanza tale da indurre a comportamenti aberranti e pericolosi, come quelli che rifiutano le terapie convenzionale contro il cancro e costringono i governi a dare credito a ciarlatani in buona e cattiva fede.

Tornando all’omeopatia, una volta screditato l’empirismo ingenuo del dottor Hahnemann, i seguaci dell’omeopatia non sono affatto scomparsi e per nulla scoraggiati hanno atteso pazientemente che emergessero nuove scoperte le quali potessero supportare le loro convinzioni con un background più solido e un aggancio scientifico più moderno. In definitiva il problema non è la ricerca della verità o di qualcosa che ci somigli, bensì l’affermazione delle proprie credenze aldilà di ogni discorso sull’evidenza. L’aiuto è giunto da un immunologo d’oltralpe, il Dott. Benveniste, il quale in un lavoro pubblicato su Nature nel 1998, affermò di aver dimostrato la proprietà dell’acqua di conservare la memoria di sostanze con le quali era venuta precedentemente a contatto, conservandone anche gli effetti terapeutici. Abbiamo già esaurientemente trattato l’affaire Benveniste in un post precedente e non mi dilungherò nei dettagli. È sufficiente dire che anche questa teoria è stata screditata aldilà di ogni ragionevole dubbio, sebbene l’entusiasmo degli omeopati fosse stato a mio avviso, in ogni caso, del tutto immotivato. Seppure la teoria si fosse dimostrata valida, infatti, da ciò non ne sarebbe conseguita una reale attività terapeutica dei preparati omeopatici, ma solo il principio che l’acqua conserva memoria, e non si sa quanto a lungo, di una determinata sostanza con la quale è venuta precedentemente a contatto. La dimostrazione della presunta attività dell’antianticorpo IgE messa in evidenza da Benveniste, riguarda infatti quel singolo caso specifico e non si presta a generalizzazioni. Ad ogni buon conto, nemmeno il discredito di questa ennesima teoria è stato sufficiente a far capitolare gli omeopati ed anche in questo caso sono spuntate altre teorie ancora più suggestive delle precedenti a soccorso dei seguaci del Dott. Hahnemann. Citiamo fra tutte quella di due scienziati italiani, due fisici, Giuliano Preparata ed Emilio Del Giudice, studiosi ben addentro a fenomeni complessi come la fusione fredda e le onde gravitazionali. Del Giudice e Preparata sostengono la teoria della “coerenza dell’acqua” in base alla quale, passando incessantemente da uno stato eccitato ad uno stato di base e poi di nuovo a quello eccitato, le molecole di acqua emetterebbero dei fotoni, fenomeno che ricorderebbe il comportamento dei fotoni nel caso di un raggio laser. In pratica secondo questa teoria il solvente acquoso risulterebbe “attivato” dal preparato omeopatico e dalle successive succussioni, generando una energia peculiare attiva anche quando ogni molecola del preparato iniziale non è più presente a causa dell’estrema diluizione. L’energia in questione sarebbe alla base dell’effetto dei composti omeopatici. Questa fantasiosa teoria è stata messa in crisi da molti fisici ed in particolare da Gianfranco Rocco dell’Università La Sapienza di Roma, che hanno tutti allo stesso modo segnalato un errore di fondo nella stessa teoria, in quanto l’acqua ha una probabilità molto minore di trovarsi spontaneamente nello stato eccitato rispetto a quello fondamentale e non sarebbe possibile una sua altalenante inversione da una condizione all’altra. Lo stesso Del Giudice sembra abbia recentemente ammesso l’errore e non parli più di fotoni sebbene insista nell’affermare che il concetto di fondo della proprietà dielettrica dell’acqua rimane. Come gli è stato fatto notare, però, questa proprietà non richiede l’ausilio di cervellotiche teorie che fanno ricorso alla fisica quantistica, sono sufficienti le teorie tradizionali per spiegarla.

Tempo fa ho avuto modo di discutere di questi argomenti in un sito famoso di sinistra e sono rimasto colpito dal credito che i pasdaran dell’omeopatia davano agli studi di questi due scienziati, ridicolizzando chiunque non avesse letto i loro lavori e tagliando di netto ogni contestazione che prescindesse dalla conoscenza del verbo di Preparata. Ora, è evidente che non tutti possono perdere il loro tempo per documentarsi su ogni oscura teoria di scarso impatto, per il semplice fatto che nessuno, tranne alcuni scienziati molto pazienti, che dedicano il loro tempo a contrastare fenomeni irrazionali, è motivato a farlo, visto che l’omeopatia non ha mai dato nessuna prova concreta della sua efficacia e che il mondo accademico è unanimemente concorde nel considerare l’omeopatia soltanto un ottimo placebo. L’opposizione a questa osservazione è scontata: il fatto stesso che il mondo accademico sia concorde in maniera compatta sull’omeopatia, è la dimostrazione della sua cattiva fede. Come è stato già affermato da più parti il sottofondo paranoicale dei cultori delle medicine alternative esclude ogni possibilità di argomentazione, dato che qualsiasi lavoro o studio che smentisca la credibilità delle medicine alternative è di per se la riprova dell’inganno delle case farmaceutiche guidate unicamente da interessi legati al profitto. Inutile sottolineare che questi interessi esistono davvero, ma gli sforzi di Big Pharma non sono certo concentrati a screditare fandonie che si screditano di per sé. Supporre che ci sia una congiura internazionale per nascondere al mondo questa panacea universale rappresentata dall’omeopatia è francamente assurdo, considerando il fatto che il fatturato dell’omeopatia non è affatto trascurabile e che esistono ovviamente anche le multinazionali omeopatiche.

Al di là di interessanti quanto impervie dissertazioni sulla fisica quantistica e sull’elettromagnetismo, vorrei sottolineare alcuni concetti chiave che a mio avviso rendono l’omeopatia e le medicine alternative in generale per nulla credibili.

Il primo punto riguarda l’idea appunto di un fronte compatto, capeggiato dalle multinazionali del farmaco, che cospirerebbero contro le medicine alternative. Quello che i fanatici di tali pratiche ignorano o fingono di ignorare è che questo fronte è in larghissima parte costituito, nelle sue articolazioni medio basse, da un ceto politico sociale, e sottolineo politico, che forma l’ossatura di quel ceto intellettuale o General Intellect o cognitariato che dir si voglia, il quale rappresenterebbe il nuovo soggetto politico, frutto della società post-fordista, che è portatore di istanze radicali di cambiamento. Per farla breve, la nuova classe su cui la prassi rivoluzionaria dovrebbe fare perno. Lino Rossi ed altri accaniti sostenitori di Preparata e Del Giudice, convinti assertori della teoria del complotto, si stupirebbero nel conoscere la percentuale di votanti e simpatizzanti della cosiddetta sinistra radicale presente fra i ricercatori e gli addetti alla ricerca, e guarda caso sono proprio questi soggetti che portano avanti ricerche sul piano statistico-epidemiologico che gettano discredito sull’omeopatia. La metanalisi di Lancet, prestigiosa scientifica medica che ha dimostrato dati alla mano l’inconsistenza dell’omeopatia in tutti quegli studi condotti con metodi rigorosi, non è stata certo portata avanti dai colletti bianchi di Big Pharma, ma da ricercatori che ingrossano le file del General Intellect odierno. Sono tutti venduti, tutti seguaci della dottrina del profitto?

Il secondo punto riguarda la curiosa rincorsa degli alternativi a nuove teorie che di volta in volta siano in grado di supportare le loro credenze, ogniqualvolta le precedenti crollano come birilli.

Non voglio dilungarmi oltre su tematiche che si addentrano in maniera troppo specifica in terreni complessi come quello della fisica dei quanti, vorrei solo far notare un fatto che salta agli occhi: la teoria inizialmente espressa da Hahnemann si basava sul concetto, come ho già evidenziato, del similia sumilibus curantur, e cioè una parte infinitesimale di quella sostanza che produce sintomi nel sano può curare gli stessi sintomi nella persona malata. Ora, dal momento che abbiamo appurato che i preparati omeopatici non contengono nulla, se siamo omeopati convinti dobbiamo dedurre che il Dott. Hahnemann abbia fatto la classica scoperta per serendipity, cioè a dire ha scoperto accidentalmente, partendo da ipotesi rivelatesi errate, un principio poi risultato valido ed in grado di supportare la sua teoria. Vi sembra credibile tutto ciò? A me non lo sembra affatto, soprattutto perché appare molto improbabile che le varie teoria sull’acqua si accordino poi con tutto l’insieme della teoria di Hahnemann, la quale difficilmente può essere scomposta in singoli tronconi indipendenti. Come concorda la teoria dell’acqua con quella dei miasmi o delle varie tipologie costituzionali con relativi rimedi omeopatici ? Non è strano poi che il Dott. Hahnemann con l’idea delle succussioni abbia incidentalmente trovato il sistema per dinamizzare l’acqua, che guarda caso si dinamizzerebbe proprio sottoponendo i contenitori a quei determinati movimenti verticali? E perché infine proprio quei rimedi dovrebbero funzionare in base alle predette teorie e non altri? In conclusione, l’idea della rincorsa alla spiegazione che disvela ciò che gli infedeli si rifiutano di vedere, da’ il senso del totale rovesciamento della logica più elementare, che esigerebbe che la scoperta venga prima dell’enunciazione dei principi.

Il terzo ed ultimo punto riguarda a mio avviso il carattere di fissità dei principi che sono alla base dell’omeopatia. Come ha fatto giustamente notare il Prof. Dobrilla, la scienza medica si evolve continuamente e determinate certezze o ipotesi ritenute alla base di certe malattie sono smentite da nuove scoperte. Il Prof. cita il caso dell’ulcera duodenale, attribuita per anni quasi esclusivamente all’aggressività dell’acido cloridrico prodotto in eccesso dallo stomaco e/o alla diminuita capacità difensiva della mucosa duodenale, secondarie allo stress. In pratica una malattia psicosomatica. Oggi con la scoperta del ruolo ulcerogeno dell’Helicobacter pylori abbiamo scoperto una causa che sta portando alla quasi totale estinzione delle patologie ulcerogene e delle sue complicanze. Ebbene, vent’anni dopo questa scoperta, di questa rivoluzionaria acquisizione non c’è traccia nella letteratura omeopatica e i rimedi continuano ad essere gli stessi. Questo fatto di per se sarebbe da solo sufficiente a dimostrare l’infondatezza dell’omeopatia. Teorie statiche non sono adatte alla scienza, che per definizione si evolve di continuo e il cui sapere, sebbene per alcuni versi sia cumulativo, procede su una linea discontinua, che comporta spesso la negazione ed il superamento delle fasi precedenti. 

A homeopathic refutation – part three


ool's gold

In the third part of my series examining an attempted refutation of the critics of homeopathy (Milgrom, 2009) I look at the claim that homeopathy has a serious scientific foundation.

Dilute Science

This part of the essay starts by outlining a common criticism levelled at the most common form of homeopathy practised in the US and UK.  This calls homeopathy unscientific because:

[…] in many homeopathic remedies, the original substance has been diluted out of molecular existence, detractors claim belief in homeopathy has no basis in science as ‘nothing cannot do something’.”

So, can apologists for homeopathy point to serious scientific work which shows that nothing can do something?  Milgrom’s approach is to cite recent claims invoking concepts from materials science and physical chemistry to suggest that:

 “[…] homeopathy’s method of remedy preparation leads to modifications in the dynamic long-range supra-molecular ordering of solvent molecules; an effect called the ‘memory of water’”*.

Real science

Before examining the evidence Milgrom marshals, it is worth reflecting on what we should expect to see if it is really science.  This is a complex topic and there are many different descriptions of what, in practise, science is.

However, there is practically universal agreement that science is based on the formulation and testing of hypotheses.  This means that to be scientific an idea must be testable.  It also puts careful experimental practise at the core of science.

Also, as we all tend to become attached to our own ideas, even when there is evidence against them, scientific methods include strong precautions against scientists fooling themselves.  This is vital, as Feynman (1974) remarked, “The first principle is that you must not fool yourself – and you are the easiest person to fool.  So you have to be very careful about that.”

Central to this is the honest search for reasons why an idea might be wrong.  Feynman (1974) described the process as:

[…] a kind of scientific integrity, a principle of scientific thought that corresponds to a kind of utter honesty – a kind of leaning over backwards.  For example, if you’re doing an experiment, you should report everything that you think might make it invalid – not only what you think is right about it: other causes that could possibly explain your results; and things you thought of that you’ve eliminated by some other experiment, and how they worked – to make sure the other fellow can tell they have been eliminated.”

This includes testing hypotheses in ways that might break them.  It also means carefully comparing new ideas and results against previous work and established theory.

Scientific investigation also includes methods for limiting the influence of personal biases.  The advent of automated measurement systems means that the mistake of Blondlot  – imagining that he was seeing scintillations from non-existent N-Rays, because he was so personally invested in his ‘discovery’ – can be avoided. 

Where an experimenter or subject can subconsciously influence the result – medical trials being a good example – a real scientist takes proper precautions.  For instance, the investigators and subjects not knowing if they are receiving a new drug or a indistinguishable dummy (blinding) prevents them from being tempted to see ‘expected’ improvement where there is none. Making sure that if two groups are being compared they are as similar as possible, through assigning participants to them at random (randomization) is another precaution against being misled. 

Where measurements can vary because of factors outside of the scientist’s control, repeated measurements are made and statistically tested to see if two samples, for instance, are really different or if a measured difference is just happenstance. 

Finally, the use of controls – like making the same measurements on pure solvent from the same bottle used to make test solutions, for example – helps ensure that scientists are not fooled by the vagaries of the real world. 

Many experiments produce anomalous results.  In real science they are carefully examined in well-controlled experiments.  Detailed measurements are made and possible causes of error are progressively excluded.  Anomalies that survive this scrutiny may well go on to challenge current theories, but most melt away.  So real scientific investigators don’t leap to wild conclusions; they carefully seek the simplest explanation. 

So if Milgrom is really offering up examples of scientific investigations that support the basic plausibility of homeopathy, they will demonstrate these basic scientific virtues.  I expect to see careful, well documented experiments; possible flaws pointed out and explored; evidence of blinding and randomization, where appropriate; the presentation of statistical data where the experimental system produces varying results.  I also would not expect to see wild interpretations made of anomalous results; particularly if simpler explanations are possible. 

Homeopathic science

The evidence Milgrom provides on the topic of materials science relies on two publications involving Rustum Roy, an eminent materials scientist with an enviable publications record.  The only problem is that latterly he appears to have hitched his wagon to the alternative health movement.  This seems to have compromised his objectivity.

In Roy et al. (2005) we see a review of the many amazing and occasionally anomalous properties of water.  This work argues that the physical properties of water support the idea that homeopathic preparations can ‘remember’ what solute was originally added and diluted out of existence and, through structural changes, communicate this to patients. 

The problem is that the gap between what can be measured and that which is merely asserted to justify homeopathy is never closed.  The exercise is a lengthy non sequitur:  just because water has some anomalous properties doesn’t mean that it can remember what used to be dissolved in it. 

In reality, this paper is a collection of straws that are desperately clutched at.  Nowhere is this clearer than in the discussion of the potential for contamination in experiments purporting to study high-dilution remedies: 

Obviously chemical contamination from the container material could itself serve as a “remedy”.

This is both desperate and not obvious.  If contamination from containers could be the homeopaths actual remedies, then the remedies are uncontrolled and bear no resemblance to their claimed ingredients, or their supposed therapeutic effects.  The ‘remedies’ will be different each time and will vary between homeopaths.  A medical practise based on accidental contamination cannot be in any sense plausible, let alone ’scientific’.

The biggest problem with Roy et al. (2005) is that it confuses real measurable physical phenomena (electric and magnetic fields, for instance) with the immeasurable “subtle energies” of the CAM practitioner.  This beggars any claim to be a real scientific publication.   Citing silly papers that claim to be able to show the measurable effect of “human intention” and “qi” on chemical systems provides the final nail in the coffin.  This is not science.  It may have the appearance of science, but it lacks proper content.  A real scientific paper would critically examine paranormal claims, not just accept them at face value.

So, how is it that it appears to have been published in a scientific journal?  Actually, it’s not.  It’s published in Materials Research Innovations , Rustum Roy’s own journal; a publication that rejects peer review of papers in favour of reviewing the authors.  One consequence appears to be that if you have published some good work in the past, as Roy has, then you can publish any old nonsense in the future; as Roy and his co-workers demonstrate.

Next, the essay references Rao et al (2007).  This deeply flawed paper, published in the homeopathic vanity press, which claims to show that homeopathy is plausible because they came up with some spectrographic measurements that appeared to show differences between homeopathic remedies and their solvents.

As Kerr et al (2008) pointed out: the spectrum contained in the paper purporting to be ‘pure ethanol’ does not look like ethanol of any recognised degree of purity.  Further, from the paper, there is no way to know whether the reported differences between the spectra were the result of using solvent containing different levels of impurities.

Worryingly, it contains no statistical information, so no conclusions can be drawn as to whether the remedies were actually different. Finally, one graph was reproduced twice, with the authors claiming that it showed different things each time.

The author’s reply (Rao, 2008) failed to address any of these serious concerns.  Sticking your head in the sand when serious flaws are identified in your work is not doing real science.  There again, this was published in the journal Homeopathy, which is clearly not a real science journal.

Let’s get physical

So, no real science so far: just an enthusiasm for sloppy work and the paranormal.  What about the evidence that Milgrom sees coming from physical chemistry? 

Samal and Geckler (2001) is cited because this reports evidence that water molecules ‘clump’ around solutes; tending to form bigger clumps at lower solute concentrations.  How does this help the argument that there is a scientific rationale supporting the effect of solutions where the solute is highly unlikely to have survived successive dilutions?  Quite simply: it does not.  Any structures formed around solute ions will be finite in number and diluted out of solution: just as any finite solute concentration of anything will be.  At least this paper is real science; but it says something that it definitely does not support the claims of homeopathy.

The next anomaly that is cited to show the scientific plausibility of homeopathy is provided by Rey (2003).  In this study a technique called Thermoluminescence was used to study samples of frozen heavy water (D2O); some of which were the result of diluting preparations of lithium chloride and sodium chloride beyond the point where any molecules of these salts could be expected to be found in the solution.  This process replicated a homeopathic method of ‘remedy’ preparation: successive 1:100 dilutions with vigorous mechanical shaking (succussion) at each step.

Thermoluminescence is the, “emission of light from some minerals and certain other crystalline materials” as their temperature is raised.  The energy of this emission is, “derived from electron displacements within the crystal lattice of such a substance caused by previous exposure to high-energy radiation.”  Heating the material, “enables the trapped electrons to return to their normal positions, resulting in the release of energy.”  (Encyclopædia Britannica, 2009)

This is a proper scientific technique, generally used to date archaeological artefacts and minerals.  Rey appears to be pioneering its application to the study of frozen solutions – assuming that structures in the liquid phase will be preserved by freezing. 

Although the Rey (2003) claims that, “despite their dilution beyond the Avogadro number, the emitted light was specific of the original salts dissolved initially” it provides few details for a paper advancing such a radical hypothesis.  The investigation of the ‘highly dilute’ samples (C15 LiCl, C15 NaCl and C15 D2O) did not include an obvious control: the unsuccussed solvent (D2O) making it impossible to separate the putative influence of the (non-existent) salt ions from changes made by shaking the samples.

Neither did Rey provide any statistical information, so there is no way of telling if the differences measured were real, or just down to chance.  As a contributor on this blog has noted:

[…] the scientific basis of the emissions recorded – “what do these kind of readings tell us?” […] is actually pretty obscure. The technique relies on freezing the sample, irradiating it in one of a number of ways, and then watching the thermoluminescence emissions while the sample re-warms. The general message is that the emissions depend upon “structural irregularities” in the crystal lattice of the frozen sample, but the details, to repeat, are poorly understood.”

If there really are differences between the C15 ‘dilutions’ then what might be the cause?  Rather than grasping at implausible explanations, a real scientific approach eliminates the mundane.  For instance, could it be that shaking the solutions has changed their physical characteristics?  Rey (2007) has gone on to explore the possibility that vigorous shaking causes the formation of ‘nanobubbles’ in the solutions, and that these, when frozen, provide the structures associated with the thermoluminescence spectra.  The investigation looked at the spectra generated by samples “succussed” under the standard laboratory atmosphere, pure oxygen and vacuum.  The spectra appear to be different but, again, no statistical data was included to allow a reader to be sure.

Construing this work as evidence of a scientific basis for the claims of homeopaths is unwarranted.  Yes, it is science of a sort; it’s not without flaws and obvious biases.  Neither is it very convincingly reported.  However, all it provides is evidence for the presence of not very well understood structures in heavy water ice.  There is some evidence that they are associated with the shaking of the solutions, but the missing control (unsuccussed D2O) limits the conclusions that can be drawn.  In fact, I would say that Rey’s contention that the spectra were specific to the salts goes too far, as he was not in a position to separate the implausible influence of the absent chemicals from that of the process by which his solutions were made.

One of the key values in science is that of replication.  If independent scientists, working in other places, can get the same result from the same experiment then this helps separate knowledge from happenstance.  Milgrom claims that the findings in Rey (2003) were replicated by van Wijk et al. (2006).  They were not.

This work did try and replicate and extend the findings of Rey (2003).  Using Lithium Chloride (LiCl) as the solute and heavy water as the solvent (D2O) they also explored the possible influence of, “time between preparation of substance and time of experimentation, and […] time between irradiation and thermoluminescence recording”.

Unlike Rey (2003) van Wijk et al. (2006) presented a statistical analysis of their measurements.  Their like-for-like attempted replication failed:

We report here differences in thermoluminescence between C15 D2O and C15 LiCl, which correspond with the observations reported by Rey (2003).  However, the difference from all of these recordings of these substances was not statistically significant.”

In the replication experiment (A) the difference between C15 LiCl and C15 D2O did not reach statistical significance (p = 0.059, ANOVA t-test).  In the experiments that looked at the influence of the time between sample preparation and freezing, or the time between irradiation and thermoluminescence measurement (B and C) There wasn’t even a hint of a significant difference (p = 0.72, and p = 0.63, respectively, ANOVA t-tests).

However, they did report some statistically significant differences.  When the data were processed differently the result suggested that LiCl C15 differed significantly from C15 D2O in experiment A (p = 0.0128); but not in experiments B and C. (p = 0.60 and 0.73, respectively).

The best evidence of a difference between samples was seen in the comparison between the succussed (C15 D2O) and unsuccussed (D2O) solvent for experiment C.  This used the maximum time between sample preparation and freezing (12 weeks), and between irradiation and thermoluminescence measurement (3 weeks).  The result was statistically significant under both data processing methods (p<0.0001, and p<0.0004, respectively).

It’s clear that van Wijk et al. (2006) did not replicate the findings of Rey (2003), as Milgrom and, indeed, Rey (2007) has claimed.  There might be an interesting anomaly to pursue here, but there is no real evidence of absent solutes being the cause.  Van Wijk et al. (2006) does show that the experimental system is a ‘noisy’ one and that careful statistical analysis is required.

The point must be stressed that we obtained a very good qualitative reproducibility of the thermoluminescence pattern, but the quantitative reproducibility was rather poor, and p-values should be interpreted in the sense of descriptive statistics.”

This emphasises that the lack of statistical data in Rey (2003) is a serious flaw: most of van Wijk et al.’s comparisons did not show statistically significant differences.  

The differences reported between the succussed and unsuccussed solvents also strengthen the impression that any differences are more likely the work of nanobubbles and not a watery memory of long gone solutes.  Again, this highlights Rey’s oversight in not using unsuccussed solvent as a control.  In a delightful irony even Roy et al. (2005) show they understand the potential importance of this omission:

It is important to emphasize that the proper control solutions include not only untreated, unsuccussed solvent, but also succussed solvent without the initial addition of any remedy source materials to address possible artifacts generated by the shaking of the liquid per se within the test container itself.”

So, van Wijk et al. (2006) seems to contain science, but it doesn’t help the homeopath’s cause.

Next the essay sees scientific support in the work of Elia et al. (2006).  This is another attempt to find physically measureable differences between homeopathic solutions that do not contain any of the original solutes and their solvents.  It’s also based on very different physical principles to thermoluminescence.  This adds to the impression that this is just chasing after anomalies.  I don’t have access to this paper, so I’ll not comment further.  However, in 2007, the same author (Elia, 2007) published a review of the evidence they had accumulated. 

It’s not very impressive: no statistical data are provided to help the reader understand if any differences are significant or not.  Neither is there any indication of how many times (if at all) measurements were repeated.   It also contains an odd confession:

It is important to emphasise that, from the studies so far conducted, we cannot derive reproducible information concerning the influence of the different degrees of homeopathic dilution or the nature of the active principle (solute) on the measured physicochemical parameters.”

If different concentrations of homeopathic preparations cannot be distinguished, then it casts serious doubt on any claims to be able to differentiate between homeopathic preparations.   This is really clutching at straws**.

The attempt to show that homeopathy is grounded in science peters out from here.  An irrelevant theoretical speculation on Quantum Electrodynamics (QED) is thrown in to the mix (Arani et al., 1995).  Martin Chaplin’s fascinating website on the properties of water is also referenced.

Milgrom also resorts to an inappropriate analogy:

Just as two physically contrasting substances, such as diamond and graphite, are composed of exactly the same carbon atoms arranged into different molecular structures, so it is not the composition of an ultra-diluted homeopathically-prepared solution that is different from plain diluted solvent, but its dynamic supra-molecular structure.”

Well, diamond and graphite both have structure – being solids – liquid water does not (Teixeira, 2007).  Clearly, there is no “just as” about it!  The rest is just unsupported opinion. 

The same can be said of the reference to Hankey (2004) who provides evidence and data-free hand waving of a distinctly unscientific variety.  Here is a sample:

In this model, all vibrational medicines are quantized fluctuations, of mineral, vegetable, animal, mental, psychic, or spiritual origin. Succussion and dilution potentize the first; correct formulation of phytomedicines, the second; while the last four are all involved in various levels of healing. For example, in Maharishi Vedic Vibration Technology (Nader et al., 2001), use of a mantra develops the specific healing vibration within the technician’s nervous system, for transferal to the patient.”

The appeal to some kind of quantum theory is bogus***.  The rest either has no meaning or is paranormal.  This is not science and by citing it Milgrom eloquently debunks his own argument.

A poor memory

And that is it; Milgrom presents this as a refutation of the claim that homeopathy has no scientific basis.  At best his argument rests on a few anomalous experimental results (Rey, 2003; Elia et al, 2006), which are likely to be explained by very ordinary causes: bubbles causing by shaking, chance readings in noisy experimental systems, contaminated samples, etc. 

The better work he refers to doesn’t help either.  Van Wijk et al. (2006) fails to provide the replication of Rey (2003) that Milgrom (and Rey, 2007) claims.  Samal and Geckeler (2001) does not provide a way for homeopaths to cheat Avogadro.

Much of the rest actually provides an elegant confirmation of the critics’ accusation by ignoring scientific values and asserting the reality of imaginary ‘energies’. (Roy et al., 2005; Hankey, 2004)

It is clear that Milgrom believes that water has a ‘memory’.  Unfortunately this is not just unsupported by scientific evidence; it is contradicted by it (Teixeira, 2007).  The quality of the evidence Milgrom has marshalled here bears witness to that fact.

If Milgrom really wants to turn to science, then he needs to rediscover its essential integrity:

[…] it’s this type of integrity, this kind of care not to fool yourself, that is missing to a large extent in much of the research in Cargo Cult Science.”  (Feynman, 1974)

Of course, this would entail leaving the Cargo Cult Science of the homeopathic apologist behind.  From the evidence on display here, I don’t think that’s very likely.

Next, I’ll have a look at what Milgrom has to say about homeopaths, the pharmaceutical industry and money.

Also in this series

A homeopathic refutation – part one – evidence. (on this blog)

Disclaimer

I try to make sure that what I write is both accurate and fair.  If you think that I have got anything wrong please let me know.  If you are right I will happily change what I have written.

Notes

* See here for my summary of the “Memory of Water” issue of the pseudo-journal Homeopathy.

**Interestingly Elia et al. (2008) published a conductivity study purporting to show the effect of aging on homeopathically prepared solutions.  This was strongly criticised by Corti (2008) who asserted that: the equipment used is not capable of taking measurements of the sensitivity reported; samples were stored over time in brown glass bottles, which are known to leak conductive ions such as Fe and Ni; the shifts in conductivity over time were cyclical over the period of a year and best explained by annual shifts in temperature.  The criticisms were strongly rejected by Elia (2008).

*** See here for a demolition of Hankey’s “physics”.

For completeness, the final reference in this part of the essay [33] is to Collins JC: Water: The Vital Force of Life. Molecular Presentations. New York, Kinderhook, 2000.   This is out of print, but Amazon carries some details. 

References

thermoluminescence.” Encyclopædia Britannica. 2009. Encyclopædia Britannica Online. 25 Sep. 2009 Available from: http://www.britannica.com/EBchecked/topic/591643/thermoluminescence

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Elia V. Response to Comments on a “New Physico-Chemical Properties of Extremely Dilute Solutions. A Conductivity Study at 25°C in Relation to Ageing” by Horacio R. Corti. Journal of Solution Chemistry. 2008 December;37(12):1825–1826. Available from: http://dx.doi.org/10.1007/s10953-008-9345-4

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van Wijk R, Bosman S, van Wijk EP. Thermoluminescence in ultra-high dilution research. Journal of Alternative and Complementary Medicine (New York, NY). 2006 June;12(5):437–443. Available from: http://dx.doi.org/10.1089/acm.2006.12.437.

Acknowledgements

dvnutrix for pointing me at this nonsense.

DrAust for his insightful comments on thermoluminescence.

Philippe Leick for his comments on Rey (2003) and van Wijk et al. (2006)

gnu and Acleron for their comments on Elia et al. (2007) during the Homeopathy journal club run at Badscience.net.

A homeopathic refutation – part two

by apgaylard (from A canna’ change the laws of physics)


This post is the second in a series examining the claims made in a recent essay that seeks, in part, to refute common criticisms of homeopathy (Milgrom, 2009).  I have already examined the empty assertions about evidence for clinically useful specific effects.  Now, I would like to move on to examine an attempted refutation of claims that, “Homeopathy is deadly”.


How deadly is homeopathy?


moronMilgrom starts with a bit of distraction: “The claim that homeopathy is deadly has never been substantiated, primarily because it cannot be proved anyone has died as a direct result of taking a homeopathic remedy.” 

This is entirely irrelevant; no critical discourse that I have come across has made the claim that the remedies themselves are toxic*.  As I pointed out in my last post: the problem is not in the pills, but in their uselessness; and the attitudes of some homeopaths.  He then moves to the actual concerns of sensible critics: 

The claim arises over concerns that those taking homeopathic remedies might forgo ‘life-saving’ drugs. This is a false perception: many who come to homeopathy do so only after conventional treatments have failed.”

And this is not right either: those who are able to turn to homeopathy after conventional treatment has failed are not going to be suffering from life-threatening illnesses.  They are generally people who are suffering from chronic complaints for which modern medicine has no good treatments (such as certain kinds of back pain, stress, medically unexplained fatigue, and modest viral illness – Goldacre, 2007).  The danger, such as it is, lies in choosing homeopathy instead of proper medicine for serious illness. That many will be using homeopathy to treat illnesses that are not life-threatening doesn’t mean that all users (or practitioners) of homeopathy are as conservative.

Milgrom’s rejection of any suggestion that homeopathy can harm is disappointing.  There are documented cases of people choosing homeopathy, or having it chosen for them, and dying as a direct result.  The number of fatalities appears to be low, but denying that there is any problem at all is rash. 

For instance, Gloria Thomas died at nine months of age, from sepsis, after her homeopath father ‘treated’ her eczema with homeopathy instead of seeking proper medical aid.  A UK GP, Dr Marisa Viegas was eventually struck-off after a she advised a patient with idiopathic dilated cardiomyopathy to take homeopathic treatments instead of the drugs she needed.  The patient died as a result. 

An example of the dangers of the disregard that some homeopaths show for conventional medicine and evidence is seen in the untimely death of Russell Jenkins, a CAM practitioner.  He took the advice of homeopath Susan Finn, who suggested that he treat an electrical burn with Manuka honey.  As a result of this improper treatment, he died from gangrene.  This is a different form of harm, but no less dangerous. 

Add to this the documented incidents of UK homeopaths advocating homeopathy for malaria prophylaxis and the activities of homeopaths in developing countries who believe they can treat AIDS and malaria: there are real risks. 

Again, I would not want to over-state the problem; but it is inappropriate for Milgrom to ignore it. 


Other homeopathic harms

Not all the harms of homeopathy are directly deadly ones.  A risk analysis that only focuses on extreme outcomes is too simplistic: there are real harms that don’t kill.  For instance, Goldacre (2007) identified a range of other risks associated with homeopathy.  These include medicalisation, “the reinforcement of counterproductive illness behaviours, and promotion of the idea that a pill is an appropriate response to a social problem, or a modest viral illness.” 

Also, by knowingly prescribing placebos medical practitioners can undermine the notions of informed consent and patient autonomy.  

As Milgrom’s essay shows, homeopaths are apt to denigrate conventional medicine.  This attitude can also lead some homeopaths to undermine public-health campaigns, like those promoting vaccination

Finally, as Milgrom shows, homeopaths have a tendency to misrepresent scientific evidence, undermining the public understanding of both science and medicine. 

It is important to recognise that even placebo medicine has a range of risks associated with it. 


What are homeopaths for?

Milgrom then moves on to flirt with the placebo effect.  After making what we have seen is the unjustifiable assertion that there, “is evidence to support homeopathy is more than a placebo response.”  He notes that, “homeopaths like other health practitioners, responsibly encourage expectation of positive outcomes”.  This is fair enough.  The evidence shows that any benefit that homeopaths deliver through the therapeutic encounter is due to expectation effects (Shang et al, 2005).  If homeopaths were open about this then, perhaps, there could be a role for them in a clinical setting. 

However, there is a sizable fly in the ointment.  As Milgrom says, health practitioners, “responsibly encourage expectation of positive outcomes.”  Proper medical practitioners can deliver specific effects through their interventions, along with non-specific expectation effects.  They also have the advantage of diagnostic training and don’t disparage other medical disciplines.  Given this, who needs homeopaths? 

Neither does encouraging positive expectations reduce the risks involved with homeopaths pretending to treat malaria, AIDS or other dangerous diseases.  This line of attack has little relevance to the matter at hand. 


Wouldn’t that be NICE?

Similarly irrelevant are the author’s claims about Prozac: a particular pharmaceutical being either ineffective or unsafe doesn’t mean that homeopathy is either effective or safe.  Anyway, Milgrom’s analysis is problematic in its own right: 

One of the world’s top-selling drugs, the anti-depressant Prozac, was recently shown to be no better than placebo [22]. Yet, with an effect size of only d ~ 0.3 (the National Institute for Health and Clinical Excellence – NICE – recommends d = 0.5 for clinical efficacy), there are no urgent calls for Prozac’s withdrawal through ‘lack of efficacy’.”

His reference [22] is to Kirsch et al. (2008) and it does not say what he claims it says.  First, this paper looks at what evidence was available before Prozac was licensed, not the totality of the data.  As Ben Goldacre has observed**:

It is common for quacks and journalists to think that the moment of licensing is some kind of definitive “it works” stamp of approval. It’s not, it’s just the beginning of the story of a drugs’ evidence, usually.”

So this paper does not show what the best evidence is for the efficacy, or otherwise, of Prozac (fluoxetine) for the treatment of depression.

Milgrom has also confused the result for a specific drug, fluoxetine, with a pooled analysis of all the drug groups against their placebo groups (Table 2, Model 3a).  The paper says that the drug group: 

[…] does not meet the three-point drug–placebo criterion for clinical significance used by NICE. Represented as the standardized mean difference, d, mean change for drug groups was 1.24 and that for placebo 0.92, both of extremely large magnitude according to conventional standards. Thus, the difference between improvement in the drug groups and improvement in the placebo groups was 0.32, which falls below the 0.50 standardized mean difference criterion that NICE suggested.”

So, this is where Milgrom’s “d ~ 0.3″ comes from.  It does not relate specifically to fluoxetine, but rather to a pooled analysis for all the drugs covered in this review.  In fact, the mean difference between the drug and placebo groups, “easily attained statistical significance.” 

The paper does show that the drugs studied achieved both statistically and clinically significant improvements, compared to placebo, for the most severely depressed.  As Figure 3 shows (below), they also exceeded the NICE criterion for these patients (the green bit).

Kirsch_Figure_3

Neither does the essay contain any mention of the weaknesses of this study, or the criticisms that have been levelled at it***.

Milgrom’s argument is further weakened by the fact that NICE have, since 2004, taken the position that:

Antidepressants are not recommended for the initial treatment of mild depression, because the risk–benefit ratio is poor.”

So, for cases where the evidence does not support the use of drugs like Prozac, NICE recommends they are not used.

Here Milgrom overstates the scope of Kirsch et al. (2008) by implying that it is a definitive assessment of the efficacy of Prozac.  He also turns the argument into a simple binary choice: either the drug works or it doesn’t.  Reality is more complicated: the effectiveness of this (and other) drugs varies with the severity of the depression.  Whilst they may not be justifiable treatments in some cases, they are in others.

By arguing that drugs which don’t meet the NICE criteria should be withdrawn, he is also setting the bar too high for homeopathy.  It’s notable that he provides no “d” values for any single homeopathic treatment.  Prozac may not be very useful for treating all but the most severe cases of depression, but there is no evidence that homeopathy can help at all.  After reviewing the literature Pilkington et al (2005) concluded:

Evidence for the effectiveness of homeopathy in depression is limited because of a lack of high-quality clinical trials.”

I am sure that it’s possible to argue that anti-depressants are over-prescribed and their benefits are at times over-stated.  However, their limitations appear to be appreciated by the medical community and strategies are in place to align their use with the available evidence.  There may be legitimate controversy here, but it is clear that drugs like fluoxetine have some benefit, compared to placebo: not the zero benefit Milgrom alleges.  Furthermore, Milgrom appears to have misunderstood the paper he has cited: ascribing the results for a pooled analysis of number of drugs to a single drug.  He also has missed the guidance from NICE to limit the use of anti-depressants based on their risk-benefit ratio.

This essay is meant to be making the case for homeopathy.  In this context the discussion of Prozac is irrelevant.  This section of the essay is also meant to be overturning the notion that homeopathy is dangerous; again, a flawed analysis of Kirsch et al. (2008) does not contribute to this objective.


Real medicine has risks … but are they this big?

Then again, neither does his next argument, which claims that:

Those who denounce homeopathy as ‘deadly’ should consider conventional medicine’s safety record; something recently scrutinised by the UK’s House of Commons Public Accounts Committee [23]. Including fatalities, this committee found that in 2006 alone, at least 2.68 million people were harmed by conventional medical interventions; representing 4.5% of the UK population …”

Milgrom’s reference [23] is this report:

Leigh E: A safer place for patients: Learning to improve patient safety. 51st report of session 2005–06 report, together with formal minutes, oral, and written evidence. House of Commons papers 831, 2005–06, TSO (The Stationery Office). July 6, 2006.

It can be found here.  The first thing that stands out is that it was published in early July 2006: so it’s obvious that it cannot provide data for “2006 alone”.  This raises some suspicion about the rest of the claims.

As does the fact that I cannot find Milgrom’s figures in this report.  What Leigh (2006) examines is how patients can be treated more safely.  It looks at the incident reporting systems in the NHS, along with how it can better learn lessons when things go wrong.  It does not provide any estimates of the number of people “harmed by conventional medical interventions”.  It’s concerned with episodes of unintentional harm: medical accidents.  On this specific topic it quotes a previous report which, “estimated that one in ten patients admitted to NHS hospitals are unintentionally harmed”.   This is consistant with a recent report on patient safety from the House of Commons Health Committee (Barron, 2009).

So, if we take this rate of harm and apply it to 2006, how close do we get to Milgrom’s figures?  For the year 2005/06 the NHS Hospital Episode Statistics count 12,678,628 admission episodes.  If one in ten of these admissions resulted in harm, this implies around 1.3 million incidents of harm.  The report cites nothing which would allow us to assess the number of people harmed, or include medical accidents that may occur to patients who were not admitted to hospital (under the care of a GP or treated as an out-patient, for example). This report only provides information on harm done to hospital in-patients; and a crude estimate at that.

Terry et al(2005) also points out that injuries due to falls ranks as one of the most common causes of these incidents.  To place these events at the feet of conventional medicine, rather than the process of caring for the sick, would seem to be harsh.

Finally, it is, of course, not valid to relate this figure to the UK population as the data refers to incidents not individuals.

Either I’m missing something (always a possibility) or Milgrom’s figures must come from elsewhere.  It might be that they are correct and that this is just a mis-citation.  In any case, he should make clear where these numbers actually came from.

Ultimately this is another irrelevance.  The rate of harm resulting from conventional medicine must be set against the benefits it delivers.  We have seen that homeopathy’s magic pills and potions may offer no risk in themselves – because they don’t contain anything – but neither do they provide any benefit. 

It must also be recognised that conventional hospitals often care for desperately sick people with complex conditions: under these circumstances mistakes are more likely.  However, Milgrom’s simplistic analysis makes no attempt to do this, rendering it useless.  Further, it has no relevance to concerns about the safety of the practise of homeopathy.  It’s just a bit of tu quoque.

Ultimately, all healthcare providers should be striving to do less harm.  The rate of medical accidents within the UK’s NHS – whilst comparable to that in other developed countries – is still too high.

However, safer medical practise should also include stopping homeopaths treating serious medical conditions and the abandonment of medical interventions that incur risk without benefit. 


Critics refuted?

So has Milgrom managed to refute the charge that, “Homeopathy is deadly and those who practice it are at best purveyors of a placebo effect”?  I don’t think so.   This part of the essay is very weak.

It  steadfastly ignores the documented incidents of harm caused by homeopaths treating serious diseases.  His concept of homeopathic damage is simplistic, limited to deaths which are not acknowledged.

It may be that homeopaths, “responsibly encourage expectation of positive outcomes”.  But that is all they have.  Real medicine can offer this and more: effective treatments.

Going on the offence, Milgrom offers nothing more than two examples of ill-founded tu quoque.  First, nasty critics call homeopathy a placebo, so he says Prozac is nothing more than a placebo.  Of course, that’s not really true; Milgrom has mis-read the evidence, not acknowledged its limitations and ignored the effectiveness of anti-depressants under particular circumstances.  He also invokes NICE criteria when discussing Prozac, even though it’s clear that no homeopathic intervention could meet this standard, unlike the drug he disparages.

Similarly, critics say homeopathy is dangerous, so Milgrom says conventional medicine is too.  However, the source of Milgrom’s figures is obscure – they do not come from the report he cites.  Neither are they relevant: the failings of conventional medicine don’t make homeopathy any better.  And even with its failings conventional medicine is massively more successful than homeopathy can ever be.

All-in-all this is an empty attempt to justify an empty practise.  The scholarship is slap-dash and the arguments are flawed.  It is hard to imagine that this essay was subject to any meaningful review.

Next, I’ll look at Milgrom’s attempted refutation of “The claim that homeopathy is unscientific”.


Also in this series

Disclaimer

I am not a doctor.  This does not constitute medical advice.  If you need that consult a properly qualified and registered medical practitioner.

These are just my opinions, but I try to make sure that what I write is both accurate and fair.  If you think that I have got anything wrong please let me know.  If you are right I will happily change what I have written.


Notes

*Not all homeopaths use non-existent ‘medicine’.  Some of these could be toxic.

**Ben Goldacre made some interesting observations on this paper in a piece published in the Guardian, “A quick fix would stop drug firms bending the truth” (blog version)

***The Pyjamas in Bananas blog has looked at this paper in detail and provides a good reference for this controversy.  This topic is clearly more complex than the caricature provided in this essay suggests.


References

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Goldacre B. Benefits and risks of homoeopathy. The Lancet. 2007 November;370(9600):1672–1673. Available from: http://dx.doi.org/10.1016/S0140-6736(07)61706-1.

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Leigh E, (chairman). A safer place for patients: Learning to improve patient safety. 51st report of session 2005/06.  Report, together with formal minutes, oral, and written evidence. London: The Stationery Office Limited; 2006. Available from: http://www.publications.parliament.uk/pa/cm200506/cmselect/cmpubacc/831/831.pdf

Milgrom LR. Under Pressure: Homeopathy UK and Its Detractors. Forsch Komplementmed. 2009 September;16(4):256–261. Available from: http://content.karger.com/ProdukteDB/produkte.asp?Aktion=ShowAbstract&ArtikelNr=228916&Ausgabe=248719&ProduktNr=224242

Pilkington K, Kirkwood G, Rampes H, Fisher P, Richardson J.  Homeopathy for depression: a systematic review of the research evidence. Homeopathy : the journal of the Faculty of Homeopathy. 2005, July; 94(3):153–163. Available from: http://view.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/16060201.

Shang A, Huwiler-Müntener K, Nartey L, Jüni P, Dörig S, Sterne JA, et al. Are the clinical effects of homoeopathy placebo effects?  Comparative study of placebo-controlled trials of homoeopathy and allopathy. Lancet. 2005;366(9487):726–732. Available from: http://dx.doi.org/10.1016/S0140-6736(05)67177-2.

Terry A, Mottram C, Round J, Firman E, Step J, Bourne J. A safer place for patients: learning to improve patient safety. London: National Audit Office; 2005. Available from: http://eprints.whiterose.ac.uk/3427/.


Acknowledgements

dvnutrix for pointing this nonsense out to me.

Part one – originalon this blog

A homeopathic refutation – part one

by apgaylard (from A canna’ change the laws of physics)



dumbassLionel Milgrom recently had an essay published defending homeopathy (Milgrom, 2009).  It’s available on the Homeopathy World Community website.  In it, he notes the current parlous state of homeopathy as a mainstream medical intervention in the UK and seeks to do two things: (1) refute what he identifies as the main criticisms of homeopathy and (2) explore the context for what he views as unjustified attacks. 

In this post I shall examine Milgrom’s opening and his comments on the evidence for homeopathy.  I will be examining his arguments around: the scientific nature of homeopathy, its risks, the role of the profit motive and the influence of philosophy, in subsequent posts. 

Sitting comfortably? 

The summary starts with a familiar defence: “homeopathy has been in successful and continuous use for well over 200 years”.  This makes the usual mistake of conflating two different arguments: efficacy and popularity.  It is a common mistake to assume that the two go hand in hand.  History tells a different story. 

For example, medical bloodletting was both popular and ineffective for almost two-thousand years.  In fact, it was positively harmful. 

Milgrom starts to identify what he sees as the main accusations levelled against homeopathy, that it’s ‘unproven’, ‘unscientific’, and even ‘deadly’.  These seem to be a fair representation of the problems with this delusion.  The context within which he sees these attacks being made is a bit odd, “the globalised pharmaceutical industry which is itself in crisis, and a succession of UK governments seemingly supine in the face of legislation originating from the European Union.”

Of course, the pharmaceutical industry is a major bug bear of alternative ‘medicine’.  I was surprised to see the UK government and the EU attract the ire of a homeopath.

Homeopathy in crisis?

Milgrom starts the essay proper with a lament.  National Health Service (NHS) spending on homeopathic prescriptions fell by nearly 50% between 2005 and 2007.  One of the five homeopathic hospitals funded by the UK taxpayer has been earmarked for closure.  The, “flagship Royal London Homeopathic Hospital required an Early Day Motion and a debate in the House of Commons to temporarily guarantee its continued existence.”

There is a tone of entitlement in this piece: homeopathy has been available free on the NHS since its inception, so, by implication it should always be.

An easily confused homeopath

Now comes some confused whinging.  Accusations that, “homeopathic remedies are ‘deadly’, yet no better than sugar pills” are “confusing”.  It is surprising that Milgrom is so easily confused.  As the offending articles he cites make clear, the reason is simple: taking entirely ineffective sugar pills for a serious illness can be dangerous or, even lethal.  It’s really very simple: dangerous illness need real medicine.

In making this contention Milgrom fails either to understand, or fairly represent, the views of the authors he cites.   For instance, he references an article by Nick Cohen.  This is very clear as to why sugar pills can be lethal; the comments were made in the context of claims by named homeopaths to be able to treat AIDS.  Here are the opening two paragraphs:

On 1 December, faith healers will meet at Roots & Shoots in south London to discuss how to treat Aids with magic pills. They won’t call themselves faith healers, of course, or shamans or juju men. They will present themselves as ‘homeopaths’: serious men and women whose remedies are as good as conventional medicine. 

According to the advance publicity, Hilary Fairclough, a homeopath endorsed by no less than Jeanette Winterson, will describe the ‘impressive’ results from her clinic in Botswana. Harry van der Zee, co-founder of the Amma Resonance Healing Foundation, will say that ‘in just a few days or weeks’ African Aids patients he treated became ’symptom-free and able to return to their jobs and schools or to look after their children again’. All in all, the Society of Homeopaths promises to provide ‘fascinating insights’ for World Aids Day.”

I would say that’s very easy to understand and not at all confusing.  Next Goldacre (2007) is cited.  This very balanced article is similarly clear as to where the problems lie (references omitted):

There are also more concrete harms. A routine feature of homoeopaths’ marketing practices is to denigrate mainstream medicine. One study found that half of all homoeopaths who were approached advised patients against the measles, mumps, and rubella vaccine for their children. A television news investigation found that almost all homoeopaths who were approached recommended ineffective homoeopathic prophylaxis for malaria, undermined medical prophylaxis, and did not even give simple advice on bite prevention. Undermining medicine is a wise commercial decision for homoeopaths, because survey data show that a disappointing experience with mainstream medicine is one of the few features to regularly correlate with a decision to use alternative therapies. But it might not be a responsible choice. 

Homoeopaths can undermine public-health campaigns; leave their patients exposed to fatal diseases; and, in the extreme, miss or disregard fatal diagnoses. There have also been cases of patients who died after medically trained homoeopaths advised them to stop medical treatments for serious medical conditions.”

Again, it’s hard to see what is confusing about Goldacre’s position.  Milgrom also manages to overlook Goldacare’s discussion as to how homeopathy might be clinically useful – he’s not such a nasty sceptic after all.

Milgrom’s final reference in support of his contention that critics of homeopathy are effectively trying to ‘have their cake and eat it’ is an article by Samarasekera (2007).  As expected, the source of Milgrom’s confusion is elusive.  The piece quotes Michael Baum, making a very clear point, “People say homoeopathy cannot do any harm but when it is being promoted for HIV then there is a serious problem”.  And, after mentioning the Sense About Science exposé of homeopathic clinics and pharmacies who were willing to sell homeopathic pills to protect against malaria, David Colquhoun is quoted being equally clear, “Making false claims about treating colds is one thing but it is quite another thing to make false claims about malaria”.

One of Goldacre’s other contentions is that homeopaths have a tendency to cherry-pick and misrepresent evidence (Goldacre, 2007).  Unfortunately Milgrom falls into these traps when he starts discussing the evidence for homeopathy.

Un, deux, trois, nous irons au bois.  Quatre, cinq, six, ceuillir des cerises 

Milgrom’s first line of attack to refute the charges against homeopathy is to argue that, “Apart from several hundred years of clinical case histories, there are many good quality scientific trials and meta-analyses showing that homeopathy can demonstrate clinically observable effects over and above placebo”.

This is not a promising start.  First, case histories are low-grade evidence.  Subject to the vagaries of observer bias, expectation effects and the natural history of a disease – case histories are starting points not destinations.  Second it’s suspicious that instead of citing these “good quality […] trials and meta-analyses” Milgrom cites two cherry-picking reviews put together by advocacy organisations.

European Network of Homeopathy Researchers: An overview of positive homeopathy research and surveys, March 2007. www.homeopathy-soh.org/whats-new/documents/POSITI.PDF

Alliance for Natural Health: Homeopathy. Modality: Homeopathy. www.anhcampaign.org/practitoners/homeopathy.

What do the meta-analyses really say?  Homeopaths often refer to Kleijnen, Knipschild and Ter Riet (1991) but tend to accentuate the positive and ignore the caveats.  They concluded: 

At the moment the evidence of clinical trials is positive but not sufficient to draw definitive conclusions because most trials are of low methodological quality and because of the unknown role of publication bias. This indicates that there is a legitimate case for further evaluation of homoeopathy, but only by means of well performed trials.”

This is in no way a demonstration that homeopathy is effective.  Linde et al (1997) is another favourite of homeopaths, who often cite the first sentence of the conclusion but omit the second. 

The results of our meta-analysis are not compatible with the hypothesis that the clinical effects of homoeopathy are completely due to placebo. However, we found insufficient evidence from these studies that homoeopathy is clearly efficacious for any single clinical condition. Further research on homoeopathy is warranted provided it is rigorous and systematic.”

As Milgrom is contending that the evidence supports the clinical use of homeopathy, the authors’ caution against drawing such a conclusion is important: 

Our study has no major implications for clinical practice because we found little evidence of effectiveness of any single homoeopathic approach on any single clinical condition.”

Re-analyses of the data demonstrated that this work had been overconfident about its ability to account for publication bias and assess the methodological quality of included studies.  Subsequently, many of the same authors revisited their data (Linde et al, 1999) and concluded that: 

[…] in the study set investigated, there was clear evidence that studies with better methodological quality tended to yield less positive results. Because summarizing disparate study features into a single score is problematic, meta-regression methods simultaneously investigating the influence of single study features seem the best method for investigating the impact of study quality on outcome.”

Finally, Cucherat et al (2000) also showed that the evidence just does not support using homeopathy, as opposed to researching it:

[…] sensitivity analysis showed that the P value tended towards a non-significant value (P = 0.08) as trials were excluded in a stepwise manner based on their level of quality. […]

Conclusions: There is some evidence that homeopathic treatments are more effective than placebo; however, the strength of this evidence is low because of the low methodological quality of the trials. Studies of high methodological quality were more likely to be negative than the lower quality studies. Further high quality studies are needed to confirm these results”

So, Milgrom spectacularly fails to refute the central charge levelled at homeopathy.  His use of reviews that are cherry-picked, written by advocacy groups and exist outside of the peer-reviewed medical literature is deeply flawed.  The major meta-analyses of the literature provide no justification for using homeopathy in clinical practise.

The cherry-picking continues as the essay ventures into the area of what passes for basic homeopathic science.  He cites the discredited Nature paper on basophil degranulation.  (Davenas et al., 1988) and an alleged replication* by Belon et al (2004).

In typical cherry-picking style he omits a failed attempt at replication published in Nature during 1993 (Hirst et al., 1993).  He also neglects to mention another failed replication by Guggisberg et al (2005).  This concluded:

We were not able to confirm the previously reported large effects of homeopathic histamine dilutions on basophil function of the examined donor. Seemingly, minor variables of the experimental set up can lead to significant differences of the results if not properly controlled.”

This seems to get to the heart of the matter: poor experimental control.  Comments made by one of the authors of the debunked Nature paper (Beauvais, 2008) strengthen this impression:

[…]The main issue was that in some circumstances, “effect” and “no effect” were randomly distributed regardless their origin (negative or positive samples) […] the results of blinded samples were almost always at random and did not fit the expected results: some “controls” were active and some “active” samples were without effect on the biological system […]“

In other words once the experimenters were not aware what the ‘expected’ result was, the results were random.  All the experimenters were measuring was bias; their own.

No homeopathic rant would be complete without an attack on Shang et al. (2005):

This has been shown to be thoroughly biased [14–17], a view reinforced by two recent studies further demonstrating the Lancet meta-analysis as seriously flawed [18, 19]. In addition, this meta-analysis broke the Lancet’s own stringent guidelines on methodological and publication transparency [20], leading one to question why it ever appeared in such an eminent journal.”

Milgrom’s first set of  references [14 – 17] all come from the CAM literature.  As the appearance of this deeply flawed essay in a peer reviewed CAM journal shows, they don’t seem to be particularly careful in what they publish: so I’ll not waste my time on them.  The truth of the matter is that various critics had letters published in the Lancet (Fisher et al.,2006; Linde  and Jonas, 2006; Walach et al., 2006; Dantas, 2006).  The authors’ reply (Shang et al, 2006) addressed the concerns raised.  No substantial criticism remained unaddressed**.

Homeopaths continue to make all sorts of criticisms of this work – popular myths include that it ignored key papers or that the authors never disclosed which trials made it into their final sub-group.  These are generally the result of a failure to understand*** (or sometimes even read) the paper and the authors’ reply. (For further details see various posts on this, or Paul Wilson’s blog)

The two recent studies that Milgrom cites do not deliver what he claims.  Lüdtke and Rutten (2008) actually came to a rather mild conclusion, “Because of the high heterogeneity between the trials, Shang’s results and conclusions are less definite than had been presented.”  This is hardly evidence of deep flaws.  What they actually found was that if you make post-hoc choices about inclusion criteria and analysis methods you can get different results.  This is not surprising and is why research studies should have their analysis methods set beforehand – otherwise researchers might unconsciously influence the results of their studies by selecting methods which give them the result they want. 

A careful analysis by David Gorski shows that this paper actually confirms one of Shang’s key findings: evidence of bias was found in the sub-set of higher quality studies that was missing from their final set of eight most reliable trials.  The point of Shang’s work was to arrive at a set of least biased trials on which to make judgements of efficacy.  He concluded: 

[…] whenever one investigator “reanalyzes” the dataset of another investigator, they virtually always have an axe to grind. That doesn’t mean it isn’t worthwhile for them to do such reanalyses or that they won’t find serious deficiencies from time to time, but you should always remember that the investigators doing the reanalysis wouldn’t bother to do it if they didn’t disagree with the conclusions and weren’t looking for chinks in the armor to blast open so that they can prove the study’s conclusions wrong. In this, Lüdtke and Rutten failed.”

Milgrom’s second paper (Rutten and Stolper, 2008) is actually a more homeopath-friendly  – therefore less objective – report of the same reanalysis: a bit of double-counting.  The excellent Paul Wilson critiqued this on his blog (here and here); this was subsequently published (Wilson, 2009).  The authors’ reply (Rutten and Stolper, 2009) signally failed to engage with his substantial criticisms. 

Shang et al (2005) has been subjected to a barrage of criticism.  Some of it is fair; most is partisan and ill-informed.  A re-analysis by homeopaths failed to show any errors.  The most that can be said is if you do it differently you can get different results.  This is an entirely trivial conclusion. 

As for Milgrom’s allegations of lack of appropriate transparency, he had a point.  The original paper did not fully disclose the identities of the trials analysed.  This should have been included in the original paper.  However, the error was put right in December 2005.  One thing that Lüdtke and Rutten (2008) showed is that it is possible to go back, reconstruct Shang’s analysis and get the same results.  Any lack of transparency, regrettable as it is, does not change what they found: 

Biases are present in placebo-controlled trials of both homoeopathy and conventional medicine. When account was taken for these biases in the analysis, there was weak evidence for a specific effect of homoeopathic remedies, but strong evidence for specific effects of conventional interventions. This finding is compatible with the notion that the clinical effects of homoeopathy are placebo effects.” 

Guilty as charged

Critics of homeopathy rightly point to lack of credible evidence that it has specific clinical effects.  As we have seen, this is consistent with the evidence provided by major meta-analyses.  It is also clear that the basic research offered up by homeopaths has been shown to be unreliable. 

Some sceptics have also made it very clear that homeopaths advocating the use of ineffective homeopathic treatments for serious illnesses (like AIDS and malaria) poses risks.  They have been precise about both the illnesses and homeopaths involved: the risk is not in the pills, but in their uselessness; and the attitudes to medicine promoted by some homeopaths (like discouraging vaccination). 

All Milgrom offers in this essay is a spurious smokescreen of “confusion”, lists of studies cherry-picked by advocacy organisations and an insubstantial critique of Shang et al (2005)

It is baffling that a man of education and intelligence could think that this was any kind of serious refutation of the charges.  Equally, it is revealing that such an error-strewn analysis could make it into a peer-reviewed journal.  Then again, it’s a CAM journal. 

Next, I’ll look at Milgrom’s attempted refutation of “The claim that homeopathy is deadly”.

Also in this series

Watch this space.

Disclaimer

I am not a doctor.  This does not constitute medical advice.  If you need that consult a properly qualified and registered medical practitioner.

These are my opinions, but I try to make sure that what I write is both accurate and fair.  If you think that I have got anything wrong please let me know.  If you are right I will happily change what I have written. 

Notes

*See The Great DBH Rant blog for a devastating critique of this work.

**Contrary to popular homoeomythology the authors subsequently made available a complete list of all the trials analysed in the study, including which made it into various sub-groups.

*** I have had a go at explaining what the authors actually did here.  If you are a homeopath, or apologist for homeopathy, please read this before offering any criticism.

In Dangerous delusions Jayney Goddard repeats the myth that “that they didn’t disclose the identities of the final eight studies.”  In Making your own reality I tried to get an article corrected in which Dana Ullman claimed that the study “did not include any of David Reilly’s research”.  In part two of this post I dealt with Ullman’s further criticisms of Shang.  In Spying on Shang I took apart a rather silly criticism by a homeopath named Clive Stuart.  Shang’s secret – the hydra of homoeomythology finds Milgrom pretending in 2008 that the authors had not disclosed the identity of the studies they analysed, although they did this in December 2005!  Homeopathy and the Absence of Evidence deals (among other things) with Dr Damien Downing’s misconceptions.  Finally, The Myth of The Secret Eight, was my first foray into the debate over this meta-analysis. 

References

Beauvais F. Memory of water and blinding. Homeopathy. 2008 January;97(1):41–42. Available from: http://dx.doi.org/10.1016/j.homp.2007.10.001.

Belon P, Cumps J, Ennis M, Mannaioni PF, Roberfroid M, Sainte-Laudy J, et al. Histamine dilutions modulate basophil activation. Inflamm Res. 2004 May;53(5):181–188. Available from: http://dx.doi.org/10.1007/s00011-003-1242-0.

Cucherat M, Haugh MC, Gooch M, Boissel JP. Evidence of clinical efficacy of homeopathy. A meta-analysis of clinical trials. HMRAG. Homeopathic Medicines Research Advisory Group. European journal of clinical pharmacology. 2000 April;56(1):27–33. Available from: http://view.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/10853874.

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Davenas E, Beauvais F, Amara J, Oberbaum M, Robinzon B, Miadonna A, et al. Human basophil degranulation triggered by very dilute antiserum against IgE. Nature. 1988 June;333(6176):816–818. Available from: http://dx.doi.org/10.1038/333816a0.

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Acknowledgements

dvnutrix for pointing this nonsense out to me, and the writer of The Great DBH Rant blog for their insights into Belon et al (2004).

La memoria…dell’aqua


FUOCO…FUOCHINO…ACQUA

Il Dottore, gran brava persona, continua a confrontarsi con la pletora di sostenitori di medicine alternative, teorie scientifiche alternative, cosmologie alternative, eccetera eccetera… Ah, vorrei averla io l’acribia di chi sente il dovere della testimonianza. Un fannullone come me preferisce il copia e incolla. Questo pezzo dal sito di informazione scientifica Brain Mind & Life, nella sua esemplare linearità, mostra la totale inanità del “dibattito” sulla cosiddetta “memoria dell’acqua”, in quanto il pensiero che sottende al “ragionamento” omeopatico è di tipo magico, e quindi, per sua natura, è totalmente impermeabile alla verifica empirica.

cura impossibile

IL CASO BENVENISTE
RIVELAZIONI RETROSCENA E DISCUSSIONE

L’analisi del caso Benveniste, ossia della ricerca che condusse all’ipotesi della memoria dell’acqua, ci permette di capire in cosa sia consistita e perché sia stata ordita una frode di così grandi dimensioni, rendendoci conto delle ragioni che, a quindici anni di distanza, rendono l’affaire ancora di attualità. La discussione di questa vicenda ci offre anche l’opportunità di proporre alla riflessione e al dibattito un tema di importanza epocale, quale la contaminazione, sotto la spinta di interessi economici, della medicina scientifica con pratiche anacronistiche.
Il fatto. Il 30 giugno 1988 l’autorevole rivista britannica Nature pubblicò un articolo dal titolo Human basophil degranulation triggered by a very dilute antiserum against IgE (333, 816-818), firmato da tredici autori [1]. Il gruppo di lavoro era coordinato dal biochimico francese Jacques Benveniste, professore presso l’Università di Parigi-Sud, direttore dell’Unité 200 dell’Institut National de la Santé e de la Recherche Médicale (INSERM) di Parigi. Gli altri istituti di provenienza dei ricercatori erano il Dipartimento di Zoologia dell’Università di Toronto in Canada, l’omologo istituto dell’Università di Gerusalemme, la facoltà medica dell’Università di Milano dalla quale provenivano due medici in servizio presso l’Ospedale Maggiore del capoluogo lombardo, in seguito dissociatisi dalle ipotesi sostenute dai principali autori. Fra questi ebbero un ruolo preminente Elizabeth Davenas e Bernard Poitevin.
Il lavoro sembrava dimostrare che la diluizione in acqua di un antisiero, spinta molto oltre la totale scomparsa di ogni sua molecola, fosse ancora in grado di produrre il suo effetto fisiologico di degranulazione dei granulociti basofili. Questo sorprendente risultato induceva gli autori ad ipotizzare che l’acqua sia in grado di trattenere impronte infinitesimali delle molecole con cui viene a contatto [2].
La ratio e la procedura di questo studio sono molto semplici, per cui sarà sufficiente una breve esposizione concettuale e tecnica per proseguire con cognizione di causa il nostro approfondimento.
 
La ricerca. Il lavoro apparteneva all’area dell’Immunologia e sfruttava le competenze di Benveniste sui meccanismi molecolari dell’allergia.
I fenomeni allergici sono caratterizzati dalla produzione di anticorpi capaci di reazione immediata, le immunoglobuline E (IgE) e dalla liberazione di varie sostanze, fra cui l’istamina, responsabili delle manifestazioni cutanee e dell’asma. L’istamina viene rilasciata da globuli bianchi che, per le loro caratteristiche chimico-tintoriali, sono detti granulociti basofili o semplicemente basofili. La degranulazione dei basofili non è altro che il rilascio di granuli contenenti istamina, fenomeno che può facilmente essere studiato mediante la colorazione con un composto colorante chiamato blu di toluidina. La degranulazione dei basofili può essere indotta artificialmente impiegando un siero anti-IgE. In condizioni normali il blu di toluidina reagisce con l’istamina producendo una tinta rossa che colora intensamente i basofili. Se i granuli contenenti istamina sono stati tutti rilasciati il basofilo, completamente degranulato, non si colora più. Si comprende, pertanto, come il metodo della colorazione con blu di toluidina si possa impiegare per testare l’effetto del siero anti-IgE: l’efficacia della sua azione coincide con la scomparsa al microscopio delle macchioline rosse che corrispondono alle cellule basofile.
La particolarità di questo progetto dell’INSERM consisteva nel fatto che il fenomeno della degranulazione causata dal siero anti-IgE veniva impiegato per testare la possibilità che il siero diluito oltre 120 volte potesse ancora produrre i suoi effetti: un’ipotesi priva di fondamento scientifico, anzi in contrasto con le più elementari conoscenze di chimica e fisica, vediamo perché.
 
La Legge di Avogadro. È una di quelle chiavi di volta su cui si fonda sia una parte della concezione scientifica della materia, sia i più umili calcoli di una minuta pratica di laboratorio. La Legge di Avogadro [3], inizialmente concepita per i gas e, poi, come tutte le leggi dei gas estesa alle soluzioni, enuncia: Volumi uguali nelle stesse condizioni di temperatura e di pressione contengono lo stesso numero di molecole. Stabilendo per la prima volta un rapporto fra numero di molecole e volume, la legge ci consente di definire quante molecole di una sostanza sono presenti in un dato volume di gas o di acqua. Il numero fisso di molecole per centimetro cubico è pari a 6,025 x 1023 e prende il nome di Numero di Avogadro.
Diluendo in 100 millilitri (o c.c.) il nostro siero varie volte, alla 13a diluizione abbiamo la certezza che non c’è più neanche una molecola: calcolare per credere!
È lecito chiedersi perché un team di ricercatori che ha superato da tempo l’età delle prime lezioni di chimica chieda ed ottenga finanziamenti per testare un siero che travaserà [4] per 120 volte in 100 ml d’acqua fino alla paradossale concentrazione di 10-120 M? Se si è al corrente della enorme mole di progetti di ricerca seri, fondati e referenziati che ogni anno rimangono inattuati per mancanza di fondi, è facile dirigere i sospetti verso interessi estranei alla comunità scientifica [5].
 
La pubblicazione. La pubblicazione su una rivista scientifica, come è noto, segue tutt’altri criteri rispetto all’editoria giornalistica; si tratta infatti di un atto di comunicazione alla comunità scientifica internazionale di risultati di assoluto rilievo di ricerche condotte nel più rigoroso rispetto del metodo sperimentale, previo accurato esame e giudizio di merito da parte di una commissione di referees che nel caso di Nature include sempre i maggiori esperti del settore, frequentemente insigniti del premio Nobel. Non sorprende, perciò, che l’apparire di un simile articolo destasse stupore e sollevasse le più indignate proteste da parte di molti ricercatori e responsabili di istituti scientifici. Lo stesso direttore della rivista, John Maddox, fu oggetto di attacchi molto duri “per aver pubblicato idiozie del genere e per aver con ciò dato credito ad idee a dir poco dubbie.” [6] Il rigore formale con cui era stata condotta una parte di quello studio non avrebbe dovuto impedire ai referees e al direttore, garante della loro serietà e tutore del prestigio della rivista, di rendersi conto dell’infondatezza dell’ipotesi testata e dell’improponibilità di una procedura fondata su preconcetti magici quali un’azione molecolare prodotta in assenza di molecole o lo sprigionarsi di una “forza vitale” grazie allo scuotimento dell’acqua. Si chiedeva al direttore di scusarsi per un errore così grave e di dimettersi per non compromettere la reputazione della rivista. “La sua risposta fu che la pubblicazione e la critica che sarebbe seguita da parte della comunità scientifica, avrebbero messo a tacere le proteste dei fautori dell’omeopatia secondo i quali gli esperimenti omeopatici non avevano mai trovato spazio nelle riviste scientifiche per via dei pregiudizi nei loro confronti, pregiudizi nati a causa della resistenza della comunità scientifica a prenderli sul serio.” [7]
Ad onor del vero, si deve ricordare che John Maddox aveva accompagnato l’articolo con una nota dal titolo “Quando credere all’incredibile” [8], in cui precisava che il fenomeno descritto non aveva ancora trovato una spiegazione scientifica ed invitava i lettori a non emettere giudizi fino a quando una commissione di esperti non avesse assistito alla ripetizione degli esperimenti e ne avesse controllato rigorosamente i risultati. 
 
La commissione di indagine presieduta da Maddox. L’indagine sulla ricerca condotta presso i laboratori parigini sembrava, perciò, già programmata quando si era decisa la pubblicazione e, probabilmente, anche il nome del presidente della commissione che avrebbe effettuato i controlli e le ispezioni era dato per certo. John Maddox, nato nel 1925, aveva studiato Fisica ottenendo anche degli incarichi di insegnamento presso il Dipartimento di Fisica Teorica dell’Università di Manchester. Sebbene godesse di ottima fama, veniva guardato con sospetto da una parte della comunità scientifica perché aveva un curriculum da giornalista e non da accademico o da ricercatore. Aveva lavorato, infatti, al Manchester Guardian per 10 anni come giornalista scientifico. Era già stato direttore di , dal 1966 al 1973, quando nel 1980 riassunse l’incarico[9]. Probabilmente coloro che avrebbero voluto uno scienziato di provato valore a dirigere la più prestigiosa impresa editoriale nel campo delle scienze naturali e biomediche, vedevano in questo episodio la conferma dei loro dubbi sull’opportunità di lasciare su una poltrona così importante qualcuno che non ritenevano sufficientemente preparato. Maddox si rendeva conto che presiedere la commissione sul “caso Benveniste” equivaleva a sottoporsi ad un esame di idoneità cui non poteva sottrarsi, pena le dimissioni dall’incarico.
Sapendo di non potersi permettere di fallire e che l’esito peggiore dell’indagine sarebbe stato non riuscire a svelare il mistero di quei risultati che andavano contro ogni logica e conoscenza scientifica, Maddox mise la massima cura nella selezione dei commissari che lo avrebbero affiancato nel delicato compito. La scelta cadde su uno studioso pratico di tecniche di laboratorio, che conosceva a fondo la realtà della ricerca per esserne un protagonista e, soprattutto, era specializzato nel riconoscimento di errori tecnici e frodi nella ricerca biomedica di base, ossia Walter W. Stewart; e sul maggior esperto in trucchi e tecniche illusionistiche, James Randi.
Quest’ultimo, a differenza di quanto talvolta si legge, non è un illusionista ma uno studioso che ha dedicato gran parte della propria vita a smascherare guaritori, truffatori, parapsicologi, persone che si dichiaravano in possesso di poteri paranormali, ecc. Per far questo ha imparato una grande quantità di tecniche che richiedono lunghi e complessi addestramenti, così che in un programma televisivo che lo ha reso famoso era in grado di mostrare egli stesso i trucchi dei presunti maghi [10].

Il sopralluogo. La commissione, giunta nel laboratorio dell’INSERM, fece richiesta di ripetere gli esperimenti limitandosi ad assistere e riservandosi di partecipare in una fase successiva. Sarebbero rimasti a Parigi una settimana, ma le impressioni iniziali fecero loro dubitare che ne sarebbero venuti a capo tanto presto.
Gli esperimenti ripetuti dai collaboratori di Benveniste riuscirono perfettamente, anche se alcune cose apparivano strane. Ad esempio la registrazione dei dati era affidata sempre alla stessa ricercatrice, la quale li annotava su un quaderno di laboratorio. Si trattava della prima firmataria dell’articolo: Elizabeth Davenas. Le pagine del quaderno erano numerate come quelle di un libro contabile, per cui in teoria non vi poteva essere una grossolana manomissione come l’aggiunta o l’eliminazione di una pagina. A James Randi non era sfuggito, però, che la Davenas annotava i dati a matita e portava il quaderno a casa, dove avrebbe provveduto a riscriverli con inchiostro indelebile. Inoltre rilevarono che la conta dei basofili degranulati non era delegata solo alla Davenas, ma ella soltanto aveva riscontrato i dati favorevoli all’ipotesi che l’acqua “ricordasse” gli anticorpi anti-IgE. Prese corpo il sospetto che non si trattasse di un errore, ma di una frode astutamente architettata, così che si decise di intervenire secondo un metodo suggerito da Randi, ossia impiegando una procedura estremamente efficace per prevenire la manomissione fraudolenta.
 
Il “Metodo Randi”. Le provette contenenti il siero diluito furono fatte etichettare dalla Davenas e l’intera procedura fu videoregistrata, dando alla maggiore indiziata la certezza di sapere in quali provette fosse il siero ancora attivo, in quali quello troppo diluito per poter degranulare i basofili e in quali acqua pura.
Quando la ricercatrice andò via, nella stanza del laboratorio in cui aveva lasciato le provette, Stewart, Randi e Maddox, dopo aver oscurato le finestre ed essersi accertati che non vi fossero telecamere o microfoni dei ricercatori, accesero di nuovo la loro videocamera per registrare quanto si apprestavano a fare.
Tolsero le etichette e le sostituirono con delle altre, numerate secondo un codice casuale inventato al momento e annotato su un foglio di carta. In questo modo, se la frode consisteva nel contaminare di nascosto le provette che contenevano di fatto solo acqua con siero degranulante, questa operazione sarebbe risultata oltremodo difficile, perché non era più possibile sapere quali provette manomettere. Per essere certi che il codice delle etichette, necessario per proseguire l’esperimento il giorno dopo, non fosse accessibile, il pezzo di carta su cui era scritto fu avvolto in un foglio di alluminio, ripiegato e custodito in una busta sigillata con un particolare tipo di adesivo che avrebbe consentito il facile rilievo delle impronte digitali di chi avesse tentato di aprirla. La busta fu attaccata al soffitto del laboratorio. A questo punto il team composto dai ricercatori e dai membri della commissione poteva lavorare, come si usa dire nel gergo della ricerca, in cieco. Cioè nel cimentare i basofili con le soluzioni si andava alla cieca, non sapendo quando si stessero impiegando le diluizioni contenenti anticorpi e quando acqua senza tracce di siero. Aggiunto il blu di toluidina, a fine giornata tutti andarono via, solo James Randi si attardò un po’ e, non visto, tracciò dei segni sul pavimento per marcare la posizione della scala che era stata impiegata per attaccare la busta al soffitto.
James Randi riferisce che il giorno dopo, quando andarono in laboratorio per effettuare la conta dei basofili colorati di rosso, Elizabeth Davenas e gli altri ricercatori sembravano tesi e preoccupati, mentre Benveniste era di buon umore ed ostentava grande sicurezza, al punto di aver convocato i fotografi ed ordinato lo champagne. Questo atteggiamento, se si escludono doti di recitazione degne di un attore professionista, faceva propendere per la buona fede del direttore dell’Unità 200.
Estratti i codici dalla busta si procedette alla conta e, con questa, si rovinò la festa a Benveniste: le diluizioni omeopatiche non producevano alcun effetto, ovvero l’acqua non rivelava alcuna proprietà magicaricordo e la creazione del fantasma di milioni di molecole. come il
Il risultato era così nettamente evidente da non concedere alibi come quello invocato dagli indagati, ossia di un errore nella realizzazione del campione statistico. Trilussa diceva: “La statistica è quella cosa che se tu hai mangiato due polli ed io nessuno, abbiamo mangiato un pollo a testa”, ma se i polli mancano del tutto -anche in senso metaforico- c’è poco da invocare la statistica: si rimane tutti a bocca asciutta. A quel punto la frode era stata evidenziata senza ombra di dubbio. La busta che custodiva il foglio avvolto nell’alluminio su cui erano scritti i codici delle provette, recava lievi segni dovuti ad un tentativo di effrazione con un oggetto appuntito e, d’altra parte, Randi nell’entrare in laboratorio aveva notato la scala spostata dalla posizione in cui l’aveva lasciata la sera prima; spostamento reso maggiormente evidente dai segni che aveva tracciato sul pavimento. Si riteneva che le chiavi del laboratorio le avesse solo Benveniste ma, in assenza di dati certi al riguardo, ogni illazione è lecita.
Il risultato dell’accertamento premiò più di ogni altro John Maddox, che da tutta la vicenda ottenne un consolidamento della stima di cui godeva presso lo staff della rivista da lui diretta [11] ed una riabilitazione agli occhi dei suoi detrattori. La sua linea di condotta era apparsa saggia oltre che vincente in quanto, prima la sua rispettosa tolleranza, interpretando quello spirito liberal-democratico tanto caro alla cultura britannica, aveva consentito la pubblicazione del lavoro e, dopo, da vero paladino della scienza aveva condotto la squadra di esperti che, attraverso la verifica empirico-logica, aveva ristabilito la verità [12].
Era davvero importante una risposta chiara ed autorevole al clamore ed al risalto con il quale i mezzi di comunicazione di massa avevano diffuso ed amplificato la notizia della “eccezionale scoperta”, seguendo il vecchio adagio giornalistico secondo cui un cane che morde l’uomo non è una notizia, ma se un uomo ha morso un cane gli si dovrà dare il massimo rilievo possibile. Si giunse perfino ad intervistare vari premi Nobel per conoscerne l’ovvio e scontato parere, che avrebbe aumentato l’attenzione e l’interesse per il servizio televisivo o radiofonico, così come per l’articolo del quotidiano: in Italia si diede il microfono a Rita Levi Montalcini, in Francia a Daniel Bover.
Per la verità nessuno scienziato degno di questo nome aveva preso sul serio i risultati e l’interpretazione di Davenas e collaboratori, infatti al riguardo Skrabanek e Mc Cormick osservano che la grossolanità della pretesa è di quelle che presuppongono una crassa ignoranza in termini di cultura generale e consapevolezza della realtà su cui si reggono i valori empirici della scienza: “Le conseguenze per la fisica sarebbero state più profonde di quelle che ebbe la scoperta che la terra è sferica. La scienza, così come la conosciamo, avrebbe dovuto essere cancellata e riscritta da capo.” [13]
Ma la commissione di Nature non fu l’unica a sottoporre ad esame l’ipotesi della memoria dell’acqua. Sono poche le fonti che riportano di una sperimentazione molto seria che verificava il lavoro dell’équipe di Benveniste. Lo studio fu promosso da Science et vie, rivista francese di divulgazione scientifica il cui prestigio è legato ad un attivo impegno a tutela della salute dei cittadini. I redattori della rivista ritennero un proprio dovere morale partecipare all’accertamento della verità, anche in considerazione del fatto che in Francia, in quel periodo, un medico su quattro prescriveva rimedi omeopatici.
La ricerca promossa da Science et vie fu condotta quello stesso anno presso il laboratorio allergologico del Rothschild Hospital di Parigi: in nessuna delle prove fu mai possibile assistere ad un fenomeno che desse adito a qualche dubbio. Un articolo pubblicato su Scientist, fornendo un ottimo resoconto della ricerca, stigmatizzava l’amplificazione da parte del sistema di comunicazione di massa, affermando che gli scienziati francesi avevano poco da dire, laddove la stampa francese diceva davvero troppo [14].
A coloro che si rivolgono in fiduciosa buona fede all’omeopatia giova ricordare che uno dei maggiori omeopati del mondo, tenace sostenitore di un’omeopatia -a suo dire- “scientifica”, David Reilly, subito dopo l’annuncio dei risultati di Davenas e soci ebbe a dire: “Se la cosa si dimostra priva di fondamento avremo dimostrato che l’omeopatia è uno dei più grandi incidenti di percorso della scienza medica, una follia di tali proporzioni da meritare uno studio a parte.” [15]
La dimostrazione che si trattava di una frode dovrebbe indurre gli omeopati in buona fede, così come i pazienti, a seguire Reilly e ad abbandonare questa follia.
 
L’accertamento della commissione e la verifica indipendente del laboratorio allergologico francese, erano più che sufficienti perché nel mondo scientifico si considerasse l’affaire Benveniste un “caso chiuso”. Si deve osservare, però, che quanto era emerso durante il controllo non avrebbe lasciato indifferente un magistrato, una corte di giustizia o anche un semplice cittadino che non accetta di essere truffato. Molti interrogativi, che andavano dal perché di quella strana ricerca a chi l’avesse finanziata e a come si fosse giunti alla vera e propria frode dei risultati falsi, sembravano trovare risposta nelle vicende passate e presenti dell’équipe dell’INSERM.
 
 Retroscena e rivelazioni. Scoppiato lo scandalo presso il laboratorio dell’Unità 200, dopo la dissociazione dei due Italiani, un altro firmatario dell’articolo, Pierre Belon, prima prese le distanze dalla ricerca e, poi, ruppe i rapporti con Benveniste. La situazione diveniva ogni giorno più difficile, fino a quando Philippe Lazar, direttore generale dell’INSERM, minacciò il licenziamento dell’intera équipe. La crisi del gruppo di ricerca dovuta allo smascheramento da parte della commissione di Nature, ci riporta al quesito che ci siamo posti nel paragrafo sulla legge di Avogadro e che si può sintetizzare così: perché mai quegli esperimenti e chi li ha finanziati?
Rosario Brancato e Maurizio Pandolfi, due medici oculisti, docenti universitari rispettivamente al San Raffaele di Milano e all’Università di Lund in Svezia, si sono occupati della vicenda in un loro peraltro piacevole e brillante saggio recente [16] in cui, però, riflettono ingenuamente quanto gli autori del “piano” volevano si credesse: “Ci si può chiedere se gli autori avessero un qualche contatto con l’omeopatia. Benveniste no ma altri due erano medici omeopatici, una circostanza che tinse di sospetto lo scetticismo di molti.” [17]
Brancato e Pandolfi si sbagliano di grosso, se così non fosse bisognerebbe spiegare in che modo Benveniste si sarebbe convinto a testare le funzioni dell’acqua diluita nell’acqua e, a sua volta, come avrebbe convinto il Ministero a finanziarlo. Ma le cose non stavano così. La chiave di volta per comprendere l’origine del progetto ed i ruoli dei singoli si chiama Bernard Poitevin.
Poitevin, che abbiamo citato fra i membri del gruppo di ricerca, era medico. Laureatosi a Nantes nel 1978, fu estraneo a pratiche terapeutiche non scientifiche fino a quando suo padre adottivo fu curato con l’omeopatia, circostanza che gli consentì di conoscere questo complesso ed antico modo di sfruttare l’effetto placebo, camuffandolo sotto le spoglie di una fantomatica energia che si sprigionerebbe dalla diluizione accompagnata a scuotimento di sostanze che in congrue quantità sarebbero responsabili dei sintomi che si vogliono curare. Poitevin fiutò l’affare costituito dalla legittimazione di queste pratiche che, anche in virtù della crescente sfiducia verso un sistema sanitario sempre più compromesso con interessi ed opportunismi politici, sembrava avere buone possibilità di affermazione. Il primo passo lo compì nel 1980 ottenendo la tesi di dottorato in immunologia presso il laboratorio di Benveniste. Il campo immunologico che allora, più di oggi, si presentava come un’area vasta e largamente insondata di fenomeni spesso capricciosi ed inspiegabili, gli parve l’anello di congiunzione ideale fra l’omeopatia e la scienza. Il passo successivo fu presentare Michel Aubin, direttore scientifico dei Laboratoires Homéopathiques de France (LHF), una casa farmaceutica omeopatica, a Benveniste. L’incontro è cruciale perché comporta la “conversione” all’omeopatia del direttore dell’Unità 200. Nel 1982 Benveniste firma con Aubin un contratto per studiare l’attività dei prodotti omeopatici nei meccanismi dell’allergia. In altre parole il laboratorio viene finanziato per la prima volta dall’industria omeopatica per lavorare su suoi progetti. Non è noto quale sia stato, in quel periodo, il primum movens che ha attratto su quel sodalizio l’attenzione della maggiore delle industrie produttrici di rimedi omeopatici in Francia, la Boiron. Fatto sta che nel 1983 Benveniste, dopo aver rinnovato per altri due anni il contratto con la LHF di Aubin, firma un contratto anche con la Boiron.
 Poitevin diviene consigliere scientifico della LHF e, in questa qualità, svolge la funzione di supervisore nel laboratorio di Benveniste, coadiuvato da Beatrice Descours, che lavora in qualità di tecnico di laboratorio per la Boiron. Alla fine del 1983, per motivi poco chiari, la Descours si dimette ed al suo posto è assunta Elizabeth Davenas. Da notare che fin dall’inizio la Davenas ha lavorato presso il laboratorio dell’Unità 200 con lo stipendio pagato dalla Boiron.
Conosciuti questi fatti, il quadro d’insieme è molto più chiaro. La decisione di realizzare questo “geniale” progetto di ricerca spetta ad un nucleo di omeopati che da anni lavora a tutti gli effetti per l’industria omeopatica, anche se utilizza in parte una struttura e dei fondi pubblici.
Durante il 1988, qualche mese prima della pubblicazione su Nature, la Boiron acquistò la LHF, diventando così l’unica finanziatrice dei progetti di ricerca di Benveniste. Le due industrie di rimedi omeopatici fra il 1982 e il 1986 investirono tra i duecentomila ed i trecentomila franchi l’anno, nel 1987 e nel 1988 circa ottocentomila l’anno, il 1989 un milione di franchi. Complessivamente il sostegno all’Unità 200, fino alla pubblicazione dell’articolo, si stima intorno ai quattro milioni di franchi.
Dunque, la “memoria dell’acqua” è frutto di un piano architettato e finanziato dall’industria omeopatica per guadagnare una patente di scientificità ai propri prodotti, allo scopo di conquistare quote sempre più estese di mercato grazie alla persuasione dei medici. Non stupisce, perciò, che il piano prevedesse anche un escamotage per evitare l’incriminazione per truffa.
I ricercatori dell’Unità 200 erano ben consapevoli del fatto che la ripetizione degli esperimenti in laboratori indipendenti avrebbe presto dimostrato l’impossibilità di ottenere i loro incredibili risultati, così introdussero nel loro lavoro un errore di campionatura statistica. L’intento era quello di scaricare su quell’errore la responsabilità dei dati ottenuti, per poter dichiarare la propria buona fede. Se un simile trucco poteva aver presa nel corso di un processo su una corte ben disposta, non aveva certo possibilità di sviare la comunità scientifica. A tale proposito si può osservare, visto che si intendeva ingannare i medici oltre che i comuni cittadini, che Benveniste e soci puntavano sull’ignoranza dei clinici francesi in materia di statistica. E non erano i soli, considerato che la direzione generale dell’INSERM per salvare la reputazione dell’istituzione, incaricò il direttore dell’Unità 292, Alfred Spira, uno statistico, di ripetere gli esperimenti cercando di dimostrare che con l’errore di campionatura fosse possibile ottenere i risultati di Benveniste. Ovviamente le prove sperimentali ebbero ancora una volta esito negativo, ma Spira riuscì, se non altro, ad allontanare l’attenzione dal problema vero.
 Il prestigio dell’Istituto sembrava comunque compromesso, tanto che Philippe Lazar voleva che Benveniste andasse via o, per lo meno, fece in modo che si sapesse di questa sua volontà; accettò, invece, di confermarlo nell’incarico per altri quattro anni, ossia fino a scadenza del mandato nel 1992, a patto che la Davenas -ritenuta da tutti la vera responsabile della frode- fosse allontanata [18].

Discussione. Uno dei motivi che ci ha spinto a studiare il caso Benveniste e a proporre in uno scritto una sintesi dei fatti noti e delle nostre riflessioni è che l’accertamento della verità che condusse alla soluzione di quel caso e, conseguentemente, a porre la parola fine ad ogni disputa sul  presunto fondamento scientifico dell’omeopatia, oggi sembra essere del tutto ignorato.
L’esemplarità del caso aveva un enorme valore, perché dimostrava che l’unica volta, in assoluto, che si registrava un fenomeno rilevato scientificamente che obbedisse al dogma omeopatico, si era in presenza di una truffa. Purtroppo, se si eccettuano gli operatori in buona fede, ciò che la quotidiana esperienza ci propone ad un livello un po’ più alto e generale della realtà del singolo che vende o somministra prodotti omeopatici, è molto chiaro. Da una parte c’è chi sostiene in forma propagandistica delle pratiche e delle convinzioni “quotate in borsa” indipendentemente dalla loro veridicità, e ritiene parte di quest’attività insabbiare, depistare e confondere. Dall’altra c’è chi è scientificamente preparato ed in grado di rilevare e smascherare le imposture, ma teme di esporsi a querele od attacchi personali di chi è organizzato per tutelare e difendere un interesse economico. Questa condizione lascia la verità senza avvocati. In una società che tende alla parità “democratica” fra il vero e il falso, il torto e la ragione o la magia e la scienza, purché abbiano sostegno finanziario, confondere le idee attraverso varie forme di comunicazione è un primo passo per la conquista sia dell’opinione della maggioranza, sia di quella di operatori sanitari carenti in formazione scientifica, ideale target di mercato dei manovratori occulti dell’industria delle cosiddette “medicine alternative”.
Un quadro confuso crea dubbi ed incertezze nel riconoscimento di un valore o di un senso, giovando soltanto al falso che, in quel marasma, è messo sullo stesso piano del vero. In questa cornice si inquadra il libro del giornalista Michel de Pracontal Les mystères de la mémoire de l’eau [19], così come le riedizioni abusive o le fotocopie dell’articolo originale pubblicato su Nature; operazioni che hanno buon gioco perché l’INSERM non ha alcun interesse a tornare sulla vicenda, sperando che si dimentichi il coinvolgimento dell’istituzione, lasciando i propagandisti unica voce al riguardo.
Vale la pena soffermarsi brevemente su alcune caratteristiche del sapere scientifico che troppo spesso si danno per note ed acquisite ma, se così fosse, non dovremmo avere “medici omeopatici”.
La scienza non fornisce verità assolute, ma un vero relativo ad un metodo, cioè una oggettività riproducibile, la cui utilità è data dalla possibilità di conoscere le condizioni in cui l’oggetto/evento/fenomeno esiste. Tutti, dotati degli strumenti, possono riprodurre quel vero. La Matematica, fondamento universale del sapere scientifico, si basa sulla coerenza interna dei suoi  sistemi logici; la Fisica, la Chimica e tutte le discipline sperimentali da queste derivate, si basano sulla verifica empirica di ipotesi sviluppate nell’ambito di conoscenze pregresse seguendo una coerenza logica sulla falsariga di quella matematica. È il caso tipico della ricerca biomedica di base (biochimica, genetica, biologia molecolare, patologia molecolare, immunologia, ecc.) in cui l’esperimento consente di mettere alla prova un’ipotesi in una forma oggettiva e ripetibile, riscontrando il risultato con i sensi [20]. I grandi progressi che le discipline scientifiche hanno consegnato alle società moderne si basano in gran parte sulla regola della ripetibilità dei risultati in laboratori diversi e concorrenti. Il concorrente agisce da severo giudice perché ha tutto l’interesse a dimostrare l’errore dell’altro, così come ha interesse a riconoscere il vero ed il giusto nell’altro, perché ciò gli consentirà di essere secondo e non ultimo nella competizione generale. Questo non vuol dire che il sistema della scienza sia un sistema perfetto, tutt’altro, ma questa è senz’altro la parte migliore e, probabilmente, uno dei migliori sistemi di garanzia di successo che le imprese del sapere umano abbiano mai concepito.
Questa sintetica caratterizzazione ci consente di definire un punto fondamentale per la nostra discussione, cioè che il vero scientifico è sempre il risultato di un processo di conoscenza empirica e critica che si basa a sua volta su altri risultati ottenuti sempre, come si è soliti dire, per tentativo ed errore, imparando da codesti errori. Alcuni risultati della ricerca vengono generalizzati come procedure di laboratorio, ottenendo ogni volta che li si impiega, ovvero migliaia di volte in tutto il mondo, verifica sperimentale. Al contrario, saperi come quelli di molte “medicine alternative” e dell’omeopatia, sono caratterizzati dal fondarsi su dogmi indimostrati che si considerano veri fino a prova del contrario. Questa è la ratio delle verità rivelate tipica del sapere religioso, che si colloca in tutt’altra sfera rispetto all’umile conoscenza empirica della materia e dei suoi fenomeni, anche ammesso che vi sia una divinità degna di fede che abbia rivelato agli uomini i principi dell’omeopatia. Come ci insegna l’Antropologia, la ratio di questi saperi proviene da epoche in cui lo studio empirico della realtà era impossibile per mancanza di mezzi adeguati.
Molti omeopati spiegano agli scettici che l’omeopatia cura i sintomi non le malattie, ma in genere non ne conoscono il motivo. Se lo conoscessero, saprebbero anche che quella pratica non è compatibile con la medicina scientifica e nemmeno con le più elementari nozioni di patologia note da secoli. Infatti, un assunto di base della teoria omeopatica è che quasi tutte le malattie abbiano la stessa patogenesi. L’omeopatia moderna fu concepita nel 1800 da Samuel Hahnemann come variante dell’arcaica Magia Simpatetica, dalla quale trae la teoria: “Tutte le malattie tranne le sicosi [21] e la sifilide sono causate da un miasma di psoriasi” [22]. Quella magia non conosce la struttura atomica e molecolare della materia inorganica ed organica e, pertanto, suppone che in ogni cosa, sia esso un sasso che un organismo vegetale o animale, vi sia un’essenza sui generis. Coerentemente con questa idea primitiva, molto diffusa nel pensiero arcaico, l’omeopatia suppone l’esistenza di proprietà legate a questa “essenza”.
Un omeopata tedesco partendo da due proprietà che l’omeopatia attribuisce al peperoncino, ossia quella di conferire colore rosso acceso alle guance e stimolare la nostalgia di casa, nel 1983 propose su rivista considerata autorevole nella sua realtà culturale, una terapia a base di peperoncino alle solite “diluizioni” per gli 11 milioni di lavoratori stranieri residenti nell’Europa occidentale [23]. Se si pensa all’ortaggio in questione come ad un vegetale dal quale estrarre principi attivi, ossia si ragiona in termini molecolari, non se ne giustifica l’impiego particolare se lo si diluisce ben oltre la scomparsa di ogni traccia. Si deve invece tener conto dell’essenza. In altre parole nel peperoncino c’è una qualità intrinseca che definisce le sue caratteristiche e le sue proprietà, incluse quelle in grado di produrre effetti nell’uomo (sintomi) che è propria dell’essere peperoncino e non carota. Questa qualità obbedisce ad una proprietà [24], ovvero quella di determinare effetti opposti se data in concentrazioni negative. Quest’ultimo concetto, che resterebbe poco chiaro qualora si tentasse di spiegarlo in termini logici, si comprende bene alla luce del meccanismo magico di “annullamento”: un’azione inversa rispetto a quella che ha prodotto un determinato effetto produce l’effetto inverso, annullando il precedente. [25]
L’omeopatia, rispetto ad altri tipi di terapie non scientifiche o “medicine alternative”, costituisce un caso molto speciale, soprattutto perché ha creato una sua industria “farmaceutica” con un budget che le conferisce un importante peso economico, ma anche perché è sponsorizzata dalla famiglia reale inglese, in grado di influenzare in tutto il mondo ambienti a loro volta influenti.
Proprio in Inghilterra, il rettore ed il preside della facoltà inglese di omeopatia mentre si ergevano a garanti del sapere affermando in un discorso l’importante funzione dell’istituzione da essi rappresentata per evitare che “alcuni medici con una cattiva preparazione e non qualificati possano prosperare e sostenere teorie folli” [26], si rendevano protagonisti delle più assurde prescrizioni. Il rettore, ad esempio, prescriveva “alle ragazze vittime di una delusione amorosa e alle donne che non sono mai riuscite a sfogarsi con le lacrime […] affinché si sciolgano, sali da cucina a diluizioni tali che è improbabile trovarne una molecola in un’intera botte” [27]. Ovviamente il razionale terapeutico è dato dal fatto che le lacrime sono salate.
È evidente che uno studente della facoltà di Medicina che abbia compreso anche solo i concetti salienti delle materie di studio del primo anno di corso non può accettare roba come la patogenesi universale dovuta al miasma di psoriasi, la capacità del peperoncino di agire sul cervello determinando nientemeno che la nostalgia di casa o l’importanza del sapore delle lacrime per una terapia farmacologica della delusione d’amore a base d’acqua che “si ricorda del sale” che ha incontrato. Allora come si spiega l’alto numero di medici laureati in Francia, Inghilterra, Germania e Italia che associa queste pratiche alla medicina scientifica?
Non ci attarderemo oltre sul concetto di dinamizzazione che conferisce energia vitale attraverso lo scuotimento, eccetto che per rilevare che rientra nel quadro del paradosso di inversione che caratterizza la “diluizione”: più si diluisce più, scotendo, aumenta la “potenza” della pozione magica. A tutto il sapere omeopatico si può applicare lo stesso aggettivo: arcaico.
Ma, se si pensa al concetto omeopatico di diluizione che, come già si è rilevato, diluizione non è, si deve dire che basta il buon senso di un bambino di 10 anni per rendersi conto dell’assurdità. Una concentrazione adoperata in omeopatia è quella detta 12c che corrisponde a 1024. Per rendere più evidente la proporzione Von Baeyer propone un esempio noto come il “Teorema dell’ultimo respiro di Cesare”. Se consideriamo che l’ultimo respiro di Cesare abbia avuto il volume di un’espirazione media e che si sia distribuito uniformemente nell’atmosfera terrestre attraverso gli anni, considerato che il volume dell’atmosfera corrisponde alla capacità dei nostri polmoni per dieci alla ventiquattresima, dobbiamo dedurre che ad ogni inspirazione inaliamo una molecola dell’ultimo respiro di Cesare [28].
È proprio difficile credere alla buona fede di operatori di omeopatia che si siano soffermati solo per qualche istante con attenzione sugli strumenti che impiegano. Ma deve fare ancor più riflettere il fatto che i trials per testare la validità dell’omeopatia sono un affare dell’800 quando, fra gli altri, se ne occupò James Young Simpson (1853) [29], divenuto famoso per aver introdotto l’uso del cloroformio come anestetico generale. Già allora si dimostrò che si trattava di una grande impostura [30] ed ora nel terzo millennio siamo ancora alle prese con i fantasmi di una follia molto redditizia. Infatti, se ci stupisce l’esempio del respiro di Cesare, che diremo del fatto che i rimedi più impiegati sono contrassegnati come 30c ovvero 1060? In un articolo redazionale su Medical Press del 1879 dal titolo “Omeopatia Impazzita” a proposito della diluizione 30c si faceva questo esempio: “l’equivalente di un granello di sale in una quantità di diluente tale che basterebbe a riempire diecimila miliardi di globi, ciascuno tanto grande da contenere l’intero sistema solare”[31].
 
Il caso Benveniste, è esemplare in tutti gli aspetti di una vicenda che si trascina dalla metà del XIX secolo: l’impostura, il consenso in buona e cattiva fede di ignoranti ed interessati, lo smascheramento e, poi, l’oblio di quest’ultimo. Se dobbiamo notare cosa è cambiato, non possiamo esimerci dal fare un rilievo negativo che, però, non deve indurci al pessimismo. Questo rilievo consiste nel notare la crescente contaminazione della Medicina contemporanea con pratiche non scientifiche ed anacronistiche. Il problema è di proporzioni epocali e richiederebbe un approfondimento ed uno studio a sé, vogliamo solo accennare ad alcune delle cause che ci sembrano più evidenti, proponendole alla riflessione e al dibattito:
 
1. La mancanza di una formazione scientifica realmente concettuale e critica.
2. La passività come atteggiamento mentale in molti modelli sociali e culturali.
3. L’indebolimento o la perdita di collegamento fra valori ideali e valori personali.
4. La fiducia cieca ed acritica in ciò che si afferma sul mercato.
5. La perdita di responsabilità sociale e culturale dei professionisti di alta qualificazione.
6. L’estensione del paradigma politico-giornalistico alla gestione di ogni forma di sapere.
7. La mercificazione della cultura.
8. La perdita di un sistema di valori morali alti cui ancorare la deontologia professionale.
 
Si potrebbe continuare ancora per molto, ma ci fermiamo qui in attesa delle prossime occasioni di discussione e dibattito sull’argomento, che rimarrà sempre attuale per noi di BRAIN MIND & LIFE, fino a quando ci saranno omeopati e ci saremo noi, per rispetto della verità che è sempre rispetto di tutti.
 
Filippo Rucellai, Rita Cadoni e Giuseppe Perrella – BM&L


[1] E. Davenas et al., Human basophil degranulation triggered by a very dilute antiserum against IgE, Nature, 333, 816-818, 1988.
[2] Vedi F. Rucellai e R. Cadoni, L’acqua è smemorata, in Frodi, Inganni ed Errori (Rubrica sulle pagine italiane del sito della Società di Neuroscienze BRAIN MIND & LIFE, http://www.brainmindlife.com) in cui si propone un’analogia esplicativa per rendere evidente l’assurdità di una simile ipotesi.
Ci piace ricordare il titolo di Legislatore delle Molecole che Icilio Guareschi attribuì ad Amedeo Avogadro (1776-1856).
[4] Parlare di “diluizione” dopo le 13 volte in 100 ml è erroneo, vuol dire accettare già l’impostura omeopatica. Infatti, diluire vuol dire sciogliere una sostanza in un liquido sicché, quando la sostanza è assente, manca il soggetto della diluizione. Per cui la logica dell’espressione linguistica diluizione viene a cadere, in quanto si è in presenza del solo liquido adoperato, in questo caso l’acqua.
[5] E’ noto che l’omeopatia postula l’efficacia di queste presunte diluizioni come dogma indimostrato, al quale aggiunge una non meno infondata pratica, ovvero quella della dinamizzazione, consistente nello scuotimento fra una diluizione e l’altra che conferirebbe le proprietà desiderate al “rimedio” in allestimento. L’équipe di Benveniste “dinamizzò” scrupolosamente ad ogni travaso il liquido che aveva contenuto il siero anti-IgE.
Petr Skrabanek and James Mc Cormick, Follies And Fallacies In Medicine, 1989, Ed. It., Follie ed inganni della Medicina, pag. 148, Marsilio, Venezia, 1992.
[7] Petr Skrabanek and James Mc Cormick, op. Cit., p. 148.
[8] J. Maddox, in Nature, 333, June 30th, 1988.
[9] Incarico che manterrà per altri quindici anni, fino al 1995.
[10] Fra questi vi era il celebre Uri Geller che era riuscito ad ingannare mezzo mondo con i suoi poteri paranormali, i quali gli conferivano, a suo dire, la capacità di piegare oggetti di metallo con la sola forza del pensiero. James Randi riuscì a filmare la frazione di secondo in cui l’abilissimo truffatore piegava un cucchiaino contro il piano della sedia su cui era seduto. Randi divenne popolare per un programma televisivo in cui prometteva un milione di dollari a chiunque fosse riuscito a proporgli un trucco che lui non sarebbe stato in grado di svelare. Parte di quelle serie televisive sono state proposte anche in programmi della televisione italiana. Ha smascherato i guaritori Filippini con l’impiego di nozioni di anatomia e medicina legale, oltre che di prestidigitazione; talvolta ha fatto ricorso alla fisica, alla chimica o a saperi tecnologici. Ha impiegato la statistica e notissimi giochi matematici per svelare i trucchi di maghi che si dichiaravano in grado di prevedere disastri aerei, ferroviari o navali. La sua attività prevalente per molti anni è stata quella di perito per commissioni parlamentari di inchiesta.
[11] E’ rimasto alla guida della rivista fino all’età di 70 anni e proprio ai suoi colleghi di Nature ha dedicato la sua ultima fatica: That remains to be discovered (ed. It., Che cosa resta da scoprire, Garzanti, Milano 2000).
[12] J. Maddox, J. Randi, W.W. Stewart, “High dilution” experiments a delusion, in Nature, 334, 287-290, 1988.
Petr Skrabanek and James Mc Cormick, op. Cit., p. 149.
[14] A. Dorizynski, French scientists say little; the French press too much, Scientist, Sept 5th , 4, 1988.
[15] D. T. Reilly, Explanation of Benveniste, Nature, 334, 285, 1988.

A commento dell’osservazione fatta da Reilly, ossia che “l’omeopatia è uno dei più grandi incidenti di percorso della scienza medica”, si deve precisare che le scienze mediche non hanno mai avuto alcun rapporto con l’omeopatia, piuttosto è accaduto -e purtroppo ancora accade- che dei medici laureati, per ignoranza o malafede per accrescere i profitti, esercitino l’omeopatia ed impieghino i rimedi omeopatici che si fondano su principi che già Ippocrate aveva dimostrato essere irrazionali. 
[16] R. Brancato e M. Pandolfi, Miserie e Grandezze della Medicina. Verità, illusioni, speranze. Oscar Mondadori, Milano, 2002.
[17] R. Brancato e M. Pandolfi, op. Cit., p. 126.
[18] Nel 1994 Benveniste tornò alla carica, cercando di coinvolgere il premio Nobel per la fisica George Charpak che non volle prestarsi in alcun modo, opponendo recisi rifiuti; infine accettò di supervisionare la ripetizione degli esperimenti che, ancora una volta, diedero esito negativo. Quando, anche dopo questa ulteriore dimostrazione della frode di sei anni prima, gli omeopati continuarono ad alimentare il dibattito, Charpak definì la “memoria dell’acqua” un delirio senza fine.
[19] Eccetto coloro che lessero, a suo tempo, i reports qui citati, ben pochi sanno come stiano davvero le cose, in quanto i mezzi di informazione, dopo aver diffuso la notizia della “scoperta della memoria dell’acqua” e fomentato ad arte la bagarre, al momento della verità si sono invece limitati ad una timida smentita.
[20] La vista, in genere. Oltre l’ovvio caso dell’osservazione al microscopio, si pensi ai risultati delle elettroforesi che si leggono come bande di colore, ai precipitati, ai sopranatanti o agli opacamenti spesso riscontrabili a vista nei test-tubes (provette). In tutte le discipline sperimentali vi sono strumenti, quali i telescopi o gli spettrofotometri, che non sono altro che espansori della funzione visiva.
[21] Si vuole intendere i “condilomi acuminati”.
[22] E’ perfino superfluo sottolineare che “miasma di psoriasi” è un’espressione senza senso. Vedi anche Petr Skrabanek and James Mc Cormick, op. Cit., p. 144.
[23] A. Braun, Capsicum, das Heimweh und die Purifikatoren, in Z klass Homoopath, 27, 195-200, 1983.
[24] Proprietà che è un “classico del pensiero magico” in tutte le culture arcaiche e che, in varie forme, si conserva nei rituali dei “maghi moderni”: la fattura, ossia un manufatto simbolico contro un evento o una persona negativa, contiene elementi richiamanti l’evento o la persona per invertire la direzione dell’effetto negativo, annullandolo. Legami fra i processi paralogici che collegano la magia arcaica a quella moderna si possono cogliere in molte opere di antropologi ed etnologi, fra queste un classico italiano è Sud e Magia di Ernesto De Martino (Feltrinelli, varie edizioni).
[25] Su questi argomenti sono state scritte intere biblioteche e, dalla lettura del pensiero magico da parte di Freud, passando per l’antropologia culturale e l’antropoanalisi, non si contano gli autori che si sono cimentati con l’argomento, per lo più paragonando i meccanismi psichici dell’annullamento nella psiconevrosi ossessiva con le forme del pensiero magico.
[26] H. Boyd, Homoeopathic Medicine, pp. 150-177, in Alternative Therapies, G.T. Lewith editor, London Heinmann, 1985.
[27] H. Boyd, op. Cit., ibidem.
[28] H. C. von Baeyer, Caesar’s last breath, in Science 26, 6, 2-4, 1986.
[29] J. Y. Simpson, Homoeopathy: Its Tenets and Tendencies, Edimburg, Sutherland and Knox, 1853.
[30] AA.VV. Homoeopathy and homoeopathic writings, in Dublin Quarterly Journal of Medical Sciences, 1, 173-210, 1846.
[31] Redazionale non firmato: Homoeopathy gone mad, in Medical Press, 78, 256, 1879.

I mulini ad acqua di ComeDonChisciotte


acqua
L’ACQUA DI DIO

di Franco Cilli

Nei giorni scorsi ho partecipato a un’acceso dibattito sulle medicine alternative, su un sito di sinistra piuttosto famoso: Comedonchisciotte, che per certi versi apprezzo e stimo. Sono stato tacciato di essere un aristotelico impenitente, oltrechè di essere un ignorante e un presuntuoso, da chi si proclamava degno erede di Galileo. La discussione verteva prettamente sull’omeopatia e sull’ultimo ritrovato dei seguaci più o meno acculturati di questa pseudoscienza: la “memoria dell’acqua”. Mi riprometto di scrivere un post più ricco e dettagliato sull’argomento quando farà meno caldo. Vorrei solo mettere in rilievo un parallelo che mi è venuto in mente ed è quello con l’intelligent design, l’ultima trovata dei credenti di estrazione anglosassone della religiome dell’unico Dio. Quando i credenti hanno capito che il buon San Tommaso e il buon Sant’Anselmo non erano più sufficienti a convincere un mucchio di persone dell’esistenza di Dio, hanno pensato di fare un upgrade della loro strumentazione obsoleta e si sono inventati la teoria dell’intelligent design, che pur essendo solo una teoria totalmente campata in aria, era sufficiente a dare un nuovo impulso a una religione che appariva come un astro in via di raffreddamento.Visto che la scienza non può spiegare tutto, ecco pronta una teoria, che grazie alla non onnipotenza della stessa, rimette in sella il vero onnipotente per eccellenza: Dio.
Una cosa analoga stanno facendo i cultori dell’omeopatia: dato che qualcuno si è accorto che un tale Avogadro aveva fatto una scoperta che riduceva ad acqua fresca i preparati omeopatici e l’empirismo ingenuo del povero dott. Hannemann appariva un tantino sbiadito, gli omeopati si sono attaccati al concetto fresco fresco e molto accattivante di memoria dell’acqua, cioè a dire che per quante siano le succussioni di un dato preparato omeopatico, l’acqua, benchè ormai totalmente priva di molecole di quel preparato, conserverà memoria dello stesso grazie alla memoria di legame dei suoi atomi di idrogeno e di ossigeno. La storia è molto interessante e comincia con lo scienziato francese Benveniste negli anni ’80, che affermò di essere riuscito a dimostrare l’esitenza di questo fenomeno misurandone gli effetti. In pratica Benveniste prese un antianticorpo(anti IgE) lo diluì a diluizioni omeopatiche (cioè a dire eliminando totalmente la sua presenza dal preparato)) e dimostrò (credette di dimostrare, a mio avviso) che malgrado il procedimento di  diluizione i granulocitoi basofili degranulavano a contatto con tale preparato, liberando istamina.
Nature,
prestigiosa rivista scientifica e massima rappresentante della scienza ufficiale, accettò di pubblicare l’esperimento, ma pretese un protocollo rigido e la supervisione fra gli altri di James Randi, grande illusionista e cacciatore di fandonie. I risultati furono ovviamente molto deludenti. Gli epigoni dell’acqua intelligente, però non si diedero per vinti ed oggi (non so che risonanza abbia nel mondo accademico, credo zero), viene fuori un fisico, Roberto Germano che ha scritto “Aqua”, un libro dove dati alla mano il concetto di memoria dell’acqua verebbe riproposto e dimostrato aldilà di qualsiasi dubbio. Confesso che ho appena sfogliato questo libro, ma non è questo il punto. Il punto è, come ho cercato di spiegare nelle discussioni avute, che il problema non ha niente a che vedere con la fisica quantistica, la calorimetria, la conduttività o quant’altro. Il problema ha a che vedere con l’efficacia dell’omeopatia, la quale è tutt’altro che dimostrata: ammesso che esista qualcosa di vagamente definibile come memoria dell’acqua, chi mi dice che quel determinato composto di cui l’acqua conserva memoria sia realmente efficace? E perchè l’acqua conserva memoria solo di quelle sostanze e non dello sciroppo di menta che ho preso al bar o della purga che mia nonna ha preso nel ’23?
Una follia. Una follia anche perchè i fedeli dell’acqua tendono a mettere tutto nello stesso calderone: le cure naturali contro il cancro (guerra ala chemioterapia), le amalgami dentali, i vaccini che sono pericolosi e inutili, i chelanti per il mercurio per guarire i bambini autistici e quant’altro. Il tutto condito con una visione paranoica della realtà che vede congiure della “scienza ufficiale” ad ogni angolo di strada. Intendiamoci, io detesto Big Pharma, ma la canea che gli alternativi provocano serve solo ad occultare i veri problemi che stanno dietro la ricerca stessa, cioè lo scorretto utilizzo della metodologia, la manipolazione dei risultati, l’asservimento a logiche di profitto. Affermare queste cose non vuol dire però di conseguenza che l’irrazionalità deve sostituire la razionalità del metodo, imperfetto sì, perfettibile sì, inquinato sì, da logiche estranee al bene comune, ma infinitamente migliore del pensiero magico e delle paranoie degli “alternativi”. Qui il problema, in definitiva non è il metodo scientifico, il problema è che quelli che lo conoscono bene, spesso lo usano malamente.

DOPPIOCIECO

Per una Razionalità Moderatamente Pluralista