Buoni propositi per l’anno che viene

di Mimmo Porcaro da socialismo2017



Il 2016 si chiude ponendoci un compito urgentissimo per il 2017.

La sonante vittoria dei No al referendum di dicembre ha finalmente trasformato la palude della politica italiana (che stava ristagnando grazie alla droga della Bce e agli artifici verbali dell’ex premier) in un rapido fiume che corre veloce verso una cascata: le prossime, inevitabili elezioni. E più tardi queste avverranno, più alto sarà il balzo della cascata, più rovinoso l’effetto sul sistema politico italiano.

Faranno certamente di tutto per evitare il patatrac: trucchi elettorali, corruzione di gruppi dirigenti, forse altro ancora. Ma ben difficilmente potranno scongiurare l’affermazione dell’unico attuale antagonista degli equilibri di potere: il M5S. E qui sorge il problema. Perché una vittoria del M5S dovrebbe essere senz’altro essere salutata, allo stato attuale, come un’affermazione ulteriore del fronte del No al PD ed al neoliberismo. Ma significherebbe anche, allo stato attuale, l’apertura di una obiettiva e salutare crisi con l’Unione europea senza che però vi siano le idee sufficientemente chiare, le alleanze sociali sufficientemente salde, le convinzioni politiche sufficientemente forti per gestirne positivamente le conseguenze.

Intendiamoci: tutto è meglio dell’Unione europea, perché l’Unione è una macchina micidiale che ha come scopo principale la sottomissione dei lavoratori ed il passaggio di proprietà delle migliori imprese e del risparmio dei paesi deboli nelle mani dei capitalisti dei paesi forti. La situazione di incertezza derivante da una rottura non sarebbe negativa quanto la certezza di essere condannati a morte dall’Unione, e molti sono ormai gli studi che smontano l’equazione exit=catastrofe. Però, dato l’attuale progetto politico del M5S (e del suo non improbabile alleato, la Lega) l’uscita ci darebbe soltanto un po’ di esportazioni ed un po’ di inflazione in più, con un modesto rilancio dell’occupazione bilanciato da una relativa perdita del potere d’acquisto dei salari, e con la persistenza della dinamica di accentuazione degli squilibri sociali e territoriali del paese. Una dinamica che sarebbe forse rallentata, ma non certo invertita. Il tutto nel contesto di un probabile aumento della dipendenza dell’Italia dagli Usa: dalla padella di Bruxelles alla brace di Washington.

Perché l’uscita dall’euro e dall’Unione (conditio sine qua non di ogni e qualsivoglia politica) sia positiva per i lavoratori e per il paese, essa deve essere accompagnata: a) dal mutamento di ruolo della banca centrale e dalla ripresa della monetizzazione del debito pubblico; b) dalla parziale nazionalizzazione del settore del credito; c) da una forte impresa pubblica capace di rilanciare investimenti e innovazione e di essere background per lo sviluppo della PMI; d) da un piano industriale che affronti i problemi idrogeologici ed energetici del paese e riduca la nostra dipendenza dalle importazioni; e) da politiche di piena occupazione attuate anche attraverso il rilancio del settore pubblico; f) da una riforma del mercato del lavoro che elimini la precarietà, offra sbocchi alle eccellenti risorse intellettuali prodotte dal sistema scolastico italiano e trasformi realmente l’immigrazione in una risorsa, inibendone l’effetto negativo sui salari; g) da un mutamento della posizione geopolitica del paese in direzione di più stretti rapporti coi Brics, di una cooperazione mediterranea, e comunque di politiche tese a creare aree internazionali capaci di esercitare un controllo sul movimento dei capitali.

“Niente di meno!”, si dirà. Sì, non è poco (e figuratevi che c’è anche dell’altro!), ma è ciò che è richiesto dalla fase storica attuale. E’ ciò che è necessario. E’ ciò che è possibile, perché in Italia ci sono le idee e le forze per elaborare e realizzare un programma del genere.

Le idee ci sono da tempo: da tempo piccoli gruppi lavorano a grandi prospettive, ed è inoltre inutile fare il nome dei numerosi intellettuali, di diversa provenienza, che negli ultimi anni hanno elaborato riflessioni convergenti che ormai potrebbero quasi definire una vera e propria scuola di pensiero. Le forze erano latenti, ma sono venute alla luce grazie agli ultimi fatti, in particolare nei comitati per il No. Forze soprattutto di sinistra, ma non solo: forze che in qualche maniera si riconoscono tutte nella Costituzione del ’48 e nel suo impianto lavorista. Queste idee e queste forze possono e devono dar vita ad un soggetto politico che sulla Costituzione si basi e che quindi non faccia appello né alla sinistra né alla destra ma alla cittadinanza democratica (Podemos, almeno su questo, docet). Un soggetto che sia apertamente nazionale, e ciò in due sensi.

Prima di tutto perché vuole costruire l’unità della maggior parte dei ceti popolari (al momento divisi spesso artificiosamente fra destra e sinistra), dando vita ad un’alleanza tra lavoratori dipendenti (oggi divisi tra pubblici e privati, precari e garantiti, migranti e nativi), partite Iva (che spesso nascondono lavoratori formalmente autonomi ma realmente dipendenti), piccole imprese (che oggi sono vessate non solo dallo stato, ma dalle grandi imprese private e dalle banche, e che in uno stato rinnovato potrebbero trovare un alleato); e poi offrendo alle stesse medie imprese più dinamiche un contesto di relazioni geopolitiche che consenta loro un maggiore sviluppo.

In secondo luogo perché rivendica apertamente la sovranità politica e monetaria come precondizione di ogni politica (ed in particolare di ogni politica che voglia essere favorevole ai lavoratori) e come base per la costruzione di nuove e paritarie relazioni e tra nazioni. Una forza nazionale che già solo per la valenza simbolica di questo suo attributo (l’orgogliosa difesa non già di un’etnia, di una lingua, di un insieme di tradizioni, ma di una civiltà politica che ha saputo in alcuni momenti coniugare libertà ed eguaglianza) potrebbe conquistare successi inaspettati.

Ci sono le forze, ci sono le idee, c’è l’occasione. C’è l’urgenza politica ed etica. Gli ostacoli inutili vanno rimossi alla svelta. Le riflessioni e le operazioni che richiedono più tempo vanno iniziate subito. Dobbiamo essere consapevoli che saremo giudicati (quantomeno dalla nostra coscienza) per quello che faremo l’anno prossimo. Nel 1917 è successo quel che è successo, e la Costituzione del ’48 (come ci ricorda Luciano Canfora, uno che sa come si snodano le dinamiche storiche più profonde) è anche effetto della lunga durata di quell’evento. Che il 2017 sia, a suo modo, un anno memorabile per le classi subalterne italiane. Auguri a tutti.

Post scriptum (che sarà un po’ lungo)

So che uno dei maggiori ostacoli da rimuovere è la diffidenza verso la “nazione”. Diffidenza che ha radici profonde, ma che è anche il sintomo della vocazione servile di gran parte del ceto politico-intellettuale di oggi. Una vocazione ad obbedire a potenze esterne facendo finta di non vedere ciò che ormai è chiaro a tutti: la crisi della globalizzazione e il riemergere della questione nazionale non sono un opinione, ma un fatto. “Imprese” militari decise da singoli stati, guerre valutarie, trattati commerciali fatti più per escludere qualcuno che per includere altri, decine, centinaia di provvedimenti a protezione del proprio tessuto produttivo e dei capitali che, ovunque siano nati, fanno riferimento comunque al proprio stato. Questo fanno quasi tutte le nazioni, tranne l’Italia. E perché l’Italia no? Per internazionalismo? Tutt’altro: per servilismo, appunto, verso i capitali (e le capitali) più forti. Vedasi il caso MPS.

La nazione è quindi un campo di battaglia, è il terreno attuale dello scontro politico, è l’oggetto nuovo della politica (nuovo perché si muove in un contesto assai diverso da quello che vide il nascere delle nazioni e da quello che vide il loro scontro imperialista), la cui forma dipenderà dagli esiti degli scontri politici interni d internazionali. Fuggire da questo campo è fuggire dalla politica. Ed è una scelta che possono fare solo le frazioni medio-alte del lavoro, solo quelli che credono di poter vivacchiare anche senza alternativa politica e senza stato: la maggior parte dei lavoratori non lo può fare.

E perché dovrebbe poi? La sovranità nazionale a cui dobbiamo ispirarci non è sinonimo di potere assoluto: essa è piuttosto il presupposto della nostra Costituzione (senza sovranità la Costituzione non sarebbe efficace), che a sua volta dà forma alla sovranità stessa e la limita. La sovranità nazionale a cui pensiamo è condizione della democrazia: è ciò che fa sì che le decisioni vengano prese senza dover preventivamente sottostare al placet delle potenze esterne o interne al paese. Né sta scritto da nessuna parte che la sovranità implichi necessariamente lo scontro militare con gli altri paesi: dopo il ‘45, le guerre in Europa e in Medio Oriente sono anzi contemporanee al declino della sovranità nazionale ed hanno quasi sempre come scopo proprio quello di distruggere l’idea stessa di sovranità – tranne che per l’unico stato veramente garante dell’ordine internazionale – a vantaggio del libero flusso dei capitali e delle merci. Il “sovrano” può decidere la guerra, ma anche la pace. Un’Italia sovrana è la precondizione di una politica di pace nel mediterraneo ed in Medio oriente.

Perché temere la nazione, dunque? Perché si teme che facendo appello alla nazione si faccia appello all’interclassismo generico contro la classe dei lavoratori, si resusciti una qualche comunità immaginaria per nascondere le divergenze di classe? Ma questo era il discorso dell’imperialismo nazionalistico del passato. Oggi l’imperialismo si realizza proprio attraverso la distruzione delle nazioni, intese come spazi di definizione e tutela di diritti civili e soprattutto sociali. Oggi quindi l’indipendenza di classe dei lavoratori, ossia la capacità di porre in essere una politica autonoma, è tutt’uno con la conquista dell’indipendenza della nazione come complesso di istituzioni che rendono possibili l’esistenza stessa della politica come attività non meramente servente le esigenze del capitale. Certo, il discorso nazionale può, se egemonizzato dalla frazione protezionista del capitalismo, divenire nazionalistico e aggressivo. Ma la lotta di classe dei lavoratori contro il capitalismo liberista (che è oggi di gran lunga il nemico principale) deve organizzarsi in forma nazionale.

Resta la solita obiezione: cosa potrà mai fare l’Italia da sola? Ma nessuno di noi vuole che l’Italia sia sola. Non si tratta di proclamare autarchicamente l’indipendenza dai vincoli, ma di scegliere liberamente i vincoli a cui vogliamo assoggettarci e di dar loro una forma paritaria e cooperativa. Nessuna politica che voglia contrastare la libera circolazione dei capitali (e quindi nessuna politica che voglia anche solo somigliare al socialismo) è possibile senza la costruzione di un’area economica relativamente “chiusa”, ossia relativamente indipendente dagli scambi con l’esterno. Tale area deve essere necessariamente ampia, e quindi coinvolgere più nazioni. Da un punto di vista analitico sarebbe dunque più corretto dire che lo spazio attuale della politica non è né quello globale (che non è più tale) né quello nazionale (che è insufficiente), ma quello internazionale. Ma ciò metterebbe in ombra il fatto che lo spazio internazionale è appunto luogo delle relazioni tra nazioni sovrane. E soprattutto metterebbe in ombra il “punto politico” di oggi: la politica ricomincia dalla nazione. E’ la definizione di un interesse nazionale (che le nostre classi dominanti non a caso non sanno definire, e che per noi coincide con l’interesse delle classi subalterne) a imporci di rompere con l’Unione e a guidarci nella costruzione di nuove relazioni internazionali.

Che il 2017 ci dia il coraggio di cominciare ad essere nazione.

Montanari: “Basta con i grandi eventi. Il M5S? Meglio del Pd”


Dal NO alle Olimpiadi alla trasparenza nella ricostruzione del post terremoto passando per la politica culturale disastrosa del governo Renzi. Parla lo storico dell’arte: “Di Maio non è la soluzione ma a maggior ragione non lo è la Boschi, in questo momento il pericolo concreto di uno scadimento oligarchico della democrazia italiana sta nella riforma costituzionale scritta dal Pd”.
intervista a Tomaso Montanari di Giacomo Russo Spena

“Ma quali Olimpiadi, governare la normalità è la vera sfida: il resto è distrazione di massa e carne da macello per la corruzione”. Tomaso Montanari, storico dell’arte e professore universitario, si schiera con la scelta della sindaca Virginia Raggi di ritirare la candidatura per Roma 2024. Nello stesso momento, non risparmia critiche al M5S per la sua condotta nella Capitale: “La nomina della Muraro va sicuramente rivista”.
Professore, partiamo dal terribile terremoto dello scorso 24 agosto. Ad Amatrice molti cittadini non vogliono abbandonare le proprie case e chiedono di essere ascoltati nei progetti di ricostruzione. Teme si possano ripetere gli stessi errori commessi all’Aquila dove è sta edificata una new town senza ascoltare le richieste della popolazione?

Renzi e Del Rio, in modo condivisibile, hanno detto che Amatrice ed Accumoli risorgeranno com’erano e dov’erano. Come Venzone in Friuli, per capirsi. All’Aquila è avvenuto qualcosa di atroce, che ancora non si è ben capito: si è distrutta a tavolino una città, forse per sempre. Il tessuto sociale difficilmente si rimarginerà, e l’Aquila che c’era prima del 2009 è volata via per sempre. Certo, il rischio c’è anche ad Amatrice: bisogna dare alloggi decenti subito e partire con la ricostruzione. Di corsa.
L’emergenza – come è risaputo – è diventata un enorme business, come evitare che questa nuova tragedia diventi la solita mangiatoia per avvoltoi e speculatori?

L’unico modo è la totale trasparenza. Sembreranno concetti estranei al terremoto ma invece sono collegati: bisogna depenalizzare la diffamazione a mezzo stampa e togliere gli strumenti civilistici con cui viene strangolata la libertà di cronaca. La battaglia per la ricostruzione pulita è la stessa di una democrazia trasparente e si vince con una stampa senza bavagli oltre che con una magistratura che dispone di mezzi adeguati.
Oltre che un discorso di civiltà, molti ne fanno anche una questione meramente economica: i costi per la ricostruzione post terremoto sono elevatissimi, quelle cifre non potrebbero essere utilizzate in prevenzione?

A noi purtroppo manca totalmente la cultura della prevenzione. L’unica grande opera necessaria di cui avremmo bisogno è la messa in sicurezza del territorio mentre il governo insiste su progetti come il Ponte sullo Stretto. Prossimamente il premier Renzi andrà ad inaugurare il Crescent di Salerno, uno scempio paesaggistico e urbanistico del suo amico De Luca. Finché la cultura della politica è quella dei palazzinari, nulla verrà messo in sicurezza. Ricordo che per il 2016 abbiamo in bilancio per la prevenzione antisismica di tutta Italia 44 milioni di euro. Solo l’arena del Colosseo – progetto del ministro Franceschini (che è una boiata pazzesca) – ne costa 18. Ecco le nostre priorità.
Al di là dei facili slogan è possibile mettere in sicurezza il nostro territorio e allontanarlo dal pericolo di distruzione insito nei terremoti? L’Italia non è un Paese dal punto di vista paesaggistico estremamente diverso, ad esempio, dal Giappone?

È possibile limitare al minimo i morti e le distruzioni. Il rischio zero non esiste, e l’Italia non è il Giappone. Ma chi non vorrebbe aver avuto solo il 5 per cento di questi morti. È un risultato tecnicamente possibile. Ci vogliono soldi. Ma quando si approverà la prossima Legge di Stabilità quanti politici e quanti direttori di giornale si ricorderanno delle bare di Amatrice? È in quei giorni che tutto si deciderà.

Il governo ha designato Vasco Errani commissario straordinario alla ricostruzione delle aree colpite dal terremoto. Alle spalle ha un’esperienza maturata quale Commissario delegato per l’attuazione degli interventi sui territori emiliani colpiti dal sisma del 20 e 29 maggio 2012. Eppure c’è chi critica la sua nomina per le sue vicende giudiziarie – dove recentemente è stato assolto – e per i finanziamenti in Emilia Romagna alla coop del fratello. Lei che idea si è fatto, Errani è l’uomo giusto?

Non un’idea felicissima. Il partito della nazione sembra trasformarsi nella nazione del partito: il Pd si prende tutto, anche quando bisognerebbe essere lontanissimi da logiche di partito. E la ricostruzione in Emilia non è esente da zone d’ombra, sia per la tutela del patrimonio artistico, sia per le infiltrazioni malavitose. Prendiamo il buono: Errani ha l’occasione di dimostrare che si è imparato dagli errori.
Passiamo alle Olimpiadi 2024. Lei è d’accordo con la candidatura di Roma?

Sono radicalmente contrario. Lo dissi a suo tempo personalmente a Virginia Raggi e sono tornato a scriverlo, insieme ad altri, in questi giorni.
Non trova che, se fatte con trasparenza e sotto l’attenta vigilanza dei Corti dei Conti, possano essere un’immensa risorsa per rilanciare l’immagine della Capitale? Faccio presente che Paolo Berdini, l’assessore all’urbanistica della giunta Raggi e ostile ai poteri forti, è possibilista all’ipotesi di Olimpiadi.

Basta fare politica con l’immagine e con il grande evento! Me lo faccia dire male: la sindrome della «grande occasione», questo miserabile anelito alla vincita della lotteria, è una delle cose che fottono l’Italia. Basta. Abbiamo bisogno di normalità.
Virginia Raggi sembra in serie difficoltà. Il M5S, a Roma, vive una faida interna e, tre mesi dopo le elezioni, la città non ha ancora un assessore al Bilancio. Col senno di poi, gongola per la sua scelta di non aver accettato un ruolo nella giunta Raggi?

Non gongolo affatto. Non ho accettato per questioni che riguardavano la mia vita, non la qualità di Raggi. E sarebbe irresponsabile gongolare per i guai di Roma, così come è irresponsabile gongolare per i guai dell’Italia in mano a Renzi (che non sono minori). Credo che a Roma il Movimento 5 Stelle stia dando una pessima prova, per ora: lacerazioni, carrierismi, inettitudine, improvvisazione. Scelte sbagliate: la nomina dell’assessore Paola Muraro va rivista. Invece, quelle di Bergamo e Berdini sono davvero ottime. E più a sinistra che in qualunque giunta Pd. Se pensiamo all’inettitudine di Matteo Orfini, alla corruzione del Pd e alla farsa in cui è stata trasformata l’esperienza a sindaco di Ignazio Marino…
Proprio ieri su Repubblica Michela Serra ha scritto che “dopo una vita a tifare per l’opposizione e a diffidare dei governanti, il livello della presente opposizione italiana mi fa sentire pericolosamente incline a sorvolare sulle colpe del governo (che sono tante). Piuttosto che essere governato da uno come Di Maio, che non sa niente ma se la tira come se sapesse tutto, sopporto, anche se non la supporto, Maria Elena Boschi”. È in disaccordo?

Il senso critico non può andare a corrente alternata. Questa sfiducia generale che rasenta il cinismo è parte del problema, la sindrome di un Paese che non vede alternative. Di Maio non è la soluzione ma a maggior ragione non lo è la ministra Boschi. In questo momento il pericolo concreto di uno scadimento oligarchico della democrazia italiana sta nella riforma costituzionale scritta dal Pd, mentre i 5 Stelle sostengono le ragioni del No. Credo che non dovremmo dimenticarlo.
Lo scorso 7 maggio è stato tra i promotori della manifestazione “E’ emergenza cultura” e aveva denunciato che “il paesaggio e il patrimonio storico e artistico sono in grave pericolo”. Cosa è successo da allora?

Nessuna risposta dal governo Renzi, se non un’escalation di imbarbarimento del governo del patrimonio culturale. Ad Amatrice, Franceschini ha detto di aver subito mandato i caschi blu della cultura: cosa mai sarebbero, se non miserabile propaganda? La riforma della dirigenza dello Stato, con il suo ruolo unico, è la mazzata finale al sistema di tutela, che di fatto non esiste più. Siamo tornati a prima del 1939, con una regressione secolare. E il concorsone per i 500 funzionari del Mibact si sta celebrando in modo farsesco, per molto meno avremmo chiesto la testa dell’ex ministro Bondi a furor di popolo. Il sito di Emergenza cultura è uno dei pochissimi luoghi che accolgono le mille voci che denunciano, dall’interno, l’agonia del patrimonio culturale della nazione italiana. E non smetterà di farlo.
Ultima questione: recentemente è stato siglato presso l’ambasciata italiana a Mosca, un accordo – fortemente voluto dal premier Matteo Renzi – tra le Gallerie degli Uffizi e il Museo Puškin di Mosca. Un segnale di distensione e collaborazione con la Russia di Vladimir Putin. Ne gioveranno l’arte e la cultura italiana o siamo alla spreco di denaro pubblico?

Solo nei regimi, sono i governi a usare il patrimonio artistico come ostaggio delle relazioni diplomatiche. E noi non siamo un regime. Lo faceva Mussolini, ma Renzi non è il Duce. In Occidente le mostre si fanno per ragioni scientifiche, con un progetto culturale. Da noi le opere d’arte famose seguono i politici in catene, come i prigionieri seguivano gli imperatori romani durante i trionfi. È una regressione barbara. Il direttore degli Uffizi ha fatto un grave errore, che speriamo non abbia conseguenze: si è piegato al volere del governo che l’ha nominato, e che dovrà confermarlo, e ha spedito a Mosca opere il cui viaggio era stato definito letteralmente “molto rischioso” dall’Opificio delle Pietre dure, massima istanza italiana per il restauro. Una scelta molto miope anche perché, si sa, i ministri cambiano.

Montanari: “Basta con i grandi eventi. Il M5S? Meglio del Pd”


Dal NO alle Olimpiadi alla trasparenza nella ricostruzione del post terremoto passando per la politica culturale disastrosa del governo Renzi. Parla lo storico dell’arte: “Di Maio non è la soluzione ma a maggior ragione non lo è la Boschi, in questo momento il pericolo concreto di uno scadimento oligarchico della democrazia italiana sta nella riforma costituzionale scritta dal Pd”.
intervista a Tomaso Montanari di Giacomo Russo Spena

“Ma quali Olimpiadi, governare la normalità è la vera sfida: il resto è distrazione di massa e carne da macello per la corruzione”. Tomaso Montanari, storico dell’arte e professore universitario, si schiera con la scelta della sindaca Virginia Raggi di ritirare la candidatura per Roma 2024. Nello stesso momento, non risparmia critiche al M5S per la sua condotta nella Capitale: “La nomina della Muraro va sicuramente rivista”.
Professore, partiamo dal terribile terremoto dello scorso 24 agosto. Ad Amatrice molti cittadini non vogliono abbandonare le proprie case e chiedono di essere ascoltati nei progetti di ricostruzione. Teme si possano ripetere gli stessi errori commessi all’Aquila dove è sta edificata una new town senza ascoltare le richieste della popolazione?

Renzi e Del Rio, in modo condivisibile, hanno detto che Amatrice ed Accumoli risorgeranno com’erano e dov’erano. Come Venzone in Friuli, per capirsi. All’Aquila è avvenuto qualcosa di atroce, che ancora non si è ben capito: si è distrutta a tavolino una città, forse per sempre. Il tessuto sociale difficilmente si rimarginerà, e l’Aquila che c’era prima del 2009 è volata via per sempre. Certo, il rischio c’è anche ad Amatrice: bisogna dare alloggi decenti subito e partire con la ricostruzione. Di corsa.
L’emergenza – come è risaputo – è diventata un enorme business, come evitare che questa nuova tragedia diventi la solita mangiatoia per avvoltoi e speculatori?

L’unico modo è la totale trasparenza. Sembreranno concetti estranei al terremoto ma invece sono collegati: bisogna depenalizzare la diffamazione a mezzo stampa e togliere gli strumenti civilistici con cui viene strangolata la libertà di cronaca. La battaglia per la ricostruzione pulita è la stessa di una democrazia trasparente e si vince con una stampa senza bavagli oltre che con una magistratura che dispone di mezzi adeguati.
Oltre che un discorso di civiltà, molti ne fanno anche una questione meramente economica: i costi per la ricostruzione post terremoto sono elevatissimi, quelle cifre non potrebbero essere utilizzate in prevenzione?

A noi purtroppo manca totalmente la cultura della prevenzione. L’unica grande opera necessaria di cui avremmo bisogno è la messa in sicurezza del territorio mentre il governo insiste su progetti come il Ponte sullo Stretto. Prossimamente il premier Renzi andrà ad inaugurare il Crescent di Salerno, uno scempio paesaggistico e urbanistico del suo amico De Luca. Finché la cultura della politica è quella dei palazzinari, nulla verrà messo in sicurezza. Ricordo che per il 2016 abbiamo in bilancio per la prevenzione antisismica di tutta Italia 44 milioni di euro. Solo l’arena del Colosseo – progetto del ministro Franceschini (che è una boiata pazzesca) – ne costa 18. Ecco le nostre priorità.
Al di là dei facili slogan è possibile mettere in sicurezza il nostro territorio e allontanarlo dal pericolo di distruzione insito nei terremoti? L’Italia non è un Paese dal punto di vista paesaggistico estremamente diverso, ad esempio, dal Giappone?

È possibile limitare al minimo i morti e le distruzioni. Il rischio zero non esiste, e l’Italia non è il Giappone. Ma chi non vorrebbe aver avuto solo il 5 per cento di questi morti. È un risultato tecnicamente possibile. Ci vogliono soldi. Ma quando si approverà la prossima Legge di Stabilità quanti politici e quanti direttori di giornale si ricorderanno delle bare di Amatrice? È in quei giorni che tutto si deciderà.

Il governo ha designato Vasco Errani commissario straordinario alla ricostruzione delle aree colpite dal terremoto. Alle spalle ha un’esperienza maturata quale Commissario delegato per l’attuazione degli interventi sui territori emiliani colpiti dal sisma del 20 e 29 maggio 2012. Eppure c’è chi critica la sua nomina per le sue vicende giudiziarie – dove recentemente è stato assolto – e per i finanziamenti in Emilia Romagna alla coop del fratello. Lei che idea si è fatto, Errani è l’uomo giusto?

Non un’idea felicissima. Il partito della nazione sembra trasformarsi nella nazione del partito: il Pd si prende tutto, anche quando bisognerebbe essere lontanissimi da logiche di partito. E la ricostruzione in Emilia non è esente da zone d’ombra, sia per la tutela del patrimonio artistico, sia per le infiltrazioni malavitose. Prendiamo il buono: Errani ha l’occasione di dimostrare che si è imparato dagli errori.
Passiamo alle Olimpiadi 2024. Lei è d’accordo con la candidatura di Roma?

Sono radicalmente contrario. Lo dissi a suo tempo personalmente a Virginia Raggi e sono tornato a scriverlo, insieme ad altri, in questi giorni.
Non trova che, se fatte con trasparenza e sotto l’attenta vigilanza dei Corti dei Conti, possano essere un’immensa risorsa per rilanciare l’immagine della Capitale? Faccio presente che Paolo Berdini, l’assessore all’urbanistica della giunta Raggi e ostile ai poteri forti, è possibilista all’ipotesi di Olimpiadi.

Basta fare politica con l’immagine e con il grande evento! Me lo faccia dire male: la sindrome della «grande occasione», questo miserabile anelito alla vincita della lotteria, è una delle cose che fottono l’Italia. Basta. Abbiamo bisogno di normalità.
Virginia Raggi sembra in serie difficoltà. Il M5S, a Roma, vive una faida interna e, tre mesi dopo le elezioni, la città non ha ancora un assessore al Bilancio. Col senno di poi, gongola per la sua scelta di non aver accettato un ruolo nella giunta Raggi?

Non gongolo affatto. Non ho accettato per questioni che riguardavano la mia vita, non la qualità di Raggi. E sarebbe irresponsabile gongolare per i guai di Roma, così come è irresponsabile gongolare per i guai dell’Italia in mano a Renzi (che non sono minori). Credo che a Roma il Movimento 5 Stelle stia dando una pessima prova, per ora: lacerazioni, carrierismi, inettitudine, improvvisazione. Scelte sbagliate: la nomina dell’assessore Paola Muraro va rivista. Invece, quelle di Bergamo e Berdini sono davvero ottime. E più a sinistra che in qualunque giunta Pd. Se pensiamo all’inettitudine di Matteo Orfini, alla corruzione del Pd e alla farsa in cui è stata trasformata l’esperienza a sindaco di Ignazio Marino…
Proprio ieri su Repubblica Michela Serra ha scritto che “dopo una vita a tifare per l’opposizione e a diffidare dei governanti, il livello della presente opposizione italiana mi fa sentire pericolosamente incline a sorvolare sulle colpe del governo (che sono tante). Piuttosto che essere governato da uno come Di Maio, che non sa niente ma se la tira come se sapesse tutto, sopporto, anche se non la supporto, Maria Elena Boschi”. È in disaccordo?

Il senso critico non può andare a corrente alternata. Questa sfiducia generale che rasenta il cinismo è parte del problema, la sindrome di un Paese che non vede alternative. Di Maio non è la soluzione ma a maggior ragione non lo è la ministra Boschi. In questo momento il pericolo concreto di uno scadimento oligarchico della democrazia italiana sta nella riforma costituzionale scritta dal Pd, mentre i 5 Stelle sostengono le ragioni del No. Credo che non dovremmo dimenticarlo.
Lo scorso 7 maggio è stato tra i promotori della manifestazione “E’ emergenza cultura” e aveva denunciato che “il paesaggio e il patrimonio storico e artistico sono in grave pericolo”. Cosa è successo da allora?

Nessuna risposta dal governo Renzi, se non un’escalation di imbarbarimento del governo del patrimonio culturale. Ad Amatrice, Franceschini ha detto di aver subito mandato i caschi blu della cultura: cosa mai sarebbero, se non miserabile propaganda? La riforma della dirigenza dello Stato, con il suo ruolo unico, è la mazzata finale al sistema di tutela, che di fatto non esiste più. Siamo tornati a prima del 1939, con una regressione secolare. E il concorsone per i 500 funzionari del Mibact si sta celebrando in modo farsesco, per molto meno avremmo chiesto la testa dell’ex ministro Bondi a furor di popolo. Il sito di Emergenza cultura è uno dei pochissimi luoghi che accolgono le mille voci che denunciano, dall’interno, l’agonia del patrimonio culturale della nazione italiana. E non smetterà di farlo.
Ultima questione: recentemente è stato siglato presso l’ambasciata italiana a Mosca, un accordo – fortemente voluto dal premier Matteo Renzi – tra le Gallerie degli Uffizi e il Museo Puškin di Mosca. Un segnale di distensione e collaborazione con la Russia di Vladimir Putin. Ne gioveranno l’arte e la cultura italiana o siamo alla spreco di denaro pubblico?

Solo nei regimi, sono i governi a usare il patrimonio artistico come ostaggio delle relazioni diplomatiche. E noi non siamo un regime. Lo faceva Mussolini, ma Renzi non è il Duce. In Occidente le mostre si fanno per ragioni scientifiche, con un progetto culturale. Da noi le opere d’arte famose seguono i politici in catene, come i prigionieri seguivano gli imperatori romani durante i trionfi. È una regressione barbara. Il direttore degli Uffizi ha fatto un grave errore, che speriamo non abbia conseguenze: si è piegato al volere del governo che l’ha nominato, e che dovrà confermarlo, e ha spedito a Mosca opere il cui viaggio era stato definito letteralmente “molto rischioso” dall’Opificio delle Pietre dure, massima istanza italiana per il restauro. Una scelta molto miope anche perché, si sa, i ministri cambiano.

Brexit e banche, parla l’economista Galloni: “Si può uscire dal baratro senza l’Europa che alimenta la turbofinanza”

Negli anni Ottanta, da funzionario, fu isolato per le sue posizioni ostili ai trattati e critiche su euro, sistema finanziario e banche. Oggi le sue teorie vengono prese a prestito anche da chi lo avversava. “Bisogna ribaltare i paradigmi senza venire a patti con le istituzioni: sono parte del problema e non hanno soluzioni”, è la sua ricetta. Ai Cinque Stelle che attingono alle sue tesi dice: “Sono disponibile, ma per un progetto senza compromessi”

di Thomas Mackinson da ilfattoquotidiano

Alle cronache dell’epoca era passato come “l’oscuro funzionario che fece paura a Helmut Kohl”. Da una posizione di vertice al ministero del Bilancio dell’Italia anni Ottanta aveva osato avversare apertamente i trattati europei. Profetico, a tratti perfino eversivo nelle sue teorie macroeconomiche, metteva già in discussione le politiche neoliberiste, il futuro della moneta unica, il dogma degli investimenti senza debito. E ora, a distanza di trent’anni e di molti libri e conferenze, anche chi governa nei consessi internazionali, perfino chi manovra la nave dell’eurozona alla deriva, inizia a parlare la sua strana lingua. Chiamiamo Antonino Galloni che è sera. Il “pericoloso funzionario”, ormai vicino alla pensione, è alle prese con un pollo ruspante a chilometri zero, da cucinare con lime, vino, carote e timo: “Un peccato non usare certe ricette”, sospira. Le sue le ha scodellate da tempo al servizio di tutti ma per diversi decenni sono rimaste confinate sullo scaffale degli economisti eterodossi, quelli che i politici non ascoltano perché propongono cambiamenti radicali. Ex funzionario del ministero del Bilancio, direttore generale di quello del Lavoro, un tempo docente universitario, Nino Galloni non ha perso per strada le sue convinzioni che ha perfezionato nel tempo, soprattutto alla luce degli sconvolgimenti in corso. Le spiega con pazienza, al telefono, e si premura di avvertire i Cinque Stelle che tante volte alle sue tesi hanno attinto: “Sono pronto a dare una mano, purché l’ansia di governare non li faccia piegare alle richieste delle istituzioni internazionali di dimostrarsi affidabili a tutti i costi, perché così non cambierà nulla. Se qualcuno cerca un programma avanzato per uscire dal baratro, ecco, io ce l’ho”.
Partiamo dal baratro: le banche, i mercati e la finanza
Sempre lì siamo. E’ il conto che tutti paghiamo al dominio del pensiero unico di matrice neoconservatrice, quello che dagli anni Ottanta ha imposto un modello capitalistico irresponsabile che oggi non è più nemmeno di mercato ma guidato da algoritmi matematici. Il suo obiettivo è massimizzare l’emissione di titoli e i debitori – Stati compresi – perché siano deboli, poco solvibili e sottomessi. Questo costringe a far aumentare la circolazione di derivati e swap (scommesse su tutto, ci spiega). Così si fanno milioni di miliardi di dollari di titoli tossici. Il punto è come uscirne, perché è ormai chiaro che il soccorso che trasferisce Pil a copertura dei debiti delle banche non potrà durare per sempre. I titoli tossici e fasulli in circolazione, a livello planetario, rappresentano 54 volte il Pil mondiale. Stiamo salvando il peggio.

Appunto, come se ne esce?
C’è chi pensa a passare la nottata invece di fermare la roulette impazzita. Possiamo partire proprio dalle banche, ipotizzando un ruolo e una contabilità diversa. Si deve tornare alla separazione tra chi eroga credito operando come agente di sviluppo sul territorio e chi fa raccolta a fini speculativi. Nel credito, poi, si dovrebbe ragionare su una contabilità vera che metta nel conto economico delle banche tutti i versamenti delle rate a titolo di estinzione dei debiti, mentre ora vengono calcolati solo gli interessi.

Cosa cambierebbe?
Quella che oggi si chiama “perdita” o sofferenza sarebbe correttamente contabilizzata per quello che è: un mancato arricchimento. Si abbatterebbe il margine operativo, che resterebbe però sempre a livelli stratosferici, dell’ordine del 50-60%, detratti i costi di funzionamento della banca. E su quelli potrei fargli pagare le tasse, con un’aliquota che diventa bassa per tutti, ricavando così un gettito che concorra a tenere in piedi il sistema.

Un esempio, per capire…
Mettiamo che lei abbia un’impresa di spettacolo e si fa finanziare un milione di euro. Paga gli operai, i costi, l’intermediazione bancaria e alla fine riesce a restituire solo la metà. Ebbene quei 500mila euro, detratti i costi bancari che poniamo siano del 10%, la banca incassa comunque un attivo di 450mila euro netti. E’ una perdita o un guadagno? E più in generale: oggi si finanzia solo ciò che porta profitto ma siamo fuori dall’età della scarsità delle risorse e lo sviluppo responsabile potrebbe essere limitato solo dalla disponibilità del fattore umano, se solo si annoverassero tra le attività necessarie per un Paese i servizi alla persona, la cura dell’ambiente, l’innovazione tecnologica e tutti quei fattori che sono alla base dello sviluppo.

Perché non lo si fa?
Perché significherebbe avere piena occupazione e aumento dei salari, la gente non sarebbe più asservita e dunque un mondo rispetto al quale il vecchio modo di governare, basato sulla soggezione della gente, non funziona più e salta. Le soluzioni all’attuale crisi economica ci sono ma comportano un’emancipazione delle popolazioni, un aumento alla partecipazione democratica, il ripristino della classe media al posto della categoria dei cittadini-sudditi. Oggi la gente è disperata: non trova lavoro, non riesce a pagare il mutuo, ha paura di quello che può accadere al primo imprevisto. E sta buona. Senza questa sottomissione economica le classi dirigenti andrebbero in crisi: e come facciamo noi a sopravvivere?, si chiedono i parassiti.

E’ un fan delle teorie del controllo sociale alla Bildenberg?
I poteri forti esistono e dominano perché non c’è una classe politica degna di questo nome. Quando ci sono i Roosevelt, i Kennedy, i Moro, i Mattei è chiaro che questi poteri occulti hanno meno peso e importanza. Attraverso gli squilibri finanziari, monetari e bancari mantengono il controllo sulla formazione delle stese classi dirigenti che poi vanno formalmente a governare i paesi.

Che margini ci lasciano?
Si potrebbe ancora rovesciare il tavolo delle regole, forse. Ad esempio autorizzando i disavanzi dei Paesi in funzione del tasso di disoccupazione e non di parametri finanziari decisi chissà dove e come. Ma certo non lo può fare questa Unione Europea e le istituzioni che sono parte del problema.

E perché?
Perché sono lontanissime e tendenzialmente ostili a favorire la consapevolezza delle masse che un certo meccanismo si è rotto. E tendono a tamponare le situazioni per mantenere lo status quo. Le democrazie che guidano sono in crisi perché non sono riuscite a stabilire la differenza tra cittadino e suddito. Per ristabilirla, serve recuperare sovranità e capire quale è il modello economico oggi sostenibile. Ritengo che sia arrivato il momento di infrangere dei tabù e di tentare politiche opposte, di aumento dei salari e della spesa pubblica in disavanzo, di riconoscere la sostenibilità dei rendimenti negativi una volta si sia capito che credito e moneta sono a costo zero non hanno bisogno di copertura ma solo di stimolare la produzione di quei servizi necessari alla comunità di cui si dice erroneamente che mancano i soldi.

Ma abbiamo il debito pubblico alle stelle…
E’ vero. Ma su questo si deve fare un ragionamento finalmente vero e più onesto. Quando andiamo in banca ad accendere un mutuo ci viene concessa una somma fino a cinque volte il nostro reddito annuale. Il reddito di un Paese è il Prodotto interno lordo, ma il debito va paragonato al patrimonio che è di gran lunga superiore. Questa idea per cui siamo appesi ai conti economici delle entrate e delle uscite è una mistificazione che comprime le possibilità di sviluppo e di piena occupazione.

Da molto tempo è ai piani alti del ministero del Lavoro. Come sta andando l’occupazione?
Oggi ho incarichi di controllo ma non ho mai smesso di ragionare su dati, parametri e interventi che di volta in volta vengono fatti. Purtroppo non si è cambiato strada, le esigenze della società continuano a non trovare una risposta attraverso il lavoro. Un errore fondamentale è stato fatto quando ero direttore generale, allora lo denunciavo e oggi timidamente qualche ammissione arriva anche dal ministro. La flessibilizzazione è diventata sciaguratamente precarizzazione perché non si è realizzato il principio secondo cui il lavoratore flessibile doveva costare di più alle imprese di uno stabilizzato.

E le misure del governo?
Col Jobs Act si sono ridotti i diritti dei lavoratori stabili per renderli più appetibili alle imprese e ha funzionato, tuttavia ha eroso la stabilità di chi era garantito. L’effetto lo si vede nell’esplosione dei 500mila voucher che hanno portato altrettanti lavoratori sotto lo schiaffo del caporalato segnando una grande sconfitta per il ministero, per il governo e per il Paese. Tocca chiedersi cosa succederà: se pretendiamo il rispetto della legalità finiremo per togliere lavoro a questa gente per poi reimportare arance e pomodori dal Nord Africa. E’ questo il sacco in cui si trova il lavoro. E tocca capire anche cosa succederà dopo tre anni, quando termineranno gli incentivi previdenziali. Nel frattempo assistiamo a un paradosso: in certi momenti l’occupazione (precaria) è cresciuta più del Pil, e allora il grande successo di queste politiche è… far calare la produttività.

Cosa pensa della Brexit? E’ il segno della disgregazione dell’Europa?
Ha creato un po’ di panico a livello delle classi dirigenti perché si è visto che la gente non si è fatta condizionare e ha scelto in base alla valutazione dei propri interessi. Significa che, in fondo, era stato sottovalutato l’impatto che le classi più umili, le persone più anziane, percepivano delle situazione come negativa. Gli inglesi che hanno votato “si” vogliono liberarsi di una serie di vincoli e problemi e tornare a un maggior realismo in economia, a una maggiore centratura sul livello locale e in parte anche sulle tradizioni. Ma in concreto a breve cambierà poco perché già la Gb non faceva parte dell’euro e ora potrà negoziare accordi di comune interesse. Se la sterlina si svaluta andremo in vacanza a Londra spendendo di meno e verranno meno turisti inglesi da noi. Ma la conseguenza più grande è che si possono rimettere in gioco parecchi equilibri.

Tanto rumore per nulla?
Diverso è se si considera la cosa a livello geopolitico. E’ chiaro che la Corona inglese non si sia spesa per il “remain”. Significa che aveva strategie alternative, come quelle mai nascoste di recuperare il controllo della sua colonia preferita cioè gli Usa che in questo  momento sono un po’ allo sbando. Quindi tramite la finanza e altri strumenti che sono il nocciolo duro dell’Inghilterra pensa di avvicinarsi di più ai cugini d’Oltreoceano. Non significa che il Regno Unito, se tale rimane, si allontani dall’Europa ma certo si avvicinerà di più all’America e potrebbe ad esempio rilanciare il TTIP, che era mezzo morto.

Se ci fosse un referendum in Italia come finirebbe?
Non è questo il punto. Se usciamo dall’Europa è per andare dove? Penso che l’Italia potrebbe giocare un ruolo fondamentale nel dialogo Usa-Russia per spostare il baricentro dell’economia europea verso il Mediterraneo che è necessario anche per gestire i flussi migratori e respingere il terrorismo a sfondo religioso. Paradossalmente, per giocarsela in Europa, l’Italia dovrebbe rompere con essa e fare un accordo restrittivo con la Russia, ma meglio portare avanti un dialogo tra Usa-Russia di cui siamo i principali referenti e beneficiari. Il governo italiano dovrebbe battersi per il superamento delle sanzioni.

Come reagirebbe l’Europa?
Il problema è che Renzi o chiunque altro, anche se legittimati da un referendum no euro, non potrebbero cogliere questa prospettiva  perché Francia e Germania non lo consentirebbero: loro che hanno avuto maggiori vantaggi di noi da questa Europa a due velocità, già soffrono e non ci stanno a perdere peso.

Le sue tesi piacciono al M5S che oggi ambisce a governare. Risponderebbe a una “chiamata”?
Sì, ma mi preme chiarire un aspetto. Dall’origine del Movimento ad oggi è successo qualcosa di importante e potenzialmente rischioso. Quando l’orizzonte era l’opposizione la mediazione era esclusa, non si scendeva a patti col potere. Oltre all’esigenza del consenso però il Cinque Stelle oggi coltiva l’ambizione del governo e questo sdoppia la sua matrice. Da una parte continua la deriva positiva degli anti-sistema al grido “onestà-onestà”, dall’altra una crescente propensione ad accreditarsi come referenti affidabili, anche presso i consessi internazionali. Ecco, se prevalesse la logica del “vedete, siamo bravi ragazzi” temo che anche mettendo a disposizione le mie ricette non cambierebbe nulla. Se invece vincesse lo spirito delle origini a favore di programmi e posizioni radicalmente innovativi, beh, io ci sarò”.

Brexit e banche, parla l’economista Galloni: “Si può uscire dal baratro senza l’Europa che alimenta la turbofinanza”

Negli anni Ottanta, da funzionario, fu isolato per le sue posizioni ostili ai trattati e critiche su euro, sistema finanziario e banche. Oggi le sue teorie vengono prese a prestito anche da chi lo avversava. “Bisogna ribaltare i paradigmi senza venire a patti con le istituzioni: sono parte del problema e non hanno soluzioni”, è la sua ricetta. Ai Cinque Stelle che attingono alle sue tesi dice: “Sono disponibile, ma per un progetto senza compromessi”

di Thomas Mackinson da ilfattoquotidiano

Alle cronache dell’epoca era passato come “l’oscuro funzionario che fece paura a Helmut Kohl”. Da una posizione di vertice al ministero del Bilancio dell’Italia anni Ottanta aveva osato avversare apertamente i trattati europei. Profetico, a tratti perfino eversivo nelle sue teorie macroeconomiche, metteva già in discussione le politiche neoliberiste, il futuro della moneta unica, il dogma degli investimenti senza debito. E ora, a distanza di trent’anni e di molti libri e conferenze, anche chi governa nei consessi internazionali, perfino chi manovra la nave dell’eurozona alla deriva, inizia a parlare la sua strana lingua. Chiamiamo Antonino Galloni che è sera. Il “pericoloso funzionario”, ormai vicino alla pensione, è alle prese con un pollo ruspante a chilometri zero, da cucinare con lime, vino, carote e timo: “Un peccato non usare certe ricette”, sospira. Le sue le ha scodellate da tempo al servizio di tutti ma per diversi decenni sono rimaste confinate sullo scaffale degli economisti eterodossi, quelli che i politici non ascoltano perché propongono cambiamenti radicali. Ex funzionario del ministero del Bilancio, direttore generale di quello del Lavoro, un tempo docente universitario, Nino Galloni non ha perso per strada le sue convinzioni che ha perfezionato nel tempo, soprattutto alla luce degli sconvolgimenti in corso. Le spiega con pazienza, al telefono, e si premura di avvertire i Cinque Stelle che tante volte alle sue tesi hanno attinto: “Sono pronto a dare una mano, purché l’ansia di governare non li faccia piegare alle richieste delle istituzioni internazionali di dimostrarsi affidabili a tutti i costi, perché così non cambierà nulla. Se qualcuno cerca un programma avanzato per uscire dal baratro, ecco, io ce l’ho”.
Partiamo dal baratro: le banche, i mercati e la finanza
Sempre lì siamo. E’ il conto che tutti paghiamo al dominio del pensiero unico di matrice neoconservatrice, quello che dagli anni Ottanta ha imposto un modello capitalistico irresponsabile che oggi non è più nemmeno di mercato ma guidato da algoritmi matematici. Il suo obiettivo è massimizzare l’emissione di titoli e i debitori – Stati compresi – perché siano deboli, poco solvibili e sottomessi. Questo costringe a far aumentare la circolazione di derivati e swap (scommesse su tutto, ci spiega). Così si fanno milioni di miliardi di dollari di titoli tossici. Il punto è come uscirne, perché è ormai chiaro che il soccorso che trasferisce Pil a copertura dei debiti delle banche non potrà durare per sempre. I titoli tossici e fasulli in circolazione, a livello planetario, rappresentano 54 volte il Pil mondiale. Stiamo salvando il peggio.

Appunto, come se ne esce?
C’è chi pensa a passare la nottata invece di fermare la roulette impazzita. Possiamo partire proprio dalle banche, ipotizzando un ruolo e una contabilità diversa. Si deve tornare alla separazione tra chi eroga credito operando come agente di sviluppo sul territorio e chi fa raccolta a fini speculativi. Nel credito, poi, si dovrebbe ragionare su una contabilità vera che metta nel conto economico delle banche tutti i versamenti delle rate a titolo di estinzione dei debiti, mentre ora vengono calcolati solo gli interessi.

Cosa cambierebbe?
Quella che oggi si chiama “perdita” o sofferenza sarebbe correttamente contabilizzata per quello che è: un mancato arricchimento. Si abbatterebbe il margine operativo, che resterebbe però sempre a livelli stratosferici, dell’ordine del 50-60%, detratti i costi di funzionamento della banca. E su quelli potrei fargli pagare le tasse, con un’aliquota che diventa bassa per tutti, ricavando così un gettito che concorra a tenere in piedi il sistema.

Un esempio, per capire…
Mettiamo che lei abbia un’impresa di spettacolo e si fa finanziare un milione di euro. Paga gli operai, i costi, l’intermediazione bancaria e alla fine riesce a restituire solo la metà. Ebbene quei 500mila euro, detratti i costi bancari che poniamo siano del 10%, la banca incassa comunque un attivo di 450mila euro netti. E’ una perdita o un guadagno? E più in generale: oggi si finanzia solo ciò che porta profitto ma siamo fuori dall’età della scarsità delle risorse e lo sviluppo responsabile potrebbe essere limitato solo dalla disponibilità del fattore umano, se solo si annoverassero tra le attività necessarie per un Paese i servizi alla persona, la cura dell’ambiente, l’innovazione tecnologica e tutti quei fattori che sono alla base dello sviluppo.

Perché non lo si fa?
Perché significherebbe avere piena occupazione e aumento dei salari, la gente non sarebbe più asservita e dunque un mondo rispetto al quale il vecchio modo di governare, basato sulla soggezione della gente, non funziona più e salta. Le soluzioni all’attuale crisi economica ci sono ma comportano un’emancipazione delle popolazioni, un aumento alla partecipazione democratica, il ripristino della classe media al posto della categoria dei cittadini-sudditi. Oggi la gente è disperata: non trova lavoro, non riesce a pagare il mutuo, ha paura di quello che può accadere al primo imprevisto. E sta buona. Senza questa sottomissione economica le classi dirigenti andrebbero in crisi: e come facciamo noi a sopravvivere?, si chiedono i parassiti.

E’ un fan delle teorie del controllo sociale alla Bildenberg?
I poteri forti esistono e dominano perché non c’è una classe politica degna di questo nome. Quando ci sono i Roosevelt, i Kennedy, i Moro, i Mattei è chiaro che questi poteri occulti hanno meno peso e importanza. Attraverso gli squilibri finanziari, monetari e bancari mantengono il controllo sulla formazione delle stese classi dirigenti che poi vanno formalmente a governare i paesi.

Che margini ci lasciano?
Si potrebbe ancora rovesciare il tavolo delle regole, forse. Ad esempio autorizzando i disavanzi dei Paesi in funzione del tasso di disoccupazione e non di parametri finanziari decisi chissà dove e come. Ma certo non lo può fare questa Unione Europea e le istituzioni che sono parte del problema.

E perché?
Perché sono lontanissime e tendenzialmente ostili a favorire la consapevolezza delle masse che un certo meccanismo si è rotto. E tendono a tamponare le situazioni per mantenere lo status quo. Le democrazie che guidano sono in crisi perché non sono riuscite a stabilire la differenza tra cittadino e suddito. Per ristabilirla, serve recuperare sovranità e capire quale è il modello economico oggi sostenibile. Ritengo che sia arrivato il momento di infrangere dei tabù e di tentare politiche opposte, di aumento dei salari e della spesa pubblica in disavanzo, di riconoscere la sostenibilità dei rendimenti negativi una volta si sia capito che credito e moneta sono a costo zero non hanno bisogno di copertura ma solo di stimolare la produzione di quei servizi necessari alla comunità di cui si dice erroneamente che mancano i soldi.

Ma abbiamo il debito pubblico alle stelle…
E’ vero. Ma su questo si deve fare un ragionamento finalmente vero e più onesto. Quando andiamo in banca ad accendere un mutuo ci viene concessa una somma fino a cinque volte il nostro reddito annuale. Il reddito di un Paese è il Prodotto interno lordo, ma il debito va paragonato al patrimonio che è di gran lunga superiore. Questa idea per cui siamo appesi ai conti economici delle entrate e delle uscite è una mistificazione che comprime le possibilità di sviluppo e di piena occupazione.

Da molto tempo è ai piani alti del ministero del Lavoro. Come sta andando l’occupazione?
Oggi ho incarichi di controllo ma non ho mai smesso di ragionare su dati, parametri e interventi che di volta in volta vengono fatti. Purtroppo non si è cambiato strada, le esigenze della società continuano a non trovare una risposta attraverso il lavoro. Un errore fondamentale è stato fatto quando ero direttore generale, allora lo denunciavo e oggi timidamente qualche ammissione arriva anche dal ministro. La flessibilizzazione è diventata sciaguratamente precarizzazione perché non si è realizzato il principio secondo cui il lavoratore flessibile doveva costare di più alle imprese di uno stabilizzato.

E le misure del governo?
Col Jobs Act si sono ridotti i diritti dei lavoratori stabili per renderli più appetibili alle imprese e ha funzionato, tuttavia ha eroso la stabilità di chi era garantito. L’effetto lo si vede nell’esplosione dei 500mila voucher che hanno portato altrettanti lavoratori sotto lo schiaffo del caporalato segnando una grande sconfitta per il ministero, per il governo e per il Paese. Tocca chiedersi cosa succederà: se pretendiamo il rispetto della legalità finiremo per togliere lavoro a questa gente per poi reimportare arance e pomodori dal Nord Africa. E’ questo il sacco in cui si trova il lavoro. E tocca capire anche cosa succederà dopo tre anni, quando termineranno gli incentivi previdenziali. Nel frattempo assistiamo a un paradosso: in certi momenti l’occupazione (precaria) è cresciuta più del Pil, e allora il grande successo di queste politiche è… far calare la produttività.

Cosa pensa della Brexit? E’ il segno della disgregazione dell’Europa?
Ha creato un po’ di panico a livello delle classi dirigenti perché si è visto che la gente non si è fatta condizionare e ha scelto in base alla valutazione dei propri interessi. Significa che, in fondo, era stato sottovalutato l’impatto che le classi più umili, le persone più anziane, percepivano delle situazione come negativa. Gli inglesi che hanno votato “si” vogliono liberarsi di una serie di vincoli e problemi e tornare a un maggior realismo in economia, a una maggiore centratura sul livello locale e in parte anche sulle tradizioni. Ma in concreto a breve cambierà poco perché già la Gb non faceva parte dell’euro e ora potrà negoziare accordi di comune interesse. Se la sterlina si svaluta andremo in vacanza a Londra spendendo di meno e verranno meno turisti inglesi da noi. Ma la conseguenza più grande è che si possono rimettere in gioco parecchi equilibri.

Tanto rumore per nulla?
Diverso è se si considera la cosa a livello geopolitico. E’ chiaro che la Corona inglese non si sia spesa per il “remain”. Significa che aveva strategie alternative, come quelle mai nascoste di recuperare il controllo della sua colonia preferita cioè gli Usa che in questo  momento sono un po’ allo sbando. Quindi tramite la finanza e altri strumenti che sono il nocciolo duro dell’Inghilterra pensa di avvicinarsi di più ai cugini d’Oltreoceano. Non significa che il Regno Unito, se tale rimane, si allontani dall’Europa ma certo si avvicinerà di più all’America e potrebbe ad esempio rilanciare il TTIP, che era mezzo morto.

Se ci fosse un referendum in Italia come finirebbe?
Non è questo il punto. Se usciamo dall’Europa è per andare dove? Penso che l’Italia potrebbe giocare un ruolo fondamentale nel dialogo Usa-Russia per spostare il baricentro dell’economia europea verso il Mediterraneo che è necessario anche per gestire i flussi migratori e respingere il terrorismo a sfondo religioso. Paradossalmente, per giocarsela in Europa, l’Italia dovrebbe rompere con essa e fare un accordo restrittivo con la Russia, ma meglio portare avanti un dialogo tra Usa-Russia di cui siamo i principali referenti e beneficiari. Il governo italiano dovrebbe battersi per il superamento delle sanzioni.

Come reagirebbe l’Europa?
Il problema è che Renzi o chiunque altro, anche se legittimati da un referendum no euro, non potrebbero cogliere questa prospettiva  perché Francia e Germania non lo consentirebbero: loro che hanno avuto maggiori vantaggi di noi da questa Europa a due velocità, già soffrono e non ci stanno a perdere peso.

Le sue tesi piacciono al M5S che oggi ambisce a governare. Risponderebbe a una “chiamata”?
Sì, ma mi preme chiarire un aspetto. Dall’origine del Movimento ad oggi è successo qualcosa di importante e potenzialmente rischioso. Quando l’orizzonte era l’opposizione la mediazione era esclusa, non si scendeva a patti col potere. Oltre all’esigenza del consenso però il Cinque Stelle oggi coltiva l’ambizione del governo e questo sdoppia la sua matrice. Da una parte continua la deriva positiva degli anti-sistema al grido “onestà-onestà”, dall’altra una crescente propensione ad accreditarsi come referenti affidabili, anche presso i consessi internazionali. Ecco, se prevalesse la logica del “vedete, siamo bravi ragazzi” temo che anche mettendo a disposizione le mie ricette non cambierebbe nulla. Se invece vincesse lo spirito delle origini a favore di programmi e posizioni radicalmente innovativi, beh, io ci sarò”.

Ecco perché ho accettato la proposta di Raggi

di Paolo Berdini da ilmanifesto

Urbanistica. C’è una maturazione politica e culturale, sono arrivate due proposte di lavoro coraggiose. La candidata romana con me e Chiara Appendino con Guido Montanari hanno scelto di ricostruire il profilo della legalità mettendo in soffitta la cultura delle deroghe e privilegiando il diritto sociale alla città e ai beni comuni

Roma è una città fallita. Ai 13,5 miliardi certificati dal Commissario governativo ne vanno aggiunti due degli anni del sindaco Marino e un numero finora imprecisato che proviene dall’accensione di titoli derivati. Roma supera dunque i parametri di legge che regolano l’indebitamento degli enti locali e se il Governo volesse – e non è detto che non giocherà questa carta – potrebbe sciogliere il governo municipale. Dei candidati sindaci che si sono presentati al primo turno solo Raggi e Fassina hanno posto con chiarezza la questione proponendo l’apertura della rinegoziazione del debito. Silenzio da tutti gli altri, compreso quello di Giachetti.
La causa strutturale del debito sta nell’anarchia urbanistica. Negli ultimi 20 anni si è costruito dappertutto al di fuori di ogni regola sicuri che la mano pubblica avrebbe portato i servizi indispensabili. L’ultimo scandalo riguarda ad esempio un intero quartiere nato in aperta campagna a tre chilometri dall’ultima periferia, Pian Saccoccia, a cui il comune deve garantire trasporti e raccolta dei rifiuti. A fronte di pochissimi che hanno intascato una rendita immobiliare enorme, la collettività accumula debito mentre Atac e Ama sono sull’orlo del fallimento.
Il manifesto ha denunciato sistematicamente in questi anni gli effetti dell’urbanistica derogatoria e il risultato di questo prezioso lavoro sta nel volume di recente pubblicazione Viaggio in Italia che raccoglie i ragionamenti collettivi provocati da una intuizione di Piero Bevilacqua e curato con Ilaria Agostini. Il quadro che emerge è la crisi irreversibile delle città, come noto amministrate in larga parte dal «centro sinistra». È dunque evidente che sussiste ancora una difficoltà culturale nella sinistra a fare i conti con gli errori del recente passato, quando sono stati sacrificati gli interessi dei cittadini per privilegiare quelli economici e finanziari dominanti. L’effetto di questa scelta di campo è resa evidente dal voto del 5 giugno scorso: in tutte le periferie urbane la sinistra non intercetta più il malessere delle famiglie impoverite da una crisi senza fine e dalla cancellazione del welfare. Questa parte di società ha invece scelto di premiare a Torino e Roma il movimento 5stelle e dobbiamo chiederci i motivi di fondo di questo orientamento.
I gruppi parlamentari 5stelle hanno contrastato con forza lo «Sbocca Italia» imposto per decreto dal governo Renzi che ripropone l’ennesima e sempre più accentuata stagione derogatoria così come si sono battuti contro quella che viene vergognosamente chiamata la legge contro il consumo di suolo e che contiene invece altri meccanismi che lo incentivano. In buona sostanza, quella complessa galassia piena di contraddizioni lucidamente sollevate da Alberto Asor Rosa su queste pagine, si è però saldamente impadronita della cultura urbana che era il vanto della sinistra.
Da questa maturazione politica e culturale sono arrivate due proposte di lavoro coraggiose. Virginia Raggi con me e Chiara Appendino con un’altra figura di rilievo dell’urbanistica democratica, Guido Montanari, hanno scelto di ricostruire il profilo della legalità mettendo in soffitta la cultura delle deroghe e privilegiando invece il diritto sociale alla città e ai beni comuni. È lo stesso percorso scelto, come notava ieri Norma Rangeri, a Napoli da Luigi De Magistris sia nella sfida per l’acqua pubblica sia nel rispetto del piano urbanistico di Vezio De Lucia. È per questo motivo che ho ritenuto di accettare la proposta offertami da Virginia Raggi di guidare l’urbanistica di una città fallita a causa della mala urbanistica.

Ecco perché ho accettato la proposta di Raggi

di Paolo Berdini da ilmanifesto

Urbanistica. C’è una maturazione politica e culturale, sono arrivate due proposte di lavoro coraggiose. La candidata romana con me e Chiara Appendino con Guido Montanari hanno scelto di ricostruire il profilo della legalità mettendo in soffitta la cultura delle deroghe e privilegiando il diritto sociale alla città e ai beni comuni

Roma è una città fallita. Ai 13,5 miliardi certificati dal Commissario governativo ne vanno aggiunti due degli anni del sindaco Marino e un numero finora imprecisato che proviene dall’accensione di titoli derivati. Roma supera dunque i parametri di legge che regolano l’indebitamento degli enti locali e se il Governo volesse – e non è detto che non giocherà questa carta – potrebbe sciogliere il governo municipale. Dei candidati sindaci che si sono presentati al primo turno solo Raggi e Fassina hanno posto con chiarezza la questione proponendo l’apertura della rinegoziazione del debito. Silenzio da tutti gli altri, compreso quello di Giachetti.
La causa strutturale del debito sta nell’anarchia urbanistica. Negli ultimi 20 anni si è costruito dappertutto al di fuori di ogni regola sicuri che la mano pubblica avrebbe portato i servizi indispensabili. L’ultimo scandalo riguarda ad esempio un intero quartiere nato in aperta campagna a tre chilometri dall’ultima periferia, Pian Saccoccia, a cui il comune deve garantire trasporti e raccolta dei rifiuti. A fronte di pochissimi che hanno intascato una rendita immobiliare enorme, la collettività accumula debito mentre Atac e Ama sono sull’orlo del fallimento.
Il manifesto ha denunciato sistematicamente in questi anni gli effetti dell’urbanistica derogatoria e il risultato di questo prezioso lavoro sta nel volume di recente pubblicazione Viaggio in Italia che raccoglie i ragionamenti collettivi provocati da una intuizione di Piero Bevilacqua e curato con Ilaria Agostini. Il quadro che emerge è la crisi irreversibile delle città, come noto amministrate in larga parte dal «centro sinistra». È dunque evidente che sussiste ancora una difficoltà culturale nella sinistra a fare i conti con gli errori del recente passato, quando sono stati sacrificati gli interessi dei cittadini per privilegiare quelli economici e finanziari dominanti. L’effetto di questa scelta di campo è resa evidente dal voto del 5 giugno scorso: in tutte le periferie urbane la sinistra non intercetta più il malessere delle famiglie impoverite da una crisi senza fine e dalla cancellazione del welfare. Questa parte di società ha invece scelto di premiare a Torino e Roma il movimento 5stelle e dobbiamo chiederci i motivi di fondo di questo orientamento.
I gruppi parlamentari 5stelle hanno contrastato con forza lo «Sbocca Italia» imposto per decreto dal governo Renzi che ripropone l’ennesima e sempre più accentuata stagione derogatoria così come si sono battuti contro quella che viene vergognosamente chiamata la legge contro il consumo di suolo e che contiene invece altri meccanismi che lo incentivano. In buona sostanza, quella complessa galassia piena di contraddizioni lucidamente sollevate da Alberto Asor Rosa su queste pagine, si è però saldamente impadronita della cultura urbana che era il vanto della sinistra.
Da questa maturazione politica e culturale sono arrivate due proposte di lavoro coraggiose. Virginia Raggi con me e Chiara Appendino con un’altra figura di rilievo dell’urbanistica democratica, Guido Montanari, hanno scelto di ricostruire il profilo della legalità mettendo in soffitta la cultura delle deroghe e privilegiando invece il diritto sociale alla città e ai beni comuni. È lo stesso percorso scelto, come notava ieri Norma Rangeri, a Napoli da Luigi De Magistris sia nella sfida per l’acqua pubblica sia nel rispetto del piano urbanistico di Vezio De Lucia. È per questo motivo che ho ritenuto di accettare la proposta offertami da Virginia Raggi di guidare l’urbanistica di una città fallita a causa della mala urbanistica.

Un nuovo Maggio 68


Tonino D’Orazio 
Gli ingredienti ci sono tutti, anche questa volta si parte dal lavoro e le libertà in filigrana. Di nuovo la Francia, anche come caloroso risveglio di primavera, con gli studenti di nuovo in partenariato con i lavoratori, precarizzati o da precarizzare di più, con la riforma del mercato del lavoro copiato dal Job Act renziano, da un altro se dicente socialista, Hollande. Meno con i sindacati, eccetto la CGT. Anche, allora c’ero in quelle strade parigine, le organizzazioni, scavalcate direttamente dai lavoratori si unirono poi con la CGT per la manifestazione decisiva dell’11 maggio 1968, facendo scappare a Strasburgo (cioè vicino alla frontiera tedesca) il presidente De Gaule. Con i francesi non si sa mai. In Italia i sindacati attrezzarono un autunno caldo solo nel 1969, ma diede ai lavoratori, negli anni successivi, gran parte dei diritti oggi perduti.
Oggi i francesi sembrano arrivare in ritardo, dopo il M5S in Italia, Syriza in Grecia, Podemos in Spagna e Blocco della Sinistra in Portogallo, e dopo che Occupy Wall Street sembra sia stato recuperato ufficialmente. Sembrano però aver creato l’effetto Sanders negli Stati Uniti e un ritorno dei socialisti operaisti con Jeremy Corbyn a capo del Labour in Gran Bretagna. E’ assente la Germania, non a caso, visto che la mangiatoia è piena e possono iniziare anche a battere moneta. Tutti contro il neoliberismo, il FMI, la Bce, la troika di Bruxelles e le politiche di austerità che impoveriscono molti e arricchiscono pochi. Tutti, come filo conduttore che li lega, contro l’ingiustizia sociale, lo sfruttamento e la compressione della democrazia. Tutti contro i partiti tradizionali e i risultati politico-sociali dei loro governi.
Fanno paura? Forse sì, a vedere con quale incredibile violenza i celerini hanno “accolto” i liceali andati ad incontrare i ferrovieri della stazione Saint Lazare in sciopero. Il timore è proprio quello di un vero collegamento di lotta tra studenti e lavoratori. Sono sempre “convergenze” pericolose.
Da novembre scorso e la proclamazione dello “stato d’urgenza” lo Stato della regressione sociale e del manganello si è rapidamente sviluppato. Il neoliberismo (o fascismo) padronale ne approfitta per “spezzare” qualsiasi movimento di rivendicazione sociale, facendo arrestare tutti i contestatari in nome della sicurezza, e trasferire nei tribunali, non proprio come “terroristi”, perché nessuno ci crederebbe veramente, ma quasi, e comunque persone da ritenere “pericolose”. Centinaia di liceali sono stati arrestati, “rinfrescati” e rimessi in libertà provvisoria. Altri sono ancora agli arresti. Nel frattempo sono aumentate le violenze della polizia, tanto da far protestare ufficialmente la CGT. Rimane il concetto che manganellare liceali in manifestazioni pacifiche è la dimostrazione del “timore” e della malafede dello stato. A meno di pensare a “educarli”, come diceva bene l’ex presidente Cossiga.
In realtà, più che le manifestazioni e gli scontri, che tengono accesi la lotta e l’informazione, il fenomeno “nuovo” è il ritorno all’occupazione delle piazze. A Parigi, in particolare, e carica di significati, è quella della République. Stessa piazza occupata in altre città importanti della Francia. Dove tutte le notti si radunano migliaia di persone, studenti compresi, allo slogan “Nuit debout” (notte in piedi). Ogni notte i giovani cantano, ballano e discutono sui diritti e sulla situazione economica. Vengono sgomberati al mattino dalla polizia, ma sembra più un balletto, perché tutti tornano la notte seguente. Dura da 51 giorni. Sappiatelo, perché tanto le televisioni padronali, Rai compresa, non ve lo diranno.
Cosa fanno? Discutono di tutto, anzi si organizzano in gruppi di lavoro “popolari”, con nozioni semplici e precise sui diritti inviolabili, non solo sociali, contro lo strapotere delle banche e per la ridistribuzione della ricchezza prodotta nel paese. Vogliono il rispetto dei diritti, giustizia sociale ed eguaglianza. Insomma la storia ritorna sempre con la loro bussola di Liberté, Egalité, Fraternité, (anche se rimpiazzata da: Equité, solidarité, dignité), da Place de la République a Place de la Bastille. Dove gli universitari, dopo aver bloccato alcune università di Parigi, ballano ritmicamente su “tre passi a destra, tre passi indietro, è la politica del governo”. “Abbiamo una sinistra che merita un destro!” Ma guarda! Forse i giovani iniziano a muoversi per prendere in mano il loro destino, oggi così insicuro. Quelli francesi vogliono reagire, non vogliono cedere, asettizzati, come hanno fatto la grande maggioranza dei giovani degli altri paesi del Sud Europa. Sembrano voler rilanciare lo slogan di Stephane Hessel, “Indignatevi”. Momentaneamente queste manifestazioni sono sostenute solo dalla CGT, sindacato notoriamente “comunista” e anti liberista, in nome della libertà di espressione. Sono sostenute anche dalla Lega dei Diritti Umani, che ha chiesto allo stato di intervenire approntando almeno box-wc.
Questione filosofica? E se in queste piazze si stesse fabbricando, anche se in maniera balbuziente, una concezione della politica più degna e quotidiana, lontana dalla deriva arbitraria di regimi partitici diventati pretesa unica di democrazia? Se fosse un dispositivo pratico e sicuro per rilanciare l’immaginario politico-ideale di una società, anche squisitamente europea e umanistica, che invece sta scivolando sempre più in un fango oligarchico e nelle mani di una destra fascistoide?
L’inizio di questi “assembramenti” di piazza ha coinciso con una protesta immensa contro la legge di riforma del mercato del lavoro in Francia. Spesso si pensa che fatta la manifestazione, poi, non succede mai nulla. Invece proprio dal lavoro è ripartita la discussione democratica e la continuità della lotta. Nelle piazze di tutta la Francia.
La risposta, tutta politica, del padronato francese è di stampo marchionniano: sospendere tutte le trattative di rinnovo contrattuale con i sindacati e i lavoratori. Tanto gli amici al governo regalano loro, democraticamente, le leggi per lo sfruttamento dei lavoratori nel mercato a senso unico del lavoro.

Un nuovo Maggio 68


Tonino D’Orazio 
Gli ingredienti ci sono tutti, anche questa volta si parte dal lavoro e le libertà in filigrana. Di nuovo la Francia, anche come caloroso risveglio di primavera, con gli studenti di nuovo in partenariato con i lavoratori, precarizzati o da precarizzare di più, con la riforma del mercato del lavoro copiato dal Job Act renziano, da un altro se dicente socialista, Hollande. Meno con i sindacati, eccetto la CGT. Anche, allora c’ero in quelle strade parigine, le organizzazioni, scavalcate direttamente dai lavoratori si unirono poi con la CGT per la manifestazione decisiva dell’11 maggio 1968, facendo scappare a Strasburgo (cioè vicino alla frontiera tedesca) il presidente De Gaule. Con i francesi non si sa mai. In Italia i sindacati attrezzarono un autunno caldo solo nel 1969, ma diede ai lavoratori, negli anni successivi, gran parte dei diritti oggi perduti.
Oggi i francesi sembrano arrivare in ritardo, dopo il M5S in Italia, Syriza in Grecia, Podemos in Spagna e Blocco della Sinistra in Portogallo, e dopo che Occupy Wall Street sembra sia stato recuperato ufficialmente. Sembrano però aver creato l’effetto Sanders negli Stati Uniti e un ritorno dei socialisti operaisti con Jeremy Corbyn a capo del Labour in Gran Bretagna. E’ assente la Germania, non a caso, visto che la mangiatoia è piena e possono iniziare anche a battere moneta. Tutti contro il neoliberismo, il FMI, la Bce, la troika di Bruxelles e le politiche di austerità che impoveriscono molti e arricchiscono pochi. Tutti, come filo conduttore che li lega, contro l’ingiustizia sociale, lo sfruttamento e la compressione della democrazia. Tutti contro i partiti tradizionali e i risultati politico-sociali dei loro governi.
Fanno paura? Forse sì, a vedere con quale incredibile violenza i celerini hanno “accolto” i liceali andati ad incontrare i ferrovieri della stazione Saint Lazare in sciopero. Il timore è proprio quello di un vero collegamento di lotta tra studenti e lavoratori. Sono sempre “convergenze” pericolose.
Da novembre scorso e la proclamazione dello “stato d’urgenza” lo Stato della regressione sociale e del manganello si è rapidamente sviluppato. Il neoliberismo (o fascismo) padronale ne approfitta per “spezzare” qualsiasi movimento di rivendicazione sociale, facendo arrestare tutti i contestatari in nome della sicurezza, e trasferire nei tribunali, non proprio come “terroristi”, perché nessuno ci crederebbe veramente, ma quasi, e comunque persone da ritenere “pericolose”. Centinaia di liceali sono stati arrestati, “rinfrescati” e rimessi in libertà provvisoria. Altri sono ancora agli arresti. Nel frattempo sono aumentate le violenze della polizia, tanto da far protestare ufficialmente la CGT. Rimane il concetto che manganellare liceali in manifestazioni pacifiche è la dimostrazione del “timore” e della malafede dello stato. A meno di pensare a “educarli”, come diceva bene l’ex presidente Cossiga.
In realtà, più che le manifestazioni e gli scontri, che tengono accesi la lotta e l’informazione, il fenomeno “nuovo” è il ritorno all’occupazione delle piazze. A Parigi, in particolare, e carica di significati, è quella della République. Stessa piazza occupata in altre città importanti della Francia. Dove tutte le notti si radunano migliaia di persone, studenti compresi, allo slogan “Nuit debout” (notte in piedi). Ogni notte i giovani cantano, ballano e discutono sui diritti e sulla situazione economica. Vengono sgomberati al mattino dalla polizia, ma sembra più un balletto, perché tutti tornano la notte seguente. Dura da 51 giorni. Sappiatelo, perché tanto le televisioni padronali, Rai compresa, non ve lo diranno.
Cosa fanno? Discutono di tutto, anzi si organizzano in gruppi di lavoro “popolari”, con nozioni semplici e precise sui diritti inviolabili, non solo sociali, contro lo strapotere delle banche e per la ridistribuzione della ricchezza prodotta nel paese. Vogliono il rispetto dei diritti, giustizia sociale ed eguaglianza. Insomma la storia ritorna sempre con la loro bussola di Liberté, Egalité, Fraternité, (anche se rimpiazzata da: Equité, solidarité, dignité), da Place de la République a Place de la Bastille. Dove gli universitari, dopo aver bloccato alcune università di Parigi, ballano ritmicamente su “tre passi a destra, tre passi indietro, è la politica del governo”. “Abbiamo una sinistra che merita un destro!” Ma guarda! Forse i giovani iniziano a muoversi per prendere in mano il loro destino, oggi così insicuro. Quelli francesi vogliono reagire, non vogliono cedere, asettizzati, come hanno fatto la grande maggioranza dei giovani degli altri paesi del Sud Europa. Sembrano voler rilanciare lo slogan di Stephane Hessel, “Indignatevi”. Momentaneamente queste manifestazioni sono sostenute solo dalla CGT, sindacato notoriamente “comunista” e anti liberista, in nome della libertà di espressione. Sono sostenute anche dalla Lega dei Diritti Umani, che ha chiesto allo stato di intervenire approntando almeno box-wc.
Questione filosofica? E se in queste piazze si stesse fabbricando, anche se in maniera balbuziente, una concezione della politica più degna e quotidiana, lontana dalla deriva arbitraria di regimi partitici diventati pretesa unica di democrazia? Se fosse un dispositivo pratico e sicuro per rilanciare l’immaginario politico-ideale di una società, anche squisitamente europea e umanistica, che invece sta scivolando sempre più in un fango oligarchico e nelle mani di una destra fascistoide?
L’inizio di questi “assembramenti” di piazza ha coinciso con una protesta immensa contro la legge di riforma del mercato del lavoro in Francia. Spesso si pensa che fatta la manifestazione, poi, non succede mai nulla. Invece proprio dal lavoro è ripartita la discussione democratica e la continuità della lotta. Nelle piazze di tutta la Francia.
La risposta, tutta politica, del padronato francese è di stampo marchionniano: sospendere tutte le trattative di rinnovo contrattuale con i sindacati e i lavoratori. Tanto gli amici al governo regalano loro, democraticamente, le leggi per lo sfruttamento dei lavoratori nel mercato a senso unico del lavoro.

Quarto, Juncker, Etruria, Sindona ed il Bail In Cosa c’entrano uno con l’altro?

di Aldo Giannuli dal Blog di Aldo Giannul

Perché un consigliere del M5s avrebbe fatto pressioni sulla sindaca (parimenti del M5s) a proposito di alcune concessioni e/o appalti, e di un abuso edilizio per una mansarda, pressioni peraltro respinte dall’interessata. A questo sarebbero seguite imprecisate minacce e/o ricatti. Il ricatto riguarderebbe un abuso edilizio riguardante una mansarda di proprietà del marito della sindaca (mi adeguo alla vague femminista per cui bisogna declinare al femminile, ma è un orrore linguistico, sappiatelo) ora indagato. Non so a voi, a me non pare una notizia da prima pagina. D’accordo, la vicenda è tutta pasticciata, ma alla fine, stiamo parlando di pressioni per favori non ricevuti e di un abuso edilizio che è veramente piccola cosa. Certo: Quarto è un comune sciolto più volte per infiltrazioni camorristiche (come ce ne sono a centinaia) ed è giusto che ci sia un po’ più di attenzione, ma che tenga la prima pagina per dieci giorni, mi pare cosa un po’ sproporzionata: se vi prendete la briga di misurare in righe lo spazio dedicato, in questi 10 giorni, agli attentati di Istanbul, Dijakarta, Burkina Faso, alla crisi della borsa di Shanghai, allo scandalo Renault, a quello della Banca Etruria ed alla riforma costituzionale, noterete che si tratta più o meno dello stesso spazio e, tendenzialmente, un po’ meno.

Ed allora perché tanta attenzione? Certo lo scandalo tocca il M5s ed in particolare due fra i suoi massimi esponenti che non si capisce bene cosa avrebbero fatto di così grave, più che altro possono essere accusati di non aver gestito con sufficiente accortezza il caso, ma, al massimo possiamo parlare di un po’ di pasticcioneria, insomma: inezie dovute ad inesperienza. Certo, se a mettersi in Topless è una spogliarellista la cosa non fa notizia, ma se a farlo è la priora del convento di Santa Maria Goretti, la cosa è già più scabrosa e qui ci sono le elezioni di Roma che si avvicinano ed i sondaggi danno allarmanti segnali di popolarità del M5s e dei suoi esponenti. Per cui la cosa si spiegherebbe in questo modo.

Però… però, la cosa mi convince sino ad un certo punto: in fondo, la cosa sta avendo risultati molto contenuti, perché i sondaggi segnalano un calo dello 0,8% dei consensi al M5s. Certo: un italiano su due si dice convinto che il M5s sia come tutti gli altri partiti, però fra gli elettori del M5s la percentuale crolla al 6%. Insomma due terzi di quelli che non hanno mai votato 5 stelle pensano quello che probabilmente hanno sempre pensato, cioè che non sia migliore degli altri, perché altrimenti lo avrebbero votato. Non mi sembra un grande risultato per lo “scandalo del secolo”. Dunque, il tentativo sarebbe sostanzialmente fallito e se la storia continua sui giornali ancora per un paio di settimane, la gente si ammazza di sbadigli.

E, invece, no: il tentativo sta riuscendo, ma non perché sortirà particolari effetti elettorali sul M5s, ma semplicemente perché il suo obiettivo principale è un altro: costringere sulla difensiva il M5s e creare un diversivo. L’obiettivo vero è il diversivo mentre si sta avvicinando una ondata di scandali bancari molto pesante che creerà più di una tempesta politica.

Il M5s è costretto a difendersi dalle accuse (possono essere le più strampalate, non ha importanza) e con ciò stesso alimenta la polemica mentre altri diversivi si preparano: il licenziamento dei “furbetti del cartellino” con le prevedibili reazioni della Cgil, il referendum di ottobre per il quale iniziamo a parlare da adesso, la polemica con la Ue sui migranti (mentre i nodi veri della lite con Juncker sono altri).

Perché sono convinto che siamo alla vigilia di una tempesta bancaria? In parte perchè già ci sono casi come quello dell’Etruria che è tutt’altro che chiuso, ma anche quello di Vicenza di cui si parla poco, ma vedrete che musica verrà fuori, e poi la popolare delle Marche ecc., ma soprattutto perché ci sono le premesse per un’ondata molto più seria e queste premesse si chiamano Bail-in. Per spiegarci dobbiamo fare un salto indietro nel tempo.

La Costituzione ha un articolo solitamente poco studiato (se non dagli specialisti), l’art 47:

<>

Questa norma, in sé giustissima, ancorché un po’ astratta, ebbe una interpretazione assai disinvolta che permetteva i salvataggi bancari. Il meccanismo era questo: quando una banca era sull’orlo del fallimento (e quindi, con questo si sarebbero bruciati i depositi dei risparmiatori), la Banca d’Italia ed il Tesoro intervenivano erogando una quantità di denaro più o meno pari al “buco” ed all’1% di interesse (in genere a banche terze, che lo giravano all’interessata) che giungeva alla banca in difficoltà che lo investiva subito in titoli di Stato al 12-15% di interesse. Per cui, lucrando sulla differenza fra interessi passivi ed interessi attivi, entro un anno la banca “restituiva” il prestito e ripianava il suo buco. Ovviamente, a pagare era Pantalore, cioè il contribuente che pagava per gli interessi sul debito pubblico. Insomma, si salvavano i ladri, ma, in qualche modo, si salvava anche il risparmio della gente.

Poi la cosa venne fuori, ma in modo frammentario, con il caso Sindona, per il quale, dopo si venne a sapere, fu fatto un decreto ad hoc. Il “decreto Sindona”, appunto, venne pubblicato sulla “Gazzetta Ufficiale” in un numero unico, stampato in una sola copia e non distribuito (bhe, in fondo, la legge dice che i decreti devono essere pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale, ma non aggiunge quante copie debbano essere tirate della Gazzetta, vi pare?). E il meccanismo si fece un po’ più complicato ed oscuro (a proposito: quando si parla di Segreto di Stato, tutti pensano ai servizi segreti ed a dicasteri come Esteri, Interni e difesa, ma nessuno pensa al Tesoro che sarebbe una gran bella scoperta, in questo senso).

Insomma, la cosa è andata avanti per un bel po’ di tempo, sinché la Ue non ha emanato la direttiva sul Bail-in (ce ne occuperemo in dettaglio prossimamente) che proibisce i salvataggi bancari con denaro pubblico.

Per questo, quando Renzi se ne è uscito con il “salvabanche” (anche di questo diremo) Bce e Ue sono andate fuori dei gangheri e hanno risposto seccamente che non se ne parla nemmeno, perché, appunto, i salvataggi non sono ammessi neppure indirettamente, sotto forma di contributo all’indennizzo dei creditori. E il vero scontro con la Commissione e la Bce è questo, poi, migranti, Schengen, la flessibilità ecc, sono contorno, ma la bistecca è questa. Renzi, peraltro, sa perfettamente che senza il paracadute di Stato, ci sono molte banche (a cominciare da quelle citate) che se la vedono proprio brutta (ad esempio non saremmo ottimisti neppure per il Monte dei Paschi, altra banca toscana). In teoria, per queste evenienze, occorrerebbe fare un fondo di garanzia interbancario sottoscritto da tutte le banche, ma, dopo i chiari di luna dell’ultimo decennio, quanto liquido hanno in cassa le banche per questo fondo? Siamo sicuri che gli eventuali soccorritori siano più di quelli che hanno bisogno di essere soccorsi? E di che entità è la voragine che sta per aprirsi? Quante probabilità ci sono che “cavalieri bianchi” e somari scuri finiscano tutti nello stesso sprofondo? Anche perché tutti hanno in pancia titoli di tutti, per cui la quota del fondo si sommerebbe all’effetto domino. Sai che allegria.

Ed è ovvio che tutto questo non può essersi formato senza la copertura di:

-Banca d’Italia

-Consob

-Ragioneria dello Stato e Corte dei conti (per il tempo precedente)

-soprattutto Ministero del Tesoro.

Se qui scoppia lo scandalo, viene giù tutto e questo è stato precisamente il senso della proposta di legge Pd per la commissione di inchiesta parlamentare che tirava in ballo il quindicennio precedente, proposta che non serviva a fare la Commissione (che infatti non verrà fuori) ma a lanciare un avvertimento.

E di avvisi qui ne arrivano molti: Carboni si preoccupa di dire, adesso, che lui Pierluigi Boschi lo vedeva eccome, e per suggerirgli le nomine da fare nell’Etruria (ma perché Boschi doveva consultare Carboni per la sua banca?) e la cosa serve a ricordare a Boschi ed a chi sta dietro di lui, che non si possono “mollare” gli amici. Juncker, da parte sua, fa una intemerata a Renzi mai vista (mai successo, neanche con Berlusconi, che un presidente di Commissione trattasse a quel modo un capo di governo). Renzi, da parte sua, dà una risposta decisamente sopra le righe e con non pochi sottintesi. Interviene Scalfari sulla Repubblica del 17 us, che, dopo aver definito oscuri i motivi del contrasto fra Roma e Bruxelles, rispolvera il cadavere del federalismo europeo per accusare Renzi del reato di scarso europeismo, anzi addirittura di “confederalismo anti federalista” e di nazionalismo (hoibò!!) e lancia qualche rapido avvertimento sul referendum di ottobre.

Insomma qui volano le scarpe in faccia. Dobbiamo riconoscere che Renzi è abilissimo nelle manovre di “fumo di guerra”: in attesa che si trovi una qualche quadra ai problemi bancari prima che salti in aria tutto, ecco il caso Quarto, il decreto sul licenziamento in 48 ore dei dipendenti pubblici che truffano sul cartellino (vedrete: non se ne farà nulla), la polemica su Schengen eccetera e vedrete che ne tirerà fuori altre dal cilindro. Però la situazione è decisamente difficile, anche perché le borse cedono e le nubi sul cielo finanziario sono sempre più nere.

Altro che Quarto!

DOPPIOCIECO

Per una Razionalità Moderatamente Pluralista