Eurozona, con l’austerity ci rimettono i Paesi in difficoltà. Altro che Unione monetaria

Di Riccardo Realfonzo da ilfattoquotidiano

Presento di seguito, con alcune note esplicative, le slides della mia conferenza tenuta al convegno dell’associazione Asimmetrie Euro, mercati, democrazia 2018, svoltosi a Montesilvano l’11 novembre 2018.

1. La crisi dell’eurozona

L’Unione monetaria europea si presenta oggi come un’unione incompleta. Abbiamo una moneta unica, ma non una banca centrale che funzioni da prestatore di ultima istanza (garantendo sempre l’acquisto di titoli del debito pubblico e quindi assicurando l’impossibilità del default degli Stati dell’Unione). Inoltre, non abbiamo un bilancio significativo dell’Unione, né una politica fiscale unitaria e dotata di strumenti di debito dell’Unione (es: eurobond) e di meccanismi redistributivi che riparino i Paesi aderenti dagli shock che li colpiscono in modo asimmetrico. Si tratta di scelte politiche che hanno avuto come conseguenza la forte dinamica degli spread tra i rendimenti dei titoli del debito pubblico e che hanno accentuato i processi spontanei di divergenza che portano lo sviluppo a concentrarsi in alcune aree di Europa.

Gli squilibri interni all’Eurozona risultano sempre più gravi, e la preoccupante previsione formulata dal “monito degli economisti” (pubblicato nel 2013 dal Financial Times e da economiaepolitica.it) risulta sempre più attuale.

L’impetuosa dinamica dei processi di divergenza in Europa, che rende i Paesi sempre più diversi tra loro e conferma che l’Unione monetaria non costituisce un’area valutaria ottimale (nella quale i benefici dell’adesione alla moneta unica superano i costi), risultano confermati dall’osservazione della dinamica del coefficiente di variazione del tasso di crescita del Pil pro capite: i Paesi crescono a ritmi che divergono sempre più.

2. Gli effetti dell’austerità

Dopo la crisi scoppiata tra le fine del 2007 e il 2008, i Paesi europei che al momento dell’unificazione avevano fondamentali di finanza pubblica più deboli e condizioni di ritardo competitivo sono stati costretti dai Trattati a praticare severe politiche di austerità, tagliando la spesa pubblica e aumentando la pressione fiscale (consolidamenti fiscali). Secondo la letteratura più liberista e la stessa Commissione europea, queste politiche di austerità potevano risultare espansive. Si riteneva, infatti, che gli aumenti della spesa pubblica sul Pil (il cosiddetto moltiplicatore della politica fiscale) fossero negativi (o comunque prossimi allo zero). Pertanto, i tagli della spesa avrebbero aumentato la crescita (o comunque non l’avrebbero frenata). Questa teoria dell’”austerità espansiva” è stata subito criticata dagli economisti keynesiani, anche in numerosi lavori pubblicati da economiaepolitica.it. Secondo gli economisti keynesiani il moltiplicatore è positivo e maggiore di uno. Pertanto, le politiche di austerità non possono che avere un impatto fortemente recessivo.

Effettivamente, le politiche di austerità hanno determinato effetti recessivi intensi nei Paesi che le hanno praticate, come si osserva ponendo pari a 100 il valore del Pil di tutti i Paesi nel 2007. La divergenza esplode. L’Italia è ancora lontana dal recuperare il valore della ricchezza prodotta annualmente nel 2007, mentre di contro la Germania è cresciuta negli ultimi dieci anni di circa il 12%.

Le politiche di austerità non sono nemmeno riuscite nell’intento principale che si erano poste: risanare le finanze pubbliche, come si osserva guardando al dato relativo ai Piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna). La riduzione del Pil conseguente all’austerità, anche a causa della riduzione della raccolta fiscale, ha peggiorato ampiamente il rapporto debito/Pil.

La dinamica dei processi di divergenza e le conseguenze delle politiche di austerità si possono apprezzare anche sul piano occupazionale. In Italia l’occupazione non è ancora tornata al livello del 2007 (nonostante il forte peggioramento della qualità dell’occupazione e la ben maggiore possibilità di ricorrere a contratti di lavoro a termine), mentre contemporaneamente in Germania il numero complessivo di occupati è cresciuto quasi del 10%.

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*Riccardo Realfonzo è professore ordinario all’Università del Sannio, direttore di economiaepolitica.it e coordinatore della Consulta economica FIOM-CGIL

Le Pillole economiche di Tonino D’Orazio

Tonino D’Orazio, 23 luglio 2018.

Gli Stati uniti vogliono “dividere” la Francia e la Germania sulle questioni commerciali, cita AFP (Agence France Presse). E’ il commento del ministro francese di Economia e Finanze, Bruno Le Maire, che si considera ormai essere in un contesto di “guerra commerciale” iniziata e quindi chiama l’Unione a “fare blocco”. “Perché ciò che vogliono i nostri partner (Ancora? Anche in guerra?) o i nostri avversari (però !) è dividerci”. “Se ci sarà un altro aumento dei dazi la nostra reazione dovrà essere forte e unitaria per fare capire che l’Unione è una potenza forte e sovrana e che reagiremo collettivamente”. “Non possiamo capire che tra alleati, tra i due popoli, sia dichiarata una guerra commerciale …”. Si può credere minimamente a una reazione forte e collettiva dell’Unione? Il problema? La Germania. La Merkel ha appena dichiarato essere pronta a rispondere a una proposta settoriale fatta ai costruttori tedeschi, e trattare direttamente con Washington per il suo settore macchine.
Insomma se la “guerra commerciale” è iniziata, possiamo dire che è iniziata anche la disunione europea e la sua ulteriore disgregazione. L’Unione è basata su banche, finanza, commercio drogato (Ceta, Ttip ..) o servilmente in deroga, allora, se gli “affari” vanno male, cosa sperare? Un probabile ognuno per sé? Diventa chiaro che la Germania non ha alcuna visione europeista (e la Francia solo a parole perché potrebbe rimanere sola) e che l’Unione rimane uno strumento di dominio pacifico e commerciale del vecchio continente, finché serve. Quindi, nessun avvenire per questo vasto campo di rovina, sociale e umana, che molti continuano a invocare con “più Europa”. A Lisbona abbiamo sbagliato strada e amici e siamo finiti in un cul-de-sac. Non è più sufficiente negarlo.

La Cina detiene il 72% del “debito” del Kenia. I Cinesi colonizzano l’Africa economicamente “senza vergogna”. Ve lo dice, offeso, il Fondo Monetario Internazionale (FMI). A febbraio, appena Moody’s (Agenzia di rating americana), ha degradato il Kenia, il FMI ha rifiutato un prestito di 1,5 miliardi di dollari (1,3 di euro) per non aver rispettato i tagli degli obiettivi budgetari previsti. Per “il prestito” rimane solo la Cina che, in fondo, ricatta come gli altri. Tutto avviene sullo sfondo di scandali di corruzione generalizzata dei membri governativi locali accusati (quotidiano keniano Nation), di aver sottratto milioni di euro dalle casse pubbliche. La corruzione endemica e generalizzata agli alti vertici politici e istituzionali riduce sempre più la capacità di sviluppo del continente africano. Diciamo che i “coloni” cambiano ma le cause permangono. Diventa normale allora il “giro politico” di visite di questi giorni del presidente cinese Xi Jinping in vari paesi africani, soprattutto quelli in polemica con il FMI, per firmare accordi bilaterali.
Il prezzo del petrolio potrebbe salire anche fino a 150$/barile entro il 2020, così come già successo nella crisi del 2008, e, scrive l’agenzia Blomberg, raggiungere i 100$ già nel 2019. La richiesta eccessiva sul mercato del petrolio e la riduzione delle spese d’investimento producono un mixing esplosivo. La quantità di produttori di petrolio importanti è sceso del 30% in rapporto all’anno 2000. Bisogna aggiungere che soltanto la popolazione asiatica aumenterà progressivamente di più di un miliardo di individui nei prossimi 20 anni, con uno stimolo al consumo (benzina, kerosene, gas, plastica …), impressionante. Chiaramente, se l’offerta delle disponibilità di petrolio diminuirà, (crisi venezuelana, embargo iraniano, accordo OPEP per riduzione, malgrado l’aumento di produzione in giugno dell’Arabia Saudita e la riapertura dei terminali petroliferi libici …), vi sarà un rialzo traumatico dei prezzi per parecchie economie, se non tutte, e sicuramente in Europa. Il prezzo del petrolio, visto l’impatto che avrà nelle strategie di dominio del mondo, sotto l’impatto della de mondializzazione americana, per cui diventa “volatile” il prezzo del prodotto energetico base mondiale, vedono già affrontarsi tre grandi potenze: Cina, Stati uniti e Russia.
Accordo commerciale UE-Giappone di libero scambio. Ci risiamo e forse non ha niente di storico. Diciamo politico per innervosire Trump. Sarebbe un libero-scambio interessante se parlassimo di merci giapponesi prodotte in Giappone. In questo caso i costi giapponesi sono quasi identici ai costi europei. Purtroppo molti prodotti giapponesi, come i nostri, sono fabbricati … in Cina. Sembra quindi solo un modo di aggirare le barriere doganali e mantenere ideologicamente il concetto di “mondializzazione”. Contro un’America e un Trump “demondializzanti”. Da considerare che i due blocchi economici, UE e Giappone, rappresentano il 30% del PIL mondiale. Il Giappone cancellerà i dazi su 94% delle merci in provenienza dall’UE, compresi i prodotti alimentari (formaggi, vini e suini). La UE cancellerà il 99% su quelle importate dal Giappone, soprattutto le auto e l’elettronica. Il tutto inizierà fra 6 e 8 anni, (!! Finita l’eventuale presidenza Trump?). In verità l’applicazione dovrebbe valere nel 2024 per il Giappone e il 2026 per la UE. Dov’è il trucco e perché dare due anni di vantaggio al Giappone conoscendo il loro patriottismo economico? L’accordo sarà ratificato l’anno prossimo a marzo, dopo l’uscita della Gran Bretagna e a condizione del voto europeo all’unanimità, Italia compresa. Mah!
Trump, su Twitter, si è appena scandalizzato della multa di 4 miliardi di dollari, inflitta dalla UE per abuso di potere, alla società monopolistica americana Google. “Ve l’avevo detto! L’Unione Europea ha appena imposto una multa di 5 miliardi a uno dei nostri gruppi più formidabili, Google. Stanno proprio approfittando di noi, ma non durerà ancora molto!”. Visto che siamo in “guerra” sarebbe interessante fare una cronologia e un conteggio delle multe inflitte ai produttori europei dai tribunali americani in tanti anni sin dal dopoguerra. Ovviamente non a contrastare, ma a ammorbidire la situazione generale, il tycon mandiamo il nostro massimo rappresentante Junkers. Non si parla di reciprocità perché bisogna capire che Trump non si rivolge agli europei ma al suo popolo sovranista americano, un po’ alla Salvini. E’ in campagna elettorale e i sondaggi sono in ascesa. Attacca addirittura la sua Fed (Banca Centrale) perché con l’aumento dei tassi di interesse rende il dollaro “troppo forte” e quindi le merci americane meno competitive.
Giovedì 19, “Bruxelles ha chiamato i paesi dell’Unione a intensificare la loro preparazione a tutti gli scenari possibili per il Brexit, compreso quello di una rottura brutale con Londra, sempre più paventata di fronte alle incessanti turbolenze politiche che rendono fragile il governo britannico e la stessa leadership della May” (Agenzia AFP). Brexit duro? Così come propugnato e consigliato da Trump per i propri interessi? Ho qualche dubbio, primo perché non conviene a nessuno, secondo perché le lobby internazionali sono pronte ad influenzarlo a proprio favore, terzo, in caso di elezioni anticipate (solo se la May fosse in minoranza nella Camera dei Comuni), il problema ritornerebbe ai due schieramenti principali, visto che in ognuno ci sono i deputati pro e quelli contro. Solo Salvini non ha capito (col suo sovranismo del “ognuno a casa sua”), che in Gran Bretagna vi sono 350.000 lavoratori comunitari italiani che rischiano, in maggioranza giovani, tra cui molti, questa volta, partiti dal nord del paese.

Le pillole economiche di Tonino D’Orazio

di Tonino D’Orazio
 
1230 treni merci sono partiti per l’Europa, dal 2016, dalla capitale cinese della regione autonoma del Xinjiang, Urumqi. Solo quest’anno ne sono già partiti 384, in aumento del 92%. Sono treni merci con più di 50 vagoni e stanno già creando problemi al trasporto marittimo da e per l’Europa poiché liberano grandi quantità di merci sulle linee marittime. E’ già iniziato, via ferrovia, il progetto della “Nuova via della Seta”, con conseguenze reali per la politica d’indipendenza cinese visto che passando su terra, ferrovia e … Russia si copre da un eventuale blocco americano. L’Europa è il più grande mercato per la Cina. Ad oggi, il centro trasporti di Urumqi ha inaugurato ferrovie per 24 grandi città di 17 paesi d’Europa e Asia centrale. (Agenzia Xinhua)
La dedollarizzazione continua. Gli investimenti cinesi in Russia aumentano costantemente ed è una tendenza geometrica perché la Cina ha interesse a sviluppare commercialmente e politicamente questo immenso continente “euroasiatico” dove risiede la maggior parte della popolazione e delle ricchezze mondiali, in modo da marginalizzare sempre più il continente nord-americano. Da non dimenticare che in America centrale, la costruzione strategica del canale cinese concorrente di quello di Panama avanza anche se con molte difficoltà. Non dovremo stupirci di una eventuale rivoluzione arancione in Nicaragua con un po’ di morti. Durante la 22° edizione del Forum Economico Internazionale di S. Pietroburgo (fine maggio corrente), e secondo il rapporto di EY (Ernst&Young), nel 2017, gli stranieri hanno investito in Russia 238 nuovi progetti (+16%), e per la prima volta la Cina ha superato la Germania (quella delle sanzioni …).
Italia-Europa. (AFP). Per accedere al potere è stato chiesto da Mattarella, cioè dalla troika di Bruxelles e in modo garibaldino, al M5S e alla Lega di confermare l’appartenenza dell’Italia alla zona euro. Che ci vuole? L’euro sarà irreversibile, ma tutte le persone serie sanno che non funziona proprio. Tanto che diranno sì all’euro e poi spenderanno 10 volte più di quello che guadagnano. Attività che non ha mai posto veramente problemi, sia a noi, sia ai francesi e sia agli spagnoli. Finirà che saranno proprio i tedeschi a ridarci la libertà, a noi e a qualcun altro, non senza qualche invettiva.
In Francia, (solo?). Penurie e rischi. I Cinesi stanno acquistando per il loro paese tutto il burro possibile lasciando i francesi in grande difficoltà. Per questo prodotto alimentare di base anche i Brasiliani stanno racimolando il possibile in Francia e Germania. Penuria di latte in polvere. I Cinesi hanno istallato parecchie fabbriche per spedire il latte in polvere ai loro bebé in patria. Si può aggiungere una penuria anche del vino rosé vista la stragrande quantità spedita in Cina. Meno male che da noi (fatto salvo il cerasuolo abruzzese) questo vino non è così pregiato, prodotto e consumato. Penuria di terre agricole. Oltre agli acquisti fenomenali di terre africane e sud americane, (anche Canada e Australia), i cinesi riescono ad acquisirle anche in Francia, acquistando il 99,9% delle grandi imprese agricole. Le esportazioni di querce francesi verso la Cina sono aumentate del 35% e le segherie rischiano di non avere più querce a disposizione. In Francia ve ne sono 550 e impiegano circa 26.000 persone. Ah, la mondializzazione! In Francia gran parte dei parquet in quercia francese sono fabbricati in Cina. La furbizia mondiale sta nell’acquisto di beni immobili con il dollaro carta straccia che posseggono. Il protezionismo è una brutta parola sia in entrata sia in uscita, ma i Cinesi, per esempio per le loro “terre rare”, utilizzano una quota massima in uscita. Per esempio.
Il Libano e la Russia (ma anche la Turchia) hanno deciso di utilizzare le rispettive monete negli scambi commerciali dei loro paesi, anche se le quotazioni di riferimento rimangono fissate sul dollaro, perché l’euro purtroppo non è stabile, oltre al fatto che il suo valore, e le sue variazioni, lo decidono di volta in volta le banche americane, a secondo dei loro interessi. E’ una storia che sta diventando ricorrente. Più gli Usa allargano le loro sanzioni cosiddette extraterritoriali (negando l’utilizzo del dollaro), più i paesi che possono commerciare tra loro senza il dollaro lo fanno. Il problema sta diventando identico per i paesi europei in merito alle “sanzioni” decise dagli americani secondo i loro interessi o dei loro amici. Vedi, e vedrai, l’Iran. (Sputnik News 6/6/2018). L’UE utilizzerà l’euro o il rublo?
Spagna. Maggioranza di governo alle donne. Bene. Ma se si deve continuare le politiche di austerità della troika di Bruxelles, non significa proprio nulla. Una politica negativa governata al maschile o al femminile rimane una politica negativa. La ministra dell’economia e delle finanze è stata inviata direttamente dalla Commissione di Bruxelles. Una volpe della troika a controllo del pollaio. Economista e avvocato, Nadia Calviño, è diventata ministra dopo aver lavorato per 8 anni al servizio della Commissione Europea e dal 2014, con la funzione di Direttrice generale dei bilanci, con l’incarico della programmazione dei bilanci, l’elaborazione dei bilanci annuali contabili e finanziari. Nulla di politico, qui si fanno solo conti. Evidentemente i mercati non sono panicati con questo cambio di governo, e si capisce, ma solo per le ripercussioni della questione italiana. Nulla di nuovo dalla Spagna socialista, ovviamente non per la giusta immagine e sicuramente competenza delle donne, almeno fino alle prossime elezioni per il Parlamento europeo.
La Svezia mobilita 22.000 riservisti per il giorno della festa nazionale. Che succede? La Svezia è un paese che da due secoli non è mai stato invaso. Le manovre, dopo quarant’anni, impegneranno 40 battaglioni su tutto il territorio, in appoggio all’esercito di professione. La società svedese si sta velocemente rimilitarizzando. I dirigenti svedesi citano continuamente la Russia per giustificare l’ammodernamento del riarmo, il ristabilimento del servizio militare e il dispiego recente di un reggimento sull’isola di Gotland, avamposto svedese sul mare Baltico. Il governo svedese, di destra, ha stampato 5 milioni di libretti di 20 pagine “In caso di crisi o di guerra”, dove si spiega alla popolazione le minacce possibili: guerra, attentati, cyber attacchi, incidenti gravi, catastrofe naturali e tutte le altre precauzioni da prender per prepararvisi e tenersi pronti, cioè cosa conservare (stock), dove trovare rifugio ecc … (AFP, 6 giugno)
OPA (Offerta Pubblica d’Acquisto) di China Three Gorges sul gruppo EDP (Energias de Portugal). Il Consiglio di amministrazione del gruppo ha chiesto ai suoi azionari di non vendere le loro azioni, ritenendo l’offerta troppo bassa e sottovalutata. L’offerta, per 9 miliardi di euro, porta anche sulla efficientissima e prosperosa filiale per le energie rinnovabili EDP Renovaveis. Il gruppo portoghese ha spiegato che il prezzo dell’offerta non riflette in maniera adeguata il valore dell’azione e il prezzo è troppo basso, “tenuto conto della pratica perseguita nel mercato europeo dei servizi di utilità pubblica”. (AFP. 9 giugno). E’ il veleno nella coda. Perché un cittadino possessore di azioni EDP, in un libero mercato mondiale sostenuto dall’ideologia rampante delle privatizzazioni dei servizi pubblici indispensabili, ora non dovrebbe fare soldi e speculare con le sue azioni? Se si pensa che sia di utilità pubblica si rimetta il gruppo nelle mani dei beni comuni indispensabili gestiti dallo Stato.

Se questo è un ministro dell’economia…


 

di Leonardo Mazzei da sinistrainrete.info

L’invocazione del direttore del Sole 24 Ore al fantasmatico ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan

padoan 8.1Che nei piani alti del potere economico vi fosse una certa maretta si sapeva. Adesso però le acque si fanno agitate, e dalla maretta sembra che si stia per passare ai marosi.
Il 30 dicembre scorso il direttore del quotidiano di Confindustria, Roberto Napoletano, ha deciso di mandare di traverso il cenone di San Silvestro di Pier Carlo Padoan. Dopo averlo ospitato, due giorni prima, nell’accogliente sede del giornale per un’intervista di ben 3 pagine, Napoletano ha deciso di dirla tutta: se veramente esistete (come governo), se davvero esisti (come ministro dell’Economia) cosa aspetti (e/o aspettate) a darcene prova?
Prima di dedicarci al merito del grido d’allarme di Napoletano, facciamo un passo indietro per dare uno sguardo all’intervista di Padoan. Tre pagine abbiamo detto, ma tre pagine di assoluta banalità. Gli altri media che se ne sono occupati hanno messo in rilievo il riferimento del ministro all’«opacità» della decisione della Bce su Mps. Sai che coraggio!
Il bello, poi, è che questa denuncia di opacità è preceduta da mille rassicurazioni sul fatto che il governo italiano nulla farà per reagire all’affronto subito. All’intervistatore che gli chiede se vi sia intenzione di contestare formalmente la richiesta di ricapitalizzazione giunta da Francoforte, così inizia la risposta di Padoan:

«La richiesta di 8,8 miliardi per l’aumento di capitale di Monte dei Paschi è una decisione votata dal board della vigilanza della Bce, anche se a maggioranza e non all’unanimità, e come tale non è contestabile perché la vigilanza è un’autorità indipendente».

Avete capito? La «Vigilanza» è un’autorità «indipendente», ed il Supervisory board decide a piacimento, in maniera «indipendente» perfino dai vertici della Bce, figuriamoci da quelli dell’UE, per non parlare dei governi nazionali! Ora, se davvero così fosse, non sarebbe questa la riprova dell’assoluta antidemocraticità delle istituzioni di un’Unione messa in mano ad una tecnocrazia che nessuno controlla? Ma così non è. Le cose infatti sono messe ancora peggio. Questa tecnocrazia esiste, ma a qualcuno risponde, come dimostra l’assoluta assonanza delle sue decisioni – nel caso prettamente politiche, come abbiamo già scritto – con i padroni tedeschi dell’Europa.
In quanto allo spessore mostrato da Padoan, citiamo altre due affermazioni da incorniciare. Alla contestazione del ritardo con il quale si è deciso di nazionalizzare Mps, così risponde:

«Non sono affatto pentito di aver sostenuto, nel rispetto dei ruoli di tutti, l’operazione di mercato, che sarebbe stata l’opzione migliore e avrebbe avuto effetti positivi, evitando i problemi che invece vanno gestiti adesso».

Insomma: mercato! mercato! mercato! Ma con quale faccia? E’ proprio vero che «ad andar con gli zoppi si impara a zoppicare», ed a forza di sentire le balle di Renzi costui ha finito per crederci. Ma perché l’«operazione di mercato» è fallita? Questo il ministro non ce lo dice. Ci dice anzi che dalle parti di Siena tutto va bene, Madama la Marchesa. Leggere per credere questa seconda affermazione di Padoan:

«Vorrei cogliere questa occasione per ringraziare il management del Monte dei Paschi che ha fatto un gran lavoro. La banca è in ottime condizioni e avrà grande successo».

Roba da far strabuzzare gli occhi, e dalle parti di Confindustria devono aver fatto due conti sulla carta e l’inchiostro sprecato nell’occasione.
Ecco allora il deciso editoriale di Roberto Napoletano, cortese nella forma col ministro, quanto fermo nella richiesta di un’azione che evidentemente si valuta non ci sia. Ovviamente quest’azione non c’è, semplicemente perché non può esservi senza la messa in discussione della gabbia europea. Su questo, ovviamente, anche il direttore del Sole tace. Tuttavia, gli argomenti che egli tocca mettono in luce come nel campo dei dominanti – al di là della solita retorica europeista e mercatista – vi sia ormai la vera percezione della posta in gioco.
Passiamo dunque a quanto scritto da Napoletano.
L’incipit è folgorante:

«Le sofferenze sono diventate lo stigma del banking europeo e dietro di esse ci sono le chiavi di potere di un club della finanza internazionale dove tedeschi e francesi comandano, gli spagnoli si “aggiustano”, e gli italiani pagano il conto di tutti».

L’accusa non è nuova, ed è più che fondata: l’asse carolingio che comanda in Europa concentra tutte le sue attenzioni sulle sofferenze (e dunque sull’Italia), mentre chiude entrambi gli occhi sui titoli potenzialmente tossici in pancia alle banche francesi e tedesche, non solo allo scopo di proteggere queste ultime, ma anche con il fine ultimo di fargli mettere le mani sulle banche italiane, all’uopo indebolite ben bene dalla sistematica azione delle istituzioni di Bruxelles e Francoforte.
Insomma, come andiamo dicendo da tempo, c’è del metodo nella follia europea.
Napoletano questo lo dice con chiarezza. E, certamente memore del gran numero di acquisizioni francesi in Italia di questi ultimi tempi, non si limita alle sole banche:

«Questa è l’Europa che la politica italiana non può più accettare perché alla fine di tale circolo vizioso lo scenario più probabile è che le banche francesi si comprino quelle italiane, finanzino, ben pagando, l’acquisto del Made in Italy e, magari, mobilitando unitariamente il sistema francese, fatto di credito, compagnie assicurative, tecnocrati e politica, arrivino a stringere il collo anche alle Generali».

Ed ancora: «

Francesi, tedeschi, spagnoli non possono dare lezioni a nessuno, ed è troppo comodo (oltre che immorale) fare in modo che il mondo si occupi solo di noi, si deprezzi il patrimonio finanziario e industriale italiano e, per questa via, fare sì che i “padroni” del club europeo ci comprino a prezzi di saldo».

Lo scenario descritto dal direttore del quotidiano di Confindustria è quello di cui abbiamo parlato tante volte. E sapevamo che quando si sarebbe trattato anche dei loro soldi e dei loro beni, dunque non più soltanto del valore delle pensioni e di quello dei salari, dell’occupazione e dello stato sociale, pure lorsignori avrebbero avuto qualcosa da ridire.
Bene, siamo arrivati a questo punto. Il che, detto di passaggio, ci dimostra quanto i tempi del redde rationem si siano fatti ormai molto stretti.  
Stretti da richiedere una sorta di implorazione.

«Lo ascolto (Padoan, ndr) e penso che dice cose che hanno fondamento ma mi domando che cosa aspetta a prendere l’iniziativa politica per rimettere in discussione un sistema europeo di sostenibilità del business bancario e di vigilanza fondato su basi malferme…».

Così inizia l’invocazione di Napoletano. Ma più avanti la sua supplica diventa avvertimento:

«Gentiloni e Padoan sono avvertiti, lascino che il Parlamento si occupi di fare qualcosa che assomigli a una legge elettorale, ma se vogliono dare una ragione vera di esistenza al loro governo si occupino della questione bancaria europea e dimostrino di contare qualcosa dove si prendono le decisioni».

Il tono è di chi è avvezzo a dare ordini. Il fatto è che il duo Gentiloni-Padoan ha anche altri padroni a cui obbedire. Facendo di nuovo un passo indietro all’intervista di Padoan, significativo è questo scambio: «C’è troppa Francia in Italia?», chiede Napoletano. Risposta illuminante del ministro: «Non so se c’è troppa Francia, forse non c’è ancora abbastanza Italia nel mondo». Insomma, alla concretezza del primo, il secondo risponde con una piatta riproposizione dell’ideologia globalista alla quale però non sembrano più credere in molti.
Ma Napoletano non si limita ad avvisare il governo. Il suo avvertimento è rivolto anche ai partiti, Quantomeno quelli tradizionali. Un tema che merita un’ultima citazione:

«I partiti, quelli tradizionali, continuano ad occuparsi di distribuzione del potere, ma non si accorgono che quel potere è diventato un guscio vuoto, lottano tra di loro ma non avranno nulla in mano e perdono il contatto con l’anima popolare del Paese e il disagio sociale che lo attraversa. Non si occupano del rischio di essere tutti travolti dal “superpotere” tedesco o da quello francese altrettanto presente ma più mimetizzato, e si avviano a fare la fine dei capponi di Renzo di manzoniana memoria che si beccavano tra di loro invece di pensare a salvarsi dalla padella…».  

Che dire? Dalle parti di Confindustria almeno certe fotografie le sanno fare come si deve. La descrizione dei partiti come organismi che si occupano ormai soltanto di una sorta di sotto-potere sottostante ai veri padroni, quelli dell’asse carolingio, gli è venuta proprio bene. Peccato che, sempre da quelle parti, lorsignori abbiano a lungo lavorato (per tre decenni, potremmo dire) proprio all’obiettivo di ridurre la politica a mera governance, sottoposta ai dogmi dell’economia ed al  primato del mercato. Cioè, detto in altri termini, proprio agli interessi dei datori di lavoro di  Roberto Napoletano.
Di nuovo l’eterogenesi dei fini! Hanno tanto lavorato alla distruzione dei partiti e della politica (correttamente intesa), che oggi che hanno raggiunto quel risultato tornerebbero – magari solo “temporaneamente”, come la “nazionalizzazione” di Mps – volentieri indietro!
Vedremo a breve quali effetti sortirà la supplica di fine anno di cui ci siamo occupati. Alla capacità di questo governo di far fronte ai padroni europei ci crediamo come a Babbo Natale. Anzi, quest’ultimo ci sembra tutto sommato più credibile. Più interessante, semmai, cercare di capire quali altre strade verranno allora studiate nei piani alti del potere economico di cui abbiamo parlato all’inizio di questo articolo.
Quel che è certo è che i temi che mettiamo ormai da tanto tempo al centro dei nostri ragionamenti – la gabbia europea e quella della moneta unica, gli interessi che la guidano, l’impossibilità per il nostro Paese di venir fuori dalla crisi senza uscire da queste gabbie, la necessità di riconquistare la sovranità nazionale anche per non finire sbranati dagli interessi di altre nazioni – trovano una plateale conferma nella trattazione di Napoletano. Trattazione fatta dal versante opposto al nostro, ma proprio per questo interessante. Perché dimostra come la maschera ideologica globalista stia adesso cadendo come uno straccio ormai diventato inservibile anche per lorsignori.
I quali, beninteso, non smettono per un secondo di pensare ai loro sporchi affari, sia quando dicono che i mercati globali sono tutto, sia quando si ricordano di essere italiani. Ma il fatto che oggi qualcuno di loro cominci a prender atto della questione nazionale ci dice pur sempre qualcosa.
Sul punto concludo con quanto scritto da Mimmo Porcaro in un articolo che abbiamo pubblicato ieri. Porcaro, dopo aver affermato che oggi «la politica ricomincia dalla nazione», chiarisce assai bene cosa significa per noi – a differenza delle classi dominanti – il concetto di interesse nazionale. Leggiamo:

«E’ la definizione di un interesse nazionale (che le nostre classi dominanti non a caso non sanno definire, e che per noi coincide con l’interesse delle classi subalterne) a imporci di rompere con l’Unione e a guidarci nella costruzione di nuove relazioni internazionali. Che il 2017 ci dia il coraggio di cominciare ad essere nazione».

E’ proprio l’interesse delle classi subalterne, il bisogno di uscire dall’attuale quadro di oppressione, che richiede ora questo salto di qualità. Ora, non quando sarà troppo tardi.

L’uscita dall’euro non è un tema da “oracoli”

di Nadia Garbellini da economiaepolitica

 
La controversia sulla possibile implosione dell’attuale eurozona e sulle conseguenze di un abbandono della moneta unica risulta tuttora pervasa da un diffuso dogmatismo. I fautori dell’uscita dall’euro sono accusati di semplificare il problema e di restare volutamente nell’ambiguità per non affrontare la questione decisiva inerente a quale politica economica adottare e quali interessi sociali difendere una volta fuori dall’Unione. In alcuni casi si tratta di una critica assolutamente fondata. Tuttavia, è soprattutto tra i sostenitori della permanenza nell’euro che sembra prevalere una retorica banalizzatrice, che in alcune circostanze rasenta la superstizione. Molti di questi, infatti, continuano ad agitare lo spauracchio della catastrofe economica in caso di uscita dall’euro senza prendersi la briga di fornire la minima evidenza scientifica a sostegno delle loro predizioni. Questa tendenza all’oracolismo caratterizza non solo i giornalisti ma sembra diffondersi anche tra alcuni economisti e policymakers coinvolti nella discussione. Un celebre esempio è fornito dal Presidente della BCE Mario Draghi, che in un’intervista del 2011 sostenne che «i paesi che lasciano l’eurozona e svalutano il cambio creano una grande inflazione» (Draghi 2011). Da queste poche parole diversi commentatori hanno tratto l’implicazione che uscire dall’eurozona determinerebbe una violenta caduta del potere d’acquisto dei redditi fissi, in particolare dei salari dei lavoratori. Nessuno, per quel che ci risulta, si è posto il problema di verificarle empiricamente.

In due studi realizzati con Emiliano Brancaccio e pubblicati sulla Rivista di Politica Economica e sullo European Journal of Economics and Economic Policies, abbiamo cercato di affrontare il tema dei possibili effetti di un’uscita dall’euro alla luce delle evidenze storiche disponibili. Basate su una statistica descrittiva e un’analisi inferenziale di un campione di 28 episodi di uscita da regimi di cambio fisso tra il 1980 e il 2013, le nostre ricerche si sono soffermate sulle ripercussioni di tali eventi su tre variabili: l’inflazione, i salari reali e le quote di reddito nazionale spettante ai lavoratori (Brancaccio e Garbellini 2014; 2015). Più di recente, da una applicazione di quella metodologia è scaturito il contributo di Realfonzo e Viscione (2015) i quali hanno esteso l’analisi ad altre variabili macroeconomiche, tra cui le esportazioni nette, la crescita del Pil e l’occupazione. La conclusione di Realfonzo e Viscione è la seguente: “ […] a meno di un auspicabile cambiamento in senso espansivo e redistributivo delle politiche europee, l’uscita dall’euro potrebbe essere la soluzione scelta da alcuni paesi in un futuro non lontano. E ciò potrebbe anche rianimare l’economia. Ma non è sufficiente un ritorno alla sovranità monetaria e alle manovre di cambio per cancellare, come d’incanto, i problemi legati alle inadeguatezze degli apparati produttivi o alla sottodotazione di infrastrutture materiali e immateriali. La lezione più importante che possiamo trarre dall’esperienza storica è che i risultati in termini di crescita, distribuzione e occupazione dipendono […] più che dall’abbandono del vecchio sistema di cambio in sé, dalla qualità delle politiche economiche che si varano una volta tornati in possesso delle leve monetarie e fiscali”. Tali considerazioni hanno dato avvio a un interessante dibattito su questa rivista. Alcune delle repliche a Realfonzo e Viscione, però, sembrano avere eluso lo sforzo dei due autori, che condividiamo, di legare ogni giudizio sull’euro a precisi riferimenti analitici. In questo senso tali repliche rischiano anch’esse di assecondare una retorica di tipo “oracolistico”. A valle della discussione può dunque essere utile tornare sul terreno della ricerca, approfondendo ulteriormente alcuni aspetti salienti dei due studi la cui metodologia ha ispirato il recente contributo di Realfonzo e Viscione.
Provo innanzitutto a riassumere i risultati chiave dei nostri due lavori. In primo luogo, guardando i paesi ad alto reddito procapite, abbiamo rilevato che gli episodi di abbandono di regimi di cambio fisso sono associati a una crescita dell’inflazione di poco superiore a due punti percentuali nell’anno dell’uscita dal regime di cambio, e addirittura a una riduzione dell’inflazione nei cinque anni successivi all’uscita rispetto ai cinque anni precedenti. Siamo giunti così alla conclusione che, per quanto riguarda i paesi ad alto reddito, il pericolo di una «grande inflazione» evocato da Draghi non trova riscontri storici adeguati. In secondo luogo, dalla parte inferenziale dei nostri studi è emerso che pure in presenza di aumenti dell’inflazione contenuti e temporanei, le uscite da regimi di cambio fisso risultano correlate in media a riduzioni non trascurabili dei salari reali e della quota di reddito nazionale spettante ai salari. D’altro canto, abbiamo fatto notare che si tratta di riduzioni non troppo diverse da quelle che già si stanno registrando dentro l’eurozona nei paesi maggiormente colpiti dalla crisi. In terzo luogo, al di là degli andamenti medi, abbiamo segnalato che la dinamica dei salari reali e della quota di reddito spettante al lavoro è caratterizzata da un’alta variabilità tra paesi. In particolare, l’impatto sulle due variabili sembra cambiare molto a seconda dei diversi indirizzi di politica economica con cui i vari paesi affrontano l’abbandono dei cambi fissi: controlli sui movimenti di capitale, nazionalizzazioni e maggiori protezioni del lavoro potrebbero in questo senso essere associate a una sostanziale tenuta delle retribuzioni reali e delle quote salari, e talvolta addirittura a loro aumenti. L’importanza dei diversi modi in cui l’uscita viene gestita risulta confermata anche dall’analisi di Realfonzo e Viscione sugli andamenti della bilancia commerciale, del prodotto e degli occupati.
A quanto pare, dunque, le evidenze disponibili da un lato indicano che l’abbandono di un regime di cambio solleva svariati problemi, ma dall’altro segnalano che lo si può affrontare governando le variabili macroeconomiche, in particolare salvaguardando le retribuzioni dei lavoratori. E’ interessante notare che la letteratura mainstream non esclude questa eventualità ma tende ad associarla a un andamento negativo della produzione e dell’occupazione. Basti citare gli studi di Eichengreen e Sachs (1984) e di Fallon e Lucas (2002), dai quali emerge la tesi secondo cui l’abbandono di un cambio fisso e la conseguente svalutazione possono favorire la ripresa economica solo nella misura in cui siano accompagnati da una riduzione dei salari reali. Considerazioni simili sono state recentemente avanzate anche da altri economisti impegnati nel dibattito sull’euro, tra cui Michele Boldrin. Tali conclusioni vengono tuttavia criticate nel secondo dei due papers che abbiamo pubblicato: applicando la tecnica di Eichengreen e Sachs al nostro campione di episodi abbiamo rilevato che, dopo l’abbandono del cambio fisso, se una relazione tra salario reale e produzione esiste, essa non è affatto negativa ma al limite è positiva (vedi figura 1).

Figura 1 – Salario reale e indice di produzione industriale a seguito di crisi valutarie

Fonte: Brancaccio e Garbellini (2015)
E’ opportuno chiarire che le tecniche adoperate nei nostri studi non necessitano di alcuna ipotesi teorica del tipo “ceteris paribus”; esse pertanto non sono soggette alla critica che Paolo Guerrieri ha rivolto a quelle indagini sugli effetti dell’uscita dall’euro basate su una logica di “equilibrio parziale” (Guerrieri 2015). Una critica diretta alla nostra metodologia è invece provenuta da Angelo Baglioni dell’Università Cattolica, che in un dibattito televisivo  ha sostenuto che le passate esperienze di crisi dei regimi di cambio fisso non costituiscono un valido punto di riferimento per indagare sulle conseguenze che deriverebbero da un evento assolutamente eccezionale come l’uscita dall’euro. In particolare, Baglioni ha affermato che l’eventuale abbandono dell’euro da parte di un paese darebbe inizio a una sequenza di uscite a catena anche di altri paesi, determinando così effetti sistemici impossibili da prevedere sulla base delle evidenze passate. Questa tesi è stata in parte ripresa anche da Mauro Gallegati, con argomenti robusti e per più di un verso condivisibili (Gallegati 2015). Nel complesso, tuttavia, essa non può essere accolta. La rilevanza della storia passata nell’esame di possibili eventi futuri non va mai esagerata ma rinunciarvi completamente significherebbe rinchiudersi nello spazio fondamentale ma insufficiente della pura analisi teorica, senza alcun supporto proveniente dall’indagine empirica. Del resto, la stessa idea di Baglioni secondo cui l’uscita dall’euro provocherebbe abbandoni a catena della moneta unica e quindi costituirebbe per questo un evento eccezionale, è contestabile alla luce della stessa evidenza storica: uscite da regimi di cambio fisso che abbiano provocato tracolli valutari a catena si sono più volte verificate in passato, al punto da caratterizzare quella che in letteratura va sotto il nome di “terza generazione” di modelli sulle crisi valutarie.
Ovviamente, laddove gli “oracoli” possono agevolmente spaziare nella totalità dello scibile umano, la ricerca scientifica procede sempre a piccoli passi e su obiettivi circoscritti. In questo senso bisogna riconoscere che le nostre analisi gettano luce solo su alcune delle possibili conseguenze di un’uscita dall’Unione monetaria europea. Esse potranno quindi non soddisfare chi, come Salvatore Biasco, oggi sembra insistere sul convincimento che i principali effetti negativi di un abbandono dell’euro deriverebbero da una grave crisi sui mercati finanziari (Biasco 2015). Il problema è che queste, come altre obiezioni, non potranno mai essere valutate sul piano analitico se rimangono a un livello meramente narrativo. Più pregnante, a questo proposito, mi sembra il contributo di chi in questi mesi ha preso spunto da un modello del Levy Economics Institute per sostenere che anche le ripercussioni finanziarie di una eventuale uscita dall’euro dipenderebbero principalmente dalla capacità o meno di controllare i conti verso l’estero. La Grecia, da questo punto di vista, sembra trovarsi in una situazione di relativa difficoltà (Brancaccio e Zezza 2015). E l’Italia? Ecco una domanda alla quale sarebbe utile rispondere, possibilmente su robuste basi analitiche.
In definitiva, le evidenze di cui disponiamo sollevano una questione essenziale che viene troppo spesso trascurata sia dai nemici dell’euro che dai suoi apologeti e che è stata invece sottolineata dal “monito degli economisti” pubblicato sul Financial Times nel 2013: l’abbandono della moneta unica porrebbe i decisori politici di fronte a una scelta cruciale tra varie possibili modalità di gestione dell’uscita, ognuna delle quali avrebbe ripercussioni diverse sulle diverse classi sociali (AA.VV. 2013). E’ opportuno notare, a questo proposito, che in Italia e altrove le piattaforme politiche espressamente avverse all’euro si stanno sempre più intrecciando a proposte palesemente reazionarie, come la flat tax o la guerra agli immigrati. Gli interessi di classe che queste piattaforme intendono rappresentare sono in parte diversi da quelli che attualmente dominano la scena politica europea, ma non c’è nessun motivo logico per sperare che sarebbero maggiormente in sintonia con le istanze dei lavoratori e delle fasce più deboli della società. Anzi, è possibile che tali soluzioni reazionarie trovino a un certo punto una sintesi con quelle oggi prevalenti, in un accrocco perverso tra liberismo e xenofobia che è stato giustamente definito “gattopardesco”. Se la crisi europea dovesse intensificarsi, c’è motivo di ritenere che tali posizioni finirebbero per rafforzarsi. Se così andasse, un pezzettino di responsabilità ricadrebbe anche su quegli “oracoli” che pur di difendere la moneta unica hanno abbandonato il difficile campo della riflessione analitica preferendo quello ben più comodo del dogmatismo.


*Università di Bergamo

Bibliografia
AA.VV. (2013), The Economists’ Warning: European governments repeat mistakes of the Treaty of Versailles, Financial Times, 23 september. Sito web: www.theeconomistswarning.com.
Biasco, S. (2015). Euroexit, la domanda chiave è: cosa succederebbe ai mercati finanziari?, economiaepolitica.it, 9 febbraio.
Brancaccio, E., Garbellini N. (2014). Sugli effetti salariali e distributivi delle crisi dei regimi di cambio. Rivista di Politica Economica, luglio-settembre.
Brancaccio, E., Garbellini, N. (2015). Currency regime crises, real wages, functional income distribution and production. European Journal of Economics and Economic Policies: Intervention, 2.
Brancaccio, E., Zezza, G. (2015), La Grecia può uscire dall’euro?, Il Mattino, 2 febbraio.
Draghi, M. (2011), FT Interview Transcript, Financial Times, edited by  Lionel Barber and Ralph Atkins, 18 December.
Eichengreen, B., Sachs, J. (1984). Exchange rates and economic recovery in the 1930s, NBER Working Paper Series, National Bureau of Economic Research, 1498.
Fallon, P.R., Lucas, R.E. (2002). The impact of financial crises on labor markets, household incomes, and poverty: a review of evidence, The World Bank Research Observer, 17, 1, p. 21-45.
Gallegati, M. (2015). Europa politica o fine dell’euro, economiaepolitica.it, 10 marzo.
Guerrieri, P. (2015). Uscire dall’euro non conviene all’Italia e all’Europa, economiaepolitica.it, 20 aprile.
Realfonzo, R., Viscione A. (2015). Gli effetti di un’uscita dall’euro su crescita, occupazione e salari, economiaepolitica.it,22 gennaio.
 
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