Non chiamatela crisi: è una guerra

da eunews


[di Thomas Fazi] Le post-democrazie odierne sono il risultato di un processo quarantennale di ridimensionamento della sovranità popolare e del movimento operaio che in Europa ha trovato la sua applicazione più radicale.

La crisi – economica, politica, sociale e istituzionale – che stanno vivendo le democrazie occidentali, in particolar modo quelle europee, non inizia nel 2008, e neppure nei primi anni duemila, con l’introduzione dell’euro, come recita la vulgata. È una crisi che ha origini molto più lontane, che risalgono almeno alla metà degli anni Settanta. È a quel punto che il cosiddetto modello keynesiano, che aveva dominato le economie occidentali fin dal dopoguerra, entra in crisi. Come sappiamo, si trattava di un modello basato su una forte presenza dello Stato nell’economia (per mezzo di politiche industriali, sostegno agli investimenti e alla domanda eccetera), un welfare molto sviluppato, politiche del lavoro tese verso la piena occupazione e la crescita dei salari (più o meno in linea con la crescita della produttività) e l’istituzionalizzazione dei sindacati e della concertazione come strumento di mediazione tra gli interessi dei lavoratori e quelli delle imprese.
A livello internazionale si basava su un regime di cambi fissi (il cosiddetto “regime di Bretton Woods”) – sistema che ruotava sostanzialmente intorno al dollaro come valuta di riserva internazionale, convertibile in oro a un tasso di cambio fisso – e su un ferreo controllo dei movimenti di capitale. In base alla maggior parte dei criteri economici e sociali, il periodo keynesiano – che non a caso è noto come il “trentennio glorioso” – può essere definito un successo, avendo garantito per diversi decenni crescita economica sostenuta, piena occupazione (o quasi), salari e profitti crescenti, estensioni di diritti sociali ed economici a un numero di cittadini senza precedenti nella storia, e stabilità economico-finanziaria a livello internazionale. Allo stesso tempo, però, come rilevò Joan Robinson, fu anche un periodo caratterizzato dal mito del produttivismo e della crescita sfrenata, da uno sfruttamento del lavoro senza precedenti, dall’inizio della crisi ambientale (di cui oggi subiamo le conseguenze) e da un keynesismo “realmente esistente” che – con poche eccezioni – si guardò bene dal passare dal livello della produzione (quanto viene prodotto) al contenuto della stessa (cosa viene prodotto e con quali finalità). Scriveva Robinson nel 1972: «Ora che siamo tutti d’accordo che la spesa pubblica può mantenere l’occupazione… ci siamo dimenticati di cambiare quesito, e discutere a che serve l’occupazione».[1] A tal proposito, quando parliamo delle magnifiche sorti e progressive del keynesismo, val sempre la pena ricordare che esse riguardarono unicamente i paesi del “centro” dell’economia capitalistica; l’esperienza dei paesi “periferici” fu assai diversa, caratterizzata da guerre, povertà estrema, colpi di Stato e nefandezze di ogni sorta, spesso ad opera proprio dei paesi del centro, Stati Uniti in primis (basti pensare al Sud-Est asiatico o al Medio Oriente).[2]
Perché, dunque, il modello keynesiano entra in crisi negli anni Settanta? Le ragioni sono molteplici: economiche, politiche, strutturali. Dal punto di vista economico, l’alta inflazione che caratterizzò quegli anni ma soprattutto le lotte sindacali per il salario e per il miglioramento delle condizioni di lavoro avevano cominciato ad esercitare una crescente pressione sulle rendite e sui profitti. L’Italia è un caso esemplare: il ciclo di lotte che si aprì nell’autunno del 1969 e che proseguì, più o meno ininterrottamente, sino al 1973, fu senza eguali per intensità e durata dell’opposizione. Questo determinò, in tutti i paesi avanzati, una riduzione senza precedenti nella storia dei redditi e dei patrimoni dell’1 per cento più ricco della società (ossia di quella che potremmo chiamare la classe dominante).
Questo causò una crescente insofferenza da parte delle classi elevate nei confronti del modello keynesiano: diversi documenti, riservati e non, cominciarono a parlare apertamente della necessità di una reazione da parte dell’establishment capitalistico, onde evitare di vedere annichilito il proprio potere economico e politico (si pensi per esempio al “memorandum” di Lewis Powell del 1971, in cui l’allora giudice della Corte Suprema statunitense invitava i capitalisti americani ad assumere un atteggiamento «molto più aggressivo» in difesa del sistema della libera impresa). Reazione che, come vedremo, si manifesterà poi in quella che i due economisti francesi Gérard Duménil e Dominique Lévy hanno definito la «controrivoluzione neoliberista».[3]
Sarebbe riduttivo, però, vedere la crisi del modello keynesiano semplicemente nei termini di un processo politico di “restaurazione” – per così dire “soggettivamente determinato” – da parte delle classi dominanti; né si può ridurre tale crisi a una semplice conseguenza dell’offensiva ideologica sferrata, a partire dalla fine degli anni Sessanta, dall’«intellettuale collettivo» neoliberista, come sosteneva Luciano Gallino.[4] È importante comprendere, anche ai fini dell’analisi delle possibili vie d’uscita dalla crisi attuale, che il sistema keynesiano/socialdemocratico in quegli anni cominciò a mostrare dei limiti strutturali oggettivi: esso si basava, infatti, su un “compromesso di classe” imperniato intorno all’idea che una crescita stabile dei salari poteva coniugarsi con una crescita stabile dei profitti, e anzi ne era il presupposto necessario (secondo l’assioma keynesiano secondo cui i profitti dipendono in primo luogo dalla domanda aggregata).[5] E per qualche decennio così è stato. Negli anni Settanta, però, le basi di questo compromesso cominciarono a venire meno, a causa di diversi fattori: l’aumento del prezzo delle materie prime, la crescente concorrenza tra potenze capitalistiche (in seguito alla re-industrializzazione di Europa e Giappone), il rallentamento della produttività eccetera, ma soprattutto, come detto, il diffondersi di richieste sindacali sempre più radicali.
Come ricorda Riccardo Bellofiore, economista all’Università di Bergamo: «Le lotte nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro non si limitavano alla richiesta di maggiore salario, orari più corti, minore pressione sul lavoro. Ad essere messi in questione erano l’insieme del comando padronale sulla  produzione, le forme dell’organizzazione del lavoro e della struttura tecnica della produzione, la stessa “disciplina di fabbrica”».[6] Tutto ciò minava alle fondamenta il processo di accumulazione capitalistica. In tal senso, la reazione dei capitalisti fu comprensibile: la loro partecipazione al compromesso di classe keynesiano si basava una serie di condizioni (in primis, ovviamente, la possibilità dell’accumulazione capitalistica); nel momento in cui tali condizioni vennero meno, venne meno anche il loro sostegno al compromesso keynesiano.
Una soluzione consensuale al conflitto distributivo capitale-lavoro che si venne a determinare in quegli anni era semplicemente impossibile; per dirla in parole povere, esso non poteva che risolversi a favore dell’una o dell’altra parte: a favore del capitale (per mezzo di una riduzione dei salari e più in generale del potere dei sindacati) o a favore dei lavoratori, per mezzo di quella graduale “socializzazione degli investimenti” – finalizzata a sottrarre una parte cospicua dell’investimento alla logica del profitto, all’interno di una regolamentazione complessiva dell’investimento privato – che lo stesso Keynes indicava come unica soluzione alla naturale tendenza al ristagno del capitalismo sviluppato e come “via lenta” alla società ideale (postcapitalistica?) immaginata dall’economista britannico nel suo celebre saggio “Prospettive economiche per i nostri nipoti”, idea poi ripresa in chiave più radicale da Hyman Minsky negli anni Settanta.
Il problema è che buona parte della sinistra socialdemocratica e comunista o non capì ciò che stava avvenendo – diversi intellettuali della sinistra europea del dopoguerra videro nel keynesismo una forma embrionale di socialismo[7] piuttosto che un particolare regime di accumulazione capitalistica, quale effettivamente fu, e si ritrovarono dunque privi degli strumenti teorici necessari per capire la crisi capitalistica che investì il keynesismo, illudendosi di poter risolvere il conflitto distributivo nei limiti angusti del quadro socialdemocratico – o non ebbe il coraggio di mettere seriamente in discussione i “fondamentali” del sistema.
Il caso del Partito Comunista Italiano (PCI) è emblematico. Come scrive Sergio Cesaratto nel suo recente libro Sei lezioni di economia, il PCI era «costantemente ossessionato dall’esistenza di “interessi generali” (inter-classisti per così dire) che avrebbero reso ogni avanzamento operaio raniversivo per il sistema, e dunque a rischio di una reazione violenta del capitale… L’ala dominante del PCI riteneva le lotte operaie fondamentalmente incompatibili con la democrazia occidentale».[8] Una paura a ben vedere non del tutto infondata, se pensiamo alle enormi pressioni esercitate sull’Italia (come su altri paesi) affinché non uscisse dai binari del patto atlantico.
Il risultato – drammatico – fu che la sinistra europea, avendo accettato l’impossibilità di una svolta nella direzione di un “riformismo radicale”, nell’accezione minskyana del termine, finì di fatto per avallare ideologicamente e politicamente il neoliberismo come unica soluzione alla sopravvivenza del capitalismo. Non a caso in numerosi paesi la sinistra anticipò la destra nello smantellamento del modello keynesiano. Un esempio su tutti: il primo governo a dichiarare “morto” il keynesismo fu quello laburista inglese di James Callaghan, che nel 1976 – ben tre anni prima dell’elezione di Margaret Thatcher – giustificò nella seguente maniera la scelta di accettare un prestito molto oneroso da parte del Fondo monetario internazionale in cambio del quale il governo si impegnava ad implementare un rigido programma di austerità: «Il mondo confortevole che ci avevano detto sarebbe durato per sempre, dove la piena occupazione sarebbe stata garantita da un tratto di penna del Cancelliere, attraverso la riduzione delle tasse o la spesa in disavanzo, ecco: quel mondo accogliente se n’è andato per sempre…  Io vi dico in tutta franchezza che tale opzione non esiste più, e che nella misura in cui è mai esistita, ha avuto solo l’effetto di iniettare una dose maggiore di inflazione nell’economia».[9]
Un altro esempio clamoroso è ovviamente quello di François Mitterrand, che nel 1983 – due anni dopo essere stato eletto su una piattaforma esplicitamente socialista ed anticapitalista – fece inversione a U e adottò un drastico programma neoliberista di tagli alla spesa pubblica, privatizzazioni e compressione salariale. È interessante notare che sia Callaghan sia Mitterrand giustificarono la loro “svolta neoliberista” a grandi linee allo stesso modo: facendo appello alla logica del vincolo esterno. Ossia, affermando che la “logica inesorabile” della mondializzazione (in particolare la natura sempre più globale dei flussi finanziari) rendeva pressoché impossibile qualunque strategia economica nazionale (in particolare di carattere progressista/redistributivo), poiché in tal caso il governo in questione sarebbe immediatamente diventato oggetto di fughe di capitale, squilibri della bilancia dei pagamenti, attacchi speculativi da parte del capitale finanziario, e via dicendo.
In sostanza, buona parte della sinistra europea, tra la metà degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, giunse a considerare quel processo che oggi noi chiamiamo globalizzazione, e il contestuale svuotamento delle sovranità nazionali in campo economico, come un aspetto ineluttabile della modernità. Come dichiarò Mitterrand all’epoca: «La sovranità nazionale non significa più granché e non ha più molto spazio nell’economia mondiale moderna».[10] Come notano Albo Barba e Massimo Pivetti, però, sarebbe un errore pensare che la sinistra abbia semplicemente subìto l’accelerazione del processo di mondializzazione, e il cambiamento delle condizioni di potere e distributive, avvenuti in tutta Europa nel corso dell’ultimo trentennio; al contrario, la sinistra «ha in larga misura consapevolmente deciso e gestito» questa transizione, e il conseguente passaggio a una visione post-statuale e post-sovrana del mondo, spesso anticipando la destra su questi temi.[11]
Ma la crisi del modello keynesiano non riguardò solo la sfera economica e distributiva; essa investì appieno anche la sfera politico-istituzionale. La piena occupazione e il rafforzamento senza precedenti delle masse lavoratrici avevano infatti determinato una progressiva fusione del movimento operaio con blocchi sociali di altro tipo (studenti, femministe, minoranze eccetera), e una radicalizzazione delle rivendicazioni non solo in ambito lavorativo ma anche in ambito politico: gruppi sempre più numerosi di persone iniziarono a rivendicare non solo un ampliamento della democrazia ma addirittura un superamento dell’ordine capitalistico costituito. In un certo senso, si stava realizzando quello che il noto economista polacco Michal Kalecki aveva preconizzato negli anni Quaranta nel suo famoso saggio intitolato “Aspetti politici del pieno impiego”:

Il mantenimento del pieno impiego porterebbe a trasformazioni politiche e sociali che darebbero nuova forza all’opposizione dei “capitani d’industria”. Infatti, in un regime di continuo pieno impiego il licenziamento cesserebbe di agire come misura disciplinare. La posizione sociale del “principale” sarebbe scossa, si accrescerebbe la sicurezza di sé e la coscienza di classe dei lavoratori. Gli scioperi per un salario più alto e il miglioramento delle condizioni di lavoro sarebbero fonti di tensione politica. È vero che i profitti sarebbero più elevati in un regime di pieno impiego [e qui Kalecki si sbagliava]…  Ma la “disciplina nelle fabbriche” e la “stabilità politica” sono più importanti per i capitalisti dei profitti correnti.[12]

In sostanza, le classi politiche dell’epoca, vista la situazione, si trovarono di fronte ad un bivio: rischiare di alimentare il disordine attraverso una maggiore concessione di questi diritti, o restringere la concessione di tali diritti attraverso «una graduale riduzione del  ruolo biopolitico dei governi», e una conseguente trasformazione degli apparati pubblici da mediatori del conflitto di classe a “disciplinatori” delle classi subalterne.[13]
Tutto questo fu ulteriormente complicato dalla fine del sistema di cambi fissi di Bretton Woods, nel 1971. A quel punto, dopo una serie di tentativi fallimentari di resuscitare il vecchio regime di cambi fissi, si passò ad un sistema di “fluttuazione sporca”: sarebbe a dire, un sistema in cui i governi continuarono ad intervenire sul mercato dei cambi per sostenere le loro valute. La fine del regime di Bretton Woods fu di grande importanza anche perché inaugurò il passaggio da un regime monetario in cui la quantità di moneta che poteva essere emessa da uno Stato era limitata dalla quantità di riserve auree possedute dallo Stato in questione a un regime monetario cosiddetto “fiat” (dal latino «così sia») – tuttora in vigore – in cui le valute non sono più coperte da riserve di altri materiali (come l’oro) e dunque non hanno più un limite teorico di emissione. Se da un lato la fine dell’aggancio con l’oro e con il dollaro offriva teoricamente ai governi maggiore libertà nel gestire le politiche monetarie e fiscali, dall’altro, anche a causa della contestuale liberalizzazione dei movimenti di capitale, generò una notevole instabilità sul mercato dei cambi.
Tale instabilità fu ulteriormente esacerbata dalla crisi petrolifera del 1973, che fece schizzare alle stelle l’inflazione in tutti i paesi occidentali. Per le élite si rivelò una manna dal cielo: gli alti livelli di inflazione di quegli anni, infatti, e la concomitante stagnazione dell’attività produttiva – da cui il termine stagflazione – fornirono loro il pretesto ideale per sferrare il primo attacco decisivo al modello macroeconomico keynesiano, a cavallo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Fu un attacco che si dipanò su più fronti: sul fronte economico-distributivo si caratterizzò per una progressiva riduzione dei salari e più in generale del potere di contrattazione dei sindacati, operazione che politicamente fu “legittimata” da un lato addossando interamente ai sindacati (e all’“eccesiva” spesa pubblica) la responsabilità della spirale prezzi-salari (e minimizzando il contributo del rincaro dei prezzi delle materie prime e del petrolio alla spirale inflazionistica); dall’altro evocando ossessivamente il cosiddetto “vincolo esterno”, ossia l’idea che i salari eccessivi impedissero il necessario aggiustamento delle partite correnti dei paesi in deficit (come era per esempio l’Italia in quegli anni) e che tale aggiustamento passasse necessariamente per una riduzione del salario reale; solo così si sarebbe sconfitta l’inflazione e si sarebbe ottenuta nuovamente la piena occupazione.
Inutile dire che si trattava di un’interpretazione dei fatti estremamente ideologica e piuttosto infondata sul piano teorico ma che tuttavia ebbe una forte presa sulla società e sulle classi politiche e intellettuali dell’epoca, ivi incluse quelle di sinistra, che – ree anche la crisi della teoria economica neokeynesiana (che poco o nulla aveva a che vedere con le teorie originarie di Keynes) e l’emergere dell’ideologia monetarista, la quale affermava che l’unica maniera per rompere la spirale inflazionistica consisteva per lo Stato nel rinunciare all’obiettivo della piena occupazione e all’uso di politiche monetarie, fiscali e salariali finalizzate a tale scopo, lasciando che il mercato si adagiasse verso il “tasso naturale di disoccupazione” – marginalizzarono qualunque strategia di gestione eterodossa del vincolo esterno, come quella avanzata da Tony Benn nel Regno Unito, dalla sinistra del Partito Socialista in Francia e da economisti quali Federico Caffè in Italia.
A tal proposito, uno dei dibattiti più influenti ebbe luogo verso la fine degli anni Settanta proprio in Italia, e vide confrontarsi il futuro premio Nobel per l’economia Franco Modigliani – che proponeva la cancellazione del meccanismo di indicizzazione dei salari all’inflazione (conosciuto come “scala mobile”) e una riduzione generalizzata dei salari – e diversi economisti eterodossi vicini al PCI.[14] In quell’occasione il PCI, per mezzo del suo Centro Studi di Politica Economica (CESPE), finì per sposare in toto le tesi monetariste/neoliberiste di Modigliani. Come scrive lo storico Guido Liguori, a iniziare dagli anni Settanta parti importanti del partito «erano andate mutando molecolarmente la propria cultura politica e abbracciavano ormai punti di vista e culture politiche diverse. Erano divenuti parte (subalterna) di un diverso sistema egemonico».[15] Il risultato – scrive Francesco Cattabrini, autore di un ottimo studio sul tema – «fu di attribuire al costo del lavoro la principale responsabilità in termini di crescita dell’inflazione e compressione dei profitti, permettendo politiche di compressione del salario e di miglioramento della profittabilità».[16] Non sorprende che molti abbiano visto in questa svolta “economica” il primo passo verso la svolta “politica” che quindici anni dopo avrebbe portato alla morte del partito.[17]
Ovviamente questo processo di compressione salariale si intensificò poi – in Italia e altrove – negli anni ’80 Ottanta e Novanta con la globalizzazione dei processi di produzione (corso che, è bene ricordarlo, non fu “subìto” dagli Stati ma al contrario fu attivamente sostenuto da questi ultimi, proprio al fine di indebolire ulteriormente il potere contrattuale dei lavoratori). È sempre in questo periodo che si posero le basi per la crisi finanziaria del 2007-2009: la crescente erosione dei salari e del potere d’acquisto dei lavoratori in diversi paesi occidentali, infatti, fu “compensata” dall’aumento esponenziale dell’indebitamento privato, ossia da quello che alcuni hanno definito una paradossale forma di «keynesismo privatizzato».[18] In sostanza le banche hanno permesso ai lavoratori, tramite il credito/debito, di mantenere inalterati i loro livelli di consumo, nonostante la stagnazione salariale verificatasi dagli anni Settanta in poi. Questo è avvenuto in maniera particolarmente evidente negli USA ma anche in diversi paesi europei.
L’altro fronte della guerra al “contratto sociale” keynesiano fu quello politico-istituzionale: sostanzialmente fu attuato quello che un ormai celebre rapporto del 1973 intitolato The Crisis of Democracy, redatto dalla Trilateral Commission – uno dei think tank allora più influenti in ambito euro-atlantico – aveva indicato come soluzione alla “crisi della rappresentanza”. Soluzione che passava non solo attraverso la riduzione del potere sindacale, come già detto, ma anche attraverso una riduzione della partecipazione popolare alla vita politica. I due livelli – quello economico e quello politico – sono ovviamente strettamente collegati. Come scrive Alessandro Somma, professore di diritto all’Università degli Studi di Ferrara, infatti, è chiaro «come la restrizione del perimetro affidato alla democrazia sia una funzione dell’estensione di quello rivendicato, o meglio invaso, dal mercato… La politica, oltre alla democrazia, deve evaporare per lasciare spazio alla tecnocrazia, alla mera amministrazione di un esistente indiscutibile e immobile, come è l’orizzonte del mercato concorrenziale».[19]
Questo obiettivo fu raggiunto attraverso una progressiva “depoliticizzazione” del processo decisionale: ossia attraverso una separazione tra i meccanismi di rappresentanza popolare e le scelte di carattere macroeconomico, e una contestuale riduzione degli strumenti di intervento di carattere monetario e fiscale dei singoli Stati nazionali. In particolare, questo fu ottenuto: (a) riducendo sensibilmente il potere dei parlamenti rispetto a quello degli esecutivi (per esempio attraverso il passaggio da sistemi proporzionali a sistemi maggioritari) in nome di una non meglio definita governabilità; (b) recidendo il legame tra autorità monetarie e autorità politiche, attraverso l’istituzionalizzazione del principio dell’indipendenza della banca centrale, al fine (neanche troppo nascosto) di asservire gli Stati alla cosiddetta “disciplina dei mercati” (giacché, per dirla brevemente, uno Stato che non controlla la propria banca centrale non è in grado di controllare i tassi di interesse); nel caso dell’Italia, come è noto, questo avvenne col famoso “divorzio” tra Banca d’Italia e Tesoro del 1981;[20] (c) formalizzando il vincolo esterno attraverso la ri-adozione di cambi fissi (in Europa); (d) infine, onde evitare ulteriori contrapposizioni fra Stati portatori di istanze politiche differenti, trasferendo sempre più prerogative a istituzioni e organismi sovranazionali (come per esempio l’Organizzazione mondiale del commercio a livello internazionale). Tra le diverse finalità di questo processo di depoliticizzazione possiamo annoverare anche – e forse soprattutto – quella di offrire alle autorità politiche nazionali organismi o presunti “fattori oggettivi” – o vincoli esterni, appunto – su cui scaricare la responsabilità di scelte politiche impopolari, in primis la compressione salariale e lo smantellamento delle tutele del lavoro.
Di conseguenza i regimi di democrazia partecipativa nati dalle ceneri della seconda guerra mondiale hanno progressivamente lasciato il posto a regimi di democrazia deliberativa. La differenza tra i due è ben spiegata da Alessandro Somma: «La democrazia partecipativa, tipicamente intrecciata con la sovranità statuale, indica la possibilità degli individui di incidere sulle decisioni collettive: possibilità effettiva, assicurata dal funzionamento del principio di parità in senso sostanziale, che la Costituzione italiana reputa non a caso un presupposto fondamentale per “l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese” (art. 3). Diverso è il caso della democrazia deliberativa, che coinvolge tutti i potenziali interessati dalla decisione da assumere, i cosiddetti stakeholders, offrendo però loro solo la mera possibilità formale di prendere parte alle decisioni: senza considerazione per l’effettiva possibilità di incidere sul loro contenuto».[21]
L’Europa è ovviamente il continente in cui questo processo si è esplicitato in maniera più radicale. Come afferma Peter Mair in Governare il vuoto. La fine della democrazia dei partiti,[22] il ridimensionamento della democrazia popolare, condizione necessaria per il ridimensionamento del movimento operaio, può essere considerata la raison d’être di tutto l’esperimento europeo, il cui ultimo stadio inizia con la creazione del sistema di “cambi convergenti” del Sistema monetario europeo (SME), nel 1979, fino ad arrivare all’introduzione dell’euro nei primi anni 2000. L’Italia è la perfetta cartina di tornasole di questo processo. Come ha ricordato di recente Joseph Halevi, l’Italia fu il paese più danneggiato dall’adesione allo SME, che comportò una rivalutazione del tasso di cambio reale molto significativa, che ebbe tutta una serie di conseguenze estremamente deleterie per il paese: in primis, l’apparizione di un deficit estero strutturale.[23]
Alla luce di ciò, verrebbe da chiedersi perché i nostri dirigenti insistettero tanto per entrare nello SME. Una possibile spiegazione ce la fornisce nientedimeno che Giorgio Napolitano, che al tempo, in veste di deputato del PCI, capì bene che «la disciplina del nuovo meccanismo di cambio europeo» significava non accomodare più il conflitto distributivo e addossare alle richieste salariali la responsabilità della perdita di competitività del paese.[24] La creazione di un potente vincolo esterno, nella forma del cambio semi-fisso, avrebbe insomma facilitato una maggiore flessibilità verso il basso dei salari. E così è stato.
Questa chiave interpretativa è applicabile a tutte le successive fasi costituenti dell’Eurosistema: dall’Atto unico del 1986 – in cui furono formalizzate le fondamenta neoliberiste della costituzione economica europea, dalla libera circolazione dei capitali al divieto (de facto) delle politiche industriali, attraverso la normativa sugli aiuti di Stato – fino al Trattato di Maastricht del 1992, che fissò i termini cui subordinare la fase finale dell’unione monetaria, dall’indipendenza assoluta della Banca centrale europea dagli Stati nazionali, alla flessibilizzazione del lavoro, ai limiti al deficit e al debito pubblico. Limiti che sono stati successivamente inaspriti, prima col patto di stabilità e crescita del 1997 e poi col fiscal compact del 2012, che prevedeva addirittura l’integrazione di una norma sull’obbligo del pareggio/surplus di bilancio negli ordinamenti nazionali (o ancor meglio nelle Costituzioni) degli Stati membri.
È proprio sul fronte dell’integrazione economica e valutaria europea che la subalternità della sinistra al neoliberismo si è manifestata nella maniera più dirompente. Come è noto, il principale fautore dell’euro fu proprio un socialista francese, ex ministro del governo Mitterrand: Jacques Delors. E non poteva essere altrimenti: avendo rinunciato a combattere il capitale sul terreno nazionale, la sinistra – anche per continuare a giustificare la propria esistenza – introiettò l’idea che il cambiamento era possibile solo a livello continentale, europeo. Cambiamento che però non poteva che essere di facciata, avendo la sinistra accettato le prescrizioni neoliberiste come unica soluzione alla crisi del keynesismo.
La stessa chiave interpretativa permette infine di capire anche ciò che è successo in seguito al 2010, quando ad una crisi di domanda di portata enorme si è scelto di rispondere – in barba ai più elementari princìpi macroeconomici – con una “cura letale” a base di austerità fiscale, deflazione salariale e riforme strutturali, i cui devastanti effetti economici e sociali erano facilmente prevedibili (ed erano infatti stati ampiamente previsti e preannunciati). Secondo la chiave di lettura qui suggerita possiamo dunque ipotizzare che l’obiettivo principale di tali politiche non fosse (e non sia) realmente il “consolidamento fiscale” o una maggiore “competitività”, ma piuttosto il definitivo rovesciamento del compromesso keynesiano, portando così a compimento quel processo iniziato all’incirca quarant’anni fa.
Versione redatta di un articolo apparso sull’Almanacco di economia di Micromega del giugno 2017. 
Note
[1]           L’articolo di J. Robinson, “The Second Crisis of Economic Theory” (1972), è citato in R. Bellofiore, “La socializzazione degli investimenti: contro e oltre Keynes”, Alternative per il socialismo, marzo-aprile 2014; consultabile al seguente indirizzo: goo.gl/5wx46J.
[2]           Per una rassegna delle varie operazioni degli Stati Uniti all’estero dal dopoguerra in poi consiglio la lettura di W. Blum, Il libro nero degli Stati Uniti, Fazi Editore, Roma 2003.
[3]           G. Duménil e D. Lévy, “The Neoliberal (Counter-)Revolution”, in A. Saad-Filho e D. Johnston (a cura di), Neoliberalism: A Critical Reader, Pluto Press, Londra 2004, p. 12.
[4]           L. Gallino, “La lunga marcia dei neoliberali per governare il mondo”, la Repubblica, 27/7/2015.
[5]           Su questo punto si veda A. Przeworski e M. Wallerstein, “Democratic Capitalism at the Crossroads”, in A. Przeworski, Capitalism and Social Democracy, Cambridge University Press, Cambridge 1985; consultabile al seguente indirizzo: goo.gl/icoH68.
[6]           R. Bellofiore, “I lunghi anni Settanta. Crisi sociale e integrazione economica internazionale”, in L. Baldissara, Le radici della crisi. L’Italia tra gli anni Sessanta e Settanta, Carocci, Roma 2001.
[7]           Si pensi per esempio ad Anthony Crosland, membro del Partito Laburista britannico e autore nel 1956 del libro The Future of Socialism, in cui sosteneva che le economie avanzate erano di fatto entrate in una fase post-capitalista.
[8]           S. Cesaratto, Sei lezioni di economia. Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne), Imprimatur, Reggio Emilia 2016, p. 212.
[9]           Discorso tenuto alla conferenza nazionale del Partito Laburista del 28 settembre 1976 a Blackpool.
[10]          J. Ardagh, France in the New Century, Penguin, Londra 2000, pp. 687-688.
[11]          A. Barba e M. Pivetti, La scomparsa della sinistra in Europa, Imprimatur, Reggio Emilia 2016.
[12]          M. Kalecki, “Aspetti politici del pieno impiego”, Sulla dinamica dell’economia capitalistica. Saggi scelti 1933-1970, Einaudi, Torino 1975.
[13]          G. Bracci, “Un ‘no’ contro la post-democrazia”, Eunews, 10/12/2016, goo.gl/wAlrnn.
[14]          Si veda il paper di F. Cattabrini, “Franco Modigliani and the Italian Left-Wing: The Debate over Labor Cost (1975-1978)”, History of Economic Thought and Policy, n. 1/2012.
[15]          G. Liguori, La morte del PCI, manifestolibri, Roma 2009, p. 10.
[16]          F. Cattabrini, op. cit.
[17]          Tra questi Augusto Graziani, la cui critica alla posizione della corrente maggioritaria del PCI è ben ricostruita nel paper di E. Brancaccio e R. Realfonzo, “Conflittualismo versus compatibilismo”, Il pensiero economico italiano, n. 2/2008.
[18]          R. Bellofiore e J. Halevi, “La Grande Recessione e la Terza Crisi della Teoria Economica”, relazione al convegno “La crisi globale. Contributi alla critica della teoria e della politica economica”, svoltosi a Siena il 26-27 gennaio 2010; consultabile al seguente indirizzo: goo.gl/6PFQJm.
[19]          A. Somma, “Governare il vuoto? Neoliberismo e direzione tecnocratica della società”, MicroMega, 29/7/2016.
[20]          Il cosiddetto “divorzio” fra Tesoro e Banca d’Italia si consumò nel 1981, quando l’allora ministro Beniamino Andreatta, con una lettera indirizzata al Governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi, pose fine all’obbligo da parte della Banca d’Italia di garantire in asta il collocamento integrale dei titoli offerti dal Tesoro.
[21]          A. Somma, op. cit.
[22]          P. Mair, Governare il vuoto. La fine della democrazia dei partiti, Rubbettino, Soveria Mannelli 2016.
[23]          J. Halevi, “Europa e ‘mezzogiorni’”», PalermoGrad, 21/4/2016, consultabile al seguente indirizzo: goo.gl/TfHmJa.
[24]          Il discorso di G. Napolitano è consultabile al seguente indirizzo: goo.gl/ioaMJy. Nella stessa occasione, anche Luigi Spaventa, deputato indipendente eletto nelle liste del Pci, individuò con sorprendente lucidità i rischi derivanti dalla creazione del nuovo meccanismo di cambio: «Quest’area monetaria rischia oggi di configurarsi come un’area di bassa pressione e di deflazione, nella quale la stabilità del cambio viene perseguita a spese dello sviluppo dell’occupazione e del reddito. Infatti non sembra mutato l’obiettivo di fondo della politica economica tedesca: evitare il danno che potrebbe derivare alle esportazioni tedesche da ripetute rivalutazioni del solo marco, ma non accettare di promuovere uno sviluppo più rapido della domanda interna». L’intervento di L. Spaventa è consultabile al seguente indirizzo: goo.gl/CLHFL6.

"La sinistra non la si ricostruisce solo sul no-euro. Per questo basta Salvini". Intervista a Sergio Cesaratto

da controlacrisi


Sergio Cesaratto, economista, ordinario all’università di Siena, autore di Sei lezioni di economia – Conoscenze necessarie per capire la crisi (e come superarla), Imprimatur, 2016
Lo abbiamo intervistato per Controlacrisi.org in occasione del presentazione del suo libro tenutasi a fine novembre a Pisa a cura del municipio di beni comuni e dei delegati\lavoratori indipendenti
Nel 2012 hai scritto un libro con Massimo Pivetti dal titolo Oltre l’austerità. Ce ne vuoi parlare soffermandoti sui risultati di queste politiche in Italia e in Europa?
Nel 2012 il libro pubblicato on line da Micromega fu una prima testimonianza contro le politiche europee. Naturalmente tutto quello che scrivemmo lì si è avverato soprattutto nei riguardo degli anelli più deboli dell’eurozona, Grecia, Portogallo, Italia. Le cose vanno apparentemente meglio in Spagna al costo di una riforma del mercato del lavoro ancora più feroce di quella italiana in cambio della quale Madrid ha però ottenuto una certa tolleranza per i suoi disavanzi pubblici. Così da anni è concesso a quel Paese di sforare i parametri europei e ciò spiega la sua maggiore crescita. Sospettiamo anche che la finanza internazionale, la Deutsche Bank in primis, abbiano l’ordine di servizio di continuare a finanziare quel Paese così virtuoso. Ciò non è concesso all’Italia, che il capitale tedesco vuole schiacciare distruggendo la nostra industria. La devastazione che l’austerità europea sta imponendo al Paese è enorme. Il pericolo maggiore è l’assuefazione al degrado.

Sei lezioni di economia nascono da un colloquio immaginario con i tuoi studenti, quesiti che scaturiscono dai tuoi corsi universitari come nasce l’idea del libro e come si è sviluppata?
La lettrice (o lettore) immaginario non è necessariamente uno studente. I compagni si rivolgono a me in genere chiamandomi “professore”, e io credo questo sia molto importante. Non per una mera lusinga, ma perché è importante che gli accademici più sensibili siano in mezzo alla gente di buona volontà, e venga da tutti percepito che la conoscenza deve e può essere condivisa. In questo senso il libro ha voluto dimostrare che l’economia può essere compresa da tutti coloro che, al di là di titolo di studio e professione, leggano libri e si informino. Nulla è senza sforzo naturalmente! Il libro cerca di aiutare mostrando che esistono diverse teorie. La percezione delle differenze aiuta la comprensione. Sempre più mi sto ora convincendo, presentando il libro in giro, che il volume proprio perché parte dalle teorie – in relazione ai problemi politici che ci assillano – costituisce un’operazione quanto mai tempestiva nel cercare di ripiantare dei paletti di riferimento per una sinistra smarrita e politicamente ai limiti della scomparsa.

Può elaborare di più questo punto?
Sì. Con la scomparsa del socialismo reale e il transito verso il neoliberismo di gran parte del movimento socialdemocratico (incluso i DS-PD) la sinistra ha smesso di cercare una alternativa di lungo periodo al capitalismo, o anche di medio-termine attraverso un compromesso social-democratico. Ha nei fatti accettato che il mercato sia l’unico game in town. Il punto è che anche la quasi totalità di ciò che rimane della sinistra più radicale ha introiettato il liberismo. Le sue parole d’ordine sono il cosmopolitismo, l’irreversibilità della globalizzazione, la libertà di circolazione del lavoro, la scomparsa dello Stato nazionale come asse politico arrivando all’odio politico per lo Stato tout court in nome della libertà individuale. Questo è liberismo puro! Le radici di questo sono lontane. Storicamente sono due le correnti di pensiero cosmopolitiche: quella liberale e quella marxista. In pratica, tuttavia, il movimento operaio, specie nelle sue frange più sensibili agli avanzamenti concreti nelle condizioni di vita dei lavoratori, ha individuato la sua sfera d’azione nei confini della comunità nazionale, guidando anzi le lotte di liberazione nazionale. Senza naturalmente rinunciare a ideali universalistici, ma mai sacrificando il bene dei propri ceti popolari a ideali astratti. Ubriacata dal liberismo, la sinistra antagonista persegue oggi questi principi astratti. Che poi astratti non sono poiché la connivenza alla /(de facto) libera circolazione del lavoro ha devastato il nostro mercato del lavoro, e mina anche le relazioni sociali (il che vuol dire minare le relazioni di solidarietà alla base, ad esempio, dello Stato Sociale). Dobbiamo rimettere dei paletti.

Parti da un approccio classico-keynesiano in antitesi a quello marginalista o neoclassico che domina libri di testo e i discorsi ufficiali. Oggi ha senso essere keynesiani e qual è l’attualità di Keynes.
In effetti un’altra tragedia della sinistra italiana, a cominciare dal PCI è l’assenza di una conoscenza minimamente profonda dell’economia politica, e in particolare del pensiero critico. Questo dovrebbe essere il suo abc, ma non lo è mai stato, se non in una breve stagione che vide, ad esempio, la fondazione della Facoltà di Economia di Modena da parte di un gruppo di (allora) giovani economisti (che avevano Sraffa e Garegnani come riferimento) in collegamento col movimento sindacale e in particolare i metalmeccanici. Il PCI ha sempre ignorato Keynes e Sraffa. Certo, verso Sraffa v’è sempre stata la deferenza dovuta all’amico di Gramsci, ma quanto a introiettare la sua critica all’economia dominante molto poco o nulla. Sraffa e la ripresa degli economisti classici e di Marx è uno dei paletti che dobbiamo ripiantare. Il libro credo qui svolga una funzione utile. Nelle sue pagine si sottolinea, seguendo la lezione di Leonardo Paggi, come la tradizione comunista fosse un misto di liberismo e stalinismo. Si legga al riguardo il recente volume di Pivetti e Barba (La scomparsa della sinistra, Imprimatur), un altro must se ci si vuole ancora definire di sinistra. Serve Keynes? Certo, la questione è che il capitalismo, con il venir meno della sfida del socialismo reale, e consapevole che la piena occupazione porta indisciplina sociale, non è interessato alle ricette keynesiane. C’è al riguardo un articolo di Michal Kalecki (il Keynes marxista) del 1943 che ogni persona di sinistra dovrebbe aver letto. Ma noi dobbiamo essere interessati a Keynes nella battaglia politica contro il neo-liberismo, pur consapevoli che il capitale non ne vuol sentir parlare. Le politiche keynesiane, pur munizioni essenziali di un governo progressista, non sono inoltre sufficienti in un contesto internazionale anti-keynesiano. Il keynesismo in un Paese solo implica altre misure radicali, che per certi versi vanno verso misure socialiste. Ne dobbiamo aver paura? Solo una sinistra che ha perso i paletti e considera il mercato come l’unico gioco possibile ha queste paure.

La dittatura dell’euro ha radici profonde nei testi classici del pensiero economico. Vuoi parlarcene?
L’euro si basa su una “produzione scientifica” che negli anni ottanta riprese idee vecchie di un secolo (il pesce rosso del libro) sostenendo che la politica monetaria ha effetti solo sui prezzi e non sulla produzione e occupazione (il monetarismo insomma). Si dice che, per questo, la politica monetaria deve essere affidata a banche centrali indipendenti, meglio se straniere, che abbiano come obiettivo il solo controllo dei prezzi. Non è vero, invece, che la politica monetaria non abbia effetti per l’occupazione, come dimostra il quantitative easing di Draghi che cerca di risollevare domanda e occupazione senza la quale perdura la deflazione. Il punto è che senza una politica fiscale espansiva, anzi con la persistenza dell’austerità, la politica monetaria non può far molto. Nel libro cerco di spiegare queste cose in termini accessibili, una lettura utile agli studenti per smentire le assurde chiacchere dei libri di testo, e all’attivista di sinistra per capire i processi di cui vuole essere protagonista.

La sinistra è stata troppo tenera con l’europa di Maastricht e dell’euro, anzi subalterna all’Europa del capitale. Qual è il tuo giudizio?
Che forse dovremmo smetterla di chiamarla sinistra. Sono neoliberisti mascherati da internazionalismo. Dalla gabbia europea è difficile uscire, questo è verissimo. Solo un evento politico ci porterà fuori. Forse dovremmo contribuire a che si verifichi. Ciò detto, la sinistra non la si ricostruisce solo sul no-euro. Per questo basta Salvini. E’ necessario un ripensamento più profondo e ampio. Ma vanno ricostruiti i paletti. Va compreso dove il socialismo reale ha fallito. Va compreso se e come si può riproporre oggi un compromesso socialdemocratico. Va ricostruita la centralità della sovranità costituzionale, vale a dire la libertà per ogni popolo di perseguire gli obiettivi che ritiene giusti senza dittature sovranazionali. Va ricostruita la centralità dello Stato, di uno Stato democratico. Se non si crede a queste cose, non capisco perché si voti NO il 4 dicembre. Dispiace che l’unico quotidiano “di sinistra” mortifichi il dibattito, ospitando un confuso pensiero unico, cosmopolitico e neo-liberista de facto.

Da dove possiamo ripartire per una analisi della realtà non omologata al pensiero unico neoliberista e all’insegna del conflitto?
Abbiamo una montagna di pensiero solido a cui riferirci, nel libro ne offro una selezione. Abbiamo bisogno di studiare, di lottare e di studiare. Dobbiamo riprendere il coraggio intellettuale e politico per non arrenderci all’arretramento di civiltà a cui assistiamo e a cui ci pieghiamo assimilandone l’ideologia – come ho cercato sopra di argomentare. Il capitalismo vince perché abbiamo introiettato l’idea che non vi siano alternative. Serve studiare. Come diceva Marx: “La politica è studio: guai a chi si perde nei vuoti giri di parole… odiare a morte i politicanti da strapazzo e la loro ciarlataneria. Pensare con rigore logico ed esprimere chiaramente i pensieri: ciò impone di studiare. Studiare, studiare!” E serve più unità. E’ sconvolgente quanto forze vive della sinistra siano frammentate (penso al sindacalismo di base). C’è troppo settarismo e dogmatismo. Serve una sinistra che pensi, ma anche politicamente pragmatica e che abbia al cuore l’avanzamento sociale e non principi ideologici. Io le battaglie le voglio vincere. La sinistra a cui piace la lotta per la lotta, ché anzi nelle sconfitte si tempra la militanza, non è la mia.

"La sinistra non la si ricostruisce solo sul no-euro. Per questo basta Salvini". Intervista a Sergio Cesaratto

da controlacrisi


Sergio Cesaratto, economista, ordinario all’università di Siena, autore di Sei lezioni di economia – Conoscenze necessarie per capire la crisi (e come superarla), Imprimatur, 2016
Lo abbiamo intervistato per Controlacrisi.org in occasione del presentazione del suo libro tenutasi a fine novembre a Pisa a cura del municipio di beni comuni e dei delegati\lavoratori indipendenti
Nel 2012 hai scritto un libro con Massimo Pivetti dal titolo Oltre l’austerità. Ce ne vuoi parlare soffermandoti sui risultati di queste politiche in Italia e in Europa?
Nel 2012 il libro pubblicato on line da Micromega fu una prima testimonianza contro le politiche europee. Naturalmente tutto quello che scrivemmo lì si è avverato soprattutto nei riguardo degli anelli più deboli dell’eurozona, Grecia, Portogallo, Italia. Le cose vanno apparentemente meglio in Spagna al costo di una riforma del mercato del lavoro ancora più feroce di quella italiana in cambio della quale Madrid ha però ottenuto una certa tolleranza per i suoi disavanzi pubblici. Così da anni è concesso a quel Paese di sforare i parametri europei e ciò spiega la sua maggiore crescita. Sospettiamo anche che la finanza internazionale, la Deutsche Bank in primis, abbiano l’ordine di servizio di continuare a finanziare quel Paese così virtuoso. Ciò non è concesso all’Italia, che il capitale tedesco vuole schiacciare distruggendo la nostra industria. La devastazione che l’austerità europea sta imponendo al Paese è enorme. Il pericolo maggiore è l’assuefazione al degrado.

Sei lezioni di economia nascono da un colloquio immaginario con i tuoi studenti, quesiti che scaturiscono dai tuoi corsi universitari come nasce l’idea del libro e come si è sviluppata?
La lettrice (o lettore) immaginario non è necessariamente uno studente. I compagni si rivolgono a me in genere chiamandomi “professore”, e io credo questo sia molto importante. Non per una mera lusinga, ma perché è importante che gli accademici più sensibili siano in mezzo alla gente di buona volontà, e venga da tutti percepito che la conoscenza deve e può essere condivisa. In questo senso il libro ha voluto dimostrare che l’economia può essere compresa da tutti coloro che, al di là di titolo di studio e professione, leggano libri e si informino. Nulla è senza sforzo naturalmente! Il libro cerca di aiutare mostrando che esistono diverse teorie. La percezione delle differenze aiuta la comprensione. Sempre più mi sto ora convincendo, presentando il libro in giro, che il volume proprio perché parte dalle teorie – in relazione ai problemi politici che ci assillano – costituisce un’operazione quanto mai tempestiva nel cercare di ripiantare dei paletti di riferimento per una sinistra smarrita e politicamente ai limiti della scomparsa.

Può elaborare di più questo punto?
Sì. Con la scomparsa del socialismo reale e il transito verso il neoliberismo di gran parte del movimento socialdemocratico (incluso i DS-PD) la sinistra ha smesso di cercare una alternativa di lungo periodo al capitalismo, o anche di medio-termine attraverso un compromesso social-democratico. Ha nei fatti accettato che il mercato sia l’unico game in town. Il punto è che anche la quasi totalità di ciò che rimane della sinistra più radicale ha introiettato il liberismo. Le sue parole d’ordine sono il cosmopolitismo, l’irreversibilità della globalizzazione, la libertà di circolazione del lavoro, la scomparsa dello Stato nazionale come asse politico arrivando all’odio politico per lo Stato tout court in nome della libertà individuale. Questo è liberismo puro! Le radici di questo sono lontane. Storicamente sono due le correnti di pensiero cosmopolitiche: quella liberale e quella marxista. In pratica, tuttavia, il movimento operaio, specie nelle sue frange più sensibili agli avanzamenti concreti nelle condizioni di vita dei lavoratori, ha individuato la sua sfera d’azione nei confini della comunità nazionale, guidando anzi le lotte di liberazione nazionale. Senza naturalmente rinunciare a ideali universalistici, ma mai sacrificando il bene dei propri ceti popolari a ideali astratti. Ubriacata dal liberismo, la sinistra antagonista persegue oggi questi principi astratti. Che poi astratti non sono poiché la connivenza alla /(de facto) libera circolazione del lavoro ha devastato il nostro mercato del lavoro, e mina anche le relazioni sociali (il che vuol dire minare le relazioni di solidarietà alla base, ad esempio, dello Stato Sociale). Dobbiamo rimettere dei paletti.

Parti da un approccio classico-keynesiano in antitesi a quello marginalista o neoclassico che domina libri di testo e i discorsi ufficiali. Oggi ha senso essere keynesiani e qual è l’attualità di Keynes.
In effetti un’altra tragedia della sinistra italiana, a cominciare dal PCI è l’assenza di una conoscenza minimamente profonda dell’economia politica, e in particolare del pensiero critico. Questo dovrebbe essere il suo abc, ma non lo è mai stato, se non in una breve stagione che vide, ad esempio, la fondazione della Facoltà di Economia di Modena da parte di un gruppo di (allora) giovani economisti (che avevano Sraffa e Garegnani come riferimento) in collegamento col movimento sindacale e in particolare i metalmeccanici. Il PCI ha sempre ignorato Keynes e Sraffa. Certo, verso Sraffa v’è sempre stata la deferenza dovuta all’amico di Gramsci, ma quanto a introiettare la sua critica all’economia dominante molto poco o nulla. Sraffa e la ripresa degli economisti classici e di Marx è uno dei paletti che dobbiamo ripiantare. Il libro credo qui svolga una funzione utile. Nelle sue pagine si sottolinea, seguendo la lezione di Leonardo Paggi, come la tradizione comunista fosse un misto di liberismo e stalinismo. Si legga al riguardo il recente volume di Pivetti e Barba (La scomparsa della sinistra, Imprimatur), un altro must se ci si vuole ancora definire di sinistra. Serve Keynes? Certo, la questione è che il capitalismo, con il venir meno della sfida del socialismo reale, e consapevole che la piena occupazione porta indisciplina sociale, non è interessato alle ricette keynesiane. C’è al riguardo un articolo di Michal Kalecki (il Keynes marxista) del 1943 che ogni persona di sinistra dovrebbe aver letto. Ma noi dobbiamo essere interessati a Keynes nella battaglia politica contro il neo-liberismo, pur consapevoli che il capitale non ne vuol sentir parlare. Le politiche keynesiane, pur munizioni essenziali di un governo progressista, non sono inoltre sufficienti in un contesto internazionale anti-keynesiano. Il keynesismo in un Paese solo implica altre misure radicali, che per certi versi vanno verso misure socialiste. Ne dobbiamo aver paura? Solo una sinistra che ha perso i paletti e considera il mercato come l’unico gioco possibile ha queste paure.

La dittatura dell’euro ha radici profonde nei testi classici del pensiero economico. Vuoi parlarcene?
L’euro si basa su una “produzione scientifica” che negli anni ottanta riprese idee vecchie di un secolo (il pesce rosso del libro) sostenendo che la politica monetaria ha effetti solo sui prezzi e non sulla produzione e occupazione (il monetarismo insomma). Si dice che, per questo, la politica monetaria deve essere affidata a banche centrali indipendenti, meglio se straniere, che abbiano come obiettivo il solo controllo dei prezzi. Non è vero, invece, che la politica monetaria non abbia effetti per l’occupazione, come dimostra il quantitative easing di Draghi che cerca di risollevare domanda e occupazione senza la quale perdura la deflazione. Il punto è che senza una politica fiscale espansiva, anzi con la persistenza dell’austerità, la politica monetaria non può far molto. Nel libro cerco di spiegare queste cose in termini accessibili, una lettura utile agli studenti per smentire le assurde chiacchere dei libri di testo, e all’attivista di sinistra per capire i processi di cui vuole essere protagonista.

La sinistra è stata troppo tenera con l’europa di Maastricht e dell’euro, anzi subalterna all’Europa del capitale. Qual è il tuo giudizio?
Che forse dovremmo smetterla di chiamarla sinistra. Sono neoliberisti mascherati da internazionalismo. Dalla gabbia europea è difficile uscire, questo è verissimo. Solo un evento politico ci porterà fuori. Forse dovremmo contribuire a che si verifichi. Ciò detto, la sinistra non la si ricostruisce solo sul no-euro. Per questo basta Salvini. E’ necessario un ripensamento più profondo e ampio. Ma vanno ricostruiti i paletti. Va compreso dove il socialismo reale ha fallito. Va compreso se e come si può riproporre oggi un compromesso socialdemocratico. Va ricostruita la centralità della sovranità costituzionale, vale a dire la libertà per ogni popolo di perseguire gli obiettivi che ritiene giusti senza dittature sovranazionali. Va ricostruita la centralità dello Stato, di uno Stato democratico. Se non si crede a queste cose, non capisco perché si voti NO il 4 dicembre. Dispiace che l’unico quotidiano “di sinistra” mortifichi il dibattito, ospitando un confuso pensiero unico, cosmopolitico e neo-liberista de facto.

Da dove possiamo ripartire per una analisi della realtà non omologata al pensiero unico neoliberista e all’insegna del conflitto?
Abbiamo una montagna di pensiero solido a cui riferirci, nel libro ne offro una selezione. Abbiamo bisogno di studiare, di lottare e di studiare. Dobbiamo riprendere il coraggio intellettuale e politico per non arrenderci all’arretramento di civiltà a cui assistiamo e a cui ci pieghiamo assimilandone l’ideologia – come ho cercato sopra di argomentare. Il capitalismo vince perché abbiamo introiettato l’idea che non vi siano alternative. Serve studiare. Come diceva Marx: “La politica è studio: guai a chi si perde nei vuoti giri di parole… odiare a morte i politicanti da strapazzo e la loro ciarlataneria. Pensare con rigore logico ed esprimere chiaramente i pensieri: ciò impone di studiare. Studiare, studiare!” E serve più unità. E’ sconvolgente quanto forze vive della sinistra siano frammentate (penso al sindacalismo di base). C’è troppo settarismo e dogmatismo. Serve una sinistra che pensi, ma anche politicamente pragmatica e che abbia al cuore l’avanzamento sociale e non principi ideologici. Io le battaglie le voglio vincere. La sinistra a cui piace la lotta per la lotta, ché anzi nelle sconfitte si tempra la militanza, non è la mia.

Crisi, libero scambio e protezionismo

da sinistrainrete.info

A. Lo Fiego intervista Emiliano Brancaccio

Mentre il governo minimizza e ci racconta che il peggio è passato, ci avviciniamo ad un autunno di licenziamenti, chiusure di siti produttivi, crollo del reddito operaio, aumento vertiginoso della disoccupazione. Quale scenario economico e sociale si sta delineando?
Nel prossimo futuro potremo anche registrare qualche euforico sussulto dei prezzi di borsa, e magari anche della produzione. Ma al di là degli scossoni temporanei, c’è motivo di ritenere che la crescita futura della produzione e del reddito sarà in generale più lenta e più fiacca che in passato. Il tracollo della finanza americana rappresenta infatti un dato strutturale, di portata storica, e quindi difficilmente gli Stati Uniti potranno nuovamente proporsi come locomotiva globale, come “spugna assorbente” delle eccedenze produttive degli altri paesi. Il problema è che al momento non sembra sussistere nel mondo un credibile
sostituto della “spugna” americana. La situazione per certi versi somiglia al periodo tra le due guerre mondiali, quando la Gran Bretagna venne spodestata dal ruolo di leader monetario del mondo e gli Stati Uniti erano ancora riluttanti a sostituirla. Oggi come allora l’assenza di una leadership monetaria rappresenta un rebus di difficile soluzione, uno dei tipici problemi di coordinamento di fronte ai quali il meccanismo della riproduzione capitalistica entra in crisi. Ciò significa che probabilmente andiamo incontro a una fase caratterizzata da una domanda globale debole, e quindi da una crescita della produzione troppo bassa per indurre le imprese a riassumere i lavoratori licenziati a seguito della recessione. Inoltre, quando la crescita della domanda e della produzione risulta debole, è facile che si verifichi anche disoccupazione tecnologica: cioè aumenta la probabilità che i lavoratori licenziati a causa di mutamenti tecnici e organizzativi non vengano più riassorbiti dal sistema. Per questi motivi, in media e soprattutto nei paesi occidentali potremmo trovarci di fronte ad un periodo non breve di aumento della disoccupazione.

Quali potrebbero essere gli sbocchi politici immediati dell’attuale recessione?
Non mi sembra realistico scommettere sulla possibilità che le grandi potenze economiche si siedano presto attorno a un tavolo per costruire assieme una nuova “spugna” del mondo, in grado di sostituire quella americana. Ritengo più probabile che per un po’ di tempo ogni paese cercherà una soluzione “interna” al problema della caduta del commercio mondiale. A questo proposito, finora ha prevalso una strategia più o meno surrettizia di “salto al collo del vicino”. Molti paesi cioè hanno praticato politiche di ulteriore contenimento dei salari e di aumento dei sussidi alle imprese, allo scopo di rendere più competitive le produzioni nazionali e magari di conquistare quote di mercato altrui. Questo tipo di comportamento,  coordinato e conflittuale, può anche dare i suoi frutti nel breve periodo, ma a lungo andare non fa altro che aggravare la crisi globale. Alcuni paesi potrebbero allora tentare di sganciarsi da questa spirale recessiva mondiale per puntare su uno sviluppo più autonomo, maggiormente fondato sulla domanda interna, e quindi meno dipendente dalle esportazioni.

I paesi che sceglieranno di puntare sulla domanda interna diventeranno protezionisti?
E’ ovvio che se un paese decide di espandere la domanda interna dovrà poi introdurre degli accorgimenti per far sì che la maggior parte di quella espansione si rivolga alla produzione nazionale, anziché a quella estera. Nel mondo qualche segnale in tal senso già ce l’abbiamo.

Ma noi come dovremmo giudicare questa tendenza? In polemica con te, Marco Revelli ha sostenuto che il protezionismo potrebbe rivelarsi l’anticamera per nuove tentazioni nazionaliste e guerrafondaie…
Non è il solo. Su Liberazione o sul manifesto capita spesso di trovare “protezionismo” e “fascismo” appaiati, quasi che fossero la stessa cosa. Ma queste sono banalizzazioni pericolose. Trovo che a sinistra sia alquanto diffuso un tremendo equivoco attorno al dilemma tra apertura globale e protezionismo. Probabilmente le incomprensioni nascono dal fatto che molti intellettuali commettono l’errore di considerare l’attuale internazionalismo del capitale come una sorta di erede moderno del vecchio internazionalismo del movimento operaio. Ma la realtà è che si tratta di fenomeni in totale contrasto tra loro. L’internazionalismo del capitale sta ad indicare il grande processo di globalizzazione al quale abbiamo assistito nell’ultimo trentennio, che è consistito nella crescente apertura dei mercati ai movimenti internazionali di capitali, di merci e in parte anche di lavoratori. L’internazionalismo operaio promuoveva invece la solidarietà e la fratellanza tra i lavoratori dei diversi paesi, e quindi si basava principalmente sul ripudio della guerra, economica e soprattutto militare. E’ chiaro che siamo di fronte a concetti antagonistici: l’internazionalismo del capitale infatti inasprisce la competizione tra i lavoratori dei vari paesi, e quindi può facilmente compromettere la solidarietà tra di essi. Lo stesso Marx, che protezionista non era, ironizzò sulle tesi di chi confondeva libero scambio, pace e fraternità sostenendo che «chiamare fraternità universale lo sfruttamento a livello cosmopolitico è un’idea che avrebbe potuto nascere solo nella mente della borghesia». Trovo quindi errato l’atteggiamento di chi a sinistra difende più o meno consciamente questo tipo di internazionalismo, e magari si esprime contro l’eventualità che si vada verso una fase di minore apertura dei mercati.

Stai dicendo che l’eventuale avvio di una fase protezionista potrebbe rappresentare una occasione politica per il movimento dei lavoratori?
Non voglio dire che i lavoratori dovrebbero considerare il protezionismo come una infallibile soluzione per i loro mali. Alla luce della esperienza novecentesca sappiamo che una relativa chiusura del mercato interno può esser declinata in vari modi, non tutti necessariamente auspicabili: in alcuni casi può rientrare tra le strategie di aggressione intercapitalistiche che sono tipiche dei tempi di crisi, e può quindi essere accompagnata da una ulteriore azione repressiva sul lavoro; in altri casi può invece ridurre il peso del cosiddetto “vincolo esterno”, e può dunque favorire lo sviluppo delle rivendicazioni sociali. In effetti abbiamo evidenze storiche dell’uno e dell’altro segno. E’ chiaro però che se a sinistra persiste una lettura ingenua della questione dell’apertura o meno dei mercati, difficilmente una eventuale fase di “de-globalizzazione” potrà essere sfruttata a vantaggio degli interessi del lavoro. Sotto questo aspetto l’analisi di Revelli, e di molti altri, mi sembra idealistica, e quindi non in grado di riconoscere i diversi possibili esiti della torsione storica in atto.

In Italia un vero dibattito su questi temi, e più in generale sull’indirizzo di politica economica del paese, stenta ad affiorare. L’attenzione sembra più che altro rivolta ai costumi sessuali del premier, e magari lo si lascia indisturbato a smantellare il settore pubblico e a smontare pezzo per pezzo la Costituzione. Quanto è concreto secondo te in questo momento, in Italia, il pericolo di una deriva “post”- democratica?
Con il prolungarsi della crisi e con l’aumento conseguente delle tensioni sociali, è possibile che questo governo sia tentato da soluzioni drastiche sul piano istituzionale ed economico, e da un impiego non estemporaneo ma strategico degli strumenti di repressione di cui dispone. Ma la forza di Berlusconi e della sua alleanza non deriva dal suo potenziale anti-democratico (o post-democratico, che dir si voglia). A mio avviso l’attuale destra di governo trae linfa e consensi dalla sua eccezionale capacità di alimentare una continua guerra tra le diverse  ategorie di lavoratori: privati contro pubblici, precari contro stabili, autonomi contro dipendenti, giovani contro anziani, settentrionali contro meridionali, nativi contro immigrati. E’ contro questa tendenza a dividere i lavoratori che bisognerebbe concentrare gli sforzi dell’opposizione. Non mi persuade invece l’idea di contrastare l’esecutivo definendolo semplicemente “nemico” della Costituzione e della democrazia. Dovremmo infatti ricordare che l’attacco alla Costituzione e il restringimento degli spazi di esercizio democratico non nascono certo in questa legislatura. La nostra Carta costituzionale è materialmente incompatibile con gli indirizzi di politica economica e istituzionale di tutti i governi che si sono succeduti da almeno un quindicennio a questa parte. La piena apertura dei mercati e la completa liberalizzazione dei movimenti di capitale, il Trattato di Maastricht, lo smantellamento progressivo dei diritti del lavoro, sono tutti provvedimenti che hanno agito in simbiosi con le controriforme elettorali e con il depotenziamento delle aule parlamentari, e hanno quindi allargato lo squarcio tra la Costituzione formale e la sua attuazione materiale. Pertanto, a chi nell’opposizione sembra propenso a invocare genericamente la difesa della Costituzione repubblicana e ad agitare l’ennesima, consunta bandiera dell’anti berlusconismo, dovremmo chiedere se piuttosto sia disponibile a costruire una opposizione fondata su concrete proposte di riunificazione del lavoro. Perché è sul bivio tra divisione e coesione dei lavoratori che oggi più che mai si gioca la costruzione di un blocco sociale vincente.

Sotto quali condizioni a tuo avviso si potrebbe tornare a scommettere su una rinnovata coesione tra i lavoratori?
Il problema è che in questi anni – anche a causa di scelte nefande da parte delle sinistre al governo – i divari tra le diverse categorie di lavoratori sono effettivamente cresciuti, sia sul versante dei redditi che su quello più generale delle condizioni di lavoro e di vita. Oggi più che in passato sussistono grandi differenze tra i livelli di vita di un dipendente pubblico stabilizzato, di un precario del settore privato e di un immigrato clandestino che lavori sotto la minaccia dell’espulsione. Parlare quindi frettolosamente di “classe”, come se fosse un mantra, una parola taumaturgica, rischia di produrre un effetto di ripulsa, opposto a quello desiderato. Il paradigma marxiano delle “classi sociali” resta a mio avviso analiticamente superiore al paradigma dell’individualismo metodologico, e quindi può tuttora considerarsi fecondo anche sul piano politico. Ma sarebbe sbagliato adoperare la parola “classe” per fini agitatori senza una profonda spiegazione preliminare del suo significato. Per esempio, all’universo frammentato dei lavoratori bisognerebbe in primo luogo comunicare che le sperequazioni tra di essi sono risultate funzionali all’accrescimento di un’altra sperequazione, molto più grande e decisiva: quella tra i lavoratori presi nel loro complesso e i percettori diretti o indiretti di profitti e rendite. Basti pensare agli aumenti di produttività del lavoro: nell’ultimo trentennio, in quasi tutto il mondo, gli incrementi del potenziale produttivo dei lavoratori non sono andati a vantaggio dei dipendenti pubblici, né dei precari, e nemmeno ovviamente degli immigrati. Praticamente tutta la ricchezza aggiuntiva creata dall’aumento di produttività del lavoro è stata assorbita dai redditi da capitale…

…ciò nonostante i lavoratori seguitano in molti casi a farsi la guerra tra loro. Quali sono le parole d’ordine attorno alle quali si potrebbe cercare di riunificarli?
Comincerei col dire che ad ogni slogan che punti a dividere i lavoratori, se ne dovrebbe contrapporre un altro che miri a compattarli. Prendiamo ad esempio gli slogan della Lega. Sappiamo che questo partito invoca le “gabbie salariali” allo scopo di differenziare maggiormente le retribuzioni tra Nord e Sud, e di rimediare così al fatto che i prezzi al Nord sono un po’ più alti che nel Mezzogiorno. I leghisti sostengono quindi che le “gabbie” servono a eliminare una discriminazione che danneggia i lavoratori settentrionali. Ora, io non sto qui a  offermarmi sulle varie incoerenze della proposta leghista. Mi limito solo a far presente che i divari di prezzo tra una metropoli e una località di provincia possono risultare anche più ampi di quelli tra Nord e Sud, per cui volendo applicare la logica leghista fino in fondo dovremmo immaginare contrattazioni differenziate pure tra città e paesini, tra zone ben collegate e zone isolate, e così via, senza più riuscire a mettere un punto fermo. Ma il punto chiave è che se di discriminazione vogliamo davvero parlare, allora forse dovremmo partire da fenomeni ben più macroscopici, come ad esempio quelli creati dalle leggi di deregolamentazione e di precarizzazione del lavoro che la Lega in questi anni ha sempre sostenuto e promosso. A causa di questo smantellamento del diritto del lavoro, oggi possiamo trovarci in una situazione in cui, per esempio, due lavoratori del Nord lavorano nella stessa azienda, con le stesse identiche qualifiche e le stesse mansioni, e ciò nonostante vengono sottoposti a norme diverse, a contratti diversi, a salari totalmente diversi e persino a padroni diversi. Altro che introduzione delle “gabbie salariali”, dunque. Qui c’è piuttosto da abbattere la gabbia della precarizzazione, che scientificamente divide al suo interno la classe lavoratrice, al Nord come al Sud, e che la Lega ha contribuito in modo decisivo a edificare.

Oltre alle gabbie salariali la Lega agita pure la bandiera del blocco dell’immigrazione….
Certo, e in questo caso lo scopo è di trarre alimento dalle divisioni tra lavoratori nativi e migranti. La Lega trae enormi consensi da questa strategia. Alcuni ritengono che ciò dipenda da un moto irrazionale identitario dei nativi contro i migranti, i quali verrebbero concepiti come un tipico “caprio espiatorio”, un nemico esterno da annientare. Ciò è senz’altro possibile, ma i dati rivelano che la xenofobia dei lavoratori nativi scaturisce anche dal pericolo concreto, materiale, che gli immigrati alimentino una concorrenza ancor più sfrenata sui salari, sui posti di lavoro, sul welfare e sugli spazi metropolitani. Per motivi dunque non solo identitari ma anche strettamente materiali la linea della Lega è finora risultata vincente, e qualcuno a sinistra sembra essersi rassegnato a subirne la forza dirompente. Al contrario, io credo che la bandiera del blocco dell’immigrazione possa e debba essere efficacemente contrastata issando una bandiera alternativa: quella del blocco dei movimenti di capitale. Bisognerebbe cioè comunicare ai lavoratori nativi che, invece di far la guerra agli immigrati, dovrebbero unirsi con essi attorno all’obiettivo di impedire al capitale di scorazzare liberamente da un capo all’altro del mondo, a caccia della tassazione più favorevole, dei minimi vincoli ambientali, dei salari più bassi e delle massime opportunità di sfruttamento del lavoro. Talvolta cerco di sintetizzare questo ragionamento affermando che se vogliamo liberare i migranti, allora dobbiamo arrestare i capitali. Adopero volentieri queste parole d’ordine poiché le considero non solo efficaci nella lotta politica, ma anche istruttive per la sinistra. Dobbiamo infatti capire che se vogliamo davvero riunificare i lavoratori, se per esempio vogliamo costruire un legame sociale tra lavoratori nativi e immigrati, non possiamo più appellarci al buon cuore della gente. Dovremmo invece avanzare proposte precise e credibili, nelle quali gli uni e gli altri possano riconoscersi. Questo è un punto molto importante, poiché vedo che a sinistra troppe volte si pretende di affrontare questi problemi sulla base di un umanesimo ingenuo, secondo cui basterebbe dichiarare che l’altro sono io per stemperare ogni conflitto. Questo “buonismo” è totalmente inadeguato ai tempi di ferro che stiamo attraversando, ed è pure sintomo a mio avviso di una diffusa pigrizia intellettuale e politica.

Mettiamo allora da parte ogni “buonismo”, e interroghiamoci sulla possibilità concreta di riunificare i lavoratori attorno alla parola d’ordine del blocco dei capitali. A questo proposito, non c’è comunque il rischio che il blocco dei movimenti di capitale danneggi i lavoratori dei paesi meno sviluppati, che necessitano di risorse finanziarie esterne per uscire dalla povertà?
No. E’ vero piuttosto il contrario. La libera circolazione internazionale dei capitali ha scatenato una competizione senza freni, che aumentando i rischi di attacco speculativo sulle valute ha drasticamente ridimensionato la sovranità politica dei singoli paesi – specie se meno sviluppati – e che ha dato avvio a una lunga e profondissima deflazione salariale mondiale. Da questo vortice recessivo sono riusciti almeno in parte a sottrarsi solo quei paesi che hanno mantenuto qualche forma di relativa chiusura dei loro mercati ai movimenti internazionali di capitale. La Cina è un esempio emblematico, in questo senso.

A seguito della grande recessione in corso si è tornati a parlare, anche nei nostri ambienti, di “crisi finale del capitalismo”. Che ne pensi?
L’idea di una “crisi finale del capitale” viene solitamente portata avanti dagli eredi più o meno consapevoli delle correnti bordighiste del marxismo, e in genere si basa sulla “legge” di caduta tendenziale del saggio di profitto. La versione marxiana tradizionale di quella legge non funziona, ma credo sia possibile individuare nuove modalità di riscontro della medesima. Da un punto di vista politico, tuttavia, il tema della “crisi finale” è delicato. Quando tra i militanti si discute della legge di caduta del profitto, noto che si cade facilmente in un clima “destinale”, che spesso li spinge verso analisi superficiali e fuorvianti. Ai militanti sedotti da questo tipo di discussioni uso dire che il Capitale di Marx non è il Vangelo secondo Giovanni, e che le complicate riflessioni sulla “crisi finale” del capitale sono una cosa un po’ diversa dalle premonizioni sull’Apocalisse. Credo allora che i militanti farebbero meglio a porsi interrogativi più immediati, e in un certo senso più smaliziati. Per esempio, sarebbe ora di analizzare in profondità il rapporto tra i meccanismi di auto-riproduzione del capitalismo e degli apparati ideologici che lo sorreggono da un lato, e i meccanismi di auto-riproduzione dei partiti che si dichiarano anti-capitalisti dall’altro. Se la sopravvivenza delle strutture di questi partiti finisce per dipendere in misura decisiva dalla partecipazione agli organi di governo o di sotto-governo, la definizione stessa di “anti-capitalisti” rischia di diventare un ossimoro, una vera e propria contraddizione in termini. E’ chiaro infatti che sotto condizioni di inesorabile dipendenza “riproduttiva”, la crisi non può mai logicamente assumere il carattere di “occasione storica”.  uesta è una questione importante, sulla quale bisognerebbe indagare senza semplificazioni né inutili moralismi, ma anche senza reticenze.

Crisi, libero scambio e protezionismo

da sinistrainrete.info

A. Lo Fiego intervista Emiliano Brancaccio

Mentre il governo minimizza e ci racconta che il peggio è passato, ci avviciniamo ad un autunno di licenziamenti, chiusure di siti produttivi, crollo del reddito operaio, aumento vertiginoso della disoccupazione. Quale scenario economico e sociale si sta delineando?
Nel prossimo futuro potremo anche registrare qualche euforico sussulto dei prezzi di borsa, e magari anche della produzione. Ma al di là degli scossoni temporanei, c’è motivo di ritenere che la crescita futura della produzione e del reddito sarà in generale più lenta e più fiacca che in passato. Il tracollo della finanza americana rappresenta infatti un dato strutturale, di portata storica, e quindi difficilmente gli Stati Uniti potranno nuovamente proporsi come locomotiva globale, come “spugna assorbente” delle eccedenze produttive degli altri paesi. Il problema è che al momento non sembra sussistere nel mondo un credibile
sostituto della “spugna” americana. La situazione per certi versi somiglia al periodo tra le due guerre mondiali, quando la Gran Bretagna venne spodestata dal ruolo di leader monetario del mondo e gli Stati Uniti erano ancora riluttanti a sostituirla. Oggi come allora l’assenza di una leadership monetaria rappresenta un rebus di difficile soluzione, uno dei tipici problemi di coordinamento di fronte ai quali il meccanismo della riproduzione capitalistica entra in crisi. Ciò significa che probabilmente andiamo incontro a una fase caratterizzata da una domanda globale debole, e quindi da una crescita della produzione troppo bassa per indurre le imprese a riassumere i lavoratori licenziati a seguito della recessione. Inoltre, quando la crescita della domanda e della produzione risulta debole, è facile che si verifichi anche disoccupazione tecnologica: cioè aumenta la probabilità che i lavoratori licenziati a causa di mutamenti tecnici e organizzativi non vengano più riassorbiti dal sistema. Per questi motivi, in media e soprattutto nei paesi occidentali potremmo trovarci di fronte ad un periodo non breve di aumento della disoccupazione.

Quali potrebbero essere gli sbocchi politici immediati dell’attuale recessione?
Non mi sembra realistico scommettere sulla possibilità che le grandi potenze economiche si siedano presto attorno a un tavolo per costruire assieme una nuova “spugna” del mondo, in grado di sostituire quella americana. Ritengo più probabile che per un po’ di tempo ogni paese cercherà una soluzione “interna” al problema della caduta del commercio mondiale. A questo proposito, finora ha prevalso una strategia più o meno surrettizia di “salto al collo del vicino”. Molti paesi cioè hanno praticato politiche di ulteriore contenimento dei salari e di aumento dei sussidi alle imprese, allo scopo di rendere più competitive le produzioni nazionali e magari di conquistare quote di mercato altrui. Questo tipo di comportamento,  coordinato e conflittuale, può anche dare i suoi frutti nel breve periodo, ma a lungo andare non fa altro che aggravare la crisi globale. Alcuni paesi potrebbero allora tentare di sganciarsi da questa spirale recessiva mondiale per puntare su uno sviluppo più autonomo, maggiormente fondato sulla domanda interna, e quindi meno dipendente dalle esportazioni.

I paesi che sceglieranno di puntare sulla domanda interna diventeranno protezionisti?
E’ ovvio che se un paese decide di espandere la domanda interna dovrà poi introdurre degli accorgimenti per far sì che la maggior parte di quella espansione si rivolga alla produzione nazionale, anziché a quella estera. Nel mondo qualche segnale in tal senso già ce l’abbiamo.

Ma noi come dovremmo giudicare questa tendenza? In polemica con te, Marco Revelli ha sostenuto che il protezionismo potrebbe rivelarsi l’anticamera per nuove tentazioni nazionaliste e guerrafondaie…
Non è il solo. Su Liberazione o sul manifesto capita spesso di trovare “protezionismo” e “fascismo” appaiati, quasi che fossero la stessa cosa. Ma queste sono banalizzazioni pericolose. Trovo che a sinistra sia alquanto diffuso un tremendo equivoco attorno al dilemma tra apertura globale e protezionismo. Probabilmente le incomprensioni nascono dal fatto che molti intellettuali commettono l’errore di considerare l’attuale internazionalismo del capitale come una sorta di erede moderno del vecchio internazionalismo del movimento operaio. Ma la realtà è che si tratta di fenomeni in totale contrasto tra loro. L’internazionalismo del capitale sta ad indicare il grande processo di globalizzazione al quale abbiamo assistito nell’ultimo trentennio, che è consistito nella crescente apertura dei mercati ai movimenti internazionali di capitali, di merci e in parte anche di lavoratori. L’internazionalismo operaio promuoveva invece la solidarietà e la fratellanza tra i lavoratori dei diversi paesi, e quindi si basava principalmente sul ripudio della guerra, economica e soprattutto militare. E’ chiaro che siamo di fronte a concetti antagonistici: l’internazionalismo del capitale infatti inasprisce la competizione tra i lavoratori dei vari paesi, e quindi può facilmente compromettere la solidarietà tra di essi. Lo stesso Marx, che protezionista non era, ironizzò sulle tesi di chi confondeva libero scambio, pace e fraternità sostenendo che «chiamare fraternità universale lo sfruttamento a livello cosmopolitico è un’idea che avrebbe potuto nascere solo nella mente della borghesia». Trovo quindi errato l’atteggiamento di chi a sinistra difende più o meno consciamente questo tipo di internazionalismo, e magari si esprime contro l’eventualità che si vada verso una fase di minore apertura dei mercati.

Stai dicendo che l’eventuale avvio di una fase protezionista potrebbe rappresentare una occasione politica per il movimento dei lavoratori?
Non voglio dire che i lavoratori dovrebbero considerare il protezionismo come una infallibile soluzione per i loro mali. Alla luce della esperienza novecentesca sappiamo che una relativa chiusura del mercato interno può esser declinata in vari modi, non tutti necessariamente auspicabili: in alcuni casi può rientrare tra le strategie di aggressione intercapitalistiche che sono tipiche dei tempi di crisi, e può quindi essere accompagnata da una ulteriore azione repressiva sul lavoro; in altri casi può invece ridurre il peso del cosiddetto “vincolo esterno”, e può dunque favorire lo sviluppo delle rivendicazioni sociali. In effetti abbiamo evidenze storiche dell’uno e dell’altro segno. E’ chiaro però che se a sinistra persiste una lettura ingenua della questione dell’apertura o meno dei mercati, difficilmente una eventuale fase di “de-globalizzazione” potrà essere sfruttata a vantaggio degli interessi del lavoro. Sotto questo aspetto l’analisi di Revelli, e di molti altri, mi sembra idealistica, e quindi non in grado di riconoscere i diversi possibili esiti della torsione storica in atto.

In Italia un vero dibattito su questi temi, e più in generale sull’indirizzo di politica economica del paese, stenta ad affiorare. L’attenzione sembra più che altro rivolta ai costumi sessuali del premier, e magari lo si lascia indisturbato a smantellare il settore pubblico e a smontare pezzo per pezzo la Costituzione. Quanto è concreto secondo te in questo momento, in Italia, il pericolo di una deriva “post”- democratica?
Con il prolungarsi della crisi e con l’aumento conseguente delle tensioni sociali, è possibile che questo governo sia tentato da soluzioni drastiche sul piano istituzionale ed economico, e da un impiego non estemporaneo ma strategico degli strumenti di repressione di cui dispone. Ma la forza di Berlusconi e della sua alleanza non deriva dal suo potenziale anti-democratico (o post-democratico, che dir si voglia). A mio avviso l’attuale destra di governo trae linfa e consensi dalla sua eccezionale capacità di alimentare una continua guerra tra le diverse  ategorie di lavoratori: privati contro pubblici, precari contro stabili, autonomi contro dipendenti, giovani contro anziani, settentrionali contro meridionali, nativi contro immigrati. E’ contro questa tendenza a dividere i lavoratori che bisognerebbe concentrare gli sforzi dell’opposizione. Non mi persuade invece l’idea di contrastare l’esecutivo definendolo semplicemente “nemico” della Costituzione e della democrazia. Dovremmo infatti ricordare che l’attacco alla Costituzione e il restringimento degli spazi di esercizio democratico non nascono certo in questa legislatura. La nostra Carta costituzionale è materialmente incompatibile con gli indirizzi di politica economica e istituzionale di tutti i governi che si sono succeduti da almeno un quindicennio a questa parte. La piena apertura dei mercati e la completa liberalizzazione dei movimenti di capitale, il Trattato di Maastricht, lo smantellamento progressivo dei diritti del lavoro, sono tutti provvedimenti che hanno agito in simbiosi con le controriforme elettorali e con il depotenziamento delle aule parlamentari, e hanno quindi allargato lo squarcio tra la Costituzione formale e la sua attuazione materiale. Pertanto, a chi nell’opposizione sembra propenso a invocare genericamente la difesa della Costituzione repubblicana e ad agitare l’ennesima, consunta bandiera dell’anti berlusconismo, dovremmo chiedere se piuttosto sia disponibile a costruire una opposizione fondata su concrete proposte di riunificazione del lavoro. Perché è sul bivio tra divisione e coesione dei lavoratori che oggi più che mai si gioca la costruzione di un blocco sociale vincente.

Sotto quali condizioni a tuo avviso si potrebbe tornare a scommettere su una rinnovata coesione tra i lavoratori?
Il problema è che in questi anni – anche a causa di scelte nefande da parte delle sinistre al governo – i divari tra le diverse categorie di lavoratori sono effettivamente cresciuti, sia sul versante dei redditi che su quello più generale delle condizioni di lavoro e di vita. Oggi più che in passato sussistono grandi differenze tra i livelli di vita di un dipendente pubblico stabilizzato, di un precario del settore privato e di un immigrato clandestino che lavori sotto la minaccia dell’espulsione. Parlare quindi frettolosamente di “classe”, come se fosse un mantra, una parola taumaturgica, rischia di produrre un effetto di ripulsa, opposto a quello desiderato. Il paradigma marxiano delle “classi sociali” resta a mio avviso analiticamente superiore al paradigma dell’individualismo metodologico, e quindi può tuttora considerarsi fecondo anche sul piano politico. Ma sarebbe sbagliato adoperare la parola “classe” per fini agitatori senza una profonda spiegazione preliminare del suo significato. Per esempio, all’universo frammentato dei lavoratori bisognerebbe in primo luogo comunicare che le sperequazioni tra di essi sono risultate funzionali all’accrescimento di un’altra sperequazione, molto più grande e decisiva: quella tra i lavoratori presi nel loro complesso e i percettori diretti o indiretti di profitti e rendite. Basti pensare agli aumenti di produttività del lavoro: nell’ultimo trentennio, in quasi tutto il mondo, gli incrementi del potenziale produttivo dei lavoratori non sono andati a vantaggio dei dipendenti pubblici, né dei precari, e nemmeno ovviamente degli immigrati. Praticamente tutta la ricchezza aggiuntiva creata dall’aumento di produttività del lavoro è stata assorbita dai redditi da capitale…

…ciò nonostante i lavoratori seguitano in molti casi a farsi la guerra tra loro. Quali sono le parole d’ordine attorno alle quali si potrebbe cercare di riunificarli?
Comincerei col dire che ad ogni slogan che punti a dividere i lavoratori, se ne dovrebbe contrapporre un altro che miri a compattarli. Prendiamo ad esempio gli slogan della Lega. Sappiamo che questo partito invoca le “gabbie salariali” allo scopo di differenziare maggiormente le retribuzioni tra Nord e Sud, e di rimediare così al fatto che i prezzi al Nord sono un po’ più alti che nel Mezzogiorno. I leghisti sostengono quindi che le “gabbie” servono a eliminare una discriminazione che danneggia i lavoratori settentrionali. Ora, io non sto qui a  offermarmi sulle varie incoerenze della proposta leghista. Mi limito solo a far presente che i divari di prezzo tra una metropoli e una località di provincia possono risultare anche più ampi di quelli tra Nord e Sud, per cui volendo applicare la logica leghista fino in fondo dovremmo immaginare contrattazioni differenziate pure tra città e paesini, tra zone ben collegate e zone isolate, e così via, senza più riuscire a mettere un punto fermo. Ma il punto chiave è che se di discriminazione vogliamo davvero parlare, allora forse dovremmo partire da fenomeni ben più macroscopici, come ad esempio quelli creati dalle leggi di deregolamentazione e di precarizzazione del lavoro che la Lega in questi anni ha sempre sostenuto e promosso. A causa di questo smantellamento del diritto del lavoro, oggi possiamo trovarci in una situazione in cui, per esempio, due lavoratori del Nord lavorano nella stessa azienda, con le stesse identiche qualifiche e le stesse mansioni, e ciò nonostante vengono sottoposti a norme diverse, a contratti diversi, a salari totalmente diversi e persino a padroni diversi. Altro che introduzione delle “gabbie salariali”, dunque. Qui c’è piuttosto da abbattere la gabbia della precarizzazione, che scientificamente divide al suo interno la classe lavoratrice, al Nord come al Sud, e che la Lega ha contribuito in modo decisivo a edificare.

Oltre alle gabbie salariali la Lega agita pure la bandiera del blocco dell’immigrazione….
Certo, e in questo caso lo scopo è di trarre alimento dalle divisioni tra lavoratori nativi e migranti. La Lega trae enormi consensi da questa strategia. Alcuni ritengono che ciò dipenda da un moto irrazionale identitario dei nativi contro i migranti, i quali verrebbero concepiti come un tipico “caprio espiatorio”, un nemico esterno da annientare. Ciò è senz’altro possibile, ma i dati rivelano che la xenofobia dei lavoratori nativi scaturisce anche dal pericolo concreto, materiale, che gli immigrati alimentino una concorrenza ancor più sfrenata sui salari, sui posti di lavoro, sul welfare e sugli spazi metropolitani. Per motivi dunque non solo identitari ma anche strettamente materiali la linea della Lega è finora risultata vincente, e qualcuno a sinistra sembra essersi rassegnato a subirne la forza dirompente. Al contrario, io credo che la bandiera del blocco dell’immigrazione possa e debba essere efficacemente contrastata issando una bandiera alternativa: quella del blocco dei movimenti di capitale. Bisognerebbe cioè comunicare ai lavoratori nativi che, invece di far la guerra agli immigrati, dovrebbero unirsi con essi attorno all’obiettivo di impedire al capitale di scorazzare liberamente da un capo all’altro del mondo, a caccia della tassazione più favorevole, dei minimi vincoli ambientali, dei salari più bassi e delle massime opportunità di sfruttamento del lavoro. Talvolta cerco di sintetizzare questo ragionamento affermando che se vogliamo liberare i migranti, allora dobbiamo arrestare i capitali. Adopero volentieri queste parole d’ordine poiché le considero non solo efficaci nella lotta politica, ma anche istruttive per la sinistra. Dobbiamo infatti capire che se vogliamo davvero riunificare i lavoratori, se per esempio vogliamo costruire un legame sociale tra lavoratori nativi e immigrati, non possiamo più appellarci al buon cuore della gente. Dovremmo invece avanzare proposte precise e credibili, nelle quali gli uni e gli altri possano riconoscersi. Questo è un punto molto importante, poiché vedo che a sinistra troppe volte si pretende di affrontare questi problemi sulla base di un umanesimo ingenuo, secondo cui basterebbe dichiarare che l’altro sono io per stemperare ogni conflitto. Questo “buonismo” è totalmente inadeguato ai tempi di ferro che stiamo attraversando, ed è pure sintomo a mio avviso di una diffusa pigrizia intellettuale e politica.

Mettiamo allora da parte ogni “buonismo”, e interroghiamoci sulla possibilità concreta di riunificare i lavoratori attorno alla parola d’ordine del blocco dei capitali. A questo proposito, non c’è comunque il rischio che il blocco dei movimenti di capitale danneggi i lavoratori dei paesi meno sviluppati, che necessitano di risorse finanziarie esterne per uscire dalla povertà?
No. E’ vero piuttosto il contrario. La libera circolazione internazionale dei capitali ha scatenato una competizione senza freni, che aumentando i rischi di attacco speculativo sulle valute ha drasticamente ridimensionato la sovranità politica dei singoli paesi – specie se meno sviluppati – e che ha dato avvio a una lunga e profondissima deflazione salariale mondiale. Da questo vortice recessivo sono riusciti almeno in parte a sottrarsi solo quei paesi che hanno mantenuto qualche forma di relativa chiusura dei loro mercati ai movimenti internazionali di capitale. La Cina è un esempio emblematico, in questo senso.

A seguito della grande recessione in corso si è tornati a parlare, anche nei nostri ambienti, di “crisi finale del capitalismo”. Che ne pensi?
L’idea di una “crisi finale del capitale” viene solitamente portata avanti dagli eredi più o meno consapevoli delle correnti bordighiste del marxismo, e in genere si basa sulla “legge” di caduta tendenziale del saggio di profitto. La versione marxiana tradizionale di quella legge non funziona, ma credo sia possibile individuare nuove modalità di riscontro della medesima. Da un punto di vista politico, tuttavia, il tema della “crisi finale” è delicato. Quando tra i militanti si discute della legge di caduta del profitto, noto che si cade facilmente in un clima “destinale”, che spesso li spinge verso analisi superficiali e fuorvianti. Ai militanti sedotti da questo tipo di discussioni uso dire che il Capitale di Marx non è il Vangelo secondo Giovanni, e che le complicate riflessioni sulla “crisi finale” del capitale sono una cosa un po’ diversa dalle premonizioni sull’Apocalisse. Credo allora che i militanti farebbero meglio a porsi interrogativi più immediati, e in un certo senso più smaliziati. Per esempio, sarebbe ora di analizzare in profondità il rapporto tra i meccanismi di auto-riproduzione del capitalismo e degli apparati ideologici che lo sorreggono da un lato, e i meccanismi di auto-riproduzione dei partiti che si dichiarano anti-capitalisti dall’altro. Se la sopravvivenza delle strutture di questi partiti finisce per dipendere in misura decisiva dalla partecipazione agli organi di governo o di sotto-governo, la definizione stessa di “anti-capitalisti” rischia di diventare un ossimoro, una vera e propria contraddizione in termini. E’ chiaro infatti che sotto condizioni di inesorabile dipendenza “riproduttiva”, la crisi non può mai logicamente assumere il carattere di “occasione storica”.  uesta è una questione importante, sulla quale bisognerebbe indagare senza semplificazioni né inutili moralismi, ma anche senza reticenze.

La troika e i diritti umani

di Luciano Gallino da Controlacrisi
 
La gestione delle crisi nell’Unione Europea ha condotto a massicce violazioni di diritti umani. Inoltre il modo in cui le crisi sono state gestite ha esposto una serie di buchi neri quando si tratta di individuare le responsabilità per la violazione di diritti umani». Lo ha scritto di recente una giurista del Centro per lo Studio dei Diritti umani della London School of Economics, Margot E. Salomon. Il suo saggio è uno dei più approfonditi finora apparsi sul tema, dopo quello del 2014 di Andreas Fischer-Lescano, docente a Brema (“Diritti umani ai tempi delle politiche di austerità”). I tagli a sanità, pensioni, stipendi, diritti del lavoro, istruzione, servizi pubblici imposti da Commissione Europea, Fmi e Bce a Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda, Italia e altri paesi hanno inflitto gravi privazioni a milioni di persone. È sempre più evidente che le istituzioni Ue e il Fmi non avevano il diritto di compiere azioni del genere. Non soltanto: si può sostenere che compiendole hanno violato dozzine di articoli di patti, trattati, carte e convenzioni sottoscritti da esse medesime, a cominciare dal Trattato fondativo dell’Unione.
Vediamo qualche caso. Tra i diritti legalmente sanciti dalla Carta Sociale Europea (versione riveduta del 1996) figurano i seguenti: «Tutti i lavoratori hanno diritto a un’equa retribuzione che assicuri a loro e alle loro famiglie un livello di vita soddisfacente» (art. 4); «I bambini e gli adolescenti hanno diritto a una speciale tutela contro i pericoli fisici e morali cui sono esposti» (art. 7); «Ogni persona ha diritto di usufruire di tutte le misure che le consentano di godere del migliore stato di salute ottenibile» (art. 11); «Tutti i lavoratori e i loro aventi diritto hanno diritto alla sicurezza sociale» (art. 12); «Ogni persona sprovvista di risorse sufficienti ha diritto all’assistenza sociale e medica» (art. 13); «Ogni persona anziana ha diritto ad una protezione sociale» (art. 23); «Tutti i lavoratori hanno diritto ad una tutela in caso di licenziamento » (art, 24); «Ogni persona ha diritto alla protezione dalla povertà e dall’emarginazione sociale» (art. 30).
Si potrebbe continuare citando articoli analoghi del Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali (New York 1966); della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea; di una mezza dozzina almeno di Convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, dal 1948 in avanti. Per finire magari con l’articolo 7 dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale, intitolato “Crimini contro l’umanità”, che al comma “k” recita: «Altri atti inumani di carattere simile che causano intenzionalmente grande sofferenza, o seria menomazione al corpo o alla salute mentale o fisica».
Allo scopo di portare la Commissione, la Bce e il Fmi davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, o alla Corte penale internazionale, e perché no qualche governo europeo, affinché rispondano delle violazioni dei diritti umani delineate sopra, vi sarebbero diversi punti critici da affrontare. I rapporti menzionati all’inizio scartano subito l’argomento principe dei fautori dell’austerità: le ristrettezze inflitte alle popolazioni Ue sarebbero state necessarie a causa della crisi finanziaria, l’urgenza di migliorare lo stato dei bilanci pubblici, il dovere degli stati debitori di ripagare i creditori. Le violazioni dei diritti umani, anche se comprovate, sarebbero quindi giustificate dalla situazione di emergenza, ovvero dallo “stato di eccezione” in cui versa o versava l’intera Ue. Tuttavia, se si accetta questo punto di vista, ha scritto un altro giurista (Paul Kirchhof), l’Europa intera, quale comunità fondata sul primato della legge, sarebbe privata della sua ragion d’essere. L’effetto sarebbe che nessun capo di Stato o ministro o membro del parlamento potrebbe intraprendere azioni vincolanti che riguardassero i cittadini, poiché il loro mandato ha una base legale: però la legge non esisterebbe più. Per cui il sistema legale europeo non può cedere il passo dinanzi a un presunto stato di emergenza, conclude il rapporto di Brema, ovvero non può che un sistema di competenze legali sia soppiantato da pratiche considerazioni politiche.
Un secondo punto critico riguarda l’individuazione dei soggetti responsabili delle violazioni dei diritti umani. Il principale strumento utilizzato nella Ue per imporre a un paese dure politiche di austerità ha preso in genere forma di un “Memorandum di intesa” (sigla inglese MoU), un documento che elenca in modo ossessivamente dettagliato le decurtazioni che un paese deve effettuare alla propria spesa pubblica per potere ottenere determinate concessioni dalla Troika. Su un piano affine ai MoU si collocano le lettere-diktat inviate da istituzioni europee a stati membri. Sia nella formulazione che nell’esecuzione, i MoU e affini sono opera di diversi soggetti, le cui rispettive responsabilità sarebbero da accertare. Tra di essi non rientra la Troika, poiché non ha personalità giuridica. Vi rientrano invece gli stati membri con i loro governi, il Fmi, la Bce, la Commissione Europea.
Si aggiunga che la responsabilità di tali soggetti nell’infliggere sofferenze a milioni di cittadini, violando i diritti umani riconosciuti dalla stessa Ue, è aggravata dal fatto che le politiche di austerità che hanno veicolato le violazioni si sono rivelate un fallimento totale. Dopo cinque anni, nei paesi destinatari dei MoU e delle lettere stile militare della Bce la disoccupazione è cresciuta a dismisura, la povertà assoluta e relativa anche, il Pil è diminuito di decine di punti, la struttura industriale è stata compromessa — vedi il caso Italia — e ad una intera generazione di giovani è stato rubato in gran parte il futuro. Per cui le suddette politiche non possono venire invocate come circostanze attenuanti.
Se le istituzioni della Ue e i loro dirigenti fossero riconosciuti responsabili dall’una o dall’altra Corte europea di violazione dei diritti umani e delle estese sofferenze che hanno provocato, non correrebbero certo il rischio di serie penalità. Ma sarebbe quanto meno un riconoscimento ufficiale di un fatto inaudito: milioni di vittime della crisi apertasi nel 2008 sono state chiamate, tramite le politiche di austerità, a pagare i danni della crisi da quelli stessi che l’hanno provocata, a cominciare dai loro governanti nazionali e internazionali.

La troika e i diritti umani

di Luciano Gallino da Controlacrisi
 
La gestione delle crisi nell’Unione Europea ha condotto a massicce violazioni di diritti umani. Inoltre il modo in cui le crisi sono state gestite ha esposto una serie di buchi neri quando si tratta di individuare le responsabilità per la violazione di diritti umani». Lo ha scritto di recente una giurista del Centro per lo Studio dei Diritti umani della London School of Economics, Margot E. Salomon. Il suo saggio è uno dei più approfonditi finora apparsi sul tema, dopo quello del 2014 di Andreas Fischer-Lescano, docente a Brema (“Diritti umani ai tempi delle politiche di austerità”). I tagli a sanità, pensioni, stipendi, diritti del lavoro, istruzione, servizi pubblici imposti da Commissione Europea, Fmi e Bce a Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda, Italia e altri paesi hanno inflitto gravi privazioni a milioni di persone. È sempre più evidente che le istituzioni Ue e il Fmi non avevano il diritto di compiere azioni del genere. Non soltanto: si può sostenere che compiendole hanno violato dozzine di articoli di patti, trattati, carte e convenzioni sottoscritti da esse medesime, a cominciare dal Trattato fondativo dell’Unione.
Vediamo qualche caso. Tra i diritti legalmente sanciti dalla Carta Sociale Europea (versione riveduta del 1996) figurano i seguenti: «Tutti i lavoratori hanno diritto a un’equa retribuzione che assicuri a loro e alle loro famiglie un livello di vita soddisfacente» (art. 4); «I bambini e gli adolescenti hanno diritto a una speciale tutela contro i pericoli fisici e morali cui sono esposti» (art. 7); «Ogni persona ha diritto di usufruire di tutte le misure che le consentano di godere del migliore stato di salute ottenibile» (art. 11); «Tutti i lavoratori e i loro aventi diritto hanno diritto alla sicurezza sociale» (art. 12); «Ogni persona sprovvista di risorse sufficienti ha diritto all’assistenza sociale e medica» (art. 13); «Ogni persona anziana ha diritto ad una protezione sociale» (art. 23); «Tutti i lavoratori hanno diritto ad una tutela in caso di licenziamento » (art, 24); «Ogni persona ha diritto alla protezione dalla povertà e dall’emarginazione sociale» (art. 30).
Si potrebbe continuare citando articoli analoghi del Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali (New York 1966); della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea; di una mezza dozzina almeno di Convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, dal 1948 in avanti. Per finire magari con l’articolo 7 dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale, intitolato “Crimini contro l’umanità”, che al comma “k” recita: «Altri atti inumani di carattere simile che causano intenzionalmente grande sofferenza, o seria menomazione al corpo o alla salute mentale o fisica».
Allo scopo di portare la Commissione, la Bce e il Fmi davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, o alla Corte penale internazionale, e perché no qualche governo europeo, affinché rispondano delle violazioni dei diritti umani delineate sopra, vi sarebbero diversi punti critici da affrontare. I rapporti menzionati all’inizio scartano subito l’argomento principe dei fautori dell’austerità: le ristrettezze inflitte alle popolazioni Ue sarebbero state necessarie a causa della crisi finanziaria, l’urgenza di migliorare lo stato dei bilanci pubblici, il dovere degli stati debitori di ripagare i creditori. Le violazioni dei diritti umani, anche se comprovate, sarebbero quindi giustificate dalla situazione di emergenza, ovvero dallo “stato di eccezione” in cui versa o versava l’intera Ue. Tuttavia, se si accetta questo punto di vista, ha scritto un altro giurista (Paul Kirchhof), l’Europa intera, quale comunità fondata sul primato della legge, sarebbe privata della sua ragion d’essere. L’effetto sarebbe che nessun capo di Stato o ministro o membro del parlamento potrebbe intraprendere azioni vincolanti che riguardassero i cittadini, poiché il loro mandato ha una base legale: però la legge non esisterebbe più. Per cui il sistema legale europeo non può cedere il passo dinanzi a un presunto stato di emergenza, conclude il rapporto di Brema, ovvero non può che un sistema di competenze legali sia soppiantato da pratiche considerazioni politiche.
Un secondo punto critico riguarda l’individuazione dei soggetti responsabili delle violazioni dei diritti umani. Il principale strumento utilizzato nella Ue per imporre a un paese dure politiche di austerità ha preso in genere forma di un “Memorandum di intesa” (sigla inglese MoU), un documento che elenca in modo ossessivamente dettagliato le decurtazioni che un paese deve effettuare alla propria spesa pubblica per potere ottenere determinate concessioni dalla Troika. Su un piano affine ai MoU si collocano le lettere-diktat inviate da istituzioni europee a stati membri. Sia nella formulazione che nell’esecuzione, i MoU e affini sono opera di diversi soggetti, le cui rispettive responsabilità sarebbero da accertare. Tra di essi non rientra la Troika, poiché non ha personalità giuridica. Vi rientrano invece gli stati membri con i loro governi, il Fmi, la Bce, la Commissione Europea.
Si aggiunga che la responsabilità di tali soggetti nell’infliggere sofferenze a milioni di cittadini, violando i diritti umani riconosciuti dalla stessa Ue, è aggravata dal fatto che le politiche di austerità che hanno veicolato le violazioni si sono rivelate un fallimento totale. Dopo cinque anni, nei paesi destinatari dei MoU e delle lettere stile militare della Bce la disoccupazione è cresciuta a dismisura, la povertà assoluta e relativa anche, il Pil è diminuito di decine di punti, la struttura industriale è stata compromessa — vedi il caso Italia — e ad una intera generazione di giovani è stato rubato in gran parte il futuro. Per cui le suddette politiche non possono venire invocate come circostanze attenuanti.
Se le istituzioni della Ue e i loro dirigenti fossero riconosciuti responsabili dall’una o dall’altra Corte europea di violazione dei diritti umani e delle estese sofferenze che hanno provocato, non correrebbero certo il rischio di serie penalità. Ma sarebbe quanto meno un riconoscimento ufficiale di un fatto inaudito: milioni di vittime della crisi apertasi nel 2008 sono state chiamate, tramite le politiche di austerità, a pagare i danni della crisi da quelli stessi che l’hanno provocata, a cominciare dai loro governanti nazionali e internazionali.

Eurozona: quelli che ‘nel 1997 i tassi erano al 14%’

di Alberto Bagnai da ilfattoquotidiano.it


In occasioni precedenti ho avuto modo di rimarcare che i lettori di questo blog non apprezzano il mio stile, eccessivamente ironico e barocco. Accetto la sfida, e vengo incontro alle anime belle urticate dal mio sarcasmo, proponendo loro un fact checking scritto in una prosa scarna: attica, direi, visto che fra pochi giorni la Grecia andrà di moda. Analizzerò le dichiarazioni che Beniamino Moro, ordinario di Economia Politica presso il Dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali dell’Università di Cagliari, ha reso alla trasmissione Times Squares il 22 gennaio 2015 (qui).
Gli italiani sono diventati più poveri?
Al minuto 5:30 la conduttrice afferma: “Da quando è entrato in vigore l’euro gli italiani sono diventati effettivamente più poveri”. Moro replica: “Questo non è assolutamente vero”.
Nel 1999 il Pil pro capite in termini reali degli italiani era di 23187 euro. Nel 2014 è stato di 22729 euro (Fondo Monetario Internazionale). Inoltre, se rappresentiamo in un grafico il rapporto fra il Pil pro capite italiano e quello medio dell’Eurozona (variabile Rvgdp della base dati Ameco), otteniamo questo risultato:
reddito pro capite eurozona

Pubblicità

Nel 1960 il reddito italiano era intorno al 90% di quello medio europeo. Da allora abbiamo recuperato posizioni fino al 1996 (evidenziato in rosso). Nel 1997 la lira si agganciò all’Ecu a una parità vicina al cambio irrevocabile con l’euro. Il percorso verso l’euro prevedeva infatti l’obbligo di mantenere il cambio fisso nei due anni precedenti all’ingresso nella moneta unica (articolo 3 del protocollo sui criteri di convergenza, articolo 109j del Trattato di Maastricht). In buona sostanza, l’Italia entra nell’euro nel 1997 (come ho spiegato qui). Il declino relativo del nostro reddito coincide con questo aggancio valutario: è un tracollo inarrestabile, che ci porta oggi ad avere un reddito del 15% inferiore alle media dell’Eurozona: peggio che negli anni ’60, quando eravamo del 10% sotto la media. Come spiega Moro questo fenomeno?
I tassi di interesse
Al minuto 6:35 il professor Moro dice: “L’Italia e la Spagna pagavano tassi d’interesse al di sopra del 14%, che in due anni di indirizzo verso la convergenza europea dal primo di gennaio del 1998 con l’adesione all’euro hanno visto i tassi d’interesse al 5%”.
Primo errore: l’adesione all’euro è avvenuta il primo di gennaio del 1999 (non del 1998).
Secondo errore: nei due anni precedenti i tassi di interesse sui titoli del debito italiano erano già al 7%, come ho spiegato qui e come può essere verificato presso il sito dell’Eurostat.
Non è vero che l’adesione all’euro abbia causato la discesa dei tassi europei. Confrontando la media dei tassi di interesse dei paesi dell’Eurozona e di quelli esterni ad essa si osserva la stessa dinamica:
tasso interesse titoli di stato
(la spezzata blu rappresenta la media dei tassi di interesse a lungo termine dei paesi dell’Eurozona a 12 paesi, quella rossa dei principali paesi OCSE fuori dall’Eurozona: Regno Unito, Stato Uniti, Norvegia, Svezia, Svizzera, Canada, Giappone, Australia, Nuova Zelanda). Fra gennaio 1990 e gennaio 1999 i tassi di entrambi i gruppi di paesi sono diminuiti in media di 6 punti. Che l’euro abbia regalato bassi tassi ai paesi membri è quindi un mito: è stato determinante l’atteggiamento di politica monetaria fortemente espansivo tenuto da Greenspan negli Stati Uniti (che ha causato ovunque nel mondo riduzioni dei tassi).
Il dividendo dell’euro
Al minuto 7:15 il professor Moro asserisce che: “In questi 13 anni basta fare un semplice calcolo elementare che può fare anche uno studente delle scuole medie, un abbassamento dal 14% e oltre al tasso del 5%… sono 9 punti di differenza su un debito di 1000 mld …. il 9% sul tasso d’interesse… su 10 anni significano significa 900 miliardi”. Naturalmente il prof. Moro ricorda che lo stock di debito italiano è circa il doppio, suggerendo così che il risparmio determinato dall’euro sia anch’esso il doppio, ovvero 1800 miliardi (più avanti nel filmato parla di 1200 miliardi).
Abbiamo già trattato in questo blog l’argomento del cosiddetto dividendo dell’euro dimostrandone l’infondatezza. Inoltre, abbiamo appena visto che già due anni prima dell’entrata nell’euro i tassi di interesse erano al 7% in tutto il mondo. Prendere il 14% come base per il ragionamento è erroneo. In ogni caso, questo ragionamento è futile e ideologico: i dati mostrano che anche dopo l’avvento dell’euro i tassi dell’Eurozona ed extra-Eurozona si sono mossi in sincrono. L’euro non ha fatto alcuna differenza, ed è quanto meno bislacco chiedersi cosa sarebbe successo se non ci fosse stato.
Considerazioni simili vennero svolte nel 1997 da Alesina (qui). A chi sosteneva che il Sistema Monetario Europeo (Sme) aveva favorito la disinflazione dei paesi europei Alesina mostrava che non vi era alcuna evidenza che il rientro dall’inflazione nello Sme fosse stato più rapido che in altri paesi Ocse (lo disse anche sul Corriere). I benefici dell’adesione al regime eurista si dimostrano infondati non appena si confrontino i dati europei con quelli di chi non ha aderito al regime.
La Bce è stata brava e vigilante
Al minuto 9:10 il professor Moro sostiene che: “Il bello del nostro sistema, dell’unione economica e monetaria, è che abbiamo una Bce che è stata ed è tuttora molto brava e con il famoso “la banca farà tutto il possibile e vedrete non sarà di poco conto” del 2012 è riuscita a invertire le aspettative e a far diminuire nuovamente gli spread”.
Certo, ma è anche vero che la Bce non è riuscita a rispettare il suo obiettivo di mantenere l’inflazione vicina al 2%. Oggi siamo in deflazione perché la Bce si è mossa in ritardo, come Krugman aveva ammonito nel 1998. L’elogio di una banca centrale che non è riuscita ad evitare una catastrofe annunciata da 17 anni mi starebbe bene in Pindaro, un po’ meno in un collega.
La Bce vigila a livello europeo e socializza il rischio
Al minuto 15:45 il Moro afferma che l’attuale situazione di bassi tassi “dipende in larghissima misura dal fatto che comunque i mercati continuano ad attribuire e a dare una certa fiducia al fatto che esista una Bce che controlla i mercati finanziari a livello europeo con una moneta unica europea, cercando di socializzare quello che può essere il rischio di ciascuno dei paesi”.
Intanto, dato che l’Eurozona è entrata in deflazione, far riferimento ai tassi nominali è fuorviante: se il tasso è al 2% ma i prezzi calano dell’1%, il debitore di fatto sostiene un tasso del 3%. Non è corretto dire che “fuori i tassi sarebbero più alti”, anche perché…fuori sono più bassi! Un secondo errore è affermare che la Bce controlli il mercato finanziario europeo. La vigilanza sui mercati finanziari è delegata alle istituzioni nazionali, cioè è segmentata a livello nazionale. Economisti eminenti e intellettualmente onesti come Tabellini hanno da tempo riconosciuto che questo è un gravissimo errore di progettazione della moneta unica. È poi erroneo affermare che la Bce “socializza” il rischio a livello europeo, e farlo proprio il 22 gennaio 2015, cioè nel giorno in cui viene varato il quantitative easing, che esplicitamente accolla alle banche centrali nazionali l’80% del rischio delle operazioni di finanziamento della Bce. Alla faccia della socializzazione!
La crisi del 1992
Al minuto 25:20, rispondendo alla conduttrice che faceva notare come in assenza di riallineamento della valuta l’unica strada sia quella della svalutazione interna (taglio dei salari), il prof. Moro dichiara che: “quello che auspica il prof. Bagnai è tornare alla situazione precedente all’ingresso nell’Unione Monetaria Europea e forse il prof. Bagnai si dimentica che quel tipo di mondo che lui auspica col ritorno alla lira è finito nel 1992 con una crisi finanziaria tremenda…la crisi era dovuta più o meno a questa situazione, almeno a livello nazionale (…), il tentativo di spendere a livello pubblico, col bilancio pubblico, molto di più di quello che può entrare nel bilancio pubblico”.
Sorvolo sulla narrazione terroristica della crisi del 1992: una svalutazione nominale di circa il 20%, come ce ne son state a decine (anche oggi, come sapete, abbiamo svalutato del 20% sul dollaro), l’inflazione non aumentò ma diminuì (come oggi), i tassi di interesse non crebbero ma scesero (come oggi), non restammo isolati dai mercati finanziari internazionali (come oggi), ecc. Moro ripete la vulgata giornalistica della crisi del 1992, gravemente errata, come ho mostrato qui.
Moro afferma che la crisi del 1992, simile a quella attuale, sia stata causata dalla flessibilità del cambio. In realtà entrambe le crisi finanziarie italiane sono state precedute da un periodo di rigidità del cambio intra-europeo. Nel 1992 fu il cosiddetto “Sme credibile”, l’impegno dei paesi aderenti allo Sme di mantenere fissi i cambi fra le rispettive valute. Il grafico mostra che la lira era stabile rispetto all’Ecu già dall’estate del 1985 (il periodo evidenziato dall’ovale rosso):
italia lira ecu
Nei 7 anni fra il 1985 e il 1992 la liretta perse rispetto all’Ecu meno del 4% (rimanendo a 1500 lire per Ecu)! Quindi non sono state certo le svalutazioni a determinare la crisi del 1992.
L’affermazione di. Moro secondo cui “noi nel periodo dello Sme, dal ’79 sino a quando non è scoppiata la crisi nel ’92, avevamo fatto più di una svalutazione all’anno, circa 13 o 14 svalutazioni in 12 anni, e la situazione dove ha portato? Al disastro finanziario e alle famose manovre del governo Amato” è errata. Ho descritto altrove quali sono stati i riallineamenti della lira (la cronologia, per chi volesse verificare, è questa). La lira si è riallineata al ribasso solo quattro volte, e tutte prima del 1985, poi è stata stabile fino al settembre del 1992, come si vede nel grafico. Punto.
L’idea secondo la quale se il marco si riallineava al rialzo avevamo comunque svalutato noi, è balzana, razzista, ignora il funzionamento dello Sme (dove il riferimento era l’Ecu), e scollata dalla più elementare logica economica. In qualsiasi università al mondo si insegna che i prezzi si muovono rispondendo agli eccessi di domanda e di offerta nel mercato. Peraltro, solo un nostalgico del regime bolscevico può venerare la pianificazione dei prezzi (incluso quello della valuta). Come ho mostrato ampiamente qui, non era solo la “liretta” a svalutare, ma spesso e volentieri era il “marcone” a rivalutare, e lo provano due fatti:

  1. il fatto che la Germania aveva un elevato surplus estero (che determinava una elevata domanda di marchi per comprare prodotti tedeschi, domanda che provocava il fisiologico apprezzamento del marco);
  2. il fatto che il marco si apprezzasse rispetto alle valuta di quasi tutti i partner europei (non solo alla “liretta”), esclusi quelli della zona marco (essenzialmente Olanda e Austria).

Lo squilibrio maggiore dei conti esteri era quello tedesco, ed è quindi ovvio che fosse il marco ad apprezzarsi: lo ammette perfino Tommaso Padoa Schioppa, il quale chiarisce anche che l’unico modo per resistere alla forza del marco era (ed è) comprimere i salari: “un severissimo controllo dei salari accrebbe anno dopo anno la competitività favorendo la crescita” (citando la Francia). Padoa Schioppa ammette quindi che chi si lega col cambio fisso (Sme credibile o euro) a un paese a moneta forte deve comprimere i propri salari. Il cambio rigido è uno strumento di pressione sui sindacati (va detto che si tratta spesso di vis grata puellae). Lo dicono i manuali universitari:
Questa ipotesi sembra abbastanza plausibile e capace, fra l’altro, di concorrere a spiegare perché la Banca d’Italia, inizialmente contraria all’adesione allo SME, lo abbia poi accolto senza riserve, invocando, anzi, gli obblighi di mantenimento della stabilità dei cambi che ne discendevano per contrastare politiche salariali… ritenute inflazionistiche (politica del cambio forte)”
(p. 121 dell’edizione italiana di Acocella, tradotto in inglese dalla Cambridge University Press).
La crisi del 1992 fu causata dalle resistenze a comprimere salari e inflazione in Italia. Il differenziale positivo di inflazione con la Germania ci fece perdere competitività (i nostri beni diventavano meno convenienti perché i loro prezzi crescevano più in fretta) e mandò in rosso la bilancia dei pagamenti. Ho mostrato su lavoce.info le analogie fra quella situazione e la crisi del 2011. La successiva crisi del 1992-93 venne presa a pretesto per smantellare gli ultimi presidi di tutela del potere d’acquisto dei lavoratori. Nulla cambia: oggi la rigidità della moneta unica provoca crisi prese a pretesto per riforme strutturali, cioè tagli dei salari e delle pensioni.
Che il debito pubblico non c’entri nulla con la crisi lo ha detto il vicepresidente della Bce Vitor Constancio. L’analisi di Constancio si applica anche alla crisi del 1992 (qui e qui).
La liberalizzazione dei movimenti di capitali
Al minuto 33:45, interrompendomi mentre riferivo il fatto che nel 1990 vennero liberalizzati i movimenti dei capitali in Europa, il prof. Moro afferma: “Guardi che i movimenti e la liberalizzazione è avvenuta nel ’92 dopo la crisi”. La liberalizzazione dei movimenti di capitali venne decisa nel 1988 con questa direttiva che entrò in vigore nel 1990. Lo sanno tutti.
Sintesi
Il prof. Moro ha riportato incorrettamente fatti noti e importanti quali:

  1. la dinamica dei tassi di interesse negli anni ’90;
  2. la data di entrata dell’Italia nell’Eurozona;
  3. la data in cui i movimenti di capitali vennero liberalizzati in Europa;
  4. quali e quanti furono i riallineamenti del cambio della lira nello Sme;

Un errore, per essere tale, deve essere accidentale. Purtroppo, però, tutte le lievi sviste del prof. Moro sono sistematicamente indirizzate in senso ideologico: o attribuiscono all’euro vantaggi che non ha avuto, o attribuiscono alla sovranità monetaria colpe che non ha avuto.
Morale della favola
Gentili colleghi, desidero che lo sappiate: anch’io ho dei figli ai quali tengo. Non saranno, come quello del professor Moro, studiosi di valore (valore che riconosco, dissociandomi esplicitamente dalle speculazioni di una certa stampa), ma per loro desidero un futuro sereno in un paese libero, e se non posso lasciar loro ricchezze, posso però lasciar loro un esempio: l’esempio di un uomo libero al quale la cupola della sua professione non fa alcuna paura, e che da qui in avanti non lascerà passare inosservata nessuna delle lievi imprecisioni che gli accadrà di udire nel dibattito pubblico. La democrazia vive sul presupposto di una corretta informazione degli elettori. Chi coopera, volontariamente o meno, a diffondere informazioni fattualmente false si qualifica non tanto come un professionista non eccessivamente scrupoloso, quanto come nemico della democrazia. E io desidero che i miei figli non vivano in un regime, asfissiati dalle sue menzogne.
Chi non accetterà il fact checking avrà a disposizione tre strade:

  1. approfittare del diritto di replica che questa testata (una delle poche, se non l’unica, effettivamente libere in Italia) offre, e produrre i suoi dati, per smentire quelli che io riporto attingendoli dal Fondo Monetario, da Eurostat, dalla Banca d’Italia, ecc.
  2. querelarmi, laddove ritenga lesivo far notare che se un tasso di interesse era il 7% non poteva essere il 14%;
  3. tacere.

La prima alternativa è la più divertente. State parlando con una persona che lavora da trent’anni. Se cominciate a parlare di dati con me mettete un piede nelle sabbie mobili. Se provate a smentirmi, ci mettete anche l’altro, e a quel punto siete finiti: più vi agitate, peggio è, ma feel free!
La seconda alternativa è quella che preferisco. I venti (mila) lettori del mio blog saranno lieti di finanziarmi l’avvocato, quindi per me il costo è nullo. Per voi il costo è superiore, ma sarebbero soldi spesi bene: servirebbero a trasformare le verità fattuali che espongo in verità giudiziali, e sono sicuro che col tempo questo farebbe passare la voglia di travisarle.
Sulla terza, ovviamente, taccio.
Per me è comunque un win-win game.
Sotto un altro…

Eurozona: quelli che ‘nel 1997 i tassi erano al 14%’

di Alberto Bagnai da ilfattoquotidiano.it


In occasioni precedenti ho avuto modo di rimarcare che i lettori di questo blog non apprezzano il mio stile, eccessivamente ironico e barocco. Accetto la sfida, e vengo incontro alle anime belle urticate dal mio sarcasmo, proponendo loro un fact checking scritto in una prosa scarna: attica, direi, visto che fra pochi giorni la Grecia andrà di moda. Analizzerò le dichiarazioni che Beniamino Moro, ordinario di Economia Politica presso il Dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali dell’Università di Cagliari, ha reso alla trasmissione Times Squares il 22 gennaio 2015 (qui).
Gli italiani sono diventati più poveri?
Al minuto 5:30 la conduttrice afferma: “Da quando è entrato in vigore l’euro gli italiani sono diventati effettivamente più poveri”. Moro replica: “Questo non è assolutamente vero”.
Nel 1999 il Pil pro capite in termini reali degli italiani era di 23187 euro. Nel 2014 è stato di 22729 euro (Fondo Monetario Internazionale). Inoltre, se rappresentiamo in un grafico il rapporto fra il Pil pro capite italiano e quello medio dell’Eurozona (variabile Rvgdp della base dati Ameco), otteniamo questo risultato:
reddito pro capite eurozona

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Nel 1960 il reddito italiano era intorno al 90% di quello medio europeo. Da allora abbiamo recuperato posizioni fino al 1996 (evidenziato in rosso). Nel 1997 la lira si agganciò all’Ecu a una parità vicina al cambio irrevocabile con l’euro. Il percorso verso l’euro prevedeva infatti l’obbligo di mantenere il cambio fisso nei due anni precedenti all’ingresso nella moneta unica (articolo 3 del protocollo sui criteri di convergenza, articolo 109j del Trattato di Maastricht). In buona sostanza, l’Italia entra nell’euro nel 1997 (come ho spiegato qui). Il declino relativo del nostro reddito coincide con questo aggancio valutario: è un tracollo inarrestabile, che ci porta oggi ad avere un reddito del 15% inferiore alle media dell’Eurozona: peggio che negli anni ’60, quando eravamo del 10% sotto la media. Come spiega Moro questo fenomeno?
I tassi di interesse
Al minuto 6:35 il professor Moro dice: “L’Italia e la Spagna pagavano tassi d’interesse al di sopra del 14%, che in due anni di indirizzo verso la convergenza europea dal primo di gennaio del 1998 con l’adesione all’euro hanno visto i tassi d’interesse al 5%”.
Primo errore: l’adesione all’euro è avvenuta il primo di gennaio del 1999 (non del 1998).
Secondo errore: nei due anni precedenti i tassi di interesse sui titoli del debito italiano erano già al 7%, come ho spiegato qui e come può essere verificato presso il sito dell’Eurostat.
Non è vero che l’adesione all’euro abbia causato la discesa dei tassi europei. Confrontando la media dei tassi di interesse dei paesi dell’Eurozona e di quelli esterni ad essa si osserva la stessa dinamica:
tasso interesse titoli di stato
(la spezzata blu rappresenta la media dei tassi di interesse a lungo termine dei paesi dell’Eurozona a 12 paesi, quella rossa dei principali paesi OCSE fuori dall’Eurozona: Regno Unito, Stato Uniti, Norvegia, Svezia, Svizzera, Canada, Giappone, Australia, Nuova Zelanda). Fra gennaio 1990 e gennaio 1999 i tassi di entrambi i gruppi di paesi sono diminuiti in media di 6 punti. Che l’euro abbia regalato bassi tassi ai paesi membri è quindi un mito: è stato determinante l’atteggiamento di politica monetaria fortemente espansivo tenuto da Greenspan negli Stati Uniti (che ha causato ovunque nel mondo riduzioni dei tassi).
Il dividendo dell’euro
Al minuto 7:15 il professor Moro asserisce che: “In questi 13 anni basta fare un semplice calcolo elementare che può fare anche uno studente delle scuole medie, un abbassamento dal 14% e oltre al tasso del 5%… sono 9 punti di differenza su un debito di 1000 mld …. il 9% sul tasso d’interesse… su 10 anni significano significa 900 miliardi”. Naturalmente il prof. Moro ricorda che lo stock di debito italiano è circa il doppio, suggerendo così che il risparmio determinato dall’euro sia anch’esso il doppio, ovvero 1800 miliardi (più avanti nel filmato parla di 1200 miliardi).
Abbiamo già trattato in questo blog l’argomento del cosiddetto dividendo dell’euro dimostrandone l’infondatezza. Inoltre, abbiamo appena visto che già due anni prima dell’entrata nell’euro i tassi di interesse erano al 7% in tutto il mondo. Prendere il 14% come base per il ragionamento è erroneo. In ogni caso, questo ragionamento è futile e ideologico: i dati mostrano che anche dopo l’avvento dell’euro i tassi dell’Eurozona ed extra-Eurozona si sono mossi in sincrono. L’euro non ha fatto alcuna differenza, ed è quanto meno bislacco chiedersi cosa sarebbe successo se non ci fosse stato.
Considerazioni simili vennero svolte nel 1997 da Alesina (qui). A chi sosteneva che il Sistema Monetario Europeo (Sme) aveva favorito la disinflazione dei paesi europei Alesina mostrava che non vi era alcuna evidenza che il rientro dall’inflazione nello Sme fosse stato più rapido che in altri paesi Ocse (lo disse anche sul Corriere). I benefici dell’adesione al regime eurista si dimostrano infondati non appena si confrontino i dati europei con quelli di chi non ha aderito al regime.
La Bce è stata brava e vigilante
Al minuto 9:10 il professor Moro sostiene che: “Il bello del nostro sistema, dell’unione economica e monetaria, è che abbiamo una Bce che è stata ed è tuttora molto brava e con il famoso “la banca farà tutto il possibile e vedrete non sarà di poco conto” del 2012 è riuscita a invertire le aspettative e a far diminuire nuovamente gli spread”.
Certo, ma è anche vero che la Bce non è riuscita a rispettare il suo obiettivo di mantenere l’inflazione vicina al 2%. Oggi siamo in deflazione perché la Bce si è mossa in ritardo, come Krugman aveva ammonito nel 1998. L’elogio di una banca centrale che non è riuscita ad evitare una catastrofe annunciata da 17 anni mi starebbe bene in Pindaro, un po’ meno in un collega.
La Bce vigila a livello europeo e socializza il rischio
Al minuto 15:45 il Moro afferma che l’attuale situazione di bassi tassi “dipende in larghissima misura dal fatto che comunque i mercati continuano ad attribuire e a dare una certa fiducia al fatto che esista una Bce che controlla i mercati finanziari a livello europeo con una moneta unica europea, cercando di socializzare quello che può essere il rischio di ciascuno dei paesi”.
Intanto, dato che l’Eurozona è entrata in deflazione, far riferimento ai tassi nominali è fuorviante: se il tasso è al 2% ma i prezzi calano dell’1%, il debitore di fatto sostiene un tasso del 3%. Non è corretto dire che “fuori i tassi sarebbero più alti”, anche perché…fuori sono più bassi! Un secondo errore è affermare che la Bce controlli il mercato finanziario europeo. La vigilanza sui mercati finanziari è delegata alle istituzioni nazionali, cioè è segmentata a livello nazionale. Economisti eminenti e intellettualmente onesti come Tabellini hanno da tempo riconosciuto che questo è un gravissimo errore di progettazione della moneta unica. È poi erroneo affermare che la Bce “socializza” il rischio a livello europeo, e farlo proprio il 22 gennaio 2015, cioè nel giorno in cui viene varato il quantitative easing, che esplicitamente accolla alle banche centrali nazionali l’80% del rischio delle operazioni di finanziamento della Bce. Alla faccia della socializzazione!
La crisi del 1992
Al minuto 25:20, rispondendo alla conduttrice che faceva notare come in assenza di riallineamento della valuta l’unica strada sia quella della svalutazione interna (taglio dei salari), il prof. Moro dichiara che: “quello che auspica il prof. Bagnai è tornare alla situazione precedente all’ingresso nell’Unione Monetaria Europea e forse il prof. Bagnai si dimentica che quel tipo di mondo che lui auspica col ritorno alla lira è finito nel 1992 con una crisi finanziaria tremenda…la crisi era dovuta più o meno a questa situazione, almeno a livello nazionale (…), il tentativo di spendere a livello pubblico, col bilancio pubblico, molto di più di quello che può entrare nel bilancio pubblico”.
Sorvolo sulla narrazione terroristica della crisi del 1992: una svalutazione nominale di circa il 20%, come ce ne son state a decine (anche oggi, come sapete, abbiamo svalutato del 20% sul dollaro), l’inflazione non aumentò ma diminuì (come oggi), i tassi di interesse non crebbero ma scesero (come oggi), non restammo isolati dai mercati finanziari internazionali (come oggi), ecc. Moro ripete la vulgata giornalistica della crisi del 1992, gravemente errata, come ho mostrato qui.
Moro afferma che la crisi del 1992, simile a quella attuale, sia stata causata dalla flessibilità del cambio. In realtà entrambe le crisi finanziarie italiane sono state precedute da un periodo di rigidità del cambio intra-europeo. Nel 1992 fu il cosiddetto “Sme credibile”, l’impegno dei paesi aderenti allo Sme di mantenere fissi i cambi fra le rispettive valute. Il grafico mostra che la lira era stabile rispetto all’Ecu già dall’estate del 1985 (il periodo evidenziato dall’ovale rosso):
italia lira ecu
Nei 7 anni fra il 1985 e il 1992 la liretta perse rispetto all’Ecu meno del 4% (rimanendo a 1500 lire per Ecu)! Quindi non sono state certo le svalutazioni a determinare la crisi del 1992.
L’affermazione di. Moro secondo cui “noi nel periodo dello Sme, dal ’79 sino a quando non è scoppiata la crisi nel ’92, avevamo fatto più di una svalutazione all’anno, circa 13 o 14 svalutazioni in 12 anni, e la situazione dove ha portato? Al disastro finanziario e alle famose manovre del governo Amato” è errata. Ho descritto altrove quali sono stati i riallineamenti della lira (la cronologia, per chi volesse verificare, è questa). La lira si è riallineata al ribasso solo quattro volte, e tutte prima del 1985, poi è stata stabile fino al settembre del 1992, come si vede nel grafico. Punto.
L’idea secondo la quale se il marco si riallineava al rialzo avevamo comunque svalutato noi, è balzana, razzista, ignora il funzionamento dello Sme (dove il riferimento era l’Ecu), e scollata dalla più elementare logica economica. In qualsiasi università al mondo si insegna che i prezzi si muovono rispondendo agli eccessi di domanda e di offerta nel mercato. Peraltro, solo un nostalgico del regime bolscevico può venerare la pianificazione dei prezzi (incluso quello della valuta). Come ho mostrato ampiamente qui, non era solo la “liretta” a svalutare, ma spesso e volentieri era il “marcone” a rivalutare, e lo provano due fatti:

  1. il fatto che la Germania aveva un elevato surplus estero (che determinava una elevata domanda di marchi per comprare prodotti tedeschi, domanda che provocava il fisiologico apprezzamento del marco);
  2. il fatto che il marco si apprezzasse rispetto alle valuta di quasi tutti i partner europei (non solo alla “liretta”), esclusi quelli della zona marco (essenzialmente Olanda e Austria).

Lo squilibrio maggiore dei conti esteri era quello tedesco, ed è quindi ovvio che fosse il marco ad apprezzarsi: lo ammette perfino Tommaso Padoa Schioppa, il quale chiarisce anche che l’unico modo per resistere alla forza del marco era (ed è) comprimere i salari: “un severissimo controllo dei salari accrebbe anno dopo anno la competitività favorendo la crescita” (citando la Francia). Padoa Schioppa ammette quindi che chi si lega col cambio fisso (Sme credibile o euro) a un paese a moneta forte deve comprimere i propri salari. Il cambio rigido è uno strumento di pressione sui sindacati (va detto che si tratta spesso di vis grata puellae). Lo dicono i manuali universitari:
Questa ipotesi sembra abbastanza plausibile e capace, fra l’altro, di concorrere a spiegare perché la Banca d’Italia, inizialmente contraria all’adesione allo SME, lo abbia poi accolto senza riserve, invocando, anzi, gli obblighi di mantenimento della stabilità dei cambi che ne discendevano per contrastare politiche salariali… ritenute inflazionistiche (politica del cambio forte)”
(p. 121 dell’edizione italiana di Acocella, tradotto in inglese dalla Cambridge University Press).
La crisi del 1992 fu causata dalle resistenze a comprimere salari e inflazione in Italia. Il differenziale positivo di inflazione con la Germania ci fece perdere competitività (i nostri beni diventavano meno convenienti perché i loro prezzi crescevano più in fretta) e mandò in rosso la bilancia dei pagamenti. Ho mostrato su lavoce.info le analogie fra quella situazione e la crisi del 2011. La successiva crisi del 1992-93 venne presa a pretesto per smantellare gli ultimi presidi di tutela del potere d’acquisto dei lavoratori. Nulla cambia: oggi la rigidità della moneta unica provoca crisi prese a pretesto per riforme strutturali, cioè tagli dei salari e delle pensioni.
Che il debito pubblico non c’entri nulla con la crisi lo ha detto il vicepresidente della Bce Vitor Constancio. L’analisi di Constancio si applica anche alla crisi del 1992 (qui e qui).
La liberalizzazione dei movimenti di capitali
Al minuto 33:45, interrompendomi mentre riferivo il fatto che nel 1990 vennero liberalizzati i movimenti dei capitali in Europa, il prof. Moro afferma: “Guardi che i movimenti e la liberalizzazione è avvenuta nel ’92 dopo la crisi”. La liberalizzazione dei movimenti di capitali venne decisa nel 1988 con questa direttiva che entrò in vigore nel 1990. Lo sanno tutti.
Sintesi
Il prof. Moro ha riportato incorrettamente fatti noti e importanti quali:

  1. la dinamica dei tassi di interesse negli anni ’90;
  2. la data di entrata dell’Italia nell’Eurozona;
  3. la data in cui i movimenti di capitali vennero liberalizzati in Europa;
  4. quali e quanti furono i riallineamenti del cambio della lira nello Sme;

Un errore, per essere tale, deve essere accidentale. Purtroppo, però, tutte le lievi sviste del prof. Moro sono sistematicamente indirizzate in senso ideologico: o attribuiscono all’euro vantaggi che non ha avuto, o attribuiscono alla sovranità monetaria colpe che non ha avuto.
Morale della favola
Gentili colleghi, desidero che lo sappiate: anch’io ho dei figli ai quali tengo. Non saranno, come quello del professor Moro, studiosi di valore (valore che riconosco, dissociandomi esplicitamente dalle speculazioni di una certa stampa), ma per loro desidero un futuro sereno in un paese libero, e se non posso lasciar loro ricchezze, posso però lasciar loro un esempio: l’esempio di un uomo libero al quale la cupola della sua professione non fa alcuna paura, e che da qui in avanti non lascerà passare inosservata nessuna delle lievi imprecisioni che gli accadrà di udire nel dibattito pubblico. La democrazia vive sul presupposto di una corretta informazione degli elettori. Chi coopera, volontariamente o meno, a diffondere informazioni fattualmente false si qualifica non tanto come un professionista non eccessivamente scrupoloso, quanto come nemico della democrazia. E io desidero che i miei figli non vivano in un regime, asfissiati dalle sue menzogne.
Chi non accetterà il fact checking avrà a disposizione tre strade:

  1. approfittare del diritto di replica che questa testata (una delle poche, se non l’unica, effettivamente libere in Italia) offre, e produrre i suoi dati, per smentire quelli che io riporto attingendoli dal Fondo Monetario, da Eurostat, dalla Banca d’Italia, ecc.
  2. querelarmi, laddove ritenga lesivo far notare che se un tasso di interesse era il 7% non poteva essere il 14%;
  3. tacere.

La prima alternativa è la più divertente. State parlando con una persona che lavora da trent’anni. Se cominciate a parlare di dati con me mettete un piede nelle sabbie mobili. Se provate a smentirmi, ci mettete anche l’altro, e a quel punto siete finiti: più vi agitate, peggio è, ma feel free!
La seconda alternativa è quella che preferisco. I venti (mila) lettori del mio blog saranno lieti di finanziarmi l’avvocato, quindi per me il costo è nullo. Per voi il costo è superiore, ma sarebbero soldi spesi bene: servirebbero a trasformare le verità fattuali che espongo in verità giudiziali, e sono sicuro che col tempo questo farebbe passare la voglia di travisarle.
Sulla terza, ovviamente, taccio.
Per me è comunque un win-win game.
Sotto un altro…

Cambiamo i trattati UE

di Luciano Gallino da  Repubblica


Poco prima delle elezioni, una nota rivista tedesca di studi politici ha pubblicato un articolo intitolato “Quattro anni di Merkel, quattro anni di crisi europea”. L’autore, Andreas Fisahn, non si riferiva affatto al rinnovo ch’era ormai certo del mandato alla Cancelliera, bensì al precedente periodo 2010-2013, in cui l’austerità imposta da Berlino tramite Angela Merkel ha rovinato i paesi Ue. Ma la sua diagnosi ci porta a dire che la riconferma di quest’ultima assicura che senza mutamenti di rilievo nelle politiche dell’Unione il prossimo quadriennio potrebbe essere anche peggio.

Sui guasti pan-europei delle politiche di austerità come ricetta per risolvere la crisi, in nome della stabilità dei bilanci pubblici, non ci possono essere dubbi. I disoccupati nella Ue hanno superato i 25 milioni, di cui oltre 19 nella sola zona euro, e 4 in Italia. La compressione dei salari e dei diritti dei lavoratori ha creato decine di milioni di lavoratori poveri, a cominciare dalla Germania dove i salari reali, caso unico in Europa, sono oggi inferiori a quelli del 2000. Quasi ovunque sono stati brutalmente tagliati i trattamenti pensionistici  –  da noi ne sanno qualcosa gli esodati, ma non soltanto loro  –  insieme con i fondi per l’istruzione, la sanità, i trasporti pubblici. Paesi quali la Grecia e il Portogallo sono stati letteralmente strangolati dalle prescrizioni della troika venuta dal Nord, senza che esse abbiano minimamente giovato ai loro bilanci. In tutta la Ue i comuni devono fronteggiare difficoltà di bilancio mai viste per continuare ad assicurare i servizi locali ai residenti.

Codesti risultati delle politiche di austerità, imposte alla fine dalla Germania, dovrebbero bastare per concludere che è necessario cambiare strada. Per contro i governi europei insistono sul sentiero battuto, a riprova del fatto che gli dèi fanno prima uscire di senno coloro che vogliono abbattere. La loro persistenza nell’errore ha preso sempre più forma di misure autoritarie, ideate e avallate da Berlino, Francoforte e Bruxelles. Hanno stanziato quattromila miliardi per salvare le banche, di cui oltre duemila impiegati soltanto nel 2008-2010, ma se i cittadini provano a dire che con 500 euro di pensione o 800 di cassa integrazione non si vive li mettono a tacere con cipiglio affermando che i tagli è l’Europa a chiederli. Come si legge in un altro articolo della stessa rivista citata sopra (firmato da H.-J. Urban), l’autoritarismo dei governi Ue trova un solido alimento nella retorica in tema di sorveglianza e disciplina finanziaria della Bce. La quale parla, nei suoi documenti ufficiali, di “processi di comando permanente”; “regole rigorose e vincolanti di disciplina politico-fiscale”; “credibilità ottenuta tramite sanzioni”; “sorveglianza rafforzata sui bilanci pubblici”, nonché di “robusti meccanismi di correzione” (leggasi pesanti sanzioni) che dovrebbero scattare in modo automatico. Giusto quelli che nei giorni scorsi han messo in fibrillazione il nostro governo, perché forse il bilancio dello Stato ha superato il fatidico limite del 3 per cento sul Pil di un decimo di punto percentuale.

Allo scopo di contrastare sia le politiche dissennate che pretendono di curare la crisi ricorrendo alle stesse dottrine che l’hanno causata, sia il crescente autoritarismo con cui i governi Ue le impongono sotto la sferza costruita da Berlino ma brandita ogni giorno dalla troika di Bruxelles (che in realtà è un quartetto, poiché molte delle sue più aspre prescrizioni sono elaborate dal Consiglio europeo, di cui fanno parte i capi di Stato e di governo dei paesi Ue), esiste una sola strada: la riforma dei trattati Ue, ovvero dei trattati di Maastricht, Lisbona ecc. oggi ricompresi nella versione consolidata che comprende le norme di funzionamento dell’Unione. I trattati particolari che ne sono discesi, fino all’ultimo dissennato “Patto fiscale”, che se fosse mai rispettato assicurerebbe all’Italia una o due generazioni di miseria, hanno come base il Trattato Ue, per cui da questo bisognerebbe partire.

Tra le revisioni principali da apportare al Trattato (alcune delle quali sono prospettate anche da Fisahn, l’autore citato all’inizio: ma articoli e libri che avanzano proposte a tale scopo, in quel tanto di pensiero critico che sopravvive in Europa, sono dozzine) la prima sarebbe di attribuire al Parlamento Europeo dei poteri reali, laddove oggi chi elabora i veri atti di governo è un organo del tutto irresponsabile, non eletto da nessuno, quale è la Commissione europea. Lo statuto della Bce dovrebbe includere la facoltà, sia pure a certe condizioni, di prestare denaro direttamente ai governi, rimuovendo l’assurdità per cui è l’unica banca centrale del mondo cui è vietato di farlo. Inoltre, esso dovrebbe porre accanto alla stabilità dei prezzi, quale finalità primaria delle sue azioni, un vincolo miope imposto a suo tempo dalla Germania che non ha ancora elaborato il lutto per l’inflazione del 1923, lo scopo di promuovere la piena occupazione. Dovrebbe altresì prevedere, la revisione del Trattato Ue, una graduale riforma radicale del sistema finanziario europeo volta a ridurre i suoi difetti strutturali, cioè l’eccesso di dimensioni, complessità, opacità (il sistema bancario ombra pesa nella Ue quanto il totale degli attivi delle banche), di facoltà di creare denaro dal nulla mediante il debito; laddove nella versione attuale il Trattato si preoccupa soprattutto di liberalizzare ogni aspetto del sistema stesso, con i risultati disastrosi che si sono visti dal 2008 in avanti: in special modo in Germania. A fronte di tale indispensabile riforma, gli interventi in atto o in gestazione, tipo il Servizio europeo di vigilanza bancaria o l’unione bancaria, sono palliativi da commedia di Molière. Infine l’intero trattato dovrebbe essere riveduto in modo da prevedere modalità concrete di partecipazione democratica dei cittadini a diversi livelli di decisione, dai comuni ai massimi organi di governo dell’Unione. Come diceva Hannah Arendt, senza tale partecipazione la democrazia non è niente.

So bene che a questo punto chi legge sta pensando che tutto ciò è impossibile. Stante la situazione politica attuale, nel nostro paese come in altri e specialmente in Germania, non ho dubbi al riguardo. Ma forse si potrebbe cominciare a discuterne. Ci sarebbe un politico italiano volonteroso e capace di avviare simile discussione? Anche perché l’alternativa è quella di continuare a discutere per altri venti o trent’anni, intanto che il paese crolla, di come fare a ridurre il deficit di un decimo dell’un per cento.

DOPPIOCIECO

Per una Razionalità Moderatamente Pluralista