Cosa si Nasconde Dietro la Legge sul Copyright

di Massimo Bordin (da Micidial.it)



[Questo pezzo di Massimo Bordin da Micidial.it è particolarmente interessante perché nella sua analisi va al di là delle solite (contraddittorie) ovvietà su snippet e compagnia bella. Nell’attuale contesto, ricordiamolo, abbiamo un Romano Prodi che sul Messaggero di oggi esalta il coraggio del Parlamento Europeo, alfiere dei diritti dei cittadini contro lo strapotere dei giganti della comunicazione, nonché di Junker, paladino di un euro in concorrenza del dollaro come valuta globale. Perché, sapete, la disaffezione dei cittadini nei confronti dell’Unione è dovuta alla troppa burocrazia e poca politica. Ecco, finalmente arrivano le decisioni politiche, il diritto d’autore e le sanzioni contro l’Ungheria, dato che, lo sanno tutti, Orban sta agendo in contrasto coi “valori” dell’Unione, la medesima Unione che ha fatto strame della sua madre morale, spirituale e culturale, la Grecia. Rallegratevi, dunque: volevate il ritorno della politica, ma questa non ci ha mai abbandonato, casomai stava affilando i suoi “valori” per poterci pugnalare meglio. (Domenico D’Amico)]

Il 12 settembre il Parlamento Europeo ad ampia maggioranza ha approvato la legge sul copyright. In Italia il Movimento 5 Stelle tuona il suo parere contrario per voce del leader Di Maio, mentre sui più blasonati giornali online si festeggia. Ufficialmente gli articoli 11 e 13, vero cuore della riforma, sembrano indirizzati a preservare i diritto d’autore, ma, come dice il poeta, “fatta la legge trovato l’inganno”.
Lascerei perdere l’idea che il pericolo stia dietro il divieto di pubblicare immagini o spezzoni di contenuti altrui sotto forma di link (chiamati snippet). Se fosse davvero tutto qua ci sarebbe solo da festeggiare: basterebbe infatti evitare di richiamare le puttanate che puntualmente scrivono le testate giornalistiche mainstream e saremo a cavallo. Anzi, messa giù così l’agonia del giornalismo prezzolato subirebbe una forte accelerazione perché le piattaforme più importanti del web come Google e Facebook si troverebbero nella condizione di impedire la divulgazione tramite modalità ipertestuale dei vari Espresso, Repubblica, Corriere, Sole24ore, Huffingtonpost, ecc. Per i blog, i canali privati di youtube e le testate giornalistiche medio-piccole sarebbe una manna caduta dal cielo di Strasburgo.
Siccome le lobby degli editori, invece, hanno fatto pressione proprio nel senso opposto a quello sopra descritto, occorre allora chiedersi che diamine nasconda questa legge.
Il trucco sta tutto negli algoritmi che facebook e google news dovranno implementare per difendere il diritto d’autore. Con ogni probabilità, Zuckerberg e amici dovranno pagare costosissimi algoritmi allo scopo di individuare tutti quei siti e post che non pagano gli editori per avere il diritto di pubblicare un loro link nella forma evoluta dello snippet. In altri termini, se possiedi un sito web che divulga informazioni, alla fine dell’iter attuativo della legge, potresti trovarti bloccato da facebook o da qualsiasi piattaforma internet. Perché?
Per il semplice fatto che queste piattaforme si saranno dotate di un algoritmo che individua i siti dotati di licenza, li lascia scaricare i contenuti, ed al contempo blocca tutti quelli che non hanno la licenza, cioè quelli che non si fanno pagare, come i piccoli blog o le piccole testate giornalistiche. Sembra non aver nulla a che fare col diritto d’autore, e infatti non ce l’ha, quello è solo il pretesto per fermare la libera informazione col trucchetto sorosiano della burocrazia.
Lo scenario peggiore è quello per il quale le grandi case editoriali, tipo l’espresso, pagano una licenza ridicola e l’algoritmo facebookiano le intercetta e le accomoda sulla piattaforma con i loro link, le immagini e tutta la compagnia cantando. Gli altri che non pagano alcuna licenza, ma che lasciano accedere GRATUITAMENTE ai contenuti da essi prodotti, potrebbero però trovarsi bloccati perché un algoritmo così elaborato da ricercare ogni singola foto, ogni musichetta da 5 secondi, ogni citazione ipertestuale, magari da wikipedia, richiede un processo troppo complicato e, al più, esageratamente costoso. Insomma, per semplificare ed abbattere i costi, facebook e google potrebbero bloccare tutta l’informazione NON-mainstream, cioè, e guarda caso, tutta l’informazione che ha sconfitto il clan dei Clinton in America, che ha favorito la Brexit ed ha consentito l’avanzata dei sovranisti nell’Europa Continentale (Italia in primis). Anche qualora un sito web di news riuscisse a rivedere la propria produzione evitando le rassegne stampa, i link e le citazioni, basterà una foto di qualche politico o di qualche incontro pubblico, magari postato agli albori del sito, per vedersi il blocco perenne delle piattaforme internazionali. Hai voglia, dopo, con l’avvocatucolo di Vergate sul Membro, a farsi ripristinare il diritto a postare su facebook avendo a che fare con interlocutori che hanno sede legale a Menlo Park in California …
Molti attivisti ripongono fiducia sull’abilità delle piattaforme di adeguare gli algoritmi in modo da rispettare solo gli snippet, oppure sulla concretezza legislativa delle singole nazioni. Oppure ancora su un cambio di leadership al parlamento Europeo, visto che verrà rinnovato nel 2019.

Comunque vada a finire questa complicata vicenda una cosa è già appurata: non c’è nessuno di più smaccatamente illiberale dei liberisti che hanno preso le redini di questo continente, oramai troppo vecchio e stupido per poter pensare a qualsivoglia unificazione, trincerato in battaglie di retroguardia e incapace di proporre un valido modello alternativo a quello dei satrapi orientali alla Xi Jinping o al bellafighismo hollywoodiano d’oltreoceano.

Teorie economiche alternative Implicazioni per la politica economica


di Fabio Petri da sinistrainrete

Ripubblichiamo, con il permesso dell’autore, un vecchio saggio di Fabio Petri del 26.1.1995 che ci sembra tuttavia ancora utile come introduzione all’importanza che una solida base di analisi economica ha per trarre valide conclusioni di politica economica [Sergio Cesaratto]
 Premessa

aeaCalendarC’è da chiedersi innanzitutto se problemi come la disoccupazione siano da considerare come mali inevitabili, da addebitare ai lavoratori che si ostinano a pretendere salari troppo alti, o se invece si tratti di qualcosa di curabile attraverso interventi governativi che non rendano necessaria una diminuzione dei salari. Questo è un primo gruppo di questioni per le quali aderire ad una scuola teorica o ad un’altra fa una grande differenza. Mi soffermerò su questa differenza e poi parlerò del problema del debito pubblico che è la questione di cui si più si parla in Italia. Come vedremo, anche in questo caso ci si chiederà: il debito pubblico nel nostro Paese va o no azzerato in tempi brevi, mediante un attivo del bilancio dello Stato -cioè tramite entrate dello Stato superiori alle spese?
Il punto da cogliere è che gli economisti non sono d’accordo su quale sia la migliore descrizione di come funziona un’economia di mercato, e proprio per questo non sono neppure d’accordo su quale siano le risposte – in termini di scelte di politica economica – da dare alle domande che ci siamo posti.
Vorrei tentare di individuare la radice di fondo di questo disaccordo tra gli economisti. Tale radice risiede fondamentalmente nelle differenze di impostazione tra le due principali teorie economiche. Una di queste teorie è quella che io chiamo classica e che è quella di Adam Smith, Ricardo, di Marx – oggi integrata con l’apporto di Keynes – l’altra è quella che io chiamo marginalista anche se più spesso la si chiama neoclassica – che è quella oggi dominante nel mondo accademico. Il mio intervento seguirà il seguente schema:

1. Quali sono le linee fondamentali di queste due impostazioni teoriche ed in che cosa differiscono nella struttura teorica.
2. Cercherò di dimostrare come dalle differenze tra queste due impostazioni, emergano visioni profondamente diverse della natura della società in cui viviamo.
3. Suggerirò che una di queste due impostazioni, quella marginalista o neoclassica, si sia rivelata scientificamente molto debole e quindi da scartare.
4. Cercherò di dimostrare che le risposte più appropriate da dare ai problemi che ho indicato – disoccupazione e debito pubblico- sono molto diverse di quelle attualmente accreditate.

1. Le linee fondamentali della teoria classica e della teoria marginalista

Cominciamo dalle differenze tra queste due impostazioni ponendoci questa domanda: come è spiegato nelle due impostazioni il livello medio dei salari? Perché in certi periodi esso aumenta ed in altri diminuisce?
La scuola classica
Non presupporrò quasi alcuna conoscenza da parte vostra di economia, immagino però che tutti abbiate sentito parlare di Adam Smith – filosofo e professore universitario della fine del Settecento in Scozia – e di David Ricardo – figlio di una famiglia ebrea londinese, diventato miliardario speculando sui cambi, il quale si ritirò a vita privata e si occupò di economia politica per passione e che fu anche parlamentare. La teoria di David Ricardo venne a mio avviso travisata e infine abbandonata, con la quasi sola eccezione di Karl Marx, che la riprese nella seconda metà dell’Ottocento, quando già il pensiero dominante si muoveva in un’altra direzione. Questa teoria fu poi mantenuta in vita quasi esclusivamente da economisti marxisti, i quali, per ragioni ideologiche, in pochi trovarono spazio nelle università. Solo in tempi recenti la si è ripresa, dopo l’impulso dato dalla rinascita del radicalismo negli anni sessanta, ed anche ad opera di un notevolissimo economista italiano che studiò a Cambridge, Piero Sraffa.
Ebbene in Smith, in Ricardo, in Marx, troviamo sostanzialmente la stessa idea su che cosa determini il livello dei salari. Si tratta di quella che Marx avrebbe chiamato lotta di classe, ma l’idea non è propriamente sua, la troviamo già in Adam Smith: ossia, per Marx, ciò che determina il livello medio dei salari è il rapporto di forza tra la classe dei capitalisti e la classe dei lavoratori, che è in genere nettamente favorevole ai primi tranne che nei periodi di scarsità di manodopera, dovuti alle epidemie che decimavano i lavoratori, o generati da momenti di rapida crescita economica. Ma al di fuori di tali contingenze i capitalisti sono sufficientemente forti da mantenere il salario molto vicino ai livelli più bassi. Adam Smith lo definisce come il livello “compatibile con il comune sentimento di umanità”. Questa idea del comune sentimento di umanità è un’idea interessante, su cui torneremo.
In genere, nella cultura comune della sinistra – in tutto il mondo – si pensa che questi siano concetti elaborati da Marx, mentre in realtà Marx non faceva che riprendere, approfondire e dire in termini più chiari quanto già era stato detto prima di lui. Con la differenza che Marx disse queste cose in un’epoca in cui il conflitto tra operai e capitalisti era ormai diventato aperto. Adam Smith, alla fine del settecento, quasi un secolo prima di Marx si esprime in modo chiarissimo:

“Quale sia il salario ordinario, dipende ovunque da un contratto normalmente stipulato tra lavoratori salariati e datori di lavoro, i cui interessi non sono affatto gli stessi. I primi sono disposti a intese al fine di fare aumentare i salari, i secondi al fine di farli abbassare. I lavoratori desiderano ottenere il più possibile, i datori di lavoro dare il meno possibile. In ogni caso non è difficile prevedere quale delle due parti sia normalmente avvantaggiata nella disputa, e sia quindi in grado di imporre all’altra parte i propri termini contrattuali. I datori di lavoro, essendo in minor numero possono accordarsi più facilmente; la legge – era palesemente così all’epoca di Smith – agevola o non ostacola il perseguimento dei loro interessi, mentre ciò non accade per i lavoratori. Ma soprattutto, in questo conflitto, i datori di lavoro possono resistere molto più a lungo. Un proprietario, un industriale, un mercante, potrebbe generalmente vivere anche per un anno o due senza impiegare alcun lavoratore, consumando il capitale accumulato. Al contrario, senza impiego molti lavoratori non potrebbero resistere neppure una settimana, pochi resisterebbero per un mese, quasi nessuno per un anno”.

Nella descrizione di Smith i datori di lavoro sono sempre e ovunque una “casta” caratterizzata da “una tacita, ma costante, uniforme intesa a non aumentare i salari al di sopra del loro saggio corrente. Violare questa intesa, ovunque è un’azione assai impopolare”, che solleva critiche da parte degli altri imprenditori. Ai datori di lavoro si oppongono, nella coalizione contraria, i lavoratori. “I loro interessi abituali sono talvolta l’alto prezzo dei viveri, talvolta i grandi profitti che i datori ottengono dal loro lavoro”. I lavoratori descritti da Smith nel cercare un intesa migliore fanno sempre molto chiasso.

“Per raggiungere una decisione sollecita essi ricorrono a metodi sempre più spregiudicati e talvolta alla violenza e all’oltraggio. Essi sono disperati e agiscono con la sconsideratezza dei disperati destinati o a morire di fame, o a spaventare i loro datori di lavoro affinché soddisfino immediatamente le loro richieste. In queste occasioni però, i datori di lavoro, dal canto loro, non sono meno chiassosi e non cessano di domandare ad alta voce l’assistenza della magistratura e l’applicazione rigorosa di quelle leggi che sono state promulgate con grande severità contro le coalizioni dei servitori lavoranti giornalieri. Per cui assai raramente i lavoratori traggono vantaggio dalla violenza di queste tumultuose coalizioni che, per l’intervento della magistratura, o per la maggior fermezza dei datori di lavoro, o ancora per la necessità della maggioranza dei lavoratori di sottomettersi per non perdere la loro fonte di sussistenza, generalmente finiscono con la punizione o la rovina dei loro capi”.

Si capisce allora come venisse spontaneo a qualsiasi lucido osservatore dell’epoca, ammettere che i salari erano determinati da quella che Marx da un lato e Smith – che non era certo un socialista né tanto meno un comunista rivoluzionario – dall’altro, avrebbero chiamato lotta di classe. Tale lotta di classe era ovviamente determinata dalla disoccupazione, dalla fermezza dell’appoggio dello Stato ai datori di lavoro e, soprattutto, dal livello dei consumi, quale ormai era considerato indispensabile dalla consuetudine, come compatibile con il comune sentimento di umanità.
La situazione era molto simile a quella dei servi della gleba nel feudalesimo, quando i signori feudali riuscivano a ottenere un reddito positivo, ottenuto dai versamenti da parte dei servi della gleba, dal prodotto sui loro campi, o dalle corvée che i servi effettuavano sui campi del signore. La domanda che bisogna porsi è: perché i servi della gleba accettavano di rinunciare a una parte di ciò che avrebbero dovuto avere di diritto? La risposta è semplice: perché i signori feudali erano l’anello forte della catena sociale, era loro il controllo delle terre. Essi avevano i soldati per far rispettare il loro controllo sulle terre, perciò potevano imporre ai servi della gleba di lavorare e a questi ultimi non rimaneva, evidentemente, altra scelta se non cedere, per non morire di fame. Questo spiega perché vennero promulgate leggi che vietavano di fuggire nelle città da un lato, e dall’altro l’indebolimento del sistema feudale in seguito allo sviluppo delle città. Ma finché i signori mantennero ben saldo il monopolio della possibilità di lavorare, essi poterono pretendere parte del prodotto dai servi della gleba, o parte del loro tempo di lavoro.
Nel fare un’analisi della storia del feudalesimo, si è anche descritto un ciclo che potremmo definire politico, in cui i signori feudali aumentano sempre più le loro pretese, le loro esazioni, chiedono corvée sempre più lunghe, elevano le gabelle su ponti e strade, fino a quando i contadini, esasperati, esplodono. Per lo più le rivolte vengono facilmente soffocate nel sangue, ma qualche volta i servi della gleba riescono a muoversi tutti insieme, a marciare verso il castello e ad incendiarlo. A questo punto gli altri signori si precipitano con le loro soldataglie dal feudatario in difficoltà e per evitare che l’episodio si ripeta fanno molte concessioni ai servi della gleba, la cui situazione migliora. Così si esaurisce il ciclo, che si riapre quando i signori ricominciano ad aumentare le esazioni, fino al successivo scoppio di ira popolare.
La situazione nel regime capitalistico è, secondo Adamo Smith, Ricardo e Marx, molto simile. C’è un monopolio collettivo, detenuto dai capitalisti, sulla possibilità di lavorare, poiché lavorare richiede il capitale che i proletari non hanno, né esso gli viene anticipato dalle banche, in quanto nullatenenti. I capitalisti allora offrono la possibilità di lavorare, a patto che parte del prodotto resti a loro come profitto.
Si capisce come in una situazione del genere ci sia una profonda indeterminatezza di quale debba essere il livello del salario: i capitalisti vogliono abbassarlo il più possibile, i lavoratori alzarlo il più possibile. Ma in ogni dato momento c’è una storia passata che ha formato delle consuetudini. In tutte le situazioni di indeterminatezza, è normale partire dalle consuetudini. Esse permettono infatti di regolare la vita senza che ogni giorno si debba ristabilire tutto da capo. Quando poi da una delle due parti ci si accorge che i rapporti di forza sono cambiati, si cerca di sostituire le vigenti consuetudini, spingendo in un’altra direzione. E’ assai difficile, tuttavia, modificare le consuetudini, in quanto esse hanno un potere di pressione fortissimo sui comportamenti sociali, anche nella società odierna. I barboni, ad esempio, vivono con pochissimo, sono compagnie sgradevoli per la gente comune, perché vivono in un modo molto diverso dal nostro, perché il tipo di vita che fanno è notevolmente deteriorato. Sono persone la cui vita è ormai incompatibile con quella normale degli altri. Per questo la pressione sociale – affinché la gente non dia fastidio agli altri e sia adattabile ai modelli di vita dominanti – è un deterrente fortissimo. Tale pressione sociale impone, con una forza impressionante, un livello minimo di consumi, al di sotto del quale nessuno è disposto ad andare. Proviamo a immaginare, per assurdo, che arrivi una classe di invasori e imponga a tutti lo stile di vita dei barboni: accadrebbe che la stragrande maggioranza della popolazione non sarebbe disposta ad abbassare fino a quella soglia il proprio stile di vita. Se per un barbone infatti il suo stato è il punto di arrivo di un lento processo di degradazione, per la gente normale un brusco abbassamento del tenore di vita è semplicemente insopportabile. C’è un livello di consumi al di sotto del quale non vale la pena vivere, e per difendere il quale anzi vale la pena mettere a repentaglio la propria vita.
La scuola marginalista
Quella fin qui esposta è l’idea degli economisti classici. Confrontiamola adesso con l’altra, quella che abbiamo chiamato marginalista. La visione è completamente diversa: l’idea è che ci siano una domanda e un’offerta di lavoro [la domanda è quella espressa dalle imprese che richiedono manodopera e l’offerta è quella dei lavoratori, che offrono la propria forza lavoro, N.d.R.] e che la domanda di lavoro aumenti se i salari si abbassano. Allora a determinare i salari sarà il gioco della domanda e dell’offerta, ed infatti quando c’è disoccupazione, se i lavoratori non sono sciocchi, accetteranno che in una tale contingenza i salari si abbassino: il risultato sarà che la domanda di lavoro da parte delle imprese aumenterà.
Ora, l’idea comune della concorrenza è: quando l’offerta di un bene è maggiore della domanda, il prezzo si abbasserà, perché se chi offre non riesce a vendere, pur di non restare con la merce invenduta accetterà di piazzare il suo prodotto ad un prezzo più’ basso. La teoria marginalista, a questo proposito, sostiene che se anche i lavoratori accettassero di comportarsi in modo concorrenziale, accettando quindi la caduta dei salari, finché permane la disoccupazione – questo significa offerta di lavoro maggiore della domanda – è necessario che il salario si abbassi ancora, cosicché la domanda di lavoro da parte delle imprese possa aumentare e si arrivi, per questa via, alla piena occupazione. Il livello a cui sarà sceso il salario è il livello a cui le forze di mercato tendono a spingere i salari. Ed è questo che spiega il livello dei salari: perché esso aumenta? Perché diminuisce? Quando diminuisce il livello dei salari? Semplicemente quando aumenta l’offerta di lavoro. La crescente offerta di lavoro da parte delle donne, ad esempio, fa ovviamente abbassare il livello del salario, diversamente le imprese non avrebbero incentivi a impiegare questa nuova forza lavoro. Questa è la teoria dominante, quella che appare, a prima vista, la più plausibile.
Cerchiamo di capire quale struttura teorica sorregge questa teoria. Si potrebbe, infatti, ragionare in tutt’altro modo: supponiamo che ci sia disoccupazione e che i lavoratori accettino di farsi concorrenza e i salari si abbassino. Ma quando i salari si abbassano, quelli che già lavoravano hanno meno soldi di prima, quindi comprano meno beni e la domanda di beni che le imprese vendono diminuisce. Esse vendono meno e cominciano a licenziare. Perciò se i salari si abbassano non aumenta l’occupazione, ma al contrario diminuisce. Allora quale di questi due ragionamenti è quello più solido?
Cerchiamo di capire perché, quando il salario si abbassa, le imprese hanno convenienza a impiegare più lavoratori. Per i sostenitori dell’idea marginalista o neoclassica, la produzione non deriva solo dal lavoro, ma anche dal capitale. Le imprese hanno infatti una certa quantità di capitale, e quando con questa quantità di capitale vogliono impiegare più lavoratori, ogni nuovo lavoratore impiegato fa aumentare la produzione, ma questo aumento è gradualmente sempre minore per ogni lavoratore in più: e questo perché con un dato impianto, con dati beni capitali, i lavoratori aggiuntisi permetteranno di produrre cose via via meno utili (in una data falegnameria con uno stabilimento di cento metri quadri, se comincio ad aumentare i lavoratori impiegati, il prodotto cresce, ma per ogni lavoratore in più diminuisce lo spazio a disposizione; ad un certo punto, aumentando ancora i lavoratori, nessuno potrà più lavorare!).
Quale sarà allora il ragionamento dell’impresa quando dovrà decidere quanti lavoratori domandare? Confronterà quanto prodotto in più le verrebbe dall’impiegare un nuovo lavoratore, con il costo che l’assunzione di quest’ultimo comporta. Supponiamo che il centunesimo lavoratore permetta all’impresa di produrre beni in più, e che tali beni in più le diano un ricavo in più, dalla vendita, di un milione e mezzo al mese. Il lavoratore costa – supponiamo – un milione e duecentomila lire al mese: se l’impresa decide di assumerlo avrà un milione e mezzo di ricavo, un milione e due di costo, e trecentomila lire le resteranno come profitto. Fatti questi calcoli il lavoratore viene assunto. Stesso ragionamento verrà fatto per i successivi possibili lavoratori che permetteranno ulteriori aumenti di prodotto (via via sempre minori). Di conseguenza i ricavi in più saranno anch’essi via via minori.
Per cui l’impresa continuerà ad assumere fintanto che il ricavo ottenibile dalla maggiore produzione ottenuta con nuovi lavoratori sarà superiore al costo per ogni lavoratore in più. Questo meccanismo spiega il perché sia diffusa l’idea che l’occupazione dipenda dal livello dei salari, ma ricordiamo che stiamo ipotizzando un capitale dato, cioè degli impianti dati.
Se invece il capitale impiegato aumenta, questo comporterà un aumento del prodotto ed allora, probabilmente, anche gli ulteriori lavoratori contribuiranno alla produzione in misura maggiore; a parità dei salari vi sarà maggiore domanda di lavoratori da parte dell’impresa e, qualora si fosse già in una situazione di piena occupazione, il salario tenderà a salire. Quindi se aumenta l’offerta di lavoro il salario si abbassa, mentre se aumenta il capitale impiegato il salario tende ad innalzarsi.
Attenzione: non si è ancora confutato l’altro modo di ragionare cui avevamo accennato, in base al quale se i salari scendono i lavoratori comprano meno beni, quindi le imprese venderanno meno e saranno costrette a licenziare (per cui scendendo i salari l’occupazione diminuisce!).
Questo modo di ragionare è confutato, dai marginalisti nel modo seguente.
Il ragionamento che io ho fatto per il lavoro si può fare in modo esattamente simmetrico per il capitale. Un impresa, in un dato momento, avrà sia una certa quantità di capiate impiegato, che una certa quantità di lavoro impiegato. Dunque l’impresa si può porre lo stesso problema che abbiamo posto per i lavoratori anche per la quantità di capitale da domandare: conviene impiegare più capitale? L’impresa farà esattamente lo stesso tipo di ragionamento: se impiegasse un’unità in più di capitale – diciamo un milione in più – per impiegare ulteriori macchinari ecc., di quanto aumenterebbe il prodotto e quindi il ricavo? Per calcolare in modo corretto bisogna tener conto, però, anche del fatto che l’impresa dovrebbe indebitarsi per poter investire, quindi dovrebbe pagare un interesse. Si dovrà dunque confrontare il ricavo in più con il costo lordo del capitale (perché l’impresa dovrà restituire sia il milione di capitale ottenuto a prestito che l’interesse). Ma pur con questa piccola complicazione il ragionamento sarà esattamente lo stesso che nel caso dei lavoratori.
Si metterà a confronto il costo in più di ogni unità aggiuntiva di capitale con il ricavo in più, e se quest’ultimo è superiore al costo in più, allora conviene prendere a prestito quell’unità in più di capitale. Ed anche qui l’idea è: dato l’impiego di lavoro, quanto più capitale impiego tanto più aumenta il prodotto, ma via via di meno. Quindi ci sarà un momento in cui il costo in più e il ricavo in più si pareggiano e lì l’impresa si ferma. Ma se è così, non può mai esserci problema a vendere tutto ciò che si produce: infatti una parte di ciò che si produce verrà domandato dai consumatori ed una parte dalle imprese, che la acquisteranno come investimento. Ma quando le imprese fanno investimenti in realtà stanno ampliando il loro capitale, e allora ciò vuol dire che stanno decidendo di impiegare più capitale. Come abbiamo visto le imprese decidono di impiegare più capitale quando il saggio di interesse – che è il prezzo che devono pagare per il capitale – si abbassa. In altre parole il saggio di interesse è il prezzo che regola domanda e offerta di capitale: basta che il saggio d’interesse sia determinato dalla concorrenza, per far sì che le sue variazioni portino a far coincidere l’offerta di beni capitali delle imprese con la domanda.
Risulterà quindi che il salario, sulla base della concorrenza, riesce a portare alla piena occupazione il mercato del lavoro, ed il saggio di interesse, sulla stessa base, riesce a garantire che tutti i beni non comprati dai consumatori vengano comprati dalle imprese. Per questo, se nel breve periodo può verificarsi che all’abbassarsi dei salari i lavoratori comprino meno e quindi le imprese vendano meno, semplicemente saranno le imprese a comprare di più sulla base della diminuzione del saggio d’interesse. In ogni caso, essendosi abbassato il salario, le imprese impiegano ulteriori lavoratori, aumentano la produzione, e l’aumento della produzione in parte verrà comprato dai lavoratori di nuova assunzione, mentre la differenza di nuovo dalle imprese, purché si abbassi a sufficienza il saggio di interesse. Insomma se i mercati concorrenziali vengono lasciati funzionare bene, non c’è mai problema a vendere tutto quanto prodotto. E questa è la teoria dominante nel mondo accademico.
Le implicazioni importanti di questa teoria sono due: la prima è che se lasciamo funzionare beni i mercati, questi porteranno alla piena occupazione – per cui la disoccupazione che si osserva nella realtà è fondamentalmente causata dai lavoratori ed in particolare dai sindacati, che bloccano il meccanismo di mercato non lasciando abbassare il salario. Per questo le imprese domandano solo il numero di lavoratori che rende il costo del lavoro uguale a quel prodotto in più che gli economisti chiamano prodotto marginale del lavoro. E poiché il potere dei sindacati deriva da un riconoscimento del loro ruolo da parte dei lavoratori, sono questi ultimi, in sintesi, i responsabili della disoccupazione. La seconda conseguenza importante di questa visione riguarda la remunerazione che va al lavoro come salario e la remunerazione che va al capitale come interessi: esse corrispondono in realtà, in un senso molto profondo, ad un ideale di giustizia.
Infatti pensiamo ad un qualsiasi lavoratore: poiché come abbiamo visto, le imprese domandano lavoro fino al punto in cui il ricavo in più è uguale al costo in più, ciò vuol dire che il salario di questo qualsiasi lavoratore è proprio uguale al prodotto in più che l’impresa perderebbe se lo licenziasse. Quando l’impresa decide di impiegare quel lavoratore, confronta il ricavo in più col costo in più. Allora se l’impresa licenziasse il lavoratore essa perderebbe un ricavo in più proprio pari al salario. Quindi ciò vuol dire che il valore del salario è uguale al valore dei beni in più prodotti da quel lavoratore. Quando reputiamo equo ciò che noi paghiamo a qualcuno? Quando in qualche modo quello che noi paghiamo a qualcuno corrisponde a ciò che questo qualcuno ha contribuito a darci. Mettiamoci dal punto di vista della società: come facciamo a misurare il contributo alla società di ciascun singolo lavoratore? Il contributo che ciascun lavoratore dà alla società è esattamente ciò che la società perderebbe se questo lavoratore decidesse di non lavorare più, e cioè proprio quel prodotto in più attribuibile all’ultimo lavoratore. E quanto riceve il lavoratore come salario? Il valore di quel prodotto in più. Tanto dà e tanto riceve. C’è una corrispondenza perfetta tra contributo alla società e paga al lavoro.
Ora, si può dimostrare – e ci arrivate già intuitivamente sulla base del ragionamento fatto prima – che lo stesso deve valere anche per il capitale. Abbiamo detto che le imprese decidono anche quanto capitale impiegare con lo stesso ragionamento; e impiegano capitale fino al punto in cui il ricavo in più dell’ultima unità di capitale è pari al costo in più. Ma ciò significa che anche il saggio d’interesse riflette proprio il contributo di ciascuna unità di capitale, cioè anche l’interesse risponde a giustizia. Voi potreste dire: “un attimo, il lavoratore fatica, soffre per lavorare, mentre chi dà il capitale che sofferenza subisce?” E invece c’è la risposta anche qui: la sofferenza è la rinuncia al consumo. Da dove deriva il capitale? Esso viene dal risparmio, e quando qualcuno risparmia, rinuncia a consumare, è una sofferenza anche quella. Allora c’è un sacrificio dietro il capitale, il sacrificio corrisponde al risparmio, cioè alla rinuncia al piacere di consumare quei soldi. Questo sacrificio permette di risparmiare e il risparmio crea capitale. Quindi c’è un sacrificio dietro ogni unità di capitale. Ed il contributo alla società di questo sacrificio è il contributo corrispondente all’aumento di produzione reso possibile da quell’ulteriore unità di capitale. Se qualcuno decidesse di non risparmiare, la società perderebbe qualcosa. Perderebbe proprio quella produzione in più resa possibile da quell’unità in più di capitale, resa possibile da quel risparmio.
In conclusione, quindi, dietro il salario c’è un sacrificio e quel sacrificio viene remunerato in base al contributo che esso fornisce alla società. Allo stesso modo, dietro l’interesse c’è un sacrificio, e anche quel sacrificio viene remunerato in base al contributo che esso fornisce alla società.
Diciamo la verità: è bello, c’è un’armonia, c’è un’eleganza, una simmetria affascinante in questa teoria. Si può capire perché essa abbia avuto un notevole successo in ambito accademico, ed essa, tra l’altro, sembra basarsi su cose che paiono corrispondere alla realtà. Sembra corrispondere alla realtà il fatto che se in un’impresa con un dato capitale impieghiamo sempre più lavoratori, ad un certo punto i lavoratori in più faranno sì aumentare il prodotto, ma via via di meno, perché diventano via via meno utili. Ad un certo punto addirittura saranno superflui, non si saprà più che farne del millesimo lavoratore in una piccola falegnameria.

2. Le differenze: due diverse visioni della società

Chiarito dunque questo fatto, chiarita quindi la profonda simmetria che in questa visione c’è tra redditi da lavoro e redditi da capitale, chiarita la giustizia che il mercato realizza nel determinare le retribuzioni del lavoro e del capitale, e chiarita l’efficienza di tutto ciò – perché, ricordate, si va alla piena occupazione, purché si lasci funzionare la concorrenza – vediamo allora, brevemente, di sottolineare le differenze rispetto all’altra impostazione, quella classica.
L’impostazione classica vede le cose – soprattutto per via del posteriore contributo di Keynes – proprio nel modo che vi dicevo: se si abbassano i salari, l’effetto sarà che i lavoratori acquisteranno di meno, cioè le imprese venderanno meno e quindi ci saranno licenziamenti.
La giustizia della retribuzione
Ma vediamo innanzitutto l’aspetto della giustizia della retribuzione. Se si vedono le cose alla maniera dei classici – ricordatevi quella analogia che vi ho fatto con il feudalesimo – parlare di profitti delle imprese – che è il linguaggio usato poi da Marx – oppure parlare di interessi sul capitale, fondamentalmente è la stessa cosa: sono redditi che derivano dalla proprietà del capitale. Spesso l’imprenditore è egli stesso il proprietario del capitale, quindi i profitti li percepisce senza nemmeno ripagarli con interessi, ma in realtà se avesse prestato a qualcun altro il capitale avrebbe preteso un interesse, quindi quello che guadagna come profitti anche in quel caso va suddiviso tra compenso per il rischio e interessi. Quindi parlare di interessi o profitti è equivalente.
Nella visione classica, la misura di ciò che va agli interessi o ai profitti, deriva dal semplice fatto che i capitalisti hanno il coltello dalla parte del manico. Essi dicono ai lavoratori: un salario talmente alto che vi consenta di appropriarvi di tutto il prodotto, senza che nulla resti a noi come interesse e profitti, semplicemente non lo permetteremo mai; per farvi lavorare con il nostro capitale – e ce l’abbiamo noi il capitale – vogliamo profitti o interessi. E quindi la situazione è analoga a quella dei signori feudali con i servi della gleba; ma se – come credo tutti – accettereste che il reddito dei signori feudali sia in realtà analogo al pizzo della mafia (che va dal commerciante e dice: io ho le pistole, o mi dai queste 400mila lire al mese o ti spariamo), allora è estremamente legittimo dire che il reddito del signore feudale sia un’estorsione, uno sfruttamento. E poiché la situazione per i profitti è del tutto analoga, i profitti sono sfruttamento. Adam Smith non usa questa parola – che userà Marx – ma in realtà abbiamo visto, dai passi di cui vi ho detto, che il concetto è lo stesso anche per Smith: tutto è necessario per poter fare sfruttamento.
La disoccupazione
Altra differenza interessante: un marginalista direbbe che se c’è disoccupazione la colpa è dei lavoratori che non lasciano abbassare i salari. Un classico che cosa direbbe? Direbbe: “è semplicemente umano e normale che i lavoratori resistano agli abbassamenti salariali”, perché nella impostazione classica – ed è qui in realtà la differenza di fondo – questa idea che quando il prezzo del lavoro si abbassa, le imprese ne domandano di più, o che se il prezzo del capitale si abbassa le imprese ne domandano in più, quindi l’idea che noi ci potremmo costruire una curva decrescente di domanda per i fattori produttivi, in cui tanto più basso è il prezzo del fattore produttivo, tanto maggiore sarà la domanda, questa idea nei classici non c’è proprio. Se i salari si abbassano, il risultato immediato, per i classici, è semplicemente che si alzano i profitti: va di meno ai lavoratori e va di più ai capitalisti. Gli effetti sull’occupazione il più delle volte sono negativi; possono essere positivi solo se i capitalisti decidono di investire di più. Ma come dirà l’analisi economica successiva, a partire da questo importante economista, Keynes, in realtà le imprese non investono solo perché stanno facendo profitti. Le imprese investono quando pensano di usare bene i loro profitti nel costruire ulteriori impianti, quando cioè si aspettano di riuscire a vendere di più. Perché le imprese investano di più è necessario cioè che la domanda di beni stia già crescendo, per cui le imprese si aspettano di riuscire a vendere ancora di più. Quindi il risultato più probabile è l’altro, proprio quello che l’abbassamento del salario faccia abbassare la produzione, faciliti le crisi economiche.
Allora, dicevo, in una situazione di questo tipo, in cui non c’è nessun meccanismo di domanda e offerta che possa spontaneamente determinare un salario, in cui se il salario si abbassa o si innalza semplicemente è questione continua di lotta di classe, è del tutto naturale che i lavoratori si rifiutino di abbassare il salario.
Del resto provate a metterla così: se un abbassamento di salario non fa aumentare l’occupazione, quale sarà l’esperienza storica dei lavoratori? Anche quelle rare volte che i disoccupati, per disperazione o altro, dicono: purtroppo sto morendo di fame, vado alla fabbrica e mi offro alla metà del salario dei già impiegati, che cosa succederà? Succederà che i già occupati, per evitare il licenziamento, accetteranno essi stessi di farsi pagare solo la metà. Nella visione marginalista il risultato di questo abbassamento dei salari sarà l’aumento della domanda di lavoro. Avranno lavoro sia quelli che già erano occupati che i disoccupati. Nella visione classica invece gli occupati restano occupati ad un salario inferiore – se non vengono addirittura licenziati per l’abbassamento della domanda di beni, dovuto alla diminuzione di reddito dei lavoratori – e i disoccupati restano disoccupati. L’unica cosa che è successa è che ci hanno perso tutti. Ci hanno perso anche i disoccupati, che sono in genere mantenuti, almeno in parte, dai redditi dei loro parenti occupati.
Questa esperienza storica insegna molto rapidamente ai lavoratori che farsi concorrenza in questo modo – in cui i disoccupati si offrono ad un salario più basso – è un disastro. L’unico risultato è che tutti i salari si abbassano e l’occupazione non aumenta. E quindi è del tutto ovvio che si formi quello che la storia insegna – cioè che si formino dei sentimenti di assoluta proibizione morale per la concorrenza salariale. E in effetti questa cosa è talmente forte, che praticamente non ci si pensa nemmeno. A chi di voi viene in mente, se non ha trovato lavoro, di andare ad offrirsi ad un salario inferiore a quello normale? Quando vi chiedono: avete bisogno di lavoro? Ovviamente vi offrite al salario normale, al salario abituale. Perché non ci si offre a meno? Io sostengo che non lo si fa perché l’esperienza storica ha insegnato che ciò non serve. Ed a questo punto è diventata parte integrante della cultura operaia l’idea che sia qualcosa che, semplicemente, non si fa.
E questo è confermato dal fatto che in quei casi in cui è legittimo pensare che abbassare i salari serva a difendere l’occupazione, allora i lavoratori lo accettano. Infatti, quando per esempio c’è una fabbrica in pericolo di chiusura, e si riesce a mostrare ai lavoratori che l’unico modo per salvarla è abbassare i salari, allora i lavoratori lo accettano (spesso accettano di formare una cooperativa, e rilevare loro la fabbrica, benché sappiano che siccome la fabbrica non stava andando bene, questo significherà che per mesi, o forse per anni, dovranno accettare un salario più basso di quello di mercato).
La crescita economica
Altra differenza estremamente importante: la crescita economica, da che cosa dipende? Secondo l’impostazione marginalista, abbiamo visto, si riesce sempre a vendere tutto ciò che si produce – ovviamente sto mettendola in termini un po’ rigidi, per qualche anno ci sarà magari qualche difficoltà, i processi di aggiustamento del mercato non sono istantanei, ma in media se si lascia funzionare bene il mercato, si riuscirà a vendere tutto – e allora ciò che non viene venduto per consumi verrà venduto alle imprese. Ciò significherà investimenti. Ma ciò che non viene venduto per consumi che cos’è? Pensiamolo dal punto di vista dei redditi. Ciò che viene prodotto dalle imprese ha un valore e costituisce reddito. Allora, evidentemente, solo una parte di questo reddito viene impiegato e speso a comprare beni di consumo. Tutto il resto viene risparmiato. Quindi quella parte del valore della produzione che non corrisponde ai consumi, corrisponde al risparmio. Abbiamo detto che il risparmio è quella cosa che crea capitale. Infatti che voi lo vediate come soldi non spesi, o come beni prodotti e non consumati, ma che vanno alle imprese, che cosa vedete? Vedete questo risparmio monetario, che va ad incrementare il valore monetario del capitale – e a questo corrispondono proprio beni prodotti e non consumati, che però vanno alle imprese che aumentano il valore dei beni fisici utilizzati come capitale. Quindi il risparmio crea capitale e quanto più si risparmia, tanto più capitale si crea. E’ il capitale in più che determina la crescita economica. Conclusione: la crescita è determinata dai risparmi. Se vogliamo crescere di più bisogna risparmiare di più.
Nell’altra visione, quella classica, invece, la crescita è determinata dalle decisioni delle imprese di investire, che dipendono da tutt’altre cose – per esempio dall’aspettativa che si possa vendere di più in futuro. E molto spesso queste decisioni di investire sono insufficienti a mantenere la piena occupazione del lavoro. E’ il caso di oggi in Italia: avrete letto che nell’ultimo hanno [1994, N.d.R.] sono stati 400 o 500mila i posti di lavoro persi. Mentre per i classici lo Stato deve intervenire attivamente per favorire la crescita economica e favorire l’occupazione, perché il mercato di per sé non garantisce affatto che si arrivi alla piena occupazione – questa curva di domanda decrescente di lavoro non c’è, come pure non c’è una curva di domanda decrescente del capitale – per i marginalisti, invece, il mercato mette tutto a posto da solo. E da ciò ovviamente derivano le posizioni di tipo liberale, liberista ecc. espresse da Berlusconi o da Bossi – per i quali non ci sono punti di disaccordo sostanziale nelle linee di politica economica.
La politica economica
Veniamo alle differenze tra le due impostazioni riguardo alla politica economica.
Per risolvere il problema della disoccupazione, secondo i marginalisti bisogna spezzare le reni ai sindacati – quello che esplicitamente disse di voler fare la Tatcher quando subentrò al governo in Inghilterra. Non per cattiveria, ma semplicemente in ossequio alle leggi del mercato. Se vogliamo aumentare l’occupazione bisogna che i salari scendano, facendo funzionare la concorrenza. Invece un classico, che abbia imparato la lezione di Keynes, direbbe che lo Stato deve intervenire attivamente stimolando la domanda. Se non si stimola la domanda le imprese non decideranno di produrre di più e quindi di assumere più lavoratori.
Sulla crescita economica, l’implicazione di politica economica della teoria marginalista è: per crescere di più bisogna risparmiare di più, cioè consumare di meno. Per questo è importante diminuire il deficit dello Stato, perché lo stato i soldi li usa per consumi. Noi non siamo abituati a vedere questa attività dello Stato come consumi, però lo sono. I soldi dello Stato vanno in sanità, stipendi dei dipendenti pubblici, pensioni: non sono investimenti. Questi soldi che lo Stato spende in deficit li ottiene da un prestito: si indebita. Ma i soldi che i titolari dei titoli di Stato prestano allo Stato, sono risparmi sottratti all’investimento presso le imprese, che permetterebbero l’acquisto di beni capitali. Lo Stato, dunque, col deficit aumenta i consumi e diminuisce i risparmi e quindi gli investimenti. Rallenta quindi la formazione di nuovo capitale, la crescita economica. Invece, nell’altra prospettiva, quella classica, se lo Stato spende fa bene, perché aumenta la domanda, inducendo le imprese a produrre di più. Le imprese che producono, se osservano che stanno producendo molto, decidono di ampliare l’impianto. Più lo Stato spende e più gli investimenti sono stimolati. Le due visioni non potrebbero essere più diverse.

3. La solidità scientifica delle due teorie economiche

E allora visto tutto questo, voi capite l’importanza del decidere, sul piano scientifico, quale di queste due visioni sia più solida. Ora, ovviamente, ci vorrebbe un intero corso di laurea – e in molte facoltà neppure ci si arriva – per spiegare bene, fino in fondo, in tutti i dettagli, gli aspetti negativi e positivi di queste due visioni.
Tuttavia voglio almeno accennarvi al fatto che l’economista italiano di cui vi dicevo, Sraffa, ha mostrato sì che gli autori classici non avevano risolto alcuni problemi teorici – in particolare la famosa teoria del valore-lavoro di Marx non funzionava bene – ma che si trattava di problemi risolvibili all’interno della loro stessa teoria. Marx aveva incontrato un problema nello spiegare la determinazione dei prezzi relativi delle merci, e sosteneva che essi fossero determinati dal lavoro da esse incorporato e questo non è vero. Ma la sua idea di fondo era che ci debba essere un qualche modo per spiegare i prezzi relativi, una volta che noi prendiamo il salario come dato e determinato dalla lotta di classe. E’ quello che Sraffa dimostra: su questo Marx aveva perfettamente ragione. Si può costruire un sistema matematico che mostra – dato il salario determinato dalla lotta di classe – come sia la concorrenza tra i capitalisti (i quali tendono a far sì che il rendimento del capitale diventi uguale tendenzialmente in tutte le industrie) a determinare i prezzi delle merci. Quindi è vero che Marx, e prima di lui Ricardo ecc., non erano riusciti a risolvere bene questa questione, ma essa non mette in crisi la loro teoria. Essa resta logicamente forte.
La teoria marginalista, invece, incontra gravissimi problemi. Li possiamo qui solo accennare. Per spiegare che gli abbassamenti dei salari determinino un aumento della domanda di lavoro da parte delle imprese, si è dovuto ragionare ipotizzando che sia data la quantità dei fattori produttivi diversi dal lavoro, cioè capitale e terra (per dire che il contributo alla produzione di ogni lavoratore aggiuntivo era via via minore, infatti, si è fatto l’esempio di un dato impianto – una falegnameria in cui più aumentano i lavoratori e più aumenta il prodotto, ma solo finché non comincia a mancare fisicamente lo spazio ecc.). Data una certa quantità di questi altri fattori, capitale e terra, se impieghiamo via via più lavoratori, questi lavoratori faranno cose via via meno utili. La teoria marginalista, dunque, per essere forte, ha bisogno di argomentare che sia legittimo ipotizzare come data la quantità di capitale. Ma questo, si dimostrerà, non è legittimo.
Infatti è possibile considerare come data la quantità di capitale in due sensi:

1) si considera come data la quantità dei singoli beni capitali;
2) si considera come dato il valore complessivo di tutti i beni capitali;

Il primo modo di considerare come data la quantità di capitale, considerando come data la quantità dei singoli beni capitali (si prende come data la quantità di viti, trattori, vanghe, vernici, benzina, torni ecc.) esistenti nell’economia, non funziona. Infatti, non appena le imprese impiegano più lavoratori, un’enorme numero di queste quantità si modificherà. Se l’impresa vuole produrre di più ha bisogno di più pezzi intermedi per ottenere i prodotti finali. Quindi quei beni capitali che sono pezzi intermedi del processo produttivo dovranno essere acquistati anticipando soldi, cioè sarà necessario prendere a prestito capitale. Qui i beni intermedi cambiano.
Inoltre, quando il salario si abbassa, tutti i prezzi cambiano, perché i salari entrano nei costi di produzione in modo diverso a seconda delle merci. Per i prodotti chimici, ad esempio – dato che si tratta di prodotti con enormi macchinari e pochissimo lavoro – se il salario scende il costo di produzione quasi non cambia. Invece per prodotti ottenuti con molto lavoro manuale, come i jeans, quando il salario si abbassa il costo di produzione scenderà molto. Quindi cambieranno i prezzi dei beni e di conseguenza cambierà la domanda di questi beni. Cambiando la domanda di questi beni, cambieranno anche i beni capitali impiegati e necessari per produrli. Se i jeans si abbassano di prezzo la gente comprerà più jeans, le imprese acquisteranno più macchinari per fare più jeans. Quindi dieci giorni dopo che si è abbassato il salario sarà aumentata la domanda di jeans e le imprese ordineranno più macchinari per fare jeans, e le fabbriche che producono questi macchinari ne fabbricheranno di più.
Ovviamente se si comprano più jeans si comprerà meno qualcos’altro, ad esempio meno prodotti chimici che non sono diminuiti di prezzo. Allora le imprese chimiche domanderanno meno beni capitali del tipo necessario a produrre prodotti chimici. In ogni caso le quantità dei singoli beni capitali non resteranno invariate all’abbassarsi del salario, e di conseguenza non è possibile considerare il capitale come dato in questo senso.
Allora forse si deve considerare la quantità di capitale come data nel secondo modo, cioè come valore complessivo di tutti i beni capitali. Questo lascerebbe effettivamente il capitale libero di cambiare di composizione – più macchine per fare jeans e meno macchine per fare prodotti chimici – senza che cambi il valore complessivo. Ed in effetti è questo il modo in cui, tradizionalmente, gli economisti di scuola marginalista parlano di una “data quantità di capitale” nella determinazione della domanda di lavoro. Ma, sfortunatamente per i marginalisti, la misura del capitale come valore di un complesso di beni – che sta anche cambiando – si modifica al modificarsi dei prezzi dei beni stessi. Abbiamo appena detto che quando i salari cambiano, anche i prezzi cambiano. Il risultato sarebbe dunque che il valore del capitale dipende dai salari, e cambia quando cambiano i salari.
Dunque non è possibile considerare come data la quantità di capitale, il che permetteva di costruire quella curva della domanda di lavoro che assieme all’offerta doveva determinare il salario. In questa teoria, infatti, finché non è determinato il salario non sappiamo il valore del capitale, finché non sappiamo il valore del capitale non conosciamo la domanda di lavoro, e quindi non sappiamo quale possa essere il salario di equilibrio: la teoria crolla.
In effetti, per motivi connessi a questi problemi teorici, la teoria marginalista negli ultimi anni è andata sviluppandosi in direzioni molto particolari, nel tentativo di fare a meno di questa nozione di capitale misurato come quantità di valore, della quale – come abbiamo visto – si riesce a dimostrare in due minuti l’insostenibilità. Dunque i marginalisti hanno tentato altre strade, che per brevità non vi posso illustrare. Si tratta delle cosiddette “Teorie moderne dell’equilibrio economico generale”. Ciò che vi posso dire è che un numero crescente di teorici dell’equilibrio economico generale ammettono che si stanno cacciando in un vicolo cieco, diventano sempre più scettici sulla loro stessa teoria. In effetti ho la netta impressione che ormai la teoria marginalista, che è ancora quella dominante a livello accademico, a livello dei consulenti di governo ecc., sia un gigante dai piedi d’argilla. Questa teoria resta ancora accettata soprattutto dagli economisti applicati, i quali per via della necessaria divisione del lavoro in ambito scientifico, hanno imparato questa teoria qualche decennio fa per poi mettersi ad applicarla, per fare studi applicati, senza più tenersi al corrente dei successivi dibattiti sulla solidità delle fondamenta di questa impostazione. Ed i successivi dibattiti, invece, stanno minando alla base questa teoria, in modo secondo me ormai totale.
In conclusione la teoria logicamente e scientificamente più solida è quella classica.

4. Le risposte ai problemi del debito pubblico e della disoccupazione

E su questa base veniamo a quei due problemi cui si accennava all’inizio, cioè la disoccupazione ed il debito pubblico ed al modo in cui affrontarli. Sul debito pubblico in realtà ve l’ho già anticipato. Per i marginalisti il debito pubblico crea dei problemi di instabilità finanziaria – perché ci sono tutti questi titoli che possono essere venduti e non rinnovati ed i risparmi portati all’estero – ma il problema veramente grave non è questo. Infatti si sa che l’instabilità finanziaria, se c’è un governo che vuole davvero intervenire in modo duro, è fermabile (certamente, comunque, il governo deve sormontare la resistenza della comunità finanziaria, che ha forti interessi nel poter avere perfetta libertà di movimento dei capitali perché in questo modo fa più soldi; ma un governo deciso a fermare l’instabilità finanziaria, di fatto ci riesce). Il vero problema che i marginalisti pongono, per sostenere che il debito pubblico va eliminato, è quello che vi dicevo prima: il debito pubblico fa sì che lo Stato si faccia prestare e usi per fini non di investimento, risparmi che altrimenti andrebbero ad aumentare gli investimenti. E così facendo diminuisce la crescita, col risultato che quando saremo anziani, e con noi i nostri figli, ci troveremo con molto meno capitale di quello che altrimenti ci sarebbe. E quindi c’è, in questo senso, un onere del debito pubblico sulle generazioni future.
Quest’onere non è dovuto alla semplice esistenza del debito pubblico – si tratta infatti di un debito degli italiani verso se stessi. Non si tratta di un vero debito perché non si tratta di un debito della nazione verso altri, bensì di un debito della nazione verso se stessa. Esso certo crea problemi redistributivi perché è molto difficile politicamente tassare solo quei cittadini che hanno prestato denaro allo Stato. Ma per la nazione nel suo complesso il debito pubblico non esiste. La nazione non è indebitata. Chi usa l’argomento della semplice esistenza del debito pubblico come fonte di problemi è ignorante o in malafede. Ed infatti il vero problema, che è poi quello che pongono gli economisti marginalisti seri, è che con il debito pubblico stiamo diminuendo l’accumulazione del capitale.
Invece nell’impostazione classica, proprio perché il debito pubblico non è un debito verso altri, esso non è un vero debito. E’ vero che esso crea problemi di instabilità finanziaria, ma questi problemi, con sufficiente volontà possono essere risolti. Il tentativo di diminuire il debito pubblico, una volta che c’è, crea disastri. Infatti per diminuire il debito pubblico bisogna aumentare le imposte o diminuire la spese. Se lo Stato diminuisce le spese esso induce una contrazione della domanda. Se invece lo Stato aumenta le imposte diminuisce il reddito delle persone e quindi, di nuovo, diminuisce la domanda. Il risultato sarà che lo Stato non riuscirà nemmeno a ridurre il debito pubblico, perché se diminuisce le spese diminuiscono anche le entrate (perché le imprese produrranno meno, guadagneranno meno e pagheranno meno come tasse). Lo Stato, quindi, nel cercare di aumentare le entrate le fa in realtà diminuire e fa aumentare soltanto la disoccupazione.
Abbiamo detto che per lo Stato l’instabilità finanziaria esiste solo finché esso non voglia schierarsi contro gli interessi della comunità finanziaria. Inoltre basta ricordare che in Inghilterra il debito pubblico è stato il doppio del prodotto nazionale per decenni, nell’ottocento. Allo Stato, invece, conviene, almeno temporaneamente, aumentare il debito pubblico, aumentando le spese. Questo farà aumentare i consumi, stimolerà le imprese a produrre di più ed ad investire . E allora forse si riuscirà perfino a ridurre il debito grazie all’aumento delle entrate. Certo, resta vero che se lo Stato finanzia le sue spese in deficit, ci saranno meno risparmi che si convogliano verso le imprese. Ma il punto da capire è questo: lo Stato, in questo modo, prende risparmi da un reddito più grande, perché è un reddito che è lo Stato stesso a stimolare, quindi lo Stato raccoglie dei risparmi che senza le sue spese, senza il suo stimolo sulla domanda, non sarebbero nemmeno esistiti. Quindi se lo Stato segue queste linee, raccoglie sì dei risparmi, ma ne restano ugualmente per l’industria ed in misura superiore che se lo Stato non si fosse indebitato.
Per quanto riguarda, invece, l’occupazione, lo Stato deve in un modo o nell’altro stimolare la domanda, addirittura aumentando i consumi (attraverso eventualmente aumenti dei salari). Questo certo crea problemi, perché aumentando i salari si ridurranno i profitti e la concorrenza internazionale può portare alla fuoriuscita di capitali. Non si possono dunque aumentare molto i salari, ma qualcosa si può fare. Quella stessa cosa che diminuisce l’instabilità finanziaria connessa ai titoli del debito pubblico – cioè controlli sull’apparato finanziario ed in particolare sui movimenti di capitale – può, se non impedire, almeno rendere un po’ più costoso esportare capitali all’estero. Questo diminuirebbe l’instabilità finanziaria, farebbe ridurre il tasso d’interesse interno che è necessario pagare ai capitalisti e quindi permettere di aumentare i salari, diminuendo nel contempo le spese dello Stato per gli interessi sul debito pubblico.
Ovviamente le cose non sono mai così facili. C’è – e questo lo ammette anche l’economista classico – un problema grave, che riguarda il vincolo esterno. Se il governo fosse un governo di sinistra, con economisti classici a fare da consulenti, le politiche di espansione della domanda potrebbero far crescere in modo più forte le importazioni delle esportazioni, i possessori di capitali si spaventerebbero temendo una svalutazione, esporterebbero capitali, ci sarebbe la svalutazione, essa porterebbe nel tempo ad inflazione ecc.
Questo problema del vincolo estero è sormontabile? Innanzitutto bisogna dire che se tutti i governi seguissero queste linee di espansione della domanda per favorire l’occupazione, il problema non esisterebbe. Tutti i paesi aumenterebbero le loro importazioni e cioè tutti aumenterebbero le esportazioni. Se tutte le nazioni decidessero di occuparsi del problema della disoccupazione, non ci sarebbe vincolo estero.
Questo ovviamente non succede, sia perché domina la teoria e la visione marginalista, sia per il cinismo del capitalista “marxista”, il quale pur privo di fiducia nelle teorie della scuola marginalista, trova conveniente che le sue proposte siano attuate: non credo che Agnelli abbia bisogno di cedere nelle tesi marginaliste per capire che se si abbassano i salari per lui c’è una convenienza. In ogni caso sono ragioni politiche ad impedire l’attuazione di queste politiche espansive. In altre parole non si tratta di ragioni connesse al naturale funzionamento dei meccanismi di una economia di mercato. E per ragioni politiche si deve intendere che c’è un gruppo, molto forte e compatto, soprattutto negli ambienti finanziari, che sostanzialmente dice “A noi queste politiche non convengono”.
Tuttavia, supposto che le altre nazioni non siano favorevoli a queste politiche per l’occupazione, il governo di una singola nazione potrebbe riuscire a portarle avanti con successo? In effetti, a mio avviso, delle vie le si potrebbe trovare. Innanzitutto un singolo Stato potrebbe accettare, per un certo periodo, di indebitarsi, concentrando la sua espansione soprattutto sugli investimenti, i quali potrebbero portare un tale ammodernamento da rendere questo Stato molto competitivo – il che permetterebbe poi di esportare molto (è ciò che in qualche misura hanno fatto le tigri asiatiche, la Corea, Hong Kong, Singapore ecc.).
Ma supponiamo che sia necessario aumentare le esportazioni più rapidamente di quanto non avverrebbe grazie agli investimenti (che hanno bisogno di tempo per fruttare) e che per farlo si debbano ridurre i costi delle imprese. Ma i costi delle imprese non sono costituiti solo dai salari! C’è anche il costo del denaro! Si potrebbe dunque ridurre il tasso d’interesse. Certo, sappiamo che c’è gente che si oppone a queste riduzioni, e non si tratta certo dei piccoli risparmiatori. Ai piccoli risparmiatori sarebbe facile spiegare che quel che perdono da una parte in termini di interessi sui titoli di Stato, lo guadagnano dall’altra in termini di minori spese sanitarie, maggiore occupazione per i propri figli ecc. A queste condizioni i piccoli risparmiatori non sarebbero contrari all’abbassamento dei tassi d’interesse. Chi è veramente contrario a queste riduzioni è chi possiede miliardi in titoli di Stato, e cioè non soltanto i vari Agnelli ecc., ma proprio le banche. Quelle banche che prima erano tutte pubbliche e che ora lo Stato sta privatizzando, diventando dunque qualcosa che lo Stato non può più controllare. Non ci sono affatto solide ragioni per sostenere le privatizzazioni, ed infatti all’estero, spesso, le imprese nazionalizzate funzionano benissimo. La Renault è nazionalizzata, la Wolkswagen lo era fino a poco tempo fa. Con una semplice particolarità: semplicemente i manager lavoravano.
Anche in Italia, del resto, molte imprese pubbliche erano in perdita perché dovevano fare prezzi bassi alle imprese private a cui vendevano beni capitali. Altre sono in perdita perché erano già in perdita quando lo Stato le ha comprate dai privati. E moltissime imprese private, invece, hanno fatto la fine che hanno fatto.
In conclusione pongo un’ultima questione. La promessa di Berlusconi di un milione di posti di lavoro non è insensata a priori. Sarebbe in qualche modo possibile, in un tempo relativamente breve, una creazione di lavoro così forte, ma ci vorrebbe la forza e la volontà di intaccare una serie di interessi economici e di privilegi, soprattutto legati agli ambienti finanziari – che sono quelli che obbligano l’Italia ad avere perfetta libertà di movimento dei capitali, il che rende estremamente difficile qualunque politica espansiva (infatti non appena l’Italia volesse espandere la produzione, avrebbe più importazioni che esportazioni e si verificherebbe il caso cui si accennava sopra: i possessori si spaventerebbero, comincerebbero a esportare capitali per timore di una svalutazione, questo porterebbe effettivamente alla svalutazione, essa protraendosi porterebbe inflazione ecc.).
Ma un governo che fosse deciso e che capisse che il mondo non funziona come dicono i marginalisti, ma piuttosto come dicono i classico-keynesiani, potrebbe effettivamente creare, in tempi ragionevolmente brevi, il famoso milione di posti di lavoro.

La guerra e le politiche economiche dominanti

di Paul Krugman (New York Times), da MicroMega , via ildialogo.org
Dieci anni fa l’America invase l’Iraq: in qualche modo la nostra classe politica decise che dovevamo rispondere a un attacco terroristico con la guerra a un regime che, per quanto spregevole, non aveva nulla a che fare con l’attacco.
Alcune voci avvertirono che stavamo facendo un terribile errore – che i motivi per fare la guerra erano deboli e forse fraudolenti, e che era molto probabile che l’impresa, lungi dal darci la facile vittoria promessa, avrebbe probabilmente portato a costi e lutti molto pesanti. E questi avvertimenti si sono rivelati, ovviamente, fondati.

Si è scoperto che non c’era alcuna arma di distruzione di massa; è ovvio, a posteriori, che l’amministrazione Bush ha deliberatamente ingannato, e portato in guerra, la nazione. E la guerra – che è costata migliaia di morti americani e decine di migliaia di vite irachene, che ha imposto costi finanziari di gran lunga superiori a quelli previsti dai sostenitori della guerra – ha lasciato l’America più debole, non più forte, e ha finito per creare un regime iracheno più vicino a Teheran che a Washington.

La nostra élite politica ed i nostri mezzi di informazione hanno imparato qualcosa da questa esperienza? Non pare proprio.
Ciò che veramente colpiva, durante il periodo che ha preceduto la guerra, era l’illusione del consenso. Ancora oggi gli esperti che hanno fatto valutazioni sbagliate attribuiscono il loro errore al fatto che “tutti” pensavano che ci fossero validi motivi per la guerra. Naturalmente, ammettono, c’era anche chi si opponeva alla guerra – ma erano persone che non contavano, perché erano fuori dalla linea di pensiero predominante.

Il problema di questa argomentazione è che è stata ed è circolare: sostenere la guerra diviene parte della definizione di ciò che si intende come linea predominante. Chi dissente, non importa quanto qualificato, viene ipso facto etichettato come indegno di considerazione. Questo era vero negli ambienti politici, ma era altrettanto vero per gran parte della stampa, che di fatto si schierò col partito della guerra.

Howard Kurtz, della CNN, che era al Washington Post, ha scritto di recente su come funzionava questo meccanismo, su come segnalazione scettiche, per quanto fondate, venivano scoraggiate e respinte. “Gli articoli che mettevano in discussione le prove o le ragioni per la guerra”, ha scritto, “sono stati spesso sepolti, minimizzati o bloccati.”

Strettamente connesso a questa presa di posizione a favore della guerra ci fu un rispetto esagerato e ingiustificato per l’autorità. Solo le persone in posizioni di potere erano considerate degne di rispetto. Kurtz ci dice, ad esempio, che il Post cancellò un pezzo sui dubbi sulla guerra, scritto dal proprio capo settore per la difesa, per il fatto che si basava su dichiarazioni di militari in pensione e di esperti esterni – “in altre parole, di coloro che hanno sufficiente indipendenza per poter mettere in discussione i motivi per la guerra”.

Tutto sommato, è stata una lezione pratica sui pericoli del pensiero di gruppo, una dimostrazione di quanto sia importante ascoltare le voci scettiche e tener distinta la ricerca dei fatti dalla linea editoriale. Purtroppo, come ho detto prima, è una lezione che non sembra essere stata davvero imparata. Si consideri, come prova, l’ossessione per il deficit del bilancio statale che ha dominato la scena politica negli ultimi tre anni.

Ora, io non voglio spingere quest’analogia troppo in là. Una cattiva politica economica non è l’equivalente morale di una guerra combattuta sulla base di falsi pretesti, e anche se le previsioni dei falchi del deficit si sono ripetutamente rivelate sbagliate, non c’è stato uno sviluppo decisivo o sconvolgente come il completo fallimento nel trovare le armi le armi di distruzione di massa che si erano ipotizzate. Inoltre, e ciò è ancora più importante, oggi chi dissente non è circondato da quell’atmosfera di minaccia, quella sensazione che il dubitare potrebbe avere conseguenze devastanti sulla propria carriera, che era così pervasivo nel 2002 e 2003. (Ricordate la campagna di odio contro il gruppo di musica country Dixie Chicks organizzata nel 2003 dalla Casa Bianca di Bush?)

Ma oggi come allora abbiamo l’illusione del consenso, un’illusione basata su un meccanismo per cui chiunque metta in discussione l’opinione ufficiale è immediatamente emarginato, non importa quanto solide siano le sue argomentazioni. E oggi come allora la stampa sembra spesso schierata. Colpisce in modo particolarmente evidente quanto spesso asserzioni discutibili siano riportate come dati di fatto. Quante volte, per esempio, avete visto articoli che affermano, come cosa scontata, che gli Stati Uniti si trovano di fronte a una “crisi del debito”, anche se molti economisti direbbero che ciò non è affatto vero?

In realtà, il confine tra notizia e opinione è per certi versi ancora più confuso in materia fiscale di quanto non lo fosse quando si andava verso la guerra. Come Ezra Klein, del Post, ha osservato il mese scorso, sembra che “le regole della neutralità dell’informazione sui fatti non si applichino quando si tratta di deficit”.

Quello che dovremmo aver imparato dal nostro fallimento in Iraq è che si dovrebbe sempre essere scettici e che non bisognerebbe mai fare affidamento su presunte autorità. Quanto si sente dire che “tutti” sostengono una certa politica, che si tratti di una guerra che si sceglie di fare o di austerità fiscale, ci si dovrebbe chiedere se “tutti” non significhi significa “tutti, tranne chi ha un parere diverso”. E gli argomenti di politica dovrebbero sempre essere valutati nel merito, non sulla base dell’autorità di chi li esprime; ricordate quando Colin Powell ci ha rassicurato sull’esistenza delle armi di distruzione di massa irachene?
Purtroppo, come ho detto, non sembra che abbiamo imparato la lezione. Ci riusciremo mai?

Traduzione di Gianni Mula

Agenda Monti


Augusto Illuminati (da Facebook)

«Cambiare mentalità, cambiare comportamenti». Confesso di aver provato un brivido di inquietudine leggendo siffatto titolo di paragrafo nell’agenda Monti (su traccia Ichino) testé divulgata, pochi giorni dopo la mancata fine maya del mondo e nel bel mezzo del sopore natalizio. Sarà che non mi piace che qualcuno voglia cambiare la mia mente, tanto meno i miei comportamenti. Ma chi cazzo siete per darmi questo suggerimento o peggio quest’ordine? Ma cambia tu modo di ragionare, visti i disastri che hai combinato. E per dirla tutta: non mi piace neppure la leggerezza con cui sentenzi ignorando ansie e sofferenze quotidiane della grande maggioranza e pretendendo una cambiale in bianco per governare ancora, dopo essere stato paracadutato senatore a vita e premier. Opinioni mie, d’accordo.
Però mi inquieta pure l’uso della parole, una specie di neo-lingua tecno-liberista della radical centrist politics («The Economist») che ricorda altri infausti e ilari eufemismi totalitari. «Modernizzazione del mercato del lavoro» è uno di questi, soprattutto se si collaziona tale promessa con le implementazioni suggerite: liberalizzazioni sfrenate, culto della competizione, smantellamento dei contratti nazionali di lavoro a favore di accordi aziendali, di cui abbiano avuto triste esperienza con le discriminazioni marchionnesche contro la Fiom. A leggere che si vogliono «ridurre le differenze fra lavoratori protetti e non», torna in mente la vecchia barzelletta sul devoto pellegrino che si reca a Lourdes con una mano paralizzata e invoca: Madonnina, fammele eguali, con il risultato che gli si paralizza l’altra…
Sarà pensar male, ma quando si afferma che «tutte le posizioni sono contendibili e non acquisite per sempre», si potrebbe ipotizzare che in pratica tutti siano licenziabili senza tante storie e la contesa per le posizioni si risolva con la vittoria di chi accetta un salario minore. Per non parlare dell’enfasi sul merito, accertato ai vari livelli attraverso le procedure Invalsi, Indire e Anvur, sì quelle dei quizzoni e di riviste parrocchiali, balneari e di suinicultura assurte a “scientifiche”. Che la dismissione del patrimonio pubblico riguardi poi in primo luogo quello storico-artistico, riprende con terminologia Cee la vendita della Fontana di Trevi immortalata da Totò o l’appalto del Colosseo a uno scarparo.
Il mondo non è finito il 21 dicembre 2012. O forse è finito nel senso che continua ad andare avanti come prima – il contrassegno della catastrofe secondo Walter Benjamin. Litigi di facciata ma accordo sostanziale di quanti giocano le diverse parti in commedia sulla scena politica, concordi a gestire con agende parallele una crisi di cui non sanno a venire a capo se non taglieggiando il 90% e riservando la polpa a gruppi ristretti di super-ricchi, con cospicue briciole al ceto politico e amministrativo di supporto. Che il true progressivism ci risparmi almeno le prediche.
 

Il Buon Anno di Monti

da ComeDonChisciotte

A tutti si concede la frase “Ha fatto almeno questo..”. L’onore delle armi. Anche il critico più feroce riconosce alla sua vittima un piccolo insignificante merito. Mussolini ha almeno prosciugato le paludi pontine. Nerone ha almeno costruito la Domus Aurea. Brunetta almeno conosce la ricetta originale della pasta e fagioli (http://www.youtube.com/watch?v=Qnsox6I6J5k ). Berlusconi ha almeno evitato il carcere.

Berlusconi ha almeno evitato il carcere. Fassino aveva almeno una banca. D’Alema ha almeno una barca. Scalfari ha almeno scassato i cosiddetti per quarant’anni filati con i suoi editoriali. Mastella ha almeno una piscina a forma di cozza. Tutti hanno un almeno, anche i più sfigati. Un “almeno” nel proprio curriculum serve per evitare la “damnatio memoriae ( http://it.wikipedia.org/wiki/Damnatio_memoriae ) “, la cancellazione dalla memoria collettiva e la distruzione di ogni traccia che possa essere tramandata ai posteri. Mi sono chiesto quale fosse l’almeno di Rigor Montis, il dimissionario extraparlamentare. Ho pensato allo spread, il suo unico alibi governativo, ma lo spread non si è turbato più che tanto dalla sua prossima dipartita e neppure i titoli di Stato (http://it.reuters.com/article/itEuroRpt/idITL5E8NC8ZL20121212 ) che anzi chiudono in rialzo.

Certo, lo ammetto, sono leggermente prevenuto dopo una debacle degna di Caporetto, con disoccupazione, debito, tassazione alle stelle e aziende che muoiono come le mosche d’inverno e il PIL che sprofonda. Ho pensato quindi che l’almeno di Monti fosse la sua reputazione internazionale, nessuno è profeta in patria. Vederlo abbracciato spesso alla Merkel e a Hollande come a due salvagenti personali era più che un indizio di almeno. Ho letto per conferma il Financial Times (http://www.ft.com/intl/cms/s/0/e0f245ac-4219-11e2-bb3a-00144feabdc0.html#axzz2Eb0xuytC ) a firma Wolfgang Munchau “L’anno di Monti è stato una bolla, buona per gli investitori finché è durata. E probabilmente gli italiani e gli investitori stranieri non ci metteranno molto a capire che ben poco è cambiato nel corso dell’ultimo anno, ad eccezione che l’economia è caduta in una profonda depressione. Due cose devono essere sistemate in Italia, la prima è invertire immediatamente l’austerità, in sostanza smantellare il lavoro di Monti… la seconda è scendere in campo contro Angela Merkel…”. Forse il FT è di parte, troppo di sinistra. Ho dato una scorsa al New York Times, un articolo (http://krugman.blogs.nytimes.com/2012/12/11/bleeding-europe/ ) di Paul Krugman “Tecnocrati “responsabili” costringono le nazioni ad accettare la medicina amara dell’austerità, l’ultimo caso è l’Italia dove Monti lascia in anticipo, fondamentalmente per aver portato l’Italia in depressione economica”.

Il NYT deve essere comunista. Sono passato a sfogliare il Daily Telegraph (http://www.telegraph.co.uk/finance/comment/ambroseevans_pritchard/9735757/Mario-Montis-exit-is-only-way-to-save-Italy.html ) “Monti ha portato l’inasprimento fiscale al 3,2% del Pil quest’anno: tre volte la dose terapeutica. Non vi è alcuna ragione economica per farlo. L’Italia ha avuto infatti un budget vicino al saldo primari nel corso degli ultimi sei anni”. Maoista! Forse però un almeno lo ha anche Monti. Almeno si toglie dalle balle. Ci vediamo in Parlamento. O fuori o dentro. Sarà un piacere.

Fonte: beppegrillo.it

Quando c’è la salute c’è tutto

 
di Alberto Bagnai da Informare per Resistere  
(Non vi sarà sfuggito, vero? L’hidalgo de la Sierra, proprio lui, il valvassino poco a suo agio con l’ aritmetica e con la dinamica del debito, ha avanzato ieri l’idea che il servizio sanitario nazionale potrebbe non essere sostenibile, e che, caso strano, potrebbero occorrere capitali privati, e in particolare, indovinate un po’… investimenti esteri, da generare attraverso investimenti in ricerca.

Un discorso sconclusionato del quale si capiva benissimo dove volesse andare a parare, tant’è che perfino la ‘zdora, nel solito macabro giochino delle parti, si è adontata: “Io sul tema di tenere un sistema universalistico nella sanità non mollo”… Ecco, brava, non mollare… Soprattutto, che la manica rimboccata non cali, non sia mai! La tua immagine di leader pragmatico ne riceverebbe un colpo immedicabile. E del resto, fra un po’ ti toccherà far la spesa con la carriola, utensile che, notoriamente, mal si sposa coi gemelli da polso…

Segue naturalmente smentita di Balduzzi: “ Abbiamo scherzato“.

Due considerazioni.

La prima è che, come ho cercato di far capire a “L’Ultima Parola” – ma forse sono stato poco efficace – questo tipo di gaffes, come quelle della Fornero, non sono manifestazione di spocchia o ingenuità comunicative, oh no no no, tutt’altro, tutt’altrissimo! Sono invece ben precise, scientifiche, strategie comunicative mirate. Si comincia a far entrare nella testa della gente l’idea che si vuole far attecchire, col principio della vaccinazione. C’è la prima dose, che magari fa venire una piccola reazione allergica – la ‘zdora si adonta – poi ce ne sarà una seconda, una terza, magari aiutate da un piccolo innalzamento dello spread… E la pillola va giù… ma a pagamento!

La seconda è che questo è l’ennesimo quod erat demonstrandum. Il valvassino vuole vendere il nostro paese pezzo per pezzo. E la sanità privatizzata offre ghiotte opportunità per i capitali esteri. Lui dice che sarebbero attirati, questi capitali, dalle nostre politiche di ricerca e di sviluppo – sottinteso: se faremo i bravi, se faremo le politiche giuste, saremo premiati… dalla vendita delle nostre aziende! Andate a dire a un imprenditore che se fa un brevetto deve vendere la sua azienda! Geniale, nemmeno il pezzo di Totò davanti alla fontana di Trevi raggiunge questa comicità. Il problema è un altro. Il problema è che all’estero la nostra sanità pubblica interessa perché molta ricerca, noi, l’abbiamo già fatta, e il nostro sistema non è così disastrato e insostenibile come il Governo vuole far credere. Anzi. Ci sono note eccellenze mondiali, strutture che funzionano, e che possono, se privatizzate, fare bei profitti, da rimpatriare all’estero aggravando la voce “redditi netti” delle partite correnti.

Siccome qualcuno che non ci crede in giro si trova, qualcuno che pensa che la nostra sanità sia da tagliare, da amputare in toto, per consentirvi una valutazione spassionata ed informata riposto qui un utilissimo lavoro di Stefania Gabriele. La ringrazio per avermi dato questa opportunità. Alcuni di voi lo conosceranno, perché è stato pubblicato in Oltre l’austerità. Ho pensato che un ripasso non fosse inutile. Enjoy irresponsibly!)
 
StefaniaGabriele – Politiche recessive e servizi universali: il caso dellasanità

Fonte: http://goofynomics.blogspot.it
Link: http://goofynomics.blogspot.it/2012/11/quando-ce-la-salute-ce-tutto.html

L’eclissi del sogno europeo

da Micromega

“I tagli al bilancio sono arrivati al limite di quello che possiamo chiedere ai cittadini. E’ a rischio la coesione sociale, minacciata dalla crescente disoccupazione, come alla fine della Repubblica di Weimar”. Lo ha detto il premier greco, Samaras. E in Italia, i giovani sono (finalmente) ritornati in piazza per protestare contro i tagli a scuola e istruzione, stanchi di sentirsi definire come una ‘generazione perduta’ per colpa degli errori altrui.

Qualcuno ha ‘ucciso’ l’Europa. Meglio: l’ha suicidata. Ma colpevoli non sono i populisti rinascenti, i comunitarismi d’accatto, gli anti-euro per vocazione e interesse e neppure l’antipolitica crescente. Certo, il sogno di costruire un’Europa in pace e di pace, senza più guerre civili al suo interno, un’Europa dove francesi e tedeschi, italiani e spagnoli e greci e via via fino all’attuale Europa a 27, fossero tutti cittadini di una unica casa comune è stato lasciato diventare (anche da noi cittadini europei) un ‘sogno malato’. E quel desiderio/progetto – tutto politico e culturale, ma soprattutto ideale – di un’Europa dove le differenze di lingua e di cultura non definissero più le frontiere o gli spazi di interdizione, ma fossero occasione di incontro e insieme di costruzione di una identità europea (possibile appunto solo attraverso il riconoscimento e la messa a valore delle differenze/alterità esistenti), questo sogno è svanito da tempo. L’Europa si è fatta sempre più lontana dai cittadini e sempre più evanescente quanto a idealità e progettualità (e appunto a sogno), divenendo invece vicinissima e soprattutto ‘pesantissima’ in termini di ‘disciplina’ economica e fiscale (e quindi sociale). Invece di pensare europeo e all’Europa come a un nuovo bene comune – e quindi da non lasciar privatizzare da nazionalismi, comunitarismi e neppure dai mercati o dai burocrati della Commissione – questo sogno da tempo si è liquefatto sotto il peso degli interessi e degli egoismi economici.

Questo sogno europeo/europeista – già debolissimo per incuria politica, per distrazione culturale, per indifferenza morale – ha subito il colpo di grazia dall’economia e dai mercati e non ri-sorgerà per molto tempo, almeno fino a quando non finirà questa ultima, sciagurata, masochistica guerra civile (economica) tra europei combattuta in nome dell’ultima ideologia del ‘900, il neoliberismo. Un sogno ‘ucciso’ non da un nemico esterno, non da qualcosa di incontrollabile, ma da una paranoia economicistica, ottusa ma ostinatissima che si chiama pareggio di bilancio e fiscal compact e che è tutta interna a questa Europa, meglio: interna alla loro Europa (dei banchieri, dei tecnici, degli economisti, degli ideologi e delle oligarchie finanziarie), ma certo non a quella che dovrebbe e potrebbe essere la nostra Europa dei cittadini, democratica, sociale e solidale, culturale, soprattutto progettuale. Una azione deliberata – pareggio di bilancio e controllo della spesa sono cose buone e giuste in tempi di crescita, non certo in tempi di recessione – ostinata, sadica, ultimo frutto (tra i tanti, il più avvelenato) del nichilismo neoliberista. Nichilismo che per vent’anni ha prima sostenuto indebitamento privato, edonismo ed egoismo, consumismo, principio di piacere e poi godimento sfrenato in nome dell’individualismo edonistico e narcisistico per farci vivere al di sopra dei nostri mezzi (e così garantire i profitti di banche e finanza), portando deliberatamente alla morte della società e della convivialità in nome dell’egoismo e dell’illusione di essere imprenditori di se stessi (era l’obiettivo dichiarato dei neoliberisti); e che ora impone, altrettanto deliberatamente, ostinatamente e cinicamente austerità, recessione, impoverimento, disoccupazione. E quel pensiero unico che ha prodotto la crisi e che pensavamo (ci illudevamo che) si fosse ritirato travolto dall’ignominia per i propri errori, è ancora qui, più forte di prima, più totalitario di prima e con troppi a dire che questa ricetta anti-economica e anti-sociale è l’unica possibile, che dopo Monti non potrà esserci che un Monti-bis, che un eventuale nuovo governo non potrà né dovrà cancellare quanto di buono (sic!) fatto da questo governo, autore/esecutore delle nuove ‘tavole della legge’ (adesso si chiamano ‘riforme strutturali’) della ‘religione del mercato’.

Uno ‘sfinimento del sogno europeo’ dunque, compiuto da politici incapaci di pensare alla politica come governo della polis europea, incapaci di concepire la politica come tecnica regia (diceva Platone) che tutte le altre tecniche (economia compresa, anzi: oggi soprattutto economia e mercati) deve controllare. Un sogno europeista ucciso da uomini piccoli piccoli, da uomini (e donne) senza qualità e che si chiamano Manuel Barroso, Olli Rehn, Angela Merkel, Mario Monti e Mario Draghi. Politici che si credono esperti o addirittura tecnici, in realtà tutti uomini grigi, vestiti di quella scienza triste che si chiama economia. E che oggi sta producendo regresso (ideale, progettuale, culturale, sociale) e insieme neo-autoritarismo da stato d’eccezione permanente.

In Europa, 18,2 milioni di disoccupati nella euro-zona e 25,5 milioni nell’Europa a 27. Se ne vogliono ancora di più? Sembrerebbe di sì, visto il silenzio che accompagna questa nuova e drammatica questione sociale (con la disoccupazione giovanile che è questione sociale dentro la questione sociale).

Liberare dal bisogno. Quel bisogno che “si definisce come insufficienza di reddito per ottenere i mezzi per una sana sussistenza”. Problema politico non da poco, che William Beveridge, autore della citazione, aveva provato a risolvere 70 anni fa. Oggi, la nuova questione sociale sta esplodendo in Italia e in (quasi) tutta Europa, eppure, quanto più il bisogno delle persone e della società aumenta a dismisura (creato dalle stesse politiche neoliberiste dei governi europei), tanto meno i governi sembrano preoccuparsi di liberare la gente da questo bisogno. Anzi. Nel nome della biopolitica neoliberista, si attua una pesantissima disciplina sociale fatta appunto di regresso, di recessione, di impoverimento, di mancanza di lavoro. Liberare dal bisogno, diceva Beveridge: primo compito di uno stato che voglia essere soggetto attivo e non solo spettatore passivo o complice dei mutamenti economici. E le sue erano proposte di riformismo autentico indispensabili ancora oggi per una democrazia europea che voglia avere ancora nei diritti sociali da estendere la base per consolidare i diritti politici e civili: per costruire un benessere diffuso; per ridare speranza e futuro alle persone fornendo loro quella rete di protezione di base senza la quale la libertà degli individui non può esprimersi veramente e resta solo una finzione, per una cittadinanza forse de jure ma certo non de facto.

Occorre allora rimettere la società e la società civile in primo piano, recuperare valori cancellati da trent’anni di neoliberismo, valori come socialità, aiuto, cura. E progetto, speranza, futuro. E anche utopia. Valori che i tecnici al governo non comprendono e non possono praticare perché non sono i valori della tecnica. Occorre smontare l’ipocrisia di chi prima fa la riforma del lavoro e delle pensioni e poi, oggi, si accorge che c’è un calo della domanda e che le imprese non assumono. Serve dire che agenda digitale, sviluppo delle start-up innovative, grandi opere con capitali privati e investimenti dall’estero sono solo pannicelli caldi. Ci vuole ben altro. Ben altro anche rispetto al fondo salva-stati europeo. E ben altro rispetto alle false retoriche europeiste di Merkel, Barroso, Draghi e Monti.

E allora: più Europa (dal basso) e non meno; più cittadinanza attiva a livello europeo e non meno. Più conflitto sociale europeo, più conflitto di modelli di società. E soprattutto, una società civile europea che rivendichi il ruolo che le appartiene. Che crei una sorta di Costituente della società civile (intellettuali, movimenti, indignati di ogni tipo, veri sindacati, movimenti studenteschi ecologisti, antipensierounico, neokeynesiani, neobeveridgiani, neonewdealisti, alternativsti e liberali-radicali). In rete non accontentandosi di essere in rete, ma con un progetto politico vero e non solo virtuale, da costruire insieme. Passando dalla protesta alla proposta.

Se il nichilismo dei mercati e dei ‘tecnici’ è ovunque in Europa, se è la ‘norma’ di vita che ci viene imposta, allora (e ovunque in Europa) serve produrre una ‘contro-condotta’ in nome della democrazia e della cittadinanza europea e soprattutto servono politiche economiche altre e diverse (perché non si possono uccidere così le società). Serve ricostruire una contro-egemonia rispetto al mercato e ai banchieri/tecnici, serve una gramsciana ‘guerra di posizione’ contro l’egemonia neoliberista (o, detto altrimenti, contro il biopotere neoliberista), per conquistare le casematte ben protette, elitarie, a-democratiche e apparentemente inespugnabili dell’Europa dei tecnici, dei burocrati, degli uomini grigi, degli uomini senza qualità. Serve spezzare il ‘loro’ nichilismo economico e tecnico offrendo un ‘nostro’ (di cittadini, di europei) anti-nichilismo politico, fatto di idealità e di progettualità per una polis europea che riparta dall’idea di dover avere una agorà diversa e altra dai mercati, dalle borse, dalla Bce e da quei mass-media che ci fanno credere che a questa politica (anti)europea, regressiva/recessiva, nichilista, da guerra civile (economica) non ci sarebbero alternative.
Ci sono. Bisogna però rimettere al potere l’immaginazione. E il colore contro il grigio dell’economia.

Il Mito dell’Insolvenza del Giappone

…e la bufala del “decennio perduto”: il più grande “debitore” del mondo è adesso il più grande creditore del mondo
 
di Ellen Hodgson Brown (da Dissident Voice)

traduzione di Domenico D’Amico

L’enorme debito pubblico del Giappone nasconde un enorme beneficio per il popolo giapponese, il che insegna molto sulla crisi debitoria degli USA.

In un articolo pubblicato su Forbesnell’aprile del 2012, intitolato “Se il Giappone È insolvente, Come Mai Sta Soccorrendo Economicamente l’Europa?”, Eamon Fingleton faceva notare come il Giappone sia il paese, al di fuori dell’Eurozona, che abbia dato di gran lunga il maggior contributo all’ultima operazione di salvataggio finanziario dell’Euro. Si tratta, scrive, dello “stesso governo che è andato in giro facendo finta di essere in bancarotta (o perlomeno, che ha evitato di opporsi sul serio quando ottusi commentatori americani e britannici hanno dipinto le finanze pubbliche giapponesi come un totale disastro).” Osservando che fu sempre il Giappone, praticamente da solo, a salvare il FMI al culmine del panico globale del 2009, Fingleton domanda:

Com’è possibile che una nazione il cui governo si suppone sia il più indebitato tra i paesi avanzati si permetta tanta generosità? (…) L’ipotesi è che la vera finanza pubblica del Giappone sia molto più solida di quanto la stampa occidentale ci abbia fatto credere. Quello che non si può negare è che il Ministero delle Finanze giapponese sia uno dei meno trasparenti del mondo…”

Fingleton riconosce che i passivi del governo giapponese sono ingenti, ma dice che dovremmo guardare anche all’aspetto patrimoniale del bilancio:

[I]l Ministero delle Finanze di Tokyo ottiene sempre più prestiti dai cittadini giapponesi, ma non per pazze spese statali in patria, bensì all’estero. Oltre a rimpolpare il piatto per far sopravvivere il FMI, Tokyo è ormai da tempo il prestatore di ultima istanza sia del governo statunitense sia di quello britannico. E intanto prende in prestito denaro con un tasso di appena l’1% in dieci anni, il secondo tasso più basso del mondo dopo quello svizzero.”

Per il governo giapponese è un buon affare: può farsi prestare denaro all’1% in dieci anni, e prestarlo agli USA a un tasso dell’1,6 (il tasso attuale dei titoli USA a dieci anni), con un discreto margine di guadagno.
Il rapporto debito/PIL del Giappone è quasi del 230%, il peggiore tra i più grandi paesi del mondo. Eppure il Giappone resta il maggior creditore del mondo, con un netto di bilancio con l’estero di 3.190 miliardi di dollari. Nel 2010 il suo PIL pro capite era superiore a quello di Francia, Germania, Regno Unito e Italia. Inoltre, anche se l’economia della Cina è arrivata, a causa della sua popolazione in progressivo aumento (1,3 miliardi contro 128 milioni), a superare quella del Giappone, i 5.414 dollari di PIL pro capite dei cinesi è solo il 12% dei 45.920 dei giapponesi.
Come si spiegano queste anomalie? Un buon 95% del debito pubblico giapponese è detenuto all’interno del paese, dagli stessi cittadini.
Oltre il 20% del debito è in possesso della Japan Post Bank [1], dalla Banca centrale e da altre istituzioni statali. La Japan Post è la più grande detentrice di risparmio interno del mondo, e gli interessi li versa ai suoi clienti giapponesi. Anche se in teoria è stata privatizzata nel 2007, è pesantemente influenzata dalla politica, e il 100% delle sue azioni è in mano pubblica. La Banca centrale giapponese è posseduta dallo stato per il 55%, ed è sotto il suo controllo per il 100%.
Del debito rimanente, oltre il 60% è detenuto da banche giapponesi, compagnie assicurative e fondi pensione. Un ulteriore porzione è in mano a singoli risparmiatori. Solo il 5% è detenuto all’estero, per lo più da banche centrali. Come osserva il New York Timesin un articolo del settembre 2011:

Il governo giapponese è pieno di debiti, ma il resto del Giappone ha denaro in abbondanza.”

Il debito pubblico giapponese è il denaro dei cittadini. Si possiedono l’un l’altro e ne raccolgono insieme i frutti.

I Miti del Rapporto Debito/PIL in Giappone

Il rapporto debito pubblico/PIL del Giappone sembra davvero pessimo. Ma, come osserva l’economista Hazel Henderson, si tratta solo di una questione di procedura contabile – una procedura che lei e altri esperti ritengono fuorviante. Il Giappone è leader mondiale in parecchi settori della produzione di alta tecnologia, inclusa quella aerospaziale. Il debito che compare sull’altra colonna del suo bilancio rappresenta il premio riscosso dai cittadini giapponesi per tutta questa produttività.
Secondo Gary Shilling, in un suo articolo su Bloomberg del giugno 2012, più della metà della spesa pubblica giapponese va in servizi al debito e previdenza sociale. Il servizio al debito viene erogato sotto forma di interessi ai “risparmiatori” giapponesi. La previdenza e gli interessi sul debito pubblico non vengono inclusi nel PIL, ma in realtà si tratta della rete di sicurezza sociale e dei dividendi collettivi di un’economia altamente produttiva. Sono questi, più dell’industria bellica e dei “prodotti finanziari” che costituiscono una grossa parte del PIL degli USA, i veri frutti dell’attività economica di una nazione. Per quel che riguarda il Giappone, rappresentano il godimento da parte dei cittadini dei grandi risultati della loro base industriale ad alta tecnologia.
Shilling scrive:

Il deficit statale si suppone serva a stimolare l’economia, eppure la composizione della spesa pubblica giapponese, sotto questo aspetto, non sembra molto utile. Si stima che il servizio al debito e la previdenza – in genere non uno stimolo per l’economia – consumeranno il 53,5% della spesa per il 2012…”

Questo è quello che sostiene la teoria convenzionale, ma in realtà la previdenza e gli interessi versati ai risparmiatori interni stimolano, eccome, l’economia. Lo fanno mettendo denaro in tasca ai cittadini, incrementando così la “domanda”. I consumatori che hanno soldi da spendere riempiono i centri commerciali, incrementando così gli ordini di ulteriori merci, e spingendo in su produzione e occupazione.

I Miti sull’Alleggerimento Quantitativo

Una parte del denaro destinato alla spesa pubblica viene ottenuto direttamente “stampando moneta” per mezzo della banca centrale, procedura nota anche come “alleggerimento quantitativo” [Quantitative easing]. Per più di un decennio la Banca del Giappone ha seguito questa procedura; e tuttavia l’iperinflazione che secondo i falchi del debito si sarebbe dovuta innescare non si è verificata. Al contrario, come osserva Wolf Richter in un articolo del 9 maggio 2012:

I giapponesi [sono] infatti tra i pochi al mondo a godersi una vera stabilità dei prezzi, con periodi alternati di piccola inflazione o piccola deflazione – l’opposto di un’inflazione al 27% su dieci anni che la Fed si è inventata chiamandola, demenzialmente, ‘stabilità dei prezzi’”.

E cita come prova il seguente grafico diffuso dal Ministero degli Interni giapponese:


Com’è possibile? Dipende tutto da dove va a finire il denaro prodotto con l’alleggerimento quantitativo. In Giappone, il denaro preso in prestito dallo stato torna nelle tasche dei cittadini sotto forma di previdenza sociale o interessi sui loro risparmi. I soldi sui conti bancari dei consumatori stimolano la domanda, stimolando la produzione di beni e servizi, facendo aumentare l’offerta. E quando domanda e offerta aumentano insieme, i prezzi restano stabili.

I Miti sul “Decennio Perduto”

La finanza giapponese si è a lungo ammantata di segretezza, forse perché quando il paese era maggiormente disposto a stampare denaro per sostenere le proprie industrie, si è fatto coinvolgere nella II Guerra Mondiale. Nel suo libro del 2008, In the Jaws of the Dragon, Fingleton suggerisce che il Giappone abbia simulato l’insolvenza del “decennio perduto” degli anni 90 per evitare di incorrere nell’ira dei protezionisti americani a causa delle sue fiorenti esportazioni di automobili e altre merci. Smentendo le pessime cifre ufficiali, durante quel decennio le esportazioni giapponesi aumentarono del 75%, ci fu un incremento delle proprietà all’estero, e l’uso di energia elettrica aumentò del 30%, segnale rivelatore di un settore industriale in espansione. Arrivati al 2006, le esportazioni del Giappone erano diventate il triplo rispetto al 1989.
Il governo giapponese ha sostenuto la finzione di adeguarsi alle norme del sistema bancario internazionale, prendendo “in prestito” il denaro invece di “stamparlo” direttamente. Ma prendere in prestito il denaro emesso da una banca centrale proprietà dello stesso governo è l’equivalente pratico di un governo che il denaro se lo stampi, in particolare quando il debito continua a rimanere nei bilanci ma non viene mai ripagato.

Implicazioni per il “Precipizio Fiscale” [2]

Tutto questo ha delle implicazioni per gli americani preoccupati per un debito pubblico fuori controllo. Adeguatamente guidato e gestito, a quanto pare, il debito non deve far paura. Come il Giappone, e a differenza della Grecia e degli altri paesi dell’Eurozona, gli USA sono gli emittenti sovrani della propria valuta. Se lo volesse, il Congresso potrebbe finanziare il proprio bilancio senza ricorrere a investimenti esteri o banche private. Potrebbe farlo emettendo direttamente moneta o facendosela prestare dalla propria banca centrale, a tutti gli effetti a zero interessi, dato che la Fed versa allo stato i suoi profitti dopo averne sottratto i costi.
Un po’ di alleggerimento quantitativo può essere positivo, se il denaro arriva allo stato e ai cittadini piuttosto che nelle riserve bancarie. Lo stesso debito pubblico può essere una cosa positiva. Come testimoniò Marriner Eccles, direttore della Commissione della Federal Reserve, in un’audizione davanti alla Commissione Parlamentare Bancaria e Valutaria [ House Committee on Banking and Currency] nel 1941, il credito dello stato (o il debito) “è ciò in cui consiste il nostro sistema monetario. Se nel nostro sistema monetario non ci fosse il debito, non ci sarebbe nemmeno denaro”.
Adeguatamente gestito, il debito pubblico diventa il denaro che i cittadini possono spendere. Stimola la domanda, finendo per stimolare la produttività. Per mantenere il sistema stabile e sostenibile, il denaro deve avere origine dallo stato e i suoi cittadini, e finire nelle tasche del medesimo stato e dei medesimi cittadini.


Ellen Brown è avvocato a Los Angeles e autrice di 11 libri. In Web of Debt: The Shocking Truth about Our Money System and How We Can Break Free, mostra come un monopolio bancario abbia usurpato il potere di emettere valuta, sottraendolo alla sovranità del popolo, e come il popolo possa riappropriarsene. Altri articoli di Ellen Brown. Il suo sito personale.

note del traduttore

[1] Le poste giapponesi, pur diventando un vero e proprio istituto di credito, a differenza di altre banche commerciali ha come attività principale il risparmio. [Wikipedia]
[2] “Fiscal Cliff: letteralmente “rupe fiscale” ma reso in italiano anche con “precipizio”, il “fiscal cliff” indica il doppio impasse che dovranno affrontare gli Stati Uniti alla fine di quest’anno, quando scadranno gli incentivi fiscali introdotti nell’era Bush e si dovrà trovare un accordo sul tetto al debito Usa per evitare tagli automatici alle spese e aumenti delle tasse. Il fiscal cliffpotrebbe esercitare pressioni significative sulla crescita Usa nei primi mesi del prossimo anno. Nel peggiore dei casi si rischierebbe anche una nuova recessione. Di qui la minaccia delle agenzie di rating (ultima ieri Fitch) di abbassare il giudizio sulla solvibilità degli Stati Uniti in caso di mancato accordo al Congresso. [Il Sole 24 Ore – 30 agosto 2012]

Grillo, Renzi e il furto di futuro


di Tonino Perna da soggettopoliticonuovo

I due politici fanno dello scontro tra giovani e vecchi il loro cavallo di battaglia. Ma quali sono le ragioni che hanno portato a questa frattura intergenerazionale?
La rapida ascesa di Matteo Renzi sulla scena politica nazionale ha stupito molti: in soli due anni è passato dalla corsa per la poltrona di sindaco di Firenze a quella di leader del Pd. Ancora più incredibile è stata l’ascesa di Beppe Grillo, da brillante comico a leader carismatico del terzo partito italiano, stando a sondaggi recenti.
Il suo successo è ormai oggetto di studi – di sociologi, politologi e giornalisti – che nei prossimi mesi riempiranno gli scaffali delle librerie italiane.
Cosa hanno in comune due leader così diversi, per anagrafe ed esperienze di vita e di lavoro? Quasi niente, meno un dato di grande rilevanza: l’obiettivo dello svecchiamento della classe politica, il ricambio generazionale. Il primo slogan fortunato di Renzi fu, per l’appunto, questo: dobbiamo «rottamare» la classe politica, a partire da quella del Pd. Grillo ha impostato fin dall’inizio la sua propaganda politica contro la gerontocrazia, la vecchia generazione (di cui lui fa parte) che non vuole mollare le poltrone e blocca l’accesso dei giovani alle leve di comando del nostro paese. Non a caso la sua più grande platea potenziale di voti sono i giovani sotto i 40 anni.
Malgrado Grillo e Renzi si becchino pesantemente, per ovvie ragioni di concorrenza sullo stesso terreno, sono accomunati da una stessa strategia politica: dare uno sbocco politico all’insofferenza ed alla disperazione giovanile in questa lunga fase di crisi e ristrutturazione del modello sociale capitalistico. Questo è un dato di fatto che merita una profonda riflessione.
Tutta la società occidentale è da anni arrivata alla fine del modello di sviluppo della seconda metà del ’900. Un modello che aveva permesso, fra l’altro, un alto tasso di mobilità sociale ascendente e un avanzamento, sia pure relativo, negli standard di vita e di consumo dei ceti medi e popolari. Il modello aveva cominciato a lanciare i primi segni di crisi da sovraproduzione già alla fine degli anni ’70 del secolo scorso. Ed è stato proprio in quegli anni, con l’avvento dell’era Thatcher-Reagan, che si è cominciato a smantellare il welfare e a dare fiato alla crescita economica, grazie a un poderoso processo di indebitamento: dello Stato in primis, ma anche delle famiglie e delle imprese. Per averne un’idea concreta basti pensare che oggi negli Usa l’indebitamento complessivo è pari a tre volte e mezzo il Pil, mentre in Italia è oltre due volte e mezzo. Contemporaneamente iniziava una fase di decentramento produttivo, di deindustrializzazione, che prima ha coinvolto gli Usa e poi l’Ue, mentre cresceva soprattutto il terziario parassitario e quello legato al mondo della finanza e del marketing. Tutto ciò ha comportato una progressiva riduzione nella qualità della domanda di lavoro e, soprattutto, uno scarto crescente tra produzione di diplomati e laureati e domanda di lavoro. Questo processo ha comportato un progressivo blocco dell’ascensore sociale e poi una sua discesa, ancora in atto. In altri termini: per i ceti popolari e medi è finita l’ascesa sociale, il passaggio dal lavoro manuale a quello intellettuale, dalla condizione operaia a quella impiegatizia o professionale, ed è iniziata la discesa. Le nuove generazioni si sono trovate davanti una società bloccata e gestita dai “vecchi”. Non solo. Le nuove generazioni hanno preso coscienza del fatto che loro malgrado si trovano a dover pagare un debito pubblico e un debito ecologico di cui non hanno alcuna responsabilità.
Questo è un dato che accomuna tutto l’Occidente e che in Italia si presenta in forme particolarmente gravi per via della mancanza cronica di una politica industriale ed economica all’altezza della nuova sfida: l’emergere di nuove potenze economiche, in primis la Cina, che ha prodotto una nuova divisione internazionale del lavoro. Di fronte a questo nuovo scenario internazionale il pensare che stimolare la domanda dei beni di consumo o avviare nuovi lavori pubblici possa risolvere la questione è pura illusione. È un intero modello socio-economico che va ripensato a partire da una delle chiavi principali che lo guidano: l’anticipazione del futuro.
Che si tratti della produzione agricola o di quella zootecnica, dell’uso delle risorse energetiche o di quelle ittiche e forestale, questo modello di sviluppo tende a far aumentare la produttività nell’unità di tempo attraverso l’anticipazione del futuro. Cioè ad ottenere oggi una massimizzazione della produzione – che si tratti di una mucca o di un terreno agricolo, di un pollo o di un pozzo di petrolio, ecc. – a danno della qualità del prodotto, di danni ambientali collaterali, e soprattutto di una perdita della risorsa nel futuro. In primo luogo, attraverso il debito pubblico e privato abbiamo anticipato il futuro, consumando oggi risorse che non avevamo.
È questa la base materiale del furto di futuro che abbiamo operato rispetto alle nuove generazioni. Ed è questa la base materiale dello scontro tra generazioni che è in atto e che s’intreccia con la lotta di classe condotta dal capitale contro la forza-lavoro, come ha ben mostrato Luciano Gallino nel suo ultimo saggio. Anticipazione del futuro e lotta di classe condotta dal capitale globale hanno prodotto una desertificazione sociale, una disgregazione che porta alla lotta tra poveri e tra lavoratori unitamente allo scontro intergenerazionale, che diverrà sempre più duro e cinico.
Mi domando: basta un ricambio generazionale per cambiare questo folle modello di vita e di consumi? E poi mi chiedo: quelli che appartengono alla mia generazione sono tutti colpevoli?
Queste sono le domande cruciali del nostro tempo a cui chi vuole costruire un’alternativa di sinistra dovrebbe rispondere proponendo una via d’uscita dalla crisi che dia risposte immediate e concrete alle nuove generazioni, andando al di là dei facili e pericolosi slogan del duetto Grillo-Renzi che invitano alla guerra intergenerazionale.

Fonte: Il Manifesto 12/09/2012

 

Perchè il “bazooka” di Draghi non convince

di Vladimiro Giacchè, da Micromega 

Alla fine, Draghi il bazooka l’ha usato davvero. Dichiarando che la BCE è disposta a intervenire “illimitatamente” sul mercato secondario dei titoli di Stato (di durata sino a 3 anni), in modo da ridurne i rendimenti a livelli accettabili.

Il solo annuncio di questo intervento, il 6 settembre, ha fatto precipitare i rendimenti sui titoli di Stato italiani e spagnoli e infiammato le borse di tutta Europa. Tanto da indurre il quotidiano tedesco Die Welt a titolare mestamente: “I mercati finanziari festeggiano la morte della Bundesbank”. Parlare di morte è esagerato. Non è affatto sbagliato, invece, parlare di sonora sconfitta.

Di fatto, la linea oltranzistica della Bundesbank, che lasciava gli Stati in difficoltà dell’eurozona in balia dei mercati, è stata battuta. A quanto pare, con il consenso dello stesso governo tedesco. Probabilmente anche a motivo delle stime che hanno cominciato a circolare a Berlino sui costi della fine per l’euro per la Germania (su Pubblico ne abbiamo parlato oltre un mese fa).

In effetti, da quando nell’occhio del ciclone erano entrate Spagna e Italia lo scenario di una vera e propria disintegrazione dell’euro era diventato sempre più probabile. Non a caso, tra gli effetti dell’annuncio di Draghi c’è stato anche l’apprezzamento dell’euro sul dollaro. Che, tra parentesi, rappresenta un ulteriore smacco per la Bundesbank: evidentemente, infatti, i mercati non ritengono che la mossa di Draghi comporti fiammate inflazionistiche (in questo caso, infatti, l’euro avrebbe dovuto perdere valore).

Con l’annuncio di Draghi si è frenata la deriva dell’euro verso la disgregazione. E si è avviata la trasformazione della BCE in …banca centrale. In tutto il mondo, in effetti, le banche centrali rappresentano prestatori di ultima istanza anche nei confronti degli Stati, mentre la BCE sinora lo era solo nei confronti delle banche. Basti dire che dal 2008/9 il 60% dei nuovi titoli di Stato statunitensi e britannici è stato acquistato dalle rispettive banche centrali. Che in questo modo hanno ridotto moltissimo gli interessi pagati su quei titoli.

Tutto bene, quindi? Non proprio. E per diversi motivi. Proviamo a metterli in fila.

1) L’annuncio di Draghi contiene anche la precisazione che gli acquisti di titoli di Stato saranno “sterilizzati” (con vendite da parte della BCE di titoli in misura equivalente o consentendo alle banche di effettuare depositi remunerati presso la BCE), ossia che la BCE non stamperà moneta. Questo potrebbe limitare l’efficacia degli acquisti della BCE se essi dovessero risultare particolarmente ingenti. E potrebbe indurre la speculazione a ‘testare’ questo limite.

2) La riduzione dei rendimenti sui nostri titoli di Stato e dello spread tra essi e i titoli tedeschi di pari durata è sicuramente un fatto positivo, perché riduce il peso degli interessi sul nostro debito, e più in generale il costo di raccolta del capitale per le banche e le imprese italiane. Ma questo non risolve i problemi della nostra economia, che sono stati aggravati dalle manovre di correzione del bilancio pubblico effettuate dal luglio 2011 in poi. Secondo l’OCSE l’Italia finirà l’anno con un -2,4% di pil, e secondo alcune stime nel 2013 potrebbe andare anche peggio. Anche perché l’impatto delle manovre è progressivo: di 77 miliardi per il 2012, di 100 miliardi per il 2013 e addirittura di 114 per l’anno successivo. Una stretta del genere sulla finanza pubblica non può non comportare un calo marcato e prolungato della domanda interna e quindi dell’attività economica. Con il risultato, tra l’altro, di peggiorare il rapporto tra debito e pil.

3) E a questo si collega un altro aspetto critico del programma di acquisto di titoli di Stato da parte della BCE: il fatto che esso è condizionato a una formale richiesta di aiuto dello Stato interessato al Fondo di stabilità (il nuovo nome del Fondo Salva-Stati), la sigla di un protocollo e la verifica da parte di Commissione Europea, BCE e Fondo Monetario Internazionale del rispetto delle condizioni definite nel protocollo.

Qui ci sono due ordini di problemi. In primo luogo, non è chiaro cosa potrebbe succedere se i ricorsi contro il Fondo di stabilità pendenti davanti alla Corte costituzionale tedesca vincessero. Ma lo sapremo presto: la Corte deciderà il 12 settembre. Il problema più serio però è un altro. Cosa potrebbe succedere al paese che, avendo già in corso programmi di austerity, dovesse richiedere l’aiuto al Fondo di Stabilità e alla BCE? Ovviamente dovrebbe aggiungere alle misure già in atto ulteriori misure. Ma quali? Stando alle dichiarazioni degli ultimi mesi di qualche ministro particolarmente loquace, tra i candidati più probabili c’è la libertà di licenziamento nel pubblico impiego. Se così fosse, milioni di lavoratori italiani potrebbero scoprire presto che il bazooka di Draghi è puntato contro di loro.

DOPPIOCIECO

Per una Razionalità Moderatamente Pluralista