Declini paralleli. Perché ci vuole “più sinistra” per uscire dalla crisi



Il declino economico dell’Italia è cominciato ben prima di questa crisi. E affonda le sue radici in un modello di sviluppo perdente, fatto di precarietà e svalutazione del lavoro. Ecco perché c’è bisogno di più sinistra non solo per difendere i diritti, ma anche per far ripartire l’economia.

di Emilio Carnevali da Micromega

Nel 1870 la Gran Bretagna deteneva una quota pari al 31,8% della produzione manifatturiera mondiale. Nello stesso periodo le sue navi costituivano più della metà dell’intera flotta europea e solcavano i mari portando le merci inglesi in ogni più remoto angolo del pianeta. Dalle sue miniere si estraevano ogni anno 112.203 mila tonnellate di carbone, contro le 34.003 mila tonnellate estratte in Germania e le 36.667 mila negli Stati Uniti. Dagli altoforni delle città industriali del Galles e della Scozia uscivano ogni anno 897 mila tonnellate di acciaio, più del doppio di quelle prodotte in Germania, 300 mila in più che negli Stati Uniti.

Il primato industriale, economico e finanziario della Gran Bretagna sembrava regnare incontrastato dal tempo in cui le prime macchina per la filatura del cotone erano state installate nelle fabbriche di Leeds, l’illuminazione a gas aveva rischiarato le notti nelle strade del centro di Londra e le prime locomotive a vapore cominciavano a viaggiare – a velocità mai viste prime – fra Liverpool e Manchester.

Pochi decenni dopo, alla vigilia della Prima guerra mondiale, quel primato era già un ricordo. La Germania, e sopratutto gli Stati Uniti, avevano già compiuto il sorpasso nei confronti dei sudditi di sua maestà. La leadership economica del mondo – e successivamente anche quella politica – si apprestava a trasferirsi al di là dell’Atlantico. Cosa era mai potuto succedere in un così ristretto arco di tempo?

Il quesito ha fatto riempire agli storici le pagine dei volumi di intere biblioteche. Moltissime sono le teorie formulate, diverse le spiegazioni che colgono almeno in parte i molteplici aspetti di un fenomeno indubbiamente complesso.

Certamente ebbe un ruolo quello che oggi chiameremmo il “modello di sviluppo” adottato dai rispettivi paesi. Negli Stati Uniti la carenza relativa di manodopera comportava un più alto costo del lavoro che spingeva gli industriali americani a investire molto di più in macchinari ed innovativi dispositivi di produzione. L’Inghilterra, per altro, poteva contare su un vastissimo impero coloniale dove riversare i suoi manufatti. Questo la spinse ad attardarsi per molto tempo su produzioni tipiche della prima rivoluzione industriale, senza sentire la necessità di penetrare mercati più sofisticati. In altre parole, non fu “costretta” a tenere il contatto con la frontiera delle tecnologie più avanzate.

Anche il sistema educativo inglese era carente rispetto a quello dei suoi competitori. L’insegnamento di base divenne gratuito solo nel 1891 e un certo “culto dell’esperienza pratica” contribuì a non far tenere in dovuto conto l’importanza della formazione tecnico-scientifica. Con le sue Realschulen e le sue Technische Hochschulen la Germania preparava manovalanza specializzata e quadri tecnici in grande quantità. Fu così che in breve tempo guadagnò la leadership nei settori più all’avanguardia. Multinazionali della chimica come la Bayer, dell’elettromeccanica come la Siemens, della metallurgia come gli imperi dei Krupp e dei Thyssen, tutti marchi ben conosciuti anche oggi, nacquero proprio nella seconda metà dell’Ottocento sotto la spinta di quella poderosa accelerazione industriale.

Già nel 1913 la quota dei manufatti inglesi sulla produzione globale era scesa al 14%, contro il 35% degli Stati Uniti e il 15,7% della Germania. Iniziava il lungo secolo dell’egemonia “a stelle e strisce” (inframezzato dalla tragedia, e dal successivo riscatto, di cui fu protagonista la potenza tedesca).

Quale lezione è possibile trarre dalla storia del “declino economico inglese”? Indubbiamente ci confrontiamo con una distanza temporale considerevole, con condizioni di contesto diversissime. Eppure anche l’Italia negli ultimi anni è andata incontro ad un declino economico cominciato ben prima di questa crisi. Anch’esso ha origine dalla scelta di un modello di sviluppo perdente.

Tra il 2000 e il 2011 – proprio gli anni per i quali Silvio Berlusconi, alla vigila della sua seconda esperienza di governo, prometteva l’avvento di un “nuovo miracolo economico” – il Pil del nostro Paese ha fatto registrare un tasso di crescita medio di appena lo 0,3%, contro l’1,1% di Germania e Francia. E negli anni precedenti la media della nostra crescita era stata dell’1,6% inferiore a quella europea.
Sempre nell’arco temporale 2000-2009 (il cosiddetto “decennio perduto”) la produttività in Italia è diminuita in media dello 0.5% l’anno, un dato che non ha eguali né nella nostra storia né in quella degli altri paesi europei.

Dunque, non solo abbiamo reagito peggio degli altri paesi europei al Grande Crack sistemico sprigionatosi con la crisi dei mutui subprime partita dagli Usa (-5,5% di flessione del Pil nel 2009 a fronte di una media nell’area euro del -4,3%). Ma già venivamo da una fase di grande difficoltà. Già avevamo accumulato un considerevole ritardo.

Quel che è peggio, tanto per indulgere ancora un po’ nel pessimismo, è che le prospettive per il futuro sono parimenti fosche. Secondo le previsioni del Fondo Monetario Internazionale relative ai famigerati Piigs, l’Italia è il paese che – esclusa la Grecia – recupererà con maggiore lentezza i livelli di produzione precedenti alla crisi: solo dopo il 2018 il nostro Paese dovrebbe raggiungere lo stesso livello del Pil che aveva nel 2007.

Quali sono le ragioni di tutto ciò? Ci sono moltissimi fattori alla base del declino italiano (li affronta nel dettaglio l’economista Mario Pianta nel suo ultimo libro “Nove su dieci. Perché stiamo (quasi) tutti peggio di dici anni fa”, Laterza). Eccone alcuni: una struttura produttiva debole, posizionata su settori tradizionali e poco innovativi come l’alimentare, il tessile, le calzature, il legno, i prodotti in metallo; il nanismo delle imprese (l’84% delle 510 imprese italiane ha meno di 9 addetti e un altro 15% ne ha tra i 10 e i 49); gli scarsi investimenti in ricerca e sviluppo sia da parte dei privati che da parte delle autorità pubbliche (nel 2009 il nostro Paese ha dedicato a questa voce di spesa l’1,26% del Pil, contro la media dell’Europa a 27 dell’1,9%, per non parlare delle irraggiungibili Germania, 2,8%, e Finlandia 3,9%).

Si tratta naturalmente di limiti e difetti che ci portiamo dietro non da ieri. Una volta, però, avevamo anche altre armi per poter far fronte a queste difficoltà, come ad esempio la svalutazione della moneta nazionale. Con l’avvento dell’euro non abbiamo più potuto svalutare, e pertanto è venuto a mancare uno strumento fondamentale che permetteva di riequilibrare i conti con l’estero. Gli aggiustamenti sono stati interamente affidati alla flessibilità di prezzi e salari (o alle variazioni della produttività).

E allora ci siamo inventati una “bella” scorciatoia: quella di scaricare tutto l’onere della nostra competitività sul lavoro. Ecco, in ultima analisi, qual’era il disegno strategico dietro a una serie di controriforme del mercato del lavoro che hanno fatto dilagare la precarietà ben oltre i livelli richiesti dalle necessità organizzative delle nostre aziende. Ed ecco spiegata la singolare “pigrizia” dei nostri imprenditori: con la scelta di questo modello si è persa l’occasione di “costringerli” a raccogliere la sfida della qualità e dell’innovazione, a investire nelle proprie aziende, in quel capitale umano che è l’unico vero volano di sviluppo nelle moderne economie della conoscenza. Si aggiunga che per quanto peggioreranno le nostre condizioni di lavoro, mai potranno competere in termini di costi con quelle vigenti nelle fabbriche del Vietnam o nei capannoni della Romania.

Fossimo l’impero inglese di fine Ottocento, almeno avremmo i domini coloniali dove riversare le nostre merci facendo valere il primato della nostra flotta. Invece siamo l’Italia del terzo millennio, la cui flotta sembra riuscire ad attrarre le attenzioni del mondo solo in occasione di improvvidi “inchini” sulla costa di qualche isola turistica…

Ecco perché è innanzitutto il lavoro, il lavoro e l’economia reale, che dovranno essere messi al centro dell’iniziativa del prossimo governo. E ciò significa difesa dei diritti, ma anche capacità di visione sul lungo periodo. Più prosaicamente: moderne relazioni sindacali (non ottocentesche, come le vorrebbe qualcuno), efficaci politiche industriali, massicci investimenti nella scuola e nell’università, servizi pubblici e infrastrutture adeguati.

Ha ragione il ministro della coesione territoriale Fabrizio Barca quando dice che il problema della crescita e dello sviluppo è in qualche modo, per sua natura, estraneo ad un esecutivo tecnico come quello guidato da Mario Monti. E non solo a causa delle politiche di austerity imposte dall’Europa e di cui lo stesso Monti si è fatto garante. Ovviamente è necessario che queste politiche cambino, che si riavvii un motore della domanda interna europea in grado di rompere la spirale infernale fra recessione, peggioramento del debito e politiche restrittive che aggravano ancor di più la recessione.

Ma lo sviluppo presuppone un idea di destino comune, implica una capacità di immaginazione delle traiettorie che dovrà seguire il Paese per i prossimi 10/15 anni (non per i prossimi 2 o 3 mesi). E questa è materia propria dell’arte della politica. Di una politica forte fatta da soggetti forti. Non da “dilettanti allo sbaraglio” che fanno a gara a chi urla di più per lucrare sulla disperazione sociale di un paese in ginocchio. 


Organismi Geneticamente Monetizzati

Se i movimenti desiderano davvero migliorare la qualità del cibo, dovrebbero seguire la pista dei soldi piuttosto che perdere tempo con le etichettature


di Frederick Kaufman (da Slate)

traduzione di Domenico D’Amico


Traduciamo questo pezzo da Slate non perché contenga informazioni inedite (la storia del seme suicida della Monsanto, del pesticida Roundup e delle demenziali cause legali ad essi legate è fin troppo conosciuta) ma perché costituisce un ulteriore chiarimento di un elemento paradossale presente all’interno dei movimenti (definiamoli così per brevità) antiliberisti, un elemento che noi non ci stancheremo mai di stigmatizzare. Si tratta di una congerie di tratti culturali che appartengono (per lo più) al deprimete legato della paranoia statunitense derivata dalla fusione di un certo fondamentalismo religioso con un certo libertarismo anarcoide, tratti culturali che si possono riassumere con le idee esposte dal personaggio del Generale Ripper nel film Il Dottor Stranamore. Questo guazzabuglio di fuffa (fluorizzazione delle acque, scie chimiche, anti-vaccinismo, negazionismo dell’HIV eccetera eccetera) fa massa con le pseudo teorie dell’estrema destra liberista janqui (gold standard, signoraggio, congiura della Fed, sovereign citizens, lager della FEMA eccetera eccetera), inquinando alcune frange del movimento anti-imperialista, generando il profilo paradossale e autolesionista di un movimento “di sinistra” che si ritrova a diffondere le idee della peggiore e più reazionaria cultura statunitense… Se fossimo cospirazionisti ci verrebbe il sospetto che i vari propalatori di teorie sul signoraggio, scie chimiche e compagnia debbano per forza di cose essere sul libro paga dei fratelli Koch.

Ma del resto tutto è possibile.


Ho trascorso la maggior parte degli ultimi anni all’interno di laboratori ad accesso riservato che facevano ricerche sugli OGM. Durante le ricerche per il mio ultimo libro, ho scrutato l’uva che brilla nel buio (i suoi semi corretti con geni di medusa), assistito al tentativo di realizzare pomodori cubici (una sequenza di DNA potrebbe determinare la forma di qualsiasi frutto), e ammirato piante di riso progettate per essere immuni alle più fatali malattie dell’Asia. Nessuna di queste leccornie OGM è commercialmente disponibile – non ancora. Ma anche se nessuno di questi prodotti di laboratorio riuscisse a raggiungere gli scaffali, il 70% dei cibi lavorati presenti nei supermercati statunitensi contiene già ingredienti geneticamente modificati.

Dovremmo preoccuparci della salubrità di questo cibo? È la domanda che ha monopolizzato una buona percentuale delle recenti polemiche sviluppatesi a ridosso del voto californiano sulla Proposition 37 del mese scorso, che avrebbe potuto imporre l’etichettatura dei cibi contenenti OGM.

Ma è la domanda sbagliata.

Ecco perché: non c’è certezza sull’effetto dei cibi OGM sulla salute umana, ma il loro effetto sui coltivatori, gli scienziati e i mercati sono lampanti. Un cibo geneticamente modificato potrebbe essere dannoso, un altro no; ogni manipolazione genetica è diversa. Ma ogni cibo geneticamente modificato diventa pericoloso – non per la salute ma per la società – nel momento in cui è possibile brevettarlo. In questo momento la spinta maggiore dietro lo sviluppo di raccolti OGM è costituita dalla possibilità di ricavarne enormi profitti, e l’origine di questi profitti potenziali sta tutta in una frasetta legale apparentemente inoffensiva:

“Chiunque inventi o scopra qualsiasi nuovo e fruttuoso procedimento, macchinario, metodo di fabbricazione, composizione materiale, o qualunque miglioramento nuovo e proficuo dei predetti, può ottenerne il brevetto.”

Questo è il succo della prima legge americana sui brevetti (all’inizio al posto del termine procedimento c’era la parola arte) – ed è la ragione che spinge i biologi molecolari a infilare geni di medusa nell’uva e a passare notti insonni all’inseguimento del pomodoro quadrato. In origine la legge sui brevetti si applicava solo a invenzioni non commestibili, ma a partire dall’approvazione del Plant Patent Act del 1930, il cibo manipolato geneticamente è diventato oggetto di protezione della proprietà intellettuale, e la creazione di nuovi alimenti è divenuta un modo sicuro di assicurarsi fonti di profitto per chiunque li brevetti per primo. Nel 1930 un cibo geneticamente modificato poteva essere una mela innestata da un albero all’altro, ma quarant’anni dopo la norma venne estesa dalle piante originate da innesto alle piante cresciute da sementi, ad esempio il frumento. La protezione per le “Utility patent” [1] arrivò in seguito, nel 1985, ed estese i diritti di proprietà intellettuale ai metodi di progettazione delle piante, incluse le sequenze genetiche inserite nel genoma di una specie.

L’impatto di queste leggi è stato enorme. Essenzialmente sono state quelle leggi a creare il sistema di industria alimentare che i movimenti di base giustamente stigmatizzano.

La Monsanto, la più vituperata delle corporation in campo agroalimentare, è autrice di numerosissime malefatte che i canali impegnati politicamente hanno ampiamente denunciato. Quello che non è stato ampiamente comunicato è che sono i brevetti sui vegetali a costituire il quadro legale che consente quelle malefatte. È stata la protezione dei brevetti di utilità ad aprire la strada alla panoplia globale di semi e pesticidi della Monsanto di oggi, inclusa la famigerata tecnologia dei semi “terminator” (o “suicidi”) che di fatto sterilizzano le piante di seconda generazione e rendono non solo inutile ma illegale, da parte dei coltivatori, mettere da parte i semi per la semina dell’anno seguente). La Monsanto ha fatto causa ai contadini che si ritrovavano frumento o soia transgenici nei loro campi, piante generate dai semi portati dal vento provenienti da campi vicini coltivati a OGM. Qual era la base per simili ridicole cause? I brevetti sui vegetali. Questi coltivatori stanno involontariamente violando i diritti di proprietà intellettuale della Monsanto. Peggio ancora, la Monsanto ha avuto la perfida idea di sviluppare un tipo di pesticida (nello specifico, un diserbante chiamato “Roundup”, scoperto e brevettato da un chimico della Monsanto nel 1970) che opera al meglio quando utilizzato coi semi brevettati dalla corporation. Le leggi sui brevetti, in pratica, hanno permesso alla corporation l’istituzione di un monopolio verticale – se vuoi le sementi ad alto rendimento Roundup Ready avrai bisogno dell’insetticida Roundup della Monsanto; e se compri l’insetticida Roundup avrai bisogno delle sementi Roundup Ready (dato che le aziende agricole di grandi dimensioni desiderano il maggior rendimento possibile, tendono ad abbozzare e a comprare tutt’e due i prodotti).

L’effetto complessivo di queste azioni sul sistema mondiale dell’alimentazione è stato straordinariamente negativo.

Considerate il caso della dott.sa Pamela Ronald, professoressa di Genomica Vegetale presso la UC-Davis. Come per molti altri scienziati, la motivazione principale della dott.sa Ronald non è il profitto, ma la comprensione dei meccanismi naturali. Dopo aver lavorato per un decennio alla decodifica del genoma del riso, Ronald e il suo team realizzarono un’alterazione genetica che resisteva allo Xanthonomas, una delle peggiori patologie del riso in Asia. Potrebbe esserci una migliore, più socialmente utile applicazione delle manipolazioni genetiche di questa? Ronald e la UC-Davis registrarono il gene presso l’ufficio brevetti statunitense, in modo da ottenere la proprietà intellettuale della sequenza dell’immunità allo Xanthomonas, e quasi subito la Monsanto e la Pioneer [2] chiesero l’autorizzazione all’uso del gene.

Ma mentre l’Office of Technology Transfer della UC-Davis lavorava ai termini dell’accordo, la Monsanto e la Pioneer persero interesse alla questione, e le prospettive commerciali del riso di Ronald giunsero a un’impasse. A quanto pare la resistenza a una patologia non era attraente per le multinazionali dell’alimentazione quanto invece lo era per la dott.sa Ronald e la UC-Davis, forse perché i potenziali profitti derivati da un riso che resiste alla ruggine non potevano rivaleggiare con quelli derivati dal frumento Roundup Ready. Il riso di Pamela Ronald prometteva di salvare vite in Asia, ma le lungaggini legali lo relegarono nella sua serra.

Alla fine, la dott.sa Ronald ha contestato il suo stesso brevetto, rendendo le informazioni genetiche da lei scoperte disponibili gratuitamente per i paesi in via di sviluppo. L’atteggiamento di Ronald nei confronti della legislazione riguardante la genetica in agricoltura non è insolito tra gli scienziati. Parecchi dei biologi molecolari che ho intervistato negli ultimi anni mi hanno detto che le leggi sui brevetti intralciano il loro lavoro di ricerca, nel momento in cui l’innovazione molecolare diviene proprietà intellettuale della compagnia o università proprietarie del laboratorio che ha effettuato la scoperta. Il diritto alla proprietà della propria scoperta sembrerebbe una bella cosa – tranne che per il fatto che la conseguenza è il blocco della collaborazione scientifica su larga scala, spesso fondamentale per il progresso della ricerca. Di fatto, l’interesse degli scienziati per una circolazione delle idee più libera potrebbe essere un’alleata nella lotta dei movimenti contro la Monsanto e i colossi dell’agroalimentare, nella lotta per una riforma dei brevetti vegetali – se i movimenti smettessero per un momento di concentrarsi sulla questione delle etichettature e guardassero al quadro più ampio.

Le normative sulla proprietà intellettuale devono essere ripensate. Un film o un libro coperti da copyright restano comunque lo stesso film e lo stesso libro, ma quando il cibo diventa un concetto legale o una proprietà intellettuale, cessa di essere cibo. Naturalmente si può consumare un popcorn brevettato allo stesso modo di un suo cugino che non lo sia. Ma a differenza di un iPhone o di un tv a schermo piatto, del cibo ne hanno bisogno tutti, e ne hanno bisogno ogni giorno. I rappresentanti maggiori dell’industria alimentare globale vorrebbero convincerci che il mercato mondiale delle derrate alimentari sia un libero mercato come quello di qualsiasi gadget tecnologico – anche se nessuno può decidere di fare a meno a lungo di fare colazione, pranzo o cena. Dato che la partecipazione al mercato delle derrate è obbligatoria, al ritmo di circa 2700 calorie al giorno, i brevetti sul cibo permettono ai loro proprietari una quota garantita di profitti proveniente da una garantita quantità di acquisti, il che è fondamentalmente iniquo. Per quale motivo l’industria agroalimentare dovrebbe godere di privilegi negati a ogni altro genere di business? Le norme che regolamentano i brevetti nel campo dell’elettronica o dello spettacolo non dovrebbero essere i medesimi anche per quel che riguarda gli elementi più essenziali dell’esistenza umana.

Più di ottanta anni di protezione dei brevetti vegetali hanno costruito uno dei bastioni più imponenti dell’industria agroalimentare – ed ecco perché dovrebbero essere questi brevetti l’obbiettivo dei movimenti. Il modo più diretto ed efficace di minare il monopolio degli industriali delle sementi modificate è una riforma di quelle leggi (in particolare quella sui brevetti di utilità del 1985), e rendere i diritti di proprietà che riguardano il cibo meno esclusivi, meno profittevoli e meno duraturi.

Se i movimenti di base che si interessano della questione alimentare hanno come obbiettivo l’alternativa ai colossi dell’alimentazione, se l’obbiettivo è il miglioramento a livello globale delle condizioni dei piccoli coltivatori, lo sviluppo di un rapporto migliore tra ambiente rurale e ambiente urbano, e il sostegno allo sviluppo di un’agricoltura più sostenibile – allora l’etichettatura dei cibi contenenti OGM, come avrebbe ottenuto la Proposition 37 in California, non avrebbe dato il minimo contributo alla causa. Per cambiare il sistema alimentare, il movimento deve sviluppare un pensiero strategico. Per le Monsanto di questo mondo, il cibo è diventato una fonte di profitti sfrenati e un concetto legale da difendere a ogni costo nei tribunali. Questo significa che per il movimento è venuta l’ora di prendere di mira le leggi sui brevetti. Invece di giostrare coi mulini a vento delle etichettature, le organizzazioni non profit che si occupano del settore alimentare dovrebbero ingaggiare uno stuolo di avvocati esperti di proprietà intellettuale e scatenarli su Washington per pretendere una riforma del Plant Patent Act. Nel momento in cui la manipolazione genetica sarà meno redditizia, le cose andranno meglio sia per i consumatori, sia per i coltivatori, sia per i ricercatori – praticamente per tutti tranne che per i dirigenti delle corporation.


La copertura informativa sul settore alimentare di Slateè resa in parte possibile dal contributo della W.K. Kellogg Foundation.



Note del traduttore


[1] “Negli Stati Uniti, sono disponibili due tipi di protezione di brevetti: utilità e design. La differenza di base tra questi due tipi è che un’“utilità di brevetto” protegge il modo in cui un articolo viene usato e lavorato (35 U.S.C. §101), e un “brevetto per design” protegge il modo in cui un articolo appare (35 U.S.C,. §171). Entrambe le forme di protezione possono essere ottenute per un singolo articolo che possiede entrambe le caratteristiche funzionali e ornamentali.” [Unioncamere Lombardia]

[2] La Pioneerè un’industria che opera nel settore agroalimentare come la Monsanto, ed è di proprietà del colosso chimico DuPont.

Il Mito dell’Insolvenza del Giappone

…e la bufala del “decennio perduto”: il più grande “debitore” del mondo è adesso il più grande creditore del mondo
 
di Ellen Hodgson Brown (da Dissident Voice)

traduzione di Domenico D’Amico

L’enorme debito pubblico del Giappone nasconde un enorme beneficio per il popolo giapponese, il che insegna molto sulla crisi debitoria degli USA.

In un articolo pubblicato su Forbesnell’aprile del 2012, intitolato “Se il Giappone È insolvente, Come Mai Sta Soccorrendo Economicamente l’Europa?”, Eamon Fingleton faceva notare come il Giappone sia il paese, al di fuori dell’Eurozona, che abbia dato di gran lunga il maggior contributo all’ultima operazione di salvataggio finanziario dell’Euro. Si tratta, scrive, dello “stesso governo che è andato in giro facendo finta di essere in bancarotta (o perlomeno, che ha evitato di opporsi sul serio quando ottusi commentatori americani e britannici hanno dipinto le finanze pubbliche giapponesi come un totale disastro).” Osservando che fu sempre il Giappone, praticamente da solo, a salvare il FMI al culmine del panico globale del 2009, Fingleton domanda:

Com’è possibile che una nazione il cui governo si suppone sia il più indebitato tra i paesi avanzati si permetta tanta generosità? (…) L’ipotesi è che la vera finanza pubblica del Giappone sia molto più solida di quanto la stampa occidentale ci abbia fatto credere. Quello che non si può negare è che il Ministero delle Finanze giapponese sia uno dei meno trasparenti del mondo…”

Fingleton riconosce che i passivi del governo giapponese sono ingenti, ma dice che dovremmo guardare anche all’aspetto patrimoniale del bilancio:

[I]l Ministero delle Finanze di Tokyo ottiene sempre più prestiti dai cittadini giapponesi, ma non per pazze spese statali in patria, bensì all’estero. Oltre a rimpolpare il piatto per far sopravvivere il FMI, Tokyo è ormai da tempo il prestatore di ultima istanza sia del governo statunitense sia di quello britannico. E intanto prende in prestito denaro con un tasso di appena l’1% in dieci anni, il secondo tasso più basso del mondo dopo quello svizzero.”

Per il governo giapponese è un buon affare: può farsi prestare denaro all’1% in dieci anni, e prestarlo agli USA a un tasso dell’1,6 (il tasso attuale dei titoli USA a dieci anni), con un discreto margine di guadagno.
Il rapporto debito/PIL del Giappone è quasi del 230%, il peggiore tra i più grandi paesi del mondo. Eppure il Giappone resta il maggior creditore del mondo, con un netto di bilancio con l’estero di 3.190 miliardi di dollari. Nel 2010 il suo PIL pro capite era superiore a quello di Francia, Germania, Regno Unito e Italia. Inoltre, anche se l’economia della Cina è arrivata, a causa della sua popolazione in progressivo aumento (1,3 miliardi contro 128 milioni), a superare quella del Giappone, i 5.414 dollari di PIL pro capite dei cinesi è solo il 12% dei 45.920 dei giapponesi.
Come si spiegano queste anomalie? Un buon 95% del debito pubblico giapponese è detenuto all’interno del paese, dagli stessi cittadini.
Oltre il 20% del debito è in possesso della Japan Post Bank [1], dalla Banca centrale e da altre istituzioni statali. La Japan Post è la più grande detentrice di risparmio interno del mondo, e gli interessi li versa ai suoi clienti giapponesi. Anche se in teoria è stata privatizzata nel 2007, è pesantemente influenzata dalla politica, e il 100% delle sue azioni è in mano pubblica. La Banca centrale giapponese è posseduta dallo stato per il 55%, ed è sotto il suo controllo per il 100%.
Del debito rimanente, oltre il 60% è detenuto da banche giapponesi, compagnie assicurative e fondi pensione. Un ulteriore porzione è in mano a singoli risparmiatori. Solo il 5% è detenuto all’estero, per lo più da banche centrali. Come osserva il New York Timesin un articolo del settembre 2011:

Il governo giapponese è pieno di debiti, ma il resto del Giappone ha denaro in abbondanza.”

Il debito pubblico giapponese è il denaro dei cittadini. Si possiedono l’un l’altro e ne raccolgono insieme i frutti.

I Miti del Rapporto Debito/PIL in Giappone

Il rapporto debito pubblico/PIL del Giappone sembra davvero pessimo. Ma, come osserva l’economista Hazel Henderson, si tratta solo di una questione di procedura contabile – una procedura che lei e altri esperti ritengono fuorviante. Il Giappone è leader mondiale in parecchi settori della produzione di alta tecnologia, inclusa quella aerospaziale. Il debito che compare sull’altra colonna del suo bilancio rappresenta il premio riscosso dai cittadini giapponesi per tutta questa produttività.
Secondo Gary Shilling, in un suo articolo su Bloomberg del giugno 2012, più della metà della spesa pubblica giapponese va in servizi al debito e previdenza sociale. Il servizio al debito viene erogato sotto forma di interessi ai “risparmiatori” giapponesi. La previdenza e gli interessi sul debito pubblico non vengono inclusi nel PIL, ma in realtà si tratta della rete di sicurezza sociale e dei dividendi collettivi di un’economia altamente produttiva. Sono questi, più dell’industria bellica e dei “prodotti finanziari” che costituiscono una grossa parte del PIL degli USA, i veri frutti dell’attività economica di una nazione. Per quel che riguarda il Giappone, rappresentano il godimento da parte dei cittadini dei grandi risultati della loro base industriale ad alta tecnologia.
Shilling scrive:

Il deficit statale si suppone serva a stimolare l’economia, eppure la composizione della spesa pubblica giapponese, sotto questo aspetto, non sembra molto utile. Si stima che il servizio al debito e la previdenza – in genere non uno stimolo per l’economia – consumeranno il 53,5% della spesa per il 2012…”

Questo è quello che sostiene la teoria convenzionale, ma in realtà la previdenza e gli interessi versati ai risparmiatori interni stimolano, eccome, l’economia. Lo fanno mettendo denaro in tasca ai cittadini, incrementando così la “domanda”. I consumatori che hanno soldi da spendere riempiono i centri commerciali, incrementando così gli ordini di ulteriori merci, e spingendo in su produzione e occupazione.

I Miti sull’Alleggerimento Quantitativo

Una parte del denaro destinato alla spesa pubblica viene ottenuto direttamente “stampando moneta” per mezzo della banca centrale, procedura nota anche come “alleggerimento quantitativo” [Quantitative easing]. Per più di un decennio la Banca del Giappone ha seguito questa procedura; e tuttavia l’iperinflazione che secondo i falchi del debito si sarebbe dovuta innescare non si è verificata. Al contrario, come osserva Wolf Richter in un articolo del 9 maggio 2012:

I giapponesi [sono] infatti tra i pochi al mondo a godersi una vera stabilità dei prezzi, con periodi alternati di piccola inflazione o piccola deflazione – l’opposto di un’inflazione al 27% su dieci anni che la Fed si è inventata chiamandola, demenzialmente, ‘stabilità dei prezzi’”.

E cita come prova il seguente grafico diffuso dal Ministero degli Interni giapponese:


Com’è possibile? Dipende tutto da dove va a finire il denaro prodotto con l’alleggerimento quantitativo. In Giappone, il denaro preso in prestito dallo stato torna nelle tasche dei cittadini sotto forma di previdenza sociale o interessi sui loro risparmi. I soldi sui conti bancari dei consumatori stimolano la domanda, stimolando la produzione di beni e servizi, facendo aumentare l’offerta. E quando domanda e offerta aumentano insieme, i prezzi restano stabili.

I Miti sul “Decennio Perduto”

La finanza giapponese si è a lungo ammantata di segretezza, forse perché quando il paese era maggiormente disposto a stampare denaro per sostenere le proprie industrie, si è fatto coinvolgere nella II Guerra Mondiale. Nel suo libro del 2008, In the Jaws of the Dragon, Fingleton suggerisce che il Giappone abbia simulato l’insolvenza del “decennio perduto” degli anni 90 per evitare di incorrere nell’ira dei protezionisti americani a causa delle sue fiorenti esportazioni di automobili e altre merci. Smentendo le pessime cifre ufficiali, durante quel decennio le esportazioni giapponesi aumentarono del 75%, ci fu un incremento delle proprietà all’estero, e l’uso di energia elettrica aumentò del 30%, segnale rivelatore di un settore industriale in espansione. Arrivati al 2006, le esportazioni del Giappone erano diventate il triplo rispetto al 1989.
Il governo giapponese ha sostenuto la finzione di adeguarsi alle norme del sistema bancario internazionale, prendendo “in prestito” il denaro invece di “stamparlo” direttamente. Ma prendere in prestito il denaro emesso da una banca centrale proprietà dello stesso governo è l’equivalente pratico di un governo che il denaro se lo stampi, in particolare quando il debito continua a rimanere nei bilanci ma non viene mai ripagato.

Implicazioni per il “Precipizio Fiscale” [2]

Tutto questo ha delle implicazioni per gli americani preoccupati per un debito pubblico fuori controllo. Adeguatamente guidato e gestito, a quanto pare, il debito non deve far paura. Come il Giappone, e a differenza della Grecia e degli altri paesi dell’Eurozona, gli USA sono gli emittenti sovrani della propria valuta. Se lo volesse, il Congresso potrebbe finanziare il proprio bilancio senza ricorrere a investimenti esteri o banche private. Potrebbe farlo emettendo direttamente moneta o facendosela prestare dalla propria banca centrale, a tutti gli effetti a zero interessi, dato che la Fed versa allo stato i suoi profitti dopo averne sottratto i costi.
Un po’ di alleggerimento quantitativo può essere positivo, se il denaro arriva allo stato e ai cittadini piuttosto che nelle riserve bancarie. Lo stesso debito pubblico può essere una cosa positiva. Come testimoniò Marriner Eccles, direttore della Commissione della Federal Reserve, in un’audizione davanti alla Commissione Parlamentare Bancaria e Valutaria [ House Committee on Banking and Currency] nel 1941, il credito dello stato (o il debito) “è ciò in cui consiste il nostro sistema monetario. Se nel nostro sistema monetario non ci fosse il debito, non ci sarebbe nemmeno denaro”.
Adeguatamente gestito, il debito pubblico diventa il denaro che i cittadini possono spendere. Stimola la domanda, finendo per stimolare la produttività. Per mantenere il sistema stabile e sostenibile, il denaro deve avere origine dallo stato e i suoi cittadini, e finire nelle tasche del medesimo stato e dei medesimi cittadini.


Ellen Brown è avvocato a Los Angeles e autrice di 11 libri. In Web of Debt: The Shocking Truth about Our Money System and How We Can Break Free, mostra come un monopolio bancario abbia usurpato il potere di emettere valuta, sottraendolo alla sovranità del popolo, e come il popolo possa riappropriarsene. Altri articoli di Ellen Brown. Il suo sito personale.

note del traduttore

[1] Le poste giapponesi, pur diventando un vero e proprio istituto di credito, a differenza di altre banche commerciali ha come attività principale il risparmio. [Wikipedia]
[2] “Fiscal Cliff: letteralmente “rupe fiscale” ma reso in italiano anche con “precipizio”, il “fiscal cliff” indica il doppio impasse che dovranno affrontare gli Stati Uniti alla fine di quest’anno, quando scadranno gli incentivi fiscali introdotti nell’era Bush e si dovrà trovare un accordo sul tetto al debito Usa per evitare tagli automatici alle spese e aumenti delle tasse. Il fiscal cliffpotrebbe esercitare pressioni significative sulla crescita Usa nei primi mesi del prossimo anno. Nel peggiore dei casi si rischierebbe anche una nuova recessione. Di qui la minaccia delle agenzie di rating (ultima ieri Fitch) di abbassare il giudizio sulla solvibilità degli Stati Uniti in caso di mancato accordo al Congresso. [Il Sole 24 Ore – 30 agosto 2012]

Grillo, Renzi e il furto di futuro


di Tonino Perna da soggettopoliticonuovo

I due politici fanno dello scontro tra giovani e vecchi il loro cavallo di battaglia. Ma quali sono le ragioni che hanno portato a questa frattura intergenerazionale?
La rapida ascesa di Matteo Renzi sulla scena politica nazionale ha stupito molti: in soli due anni è passato dalla corsa per la poltrona di sindaco di Firenze a quella di leader del Pd. Ancora più incredibile è stata l’ascesa di Beppe Grillo, da brillante comico a leader carismatico del terzo partito italiano, stando a sondaggi recenti.
Il suo successo è ormai oggetto di studi – di sociologi, politologi e giornalisti – che nei prossimi mesi riempiranno gli scaffali delle librerie italiane.
Cosa hanno in comune due leader così diversi, per anagrafe ed esperienze di vita e di lavoro? Quasi niente, meno un dato di grande rilevanza: l’obiettivo dello svecchiamento della classe politica, il ricambio generazionale. Il primo slogan fortunato di Renzi fu, per l’appunto, questo: dobbiamo «rottamare» la classe politica, a partire da quella del Pd. Grillo ha impostato fin dall’inizio la sua propaganda politica contro la gerontocrazia, la vecchia generazione (di cui lui fa parte) che non vuole mollare le poltrone e blocca l’accesso dei giovani alle leve di comando del nostro paese. Non a caso la sua più grande platea potenziale di voti sono i giovani sotto i 40 anni.
Malgrado Grillo e Renzi si becchino pesantemente, per ovvie ragioni di concorrenza sullo stesso terreno, sono accomunati da una stessa strategia politica: dare uno sbocco politico all’insofferenza ed alla disperazione giovanile in questa lunga fase di crisi e ristrutturazione del modello sociale capitalistico. Questo è un dato di fatto che merita una profonda riflessione.
Tutta la società occidentale è da anni arrivata alla fine del modello di sviluppo della seconda metà del ’900. Un modello che aveva permesso, fra l’altro, un alto tasso di mobilità sociale ascendente e un avanzamento, sia pure relativo, negli standard di vita e di consumo dei ceti medi e popolari. Il modello aveva cominciato a lanciare i primi segni di crisi da sovraproduzione già alla fine degli anni ’70 del secolo scorso. Ed è stato proprio in quegli anni, con l’avvento dell’era Thatcher-Reagan, che si è cominciato a smantellare il welfare e a dare fiato alla crescita economica, grazie a un poderoso processo di indebitamento: dello Stato in primis, ma anche delle famiglie e delle imprese. Per averne un’idea concreta basti pensare che oggi negli Usa l’indebitamento complessivo è pari a tre volte e mezzo il Pil, mentre in Italia è oltre due volte e mezzo. Contemporaneamente iniziava una fase di decentramento produttivo, di deindustrializzazione, che prima ha coinvolto gli Usa e poi l’Ue, mentre cresceva soprattutto il terziario parassitario e quello legato al mondo della finanza e del marketing. Tutto ciò ha comportato una progressiva riduzione nella qualità della domanda di lavoro e, soprattutto, uno scarto crescente tra produzione di diplomati e laureati e domanda di lavoro. Questo processo ha comportato un progressivo blocco dell’ascensore sociale e poi una sua discesa, ancora in atto. In altri termini: per i ceti popolari e medi è finita l’ascesa sociale, il passaggio dal lavoro manuale a quello intellettuale, dalla condizione operaia a quella impiegatizia o professionale, ed è iniziata la discesa. Le nuove generazioni si sono trovate davanti una società bloccata e gestita dai “vecchi”. Non solo. Le nuove generazioni hanno preso coscienza del fatto che loro malgrado si trovano a dover pagare un debito pubblico e un debito ecologico di cui non hanno alcuna responsabilità.
Questo è un dato che accomuna tutto l’Occidente e che in Italia si presenta in forme particolarmente gravi per via della mancanza cronica di una politica industriale ed economica all’altezza della nuova sfida: l’emergere di nuove potenze economiche, in primis la Cina, che ha prodotto una nuova divisione internazionale del lavoro. Di fronte a questo nuovo scenario internazionale il pensare che stimolare la domanda dei beni di consumo o avviare nuovi lavori pubblici possa risolvere la questione è pura illusione. È un intero modello socio-economico che va ripensato a partire da una delle chiavi principali che lo guidano: l’anticipazione del futuro.
Che si tratti della produzione agricola o di quella zootecnica, dell’uso delle risorse energetiche o di quelle ittiche e forestale, questo modello di sviluppo tende a far aumentare la produttività nell’unità di tempo attraverso l’anticipazione del futuro. Cioè ad ottenere oggi una massimizzazione della produzione – che si tratti di una mucca o di un terreno agricolo, di un pollo o di un pozzo di petrolio, ecc. – a danno della qualità del prodotto, di danni ambientali collaterali, e soprattutto di una perdita della risorsa nel futuro. In primo luogo, attraverso il debito pubblico e privato abbiamo anticipato il futuro, consumando oggi risorse che non avevamo.
È questa la base materiale del furto di futuro che abbiamo operato rispetto alle nuove generazioni. Ed è questa la base materiale dello scontro tra generazioni che è in atto e che s’intreccia con la lotta di classe condotta dal capitale contro la forza-lavoro, come ha ben mostrato Luciano Gallino nel suo ultimo saggio. Anticipazione del futuro e lotta di classe condotta dal capitale globale hanno prodotto una desertificazione sociale, una disgregazione che porta alla lotta tra poveri e tra lavoratori unitamente allo scontro intergenerazionale, che diverrà sempre più duro e cinico.
Mi domando: basta un ricambio generazionale per cambiare questo folle modello di vita e di consumi? E poi mi chiedo: quelli che appartengono alla mia generazione sono tutti colpevoli?
Queste sono le domande cruciali del nostro tempo a cui chi vuole costruire un’alternativa di sinistra dovrebbe rispondere proponendo una via d’uscita dalla crisi che dia risposte immediate e concrete alle nuove generazioni, andando al di là dei facili e pericolosi slogan del duetto Grillo-Renzi che invitano alla guerra intergenerazionale.

Fonte: Il Manifesto 12/09/2012

 

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