IRAQ, LA MADRE DI TUTTE LE BUFALE. Come nasce la disinformazione globale.

di Alberto Negri da Il Sole 24 Ore


È il novembre 2015 quando France 5, canale pubblico di informazione, invia una giornalista a intervistare Ahmad Chalabi, l’uomo politico scelto da Washington per guidare l’Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein nel 2003: Time gli dedicò allora una cover story intitolata al “George Washington iracheno”. La parabola politica di Chalabi è nota, un po’ meno chiaro è come contribuì alla guerra e persino la sua fine lascia più di qualche dubbio.
Fu lui fu il grande ispiratore della madre di tutte le bufale: le armi di distruzione di massa irachene.
L’intervista con France 5 si rivela laboriosa. La giornalista alla fine riesce a ottenere il sospirato incontro: è il tardo pomeriggio del 2 novembre del 2015. Le domande sono riferite quasi tutte a una questione. Come fu costruito il dossier americano che imputava a Saddam il possesso di un arsenale chimico e biologico che non fu mai trovato e costituì una delle basi legali all’intervento militare che ha segnato l’inizio della disgregazione del Medio Oriente?
Quando la tv francese mi ha raccontato la storia di questa intervista ha ovviamente sollevato il mio interesse. Come inviato seguo sul campo gli eventi mediorientali da oltre 35 anni e in Iraq ho trascorso molto tempo, in particolare oltre cinque mesi di fila tra la fine del 2002 e la primavera del 2003 quando cadde il regime baathista.
L’arsenale di Saddam era materia di articoli quasi quotidiani. Eravamo inondati da centinaia di pagine di rapporti del dipartimento di Stato, del Pentagono di think tank Usa e britannici. Faldoni enormi, densi di dati e di riferimenti: per sfogliarli ogni giornalista all’epoca spese intere settimane.
A Baghdad l’arsenale proibito di Saddam si “materializzo” davanti agli occhi dei reporter, come in un gioco di prestigio. Squadre di ispettori dell’Onu percorrevano l’Iraq alla ricerca di prove. Nella capitale sbucavano su jeep bianche con la bandiera delle Nazioni Unite, entravano negli edifici del regime e ne uscivano con montagne di incartamenti. Erano quelle le prove?
Talvolta i giornalisti erano invitati a verificare le accuse. Fu così che un giorno andai a Falluja dove in una spianata sassosa si potevano vedere delle strutture di metallo assai sghembe, che sembravano disegnate un geometra distratto: ci fu detto che erano rampe di lancio di missili da armare con testate chimiche. Eppure i famosi Scud di Saddam, sottoposto a sanzioni da oltre 12 anni, dovevano essere quasi tutti spariti da tempo. Infatti durante la guerra non vennero mai usati.
Le accuse potevano sembrare credibili. Nel 1988 avevo visto i sopravvissuti di Halabja, la popolazione curda irachena colpita dai gas di Baghdad che avevano fatto cinquemila morti. Ricordavo benissimo che allora nessuno aveva rivolto alcuna accusa al regime perché combatteva contro l’Iran di Khomeini.
Per costruire delle menzogne credibili serve sempre un fondo di verità e Saddam aveva un fedina piuttosto lunga che non deponeva a suo favore.
Il regime negava tutto. Nel febbraio del 2003, mentre aspettavamo l’attacco americano, il braccio destro di Saddam, Tarek Aziz, che avevo incontrato diverse volte, mi invitò nel suo ufficio. Davanti alla scrivania aveva una montagna di carte da firmare mentre la tv, sintonizzata su Cnn, trasmetteva il discorso del segretario di stato Colin Powell alle Nazioni Unite: stava mostrando le prove della famosa “pistola fumante”, le foto satellitari delle armi di distruzione di massa.
Chi gliele aveva date? Il capo della National Geospatial Intelligence Agency, James Clapper, lo stesso che come direttore della Nsa ha portato le prove dell’interferenza degli hacker russi nelle recenti elezioni presidenziali americane.
Tarek Aziz continuò a sfogliare le carte senza alzare lo sguardo alla tv e gli chiesi cosa ne pensasse del discorso di Powell. “ Credo – disse – che ci faranno la guerra anche se gli consegneremo l’ultimo dei nostri kalashnikov”.
Come è stato possibile costruire il dossier contro l’Iraq di Saddam? “Semplice – ha risposto Chalabi alla giornalista di France 5 – gli americani già nel 2001-2002 mi chiesero riferimenti e persone che avrebbero potuto essere utili a costruire un’accusa sulle armi di Saddam e io ho fornito agli Stati Uniti questi elementi: non mi sento colpevole, sono stati gli americani poi a trarre le conclusioni”.
Ora sappiamo, anche in base al rapporto di John Chilcot, presidente della commissione d’inchiesta britannica, che l’intervento militare Usa in Iraq del 2003, sostenuto caldamente da Tony Blair, era basato su falsi rapporti.
La giornalista di France 5 poteva ritenersi soddisfatta: l’intervista a Chalabi era costata mesi di attesa.
Il giorno seguente all’incontro con Chalabi, il 3 novembre 2015, stava esaminando nella sua stanza d’albergo a Baghdad il materiale raccolto. La notizia arrivò all’improvviso: Chalabi era stato appena trovato morto, apparentemente vittima di un attacco di cuore. Nel filmato ammetteva la sua complicità nella raccolta delle false accuse contro Saddam sulle armi di distruzione di massa e faceva dei nomi: ma questa era stata la sua ultima intervista. Alla giornalista non restò che correre in aereoporto e dileguarsi con il primo volo utile per Beirut. Di solito questi non sono buoni segnali.
La madre di tutte le bufale è nata dentro al sistema politico e di propaganda anglo-americano che non ha mai smesso di produrre la “verità del momento”. E gli altri, come i russi o cinesi, hanno cominciato a imitarlo. Non solo, ha continuato a sostenerla e oggi il sistema che produce bufale può godere dell’aiuto dei social network, di Facebook, di Twitter, di centinaia di siti e blog le cui notizie sono spesso false o inverificabili.
Non c’è più bisogno di inviare come un tempo ai giornalisti voluminosi faldoni che davano al tutto una parvenza di serietà: basta andare sul web e la verità del momento si diffonde come un virus.
Ma di menzogne come quella colossale dell’Iraq si continua a morire. Ogni tanto qualcuno insegna ad altri un mestiere che non ha mai fatto. Non capisco bene cosa sia questa post-verità, sembra una formuletta dove, per esempio nel giornalismo, nascondere un po’ di fumo e scarsa voglia di lavorare e approfondire. La verità spesso non si ottiene subito ma per approssimazione accumulando informazioni e studiando, bene, quello di cui si scrive. Per il giornalista è fondamentale andare sul posto, consumare la suola delle scarpe, avvicinarsi il più possibile al punto di osservazione degli eventi e poi sapersene anche distaccare e mettere a fuoco meglio la situazione. Il giornalista può ovviamente sbagliare e deve sapersi correggere non affezionandosi a comodi schemi di interpretazione. Credo che sia il lavoro che fanno in molti dedicandosi a questo mestiere tutti i giorni per anni, a volte anche a rischio della pelle, per cui la post verità sembra già in sè una bufala propagandata da chi vuole campare sul lavoro altrui. Appurare i fatti è un lavoro individuale ma si fa ancora meglio in una democrazia dove può diventare uno sforzo collettivo e tutto può essere utile: è una grande opportunità di cui non bisogna avere paura. La post-verità è il riflesso della pigrizia e della paura di conoscere.
A meno che non ci si voglia arrendere alla famosa frase di Donald Rumsfeld, l’ex segretario di stato USA. Interpellato sulle armi di distruzione di massa in Iraq e la mancanza di fondamento di quelle accuse, ha detto: “L’assenza di una prova non è la prova di un’assenza”. La madre delle bufale non si stanca di lavorare.

Le ragioni nascoste della Guerra all’Iraq

 di Robert Parry (da Consortiumnews)
 
Dieci anni dopo che il presidente George W. Bush ordinò, senza che ci fosse stata alcuna provocazione, l’invasione dell’Iraq, resta ancora il mistero del perché. C’era la spiegazione, rifilata nel 2002-2003 a un popolo americano pieno di paura, di un Saddam Hussein che si preparava a un attacco con armi di distruzione di massa, ma nessuno di quelli in posizioni di potere ci credeva davvero.
C’erano altre spiegazioni plausibili: George Bush il Giovane voleva vendicare un supposto affronto contro George Bush il Vecchio, e al contempo surclassare il padre nella veste di “presidente di guerra”; il vicepresidente Cheney aveva messo gli occhi sulle ricchezze petrolifere dell’Iraq; e, infine, il Partito Repubblicano vedeva l’opportunità di creare una “maggioranza permanente” a seguito di una gloriosa vittoria in Medio Oriente.
Per quanto i sostenitori di George W. Bush negassero energicamente di essere motivati da ragionamenti tanto volgari, simili spiegazioni sembravano quelle più vicine alla verità. Tuttavia, dietro il desiderio di conquistare l’Iraq c’era un’ulteriore forza trainante: la credenza dei neoconservatori che quella conquista sarebbe stata il primo passo verso l’instaurazione di regimi compiacenti (con gli USA) in tutto il Medio Oriente, permettendo a Israele di imporre ai suoi vicini condizioni di pace non negoziabili.
Queste motivazioni sono state spesso imbellettate col concetto di “democratizzazione” del Medio Oriente, ma l’idea assomigliava di più a una forma di “neocolonialismo”, in cui proconsoli americani avrebbero assicurato che leader designati, come Ahmed Chalabi dell’Iraqi National Congress, acquisissero il controllo di quei paesi, allineandoli agli interessi degli Stati Uniti e Israele.
Alcuni analisti fanno risalire quest’idea al Project for the New American Century, documento neocon dei tardi anni 90, che auspicava un “cambio di regime” in Iraq. Ma le sue origini risalgono due eventi determinanti dei primi anni 90.
Il primo di questi momenti cruciali venne nel 1990-91, quando il presidente George H. W. Bush sfoggiò un progresso tecnologico dell’apparato militare statunitense senza precedenti. Quasi dal momento in cui Saddam Hussein aveva invaso il Kuwait, il dittatore iracheno comincio a manifestare la volontà di ritirarsi, avendo dato una lezione di politica di potenza all’arrogante famiglia al-Sabah (regnante in Kuwait).
Ma l’amministrazione di Bush il Vecchio non aveva intenzione di negoziare una soluzione pacifica all’invasione del Kuwait. Invece di permettere a Hussein di ritirarsi con ordine, Bush cominciò a esasperarlo, coprendolo di insulti e bloccando ogni strategia di ritiro che gli permettesse di salvare la faccia.
Gli abboccamenti di pace da parte di Hussein, e più tardi da parte del presidente sovietico Mikhail Gorbachev, furono respinti al mittente, intanto che Bush il Vecchio attendeva l’occasione di dar prova delle sbalorditive capacità militari del suo Nuovo Ordine Mondiale. Perfino il comandante statunitense sul campo, il generale Norman Schwartzkopf, propendeva per il piano di Gorbachev di permettere [senza interventi] il ritiro delle forze irachene, ma Bush era determinato ad avere la sua guerra di terra.
Di conseguenza, il piano di Gorbachev venne scartato, e la guerra di terra ebbe inizio con il massacro delle truppe irachene, in gran parte formate da coscritti, falciate e incenerite mentre fuggivano verso l’Iraq. Dopo cento ore, Bush il Vecchio fermò la carneficina. In seguito egli rivelò una componente decisiva delle proprie motivazioni, dichiarando: “Ci siamo sbarazzati della Sindrome del Vietnam una volta per tutte.” [Per i dettagli, vedi, sempre di Robert Parry, Secrecy & Privilege: Rise of the Bush Dynasty from Watergate to Iraq]
 

I neocon fanno festa
 

La Washington che conta prese atto di queste nuove realtà e del rinnovato entusiasmo bellico del pubblico. In un numero uscito dopo la guerra, Newsweek dedicò un’intera pagina alle frecce “su e giù” del suo “Conventional Wisdom Watch” [Osservatorio dell’Opinione Corrente]. Bush ottenne una grossa freccia in su, accompagnata dal commento sbarazzino: “Dominatore dei sondaggi. Ammirate le mie percentuali, o Democratici, e disperate [1].”
Invece, per il suo tentativo dell’ultimo minuto di negoziare il ritiro iracheno, Gorbachev ebbe una freccia in giù: “Restituisci il Nobel, Compagno Traditore. PS I tuoi carri armati fanno schifo.” Perfino il Vietnam si prende una freccia in giù: “Dov’è che sta? Dite che anche lì c’è stata una guerra? E chi se ne importa?”
I commentatori neocon, che già spadroneggiavano nel panorama intellettuale di Washington, potevano a malapena porre un limite al loro gaudio con l’unico disappunto, che Bush il vecchio avesse smesso troppo presto col tiro al piccione iracheno, mentre avrebbe dovuto prolungare il massacro fino a Bagdad.
Anche il popolo americano fece entusiasticamente sua quella vittoria asimmetrica, celebrandola con parate trionfali, stelle filanti e fuochi d’artificio in onore degli eroi conquistatori. Il circo di questi cortei della vittoria si prolungo per mesi interi, con centinaia di migliaia a ingorgare Washington, per quella che venne chiamata “la madre di tutte le parate.”
Gli americani comprarono le magliette di Desert Storm a camionate; i bambini vennero lasciati arrampicarsi su carri armati e altro materiale bellico; la festa si concluse con quella che fu chiamata “la madre di tutti gli spettacoli pirotecnici.” Il giorno seguente, il Washington Post immortalò lo spirito del momento col titolo: “Una storia d’amore al centro commerciale – La gente e le macchine di guerra.”
Il comune sentire patriottico si estese all’esercito mediatico di Washington, lieto di levarsi di dosso la soma dell’obbiettività professionale per potersi unire al tripudio nazionale.
Durante il ricevimento annuale del Gridiron Club, occasione in cui stagionati funzionari governativi e giornalisti di spicco fanno comunella per una serata di puro spasso, gli uomini e le donne dei mezzi di informazione applaudirono freneticamente qualunque cosa assomigliasse a una divisa.
Il momento clou della serata fu uno speciale omaggio alle “truppe”: la lettera a casa di un soldato, recitata con il sottofondo di “Ashokan Farewell” di Jay Ungar. Alla musica vennero aggiunti versi creati appositamente in onore di Desert Storm, e i giornalisti-cantanti del Gridiron intervennero al momento del coro: “Through the fog of distant war / Shines the strenght of their devotion / To honor, to duty, / To sweet liberty.” [2]
Tra i convitati del ricevimento c’era il Segretario alla Difesa Cheney, che prese atto di come il corpo giornalistico di Washington si stesse genuflettendo di fronte a un conflitto così popolare. Riferendosi a quell’omaggio, Cheney osservò, non senza meraviglia, “Di solito dalla stampa non ci si aspetta una partecipazione tanto sfrenata.”
Il mese successivo, alla cena dei corrispondenti dalla Casa Bianca, quando fu annunciato il generale Schwarzkopf giornalisti e ospiti celebri applaudirono entusiasticamente. “Sembrava una première di Hollywood,” commentò un giornalista, riferendosi ai riflettori che mulinavano intorno al comandante.
L’opinionista neocon Charles Krauthammer fece una ramanzina agli scarsi dissidenti che avevano trovato inquietante vedere la stampa strisciare ai piedi di presidente ed esercito. “Scioglietevi un po’, ragazzi,” scrisse “Alzate i calici, lanciate in aria il cappello, agitate un pon pon per gli eroi di Desert Storm. Se così vi sembra di vivere a Sparta, fatevi un altro bicchiere.”
 

L’egemonia americana 

Insieme ad altri osservatori, i neocon avevano constatato come la tecnologia avanzata degli USA avesse cambiato la natura del conflitto bellico. Le “bombe intelligenti” annichilivano obbiettivi inermi; il sabotaggio elettronico spezzava la catena di comando nemica; le truppe americane, col loro equipaggiamento sofisticato, sbaragliavano gli iracheni coi loro sbiellati tank di fabbricazione sovietica. L’immagine della guerra si era fatta facile e divertente, con pochissime perdite statunitensi.
In seguito, il collasso dell’Unione Sovietica nel 1991 rimosse l’ultimo ostacolo all’egemonia degli Stati Uniti. L’unico problema che restava, per i neocon, era come ottenere e conservare la presa sulle leve del potere americano. Tuttavia, le suddette leve scapparono loro di mano, quando Bush il Vecchio rivolse i propri favori a consiglieri per la politica estera di atteggiamento “realista”, e quindi con l’elezione di Bill Clinton nel 1992.
Ma nei primi anni 90 i neocon avevano ancora molte carte da giocare, dato il credito guadagnato lavorando nell’amministrazione Reagan e le alleanze stipulate con altri falchi come Cheney. Inoltre i neocon avevano conquistato spazi importanti sulle pagine d’opinione di quotidiani di spicco, come il Washington Post e il Wall Street Journal, e posizioni chiave all’interno dei maggiori think tank di politica estera.
Un altra svolta ebbe luogo nel contesto dell’infatuazione dei neocon per i leader del Likud israeliano. Verso la metà degli anni 90, importanti figure neocon, tra cui Richard Perle e Douglas Feith, lavorarono per la campagna elettorale di Benjamin Netanyahu, eliminando dal tappeto le vecchie idee di un negoziato di pace coi vicini arabi di Israele.
Piuttosto che affrontare i dispiaceri di un negoziato per una soluzione a due stati del problema palestinese o avere a che fare con la seccatura degli Hezbollah libanesi, i neocon al seguito di Netanyahu decisero che era venuto il momento di un audace cambio di direzione, che delinearono nel 1996 in uno studio strategico dal titolo A Clean Break: A New Stategy for Securing the Realm [Un Taglio Netto: Una Nuova Strategia per la Sicurezza Del Territorio][3].
Il documento sosteneva l’idea che soltanto un “cambiamento di regime” nei paesi musulmani ostili avrebbe potuto ottenere il necessario “taglio netto” allo stallo diplomatico seguito agli inconcludenti colloqui di pace israelo-palestinesi. Operando questo “taglio netto”, Israele non avrebbe più cercato la pace tramite il compromesso, ma piuttosto attraverso lo scontro, includendo anche la rimozione violenta di leader come Saddam Hussein, sostenitori dei nemici ai confini di Israele.
Il piano definiva la cacciata di Hussein “un importante e legittimo obbiettivo strategico di Israele,” che inoltre avrebbe destabilizzato la dinastia Assad in Siria, facendo carambolare le tessere del domino fino in Libano, dove Hezbollah si sarebbe presto ritrovato senza il loro insostituibile alleato siriano. Anche l’Iran si sarebbe potuto trovare nel mirino del “cambio di regime.”

L’assistenza americana
 
Ma per il “taglio netto” era necessaria la potenza militare degli Stati Uniti, perché obbiettivi come l’Iraq erano troppo distanti o troppo forti per essere sconfitti dal pur efficientissimo esercito israeliano. Un passo così arrischiato avrebbe avuto per Israele un prezzo spropositato, in costi economici e di vite umane.
Nel 1998 il pensatoio neocon fece fare al piano del “taglio netto” un ulteriore passo avanti, creando il Project for the New American Century, che cominciò a premere su Clinton perché si impegnasse nella defenestrazione di Saddam Hussein.
Tuttavia, Clinton si spinse solo fino a un certo punto, mantenendo un embargo durissimo contro l’Iraq e una “no-fly zone” che comportava periodici bombardamenti da parte dell’aviazione statunitense. Al momento, quindi, sia con Clinton sia col suo supposto successore, AL Gore, un’invasione in piena regola dell’Iraq sembrava fuori questione.
Il primo maggiore ostacolo politico venne rimosso quando i neocon, nelle elezioni del 2000, contribuirono ad architettare l’ascesa di George W. Bush alla presidenza. Tuttavia, la strada non si sgombrò del tutto finché i terroristi di al-Qaeda non attaccarono New York e Washington l’11 settembre 2001, lasciandosi dietro, in tutta America, un clima favorevole a guerra e vendetta.
Naturalmente, Bush il Giovane doveva attaccare per primo l’Afghanista, dove al-Qaeda aveva la sua base principale, ma subito dopo si rivolse verso il bersaglio bramato dai neocon, l’Iraq. Oltre a essere la patria del già demonizzato Saddam Hussein, l’Iraq offriva altri vantaggi strategici. Non era densamente popolato come altri suoi vicini, ed era posizionato grosso modo tra Iran e Siria, altri obbiettivi di punta.
In quegli esaltanti giorni del 2002-2003, una battuta spiritosa dei neocon poneva il quesito di cosa fare dopo aver cacciato Saddam Hussein dall’Iraq, se andare a est, verso l’Iran, o a ovest, verso la Siria. La battuta finiva così: “I veri uomini vanno a Teheran.”
Ma prima bisognava sconfiggere l’Iraq, mentre il piano di ristrutturazione del Medio Oriente per renderlo prono agli interessi di Stati Uniti e Israele doveva tenere un profilo basso, in parte per l’eventuale scetticismo dell’americano medio, e in parte perché gli esperti avrebbero potuto mettere in guardia sui pericoli di una strategia imperiale che gli USA non avrebbero potuto permettersi.
Così Bush il Giovane, il vice presidente Cheney e i loro consiglieri neocon picchiarono sul tasto dolente nell’animo degli americani, ancora terrorizzati dall’orrore dell’11 settembre. Ci si inventò che Saddam Hussein era in possesso di riserve di armi di distruzione di massa che era pronto a fornire ad al-Qaeda, permettendo ai terroristi di recare danni ancora maggiori agli Stati Uniti.
 

Far imbizzarrire l’America

I neocon, alcuni dei quali cresciuti in in famiglie di sinistrorsi trotskisti, si vedevano come una sorta di “avanguardia” politica che usasse tecniche “agit-prop” per manipolare il “proletariato” americano. Lo spauracchio delle armi di distruzione di massa venne visto come il sistema migliore per scatenare il panico nel gregge americano. A cose fatte, così ragionavano i neocon, la vittoria militare in Iraq avrebbe consolidato il sostegno popolare per la guerra e avrebbe permesso l’attuazione delle fasi successive, i “cambi di regime” in Iran e Siria.
All’inizio il piano sembrò funzionare, visto che l’esercito degli Stati Uniti incalzò e sopraffece l’esercito iracheno e conquistò Bagdad in tre settimane. Bush il Giovane festeggiò presentandosi sulla USS Abraham Lincoln con tanto di giubbotto da pilota, declamando il suo discorso sotto uno striscione che dichiarava “Missione Compiuta.”
E tuttavia, nel piano qualcosa cominciò ad andar storto quando il proconsole neocon Paul Bremer, perseguendo un modello di regime neocon, si sbarazzò di tutte le infrastrutture di governo irachene, smantellò quasi del tutto lo stato sociale e sciolse l’esercito. In più, il leader favorito dai neocon, l’esule Ahmed Chalabi, si rivelò privo di qualsiasi sostegno da parte del popolo iracheno.
Fece la sua apparizione una resistenza armata, che utilizzava armi a bassa tecnologia come gli “improvised explosive devices” [ordigni esploisivi improvvisati]. Ben presto, non solo c’erano migliaia di morti tra i soldati americani, ma l’Iraq veniva lacerato dalle antiche rivalità settarie tra scitti e sunniti. Ne derivarono orribili scene di caos e violenza.
Invece di acquistare popolarità tra gli americani, la guerra cominciò a perdere consensi, recando vantaggi elettorali ai Democratici nel 2006. I neocon si barcamenarono per mantenere la loro influenza promuovendo, nel 2007, un fittizio ma vittorioso “surge” [balzo], apparentemente efficace nel trasformare in trionfo un’imminente sconfitta. Ma la verità era che il “surge” aveva solo rimandato l’inevitabile fallimento dell’impresa statunitense.
Con l’allontanamento di George W. Bush nel 2009, e l’arrivo di Barack Obama, anche i neocon arretrarono. All’interno dell’esecutivo la loro influenza declinò, anche se continuavano a mantenere forti posizioni nei think tank di Washington e sulle pagine di opinione di media nazionali importanti come il Washington Post.
I recenti sviluppi nella regione mediorientale hanno creato nei neocon nuove speranze per i loro vecchi progetti. La Primavera Araba del 2011 ha portato a sommovimenti sociali in Siria, dove la dinastia di Assad, sostenuta da non-sunniti, ha conosciuto l’assalto da un insurrezione a guida sunnita, che annoverava tra le sue file qualche riformatore democratico ma anche jihadisti radicali.
Intanto l’Iran subiva dure sanzioni economiche, per via dell’opposizione internazionale al suo programma nucleare. Sebbene il presidente Obama vedesse le sanzioni come un mezzo per costringere l’Iran ad accettare limitazioni al suo programma nucleare, alcuni neocon fantasticavano su come strumentalizzare le sanzioni in vista di un “cambio di regime.”
Ad ogni modo, la sconfitta nel novembre 2012 di Mitt Romney, favorito dei neocon, da parte di Obama, e lìallontanamento dai vertici della CIA del loro alleato David Petraeus, sono stati un brutto colpo per le aspirazioni neocon alla guida della politica estera statunitense. Oggi sono costretti a cercare il modo di sfruttare la loro tuttora ampia influenza nei circoli politici di Washington, sperando in eventi favorevoli all’estero che spingano Obama ad atteggiamenti più aggressivi nei confronti di Iran e Siria.
Per i neocon resta inoltre cruciale che l’americano medio non rifletta troppo sui retroscena della disastrosa guerra in Iraq, il cui decimo anniversario, per quanto li riguarda, non passerà mai abbastanza presto.
 

note del traduttore
 

[1] La seconda frase è una parafrasi di un verso di Shelley, dal sonetto Ozymandias. Dato il contenuto della poesia, la pesante ironia che ne deriva sarà stata sicuramente involontaria.
[2] Ashokan Farewell è una ballata in stile scozzese, dal carattere melanconico, composta dal musicista statunitense Jay Ungar nel 1982. Negli USA è diventata celebre come parte della colonna sonora di un serial televisivo dedicato alla Guerra Civile, tanto che in molti credono si tratti di un brano tradizionale risalente a quel periodo. Nel serial è anche presente una scena, commentata dalla canzone, in cui un ufficiale scrive una lettera alla moglie, prima della battaglia in cui cadrà sotto il fuoco nemico (si tratta di un personaggio storico, e la sua missiva è un testo famoso)! I versi citati grosso modo significano “Attraverso la nebbia di una lontana guerra / Risplende la luce della loro devozione / verso l’onore, il dovere, / verso la dolce libertà”. Tutto ciò ricorda sinistramente Gli Ultimi Giorni dell’Umanità.
[3] Disponibile in traduzione italiana qui. In questo contesto “realm” non vuol dire “regno”, ma paese, entità territoriale.

[articolo del 20 marzo 2013]
traduzione per Doppiocieco
di Domenico D’Amico

Unaoil: la fabbrica della corruzione mondiale. Come l’azienda di Monaco ha corrotto l’industria petrolifera mondiale

da huffingtonpost


Nella lista delle grandi società mondiali, Unaoil non compare da nessuna parte. Ma per gran parte degli ultimi vent’anni, l’azienda di Monaco ha sistematicamente corrotto l’industria petrolifera mondiale, distribuendo diversi milioni di dollari in tangenti per conto dei colossi aziendali Samsung, Rolls Royce, Halliburton e del ramo aziendale offshore dell’australiana Leighton Holdings. Ora, una serie di email e documenti trapelati ha confermato quello che in molti sospettavano sull’industria petrolifera, rendendo note le attività del gruppo che ha comprato funzionari pubblici e truccato contratti in tutto il mondo. Una fuga di notizie consistente in documenti confidenziali ha esposto la reale portata della corruzione nell’industria petrolifera, coinvolgendo dozzine di compagnie di punta, burocrati e politici invischiati in una sofisticata rete mondiale di corruzione e tangenti.
Dopo due mesi di indagini in due continenti, Fairfax Media e The Huffington Post possono finalmente rivelare che miliardi di dollari in contratti governativi sono stati conferiti in seguito al pagamento di tangenti elargite per conto di alcune società, inclusa l’iconica Rolls Royce, il gigante statunitense Halliburton, l’australiana Leighton Holdings e i pezzi grossi della Corea, Samsung e Hyundai. L’indagine ruota intorno al gruppo monegasco che risponde al nome di Unaoil, guidato dall’influente famiglia Ahsani. Dopo l’apparizione di una pubblicità in codice su un giornale francese, una serie di incontri clandestini e telefonate notturne hanno condotto i nostri reporter alla scoperta di centinaia di documenti ed email della famiglia Ahsani. La raccolta di notizie rivela come il gruppo abbia avvicinato esponenti delle famiglie reali, partecipato ad eventi importanti, eluso il controllo delle agenzie anti-corruzione, manovrando una rete segreta di faccendieri e mediatori operanti nelle nazioni produttrici di petrolio.
La corruzione alimenta le disuguaglianze socio-economiche, già ben radicate, ed è tra i fattori che hanno scatenato la Primavera Araba. Oggi, Fairfax Media e Huffington Post rivelano come la Unaoil abbia dilaniato alcuni settori dell’industria petrolifera del Medio Oriente a vantaggio delle compagnie occidentali, tra il 2002 ed il 2012. Nella seconda parte ci occuperemo degli ex- stati russi impoveriti per mostrare la reale portata dell’immoralità delle multinazionali, inclusa Halliburton. Concluderemo la nostra indagine mostrando come tali pratiche corrotte si siano estese fino all’Asia ed all’Africa.
I file fuoriusciti rivelano la corruzione di due ministri del petrolio iracheni, di un faccendiere legato al dittatore siriano Bashar al-Assad, di alcuni funzionari anziani del regime libico di Gheddafi, esponenti dell’industria petrolifera iraniana, funzionari degli Emirati Arabi e un trader del Kuwait conosciuto come “The big Cheese”. Tra le compagnie occidentali coinvolte nelle operazioni di Unaoil in Medio Oriente spiccano anche alcune delle aziende più ricche e rispettate al mondo: Rolls Royce, Petrofac, ABB e Elliot dall’Inghilterra. Le compagnie americane FMC Tecnologies, Cameron e Weatherford; i colossi italiani Eni e Saipem, le aziende tedesche MAN Turbo e Siemens; l’olandese SMB e il gigante indiano Larsen & Toubro. La documentazione indica anche che il ramo aziendale offshore dell’australiana Leighton Holdings era coinvolto in un grave caso di corruzione pianificata.
I file rivelano inoltre che alcuni membri dello staff di queste compagnie credevano di essersi affidati a un lobbista onesto, mentre altri che sapevano o sospettavano ci fosse corruzione si sono limitati a chiudere un occhio. Ma qualcuno sapeva molto di più. Alcuni esponenti di compagnie come la spagnola Tecnicas Reunidas, la francese Technipe e il colosso delle trivellazioni MI SWACO, non solo hanno attivamente sostenuto la corruzione ma hanno anche intascato tangenti a loro volta. La multinazionale statunitense Honeywell a il ramo offshore dell’australiana Leighton hanno deciso di nascondere le tangenti dietro contratti fraudolenti in Iraq. Un manager Rolls Royce ha negoziato una tangente mensile in cambio di informazioni attinte dal cuore dell’azienda inglese. Molti di coloro che hanno ammesso il proprio coivolgimento, inclusa la stessa famiglia Ahsani che guida la Unaoil, continuano ad operare impuniti. I documenti mostrano chiaramente che la gente comune è stata tradita in Medio Oriente. Dopo la caduta di Saddam Hussein, gli USA dichiararono che il petrolio iracheno sarebbe stato amministrato a vantaggio della popolazione. Oggi, nella prima parte della denuncia “La fabbrica della corruzione mondiale”, questa dichiarazione viene smentita.

La fabbrica delle mazzette.
Il gruppo monegasco ha quasi raggiunto la perfezione nell’arte della corruzione. L’azienda risponde al nome di Unaoil, ed è guidata da alcuni membri della famiglia Ahsani, milionari di Monaco vicini a principi, sceicchi ed esponenti delle élites aziendali europee ed americane. Alla guida vi sono il capo famiglia Ata Ahsani ed i suoi due elengatissimi figli: Cyrus e Saman. Le loro associazioni benefiche sostengono l’arte e i bambini in difficoltà ed alcuni membri della famiglia Ahsani siedono al tavolo di ONG insieme ad ex-politici e miliardari. Dieci anni fa un tabulato rivelò che la famiglia era in possesso di denaro liquido, azioni e proprietà per un totale di 190 milioni di euro. Appartengono al gotha mondiale. Come incassano tanti soldi? È semplice.

I paesi ricchi di petrolio sono spesso piegati da un’amministrazione mediocre e da alti livelli di corruzione. Il business plan di Unaoil prevede di giocare sulle paure delle grandi compagnie occidentali, convinte di non potere accapararsi contratti validi senza la sua intercessione. A quel punto, gli agenti di Unaoil corrompono i funzionari delle nazioni produttrici per aiutare questi clienti ad ottenere progetti finanziati dal governo. I funzionari corrotti possono truccare un bando di gara, far trapelare informazioni interne oppure assicurare un contratto senza una gara d’appalto pubblica.
Stando alle parole di Ata Ahsani sarebbe tutto alla luce del sole: “Non ci occupiamo di organizzare truffe per conto di terzi. Il nostro è un lavoro piuttosto elementare. Tutto ciò che facciamo è integrare la tecnologia occidentale e le possibilità locali” ha dichiarato a Fairfax Media e Huffington Post. Unaoil ha corrotto funzionari pubblici? “La risposta è: assolutamente no”. Ma le informazioni trapelate dalla mail e giunte, con una fuga di notizie, fino a Fairfax Media e Huffington Post dimostrano chiaramente che le parcelle da milioni di dollari che Unaoil riceve dai suoi clienti sono frutto di un’operazione di corruzione industriale che non fa che esarcerbare questo malcostume già radicato tra le società più influenti.
Le banche di New York e Londra hanno facilitato il riciclaggio di denaro perpetrato da Unaoil, mentre gli Ahsani hanno stabilito un’azienda di investimenti immobiliari nel centro di Londra. Dal 2007, la Unaoil è stata certificata dall’agenzia anti-corruzione Trace International. Già solo questo solleva seri dubbi sul valore di questa certificazione internazionale. Ma per le società occidentali, messe di fronte alle indagini previste dalle leggi anti-corruzione delle rispettive giurisdizioni, Unaoil sembra essere un intermediario rispettabile e discreto, che permette alle aziende elencate di godere della cosiddetta “smentibilità plausibile”. Le aziende interrogate da Fairfax Media e Huffington Post, a proposito dei loro contratti con Unaoil, hanno sottolineato che seguono rigide politiche anti-corruzione e che s’impegnano a far luce sui loro rapporti con il gruppo di Monaco.
IRAQ
Dopo aver vinto la seconda Guerra del Golfo, la coalizione guidata dagli Stati Uniti è passata a salvaguardare il Ministro del petrolio, lasciando il Museo di Baghdad indifeso ed esposto al saccheggio dei suoi tesori. Ma la coalizione non è riuscita a proteggere l’industria petrolifera dai ladri. I file Unaoil rivelano che le stesse compagnie occidentali, insieme alla nuova élite irachena, avevano dato inizio ad un’intensa attività di sciacallaggio. Unaoil pagò almeno 25 milioni di tangenti attraverso degli intermediari per assicurare il sostegno di potenti funzionari, continuando a lamentarsi perché considerati “stronzi e avidi”. Tra il 2004 e il 2012, Unaoil ha corrottamente esercitato la propria influenza anche su pezzi grossi dell’industria petrolifera del paese: Hussein al‐Shahristani, vice Primo Ministro dell’Iraq diventato Ministro dell’Istruzione; il Ministro per il Petrolio Abdul Kareem Luaibi (sostituito nel 2004); il direttore generale della South Oil Company, Dhia Jaffar al-Moussawi che nel 2015 è diventato vice-ministro ed un funzionario di spicco del minister del petrolio, Oday al‐Quraishi

La maggior parte dei politici più anziani ha ricevuto cifre da milioni di dollari, mentre chi si trovava ai piani bassi della catena alimentare veniva pagato di meno. Quraishi, che ha supervisionato il più importante progetto di espansione dell’industria petrolifera irachena, ha intascato mensilmente una somma pari a 6.000 dollari (5.000 per lui e 1.000 per gli eventuali regali da offrire), oltre ad importanti tangenti aggiuntive. Il ministro, il dottor Shahristani, attualmente a capo del Ministero dell’Istruzione, ha affermato di non essere coinvolto in alcun reato. Altri funzionari iracheni non hanno risposto alle richieste di commenti. Unaoil ha anche comprato insider a servizio delle aziende petrolifere internazionali che sono stati messi sotto contratto dall’Iraq per gestire i suoi giacimenti. I documenti trapelati denunciano la corruzione all’interno del colosso italiano Eni, che gestisce le procedure di gara per gli appaltatori che operano sul vasto giacimento di Zubair. Tra i clienti di Unaoil in Iraq figurano il gigante Rolls Royce, le compagnie americane FMC Technologies e Cameron, l’italiana Saipem, la tedesca MAN Turbo, la Weatherford (azienda quotata negli Stati Uniti), la compagnia olandese SBM e il ramo offshore dell’australiana Leighton.

La replica di Eni “Il comportamento attribuito ad alcuni dipendenti Eni è a danno della compagnia, così come in diretto e chiaro conflitto con il codice etico di Eni che ogni dipendente è obbligato a rispettare integralmente. Non intendiamo commentare né sui nomi dei dipendenti indicati, né sull’esito di possibili indagini interne”.

IRAN
“Tutto funziona e va avanti grazie ai contatti ed ai rapporti con talenti speciali”. Così scrive un faccendiere iraniano, parte dell’eccezionale rete Unaoil, a proposito degli insider intenti a pagare e intascare mazzette. Dopo il recente indebolimento delle sanzioni da parte dell’UE, degli Stati Uniti e dell’Europa, questa rete è diventata ancora più preziosa. Nel 2006, questo agente Unaoil si lamentava nelle sue mail: uno dei clienti del gruppo, l’inglese Weir Pumps (ora proprietà dell’americana SPX) gli doveva centinaia di miglialia di dollari che lui aveva già promesso di piazzare, in parte, in Iran.
“Siamo alla fine del nuovo anno iraniano: le aspettative sono alte, sono a corto di soldi e circa cinque milioni di sterline di affari con la Weir sono a rischio. Perché non posso rispettare gli impegni presi con il mio team di supporter”. Qualora il denaro non fosse stato disponibile la Weir Pumps avrebbe rischiato di “sciogliersi come un pezzo di ghiaccio, giorno dopo giorno”. “… più di mezzo milione di dollari della mia parcella per la consulenza… Li ho già spesi per promuovere i loro affari in Iran”.

In altri appunti venuti allo scoperto e risalenti al 2006, si dice che l’Unaoil avrebbe pagato “diecimila dollari al mese” per assicurare il sostegno dell’amministratore delegato di una ditta presieduta da un alto ufficiale iraniano, appartentente in parte ad un ente governativo iraniano e supervisionata da un consiglio “politicamente influente”. “L’AD vuole diecimila dollari al mese. AA (Ata Ahnasi di Unaoil) ha accettato, visti i suoi eccellenti contatti”. La rete iraniana di Unaoil, che è stata anche utilizzata per aiutare realtà come ABB, Elliot e la giapponese Yokogawa, si estende oltre l’industria petrolifera. Nel 2011, la Unaoil ha contribuito alla risoluzione di una disputa che vedeva coinvolto uno dei suoi clienti austrialiani, rivolgendosi a “diversi contatti influenti… incluso il capo della polizia iraniana”. Prima del recente alleggerimento delle sanzioni, la Unaoil utilizzò alcune strategie che includevano anche il ricorso a società “di facciata” per aggirare il controllo dei funzionari occidentali. Consigliò ai suoi faccendieri corrotti di non trasferire fondi in dollari americani e di utilizzare compagnie “il cui nome non comprendeva la parola Iran”.
LIBIA
Nel 2004, quando l’Occidente iniziò a rimuovere le sanzioni contro la Libia, mentre il regime del colonnello Gheddafi si apprestava a fare affari con le compagnie straniere, la Unaoil non si fece trovare impreparata. Nel 2011, la sua rete di insider corrotti includeva funzionari e referenti in grado di influenzare le operazione delle agenzie di petrolio e gas più importanti della Libia. Nel tardo 2008, una società di trivellazioni canadese (la Canuck Completion) disse all’Unaoil di essere “interessata alla tipologia di Backsheesh (dal persiano, indica le tangenti ndt) che bisogna garantire a questi uomini per ottenere lavori” in Libia.

Tra gli insider corrotti della Unaoil c’era anche un influente funzionario libico, Mustafa Zarti, uomo di fiducia del regime di Gheddafi. I documenti Unaoil descrivono Zarti come “un buon amico del Presidente Gheddafi, figlio della Libia; un uomo molto influente nelle attività lobbistiche in Libia”. Unaoil accettò di pagare a Zarti milioni di dollari, in segreto. In cambio, lui avrebbe esercitato la sua influenza per avvantaggiare i clienti di Unaoil. “MZ (Mustafa Zarti) è nel consiglio dell’ LFIC (Lybian Foreign Investement Commitee), che controlla… i fondi petroliferi (sei miliardi di dollari). Vede il suo ruolo in questo modo: noi procediamo e lui risolve i problemi in cui ci imbattiamo. MZ ha accettato di trasferirci tutti i lavori legati al petrolio ed alla benzina” svela una nota del settembre 2006. Le multinazionali clienti di Unaoil in Libia includono il colosso malese Ranhill , il conglomerato di imprese coreane ISU e la società spagnola Tecnicas Reunidas.
SIRIA e YEMEN
In Siria, Unaoil si è rivolta ad un intermediario vicino al regime del presidente Bashar al-Assad. Nel 2008 e nel 2009, Unaoil ha promesso 2,75 milioni di euro all’uomo per aiutare il suo cliente britannico Petrofac ad ottenere contratti dalle società petrolifere del regime di al-Assad. Alcune email “strettamente confidenziali” del 2008 indicano che questo intermediario promise di pagare altre persone per ottenere i contratti. Ma non vedendo arrivare il pagamento nel tempo stabilito, si lamentò dei ritardi che gli stavano causando dei problemi con alcuni “amici” in Siria.

“La situazione sta diventando molto spiacevole [sic] perché non sto rispettando le consegne” scisse ad Unaoil nel dicembre del 2009. Si ritiene che la Petrofac non fosse al corrente del coinvolgimento di Unaoil nelle sue operazioni siriane e, in risposta alle domande, la società ha affermato che “ambisce ai più alti livelli di comportamento etico”. In Yemen, Unaoil ha versato milioni su un conto svizzero appartenente al faccendiere e uomo d’affari Haitham Alaini, figlio dell’ex Primo Ministro del paese. In cambio, Alaini avrebbe usato i suoi contatti in Yemen per aiutare Unaoil.
KUWAIT E EMIRATI ARABI UNITI.
In Kuwait Unaoil aveva nel suo libro paga un influente funzionario pubblico, soprannominato “The big Cheese”. Per garantire un contratto ad un suo cliente di lunga data in Medio Oriente, la società americana FMC Technologies, Unaoil esigeva un pagamento di 2,5 milioni di dollari.

In seguito, decise di incaricare un intermediario per trattare con “the big Cheese in Kuwait e decidere quale porzione… assegnare a quell’uomo”. Negli Emirati Arabi Uniti la rete Unaoil includeva un funzionario pubblico con legami con il Principe di Abu Dhabi. I documenti trapelati rivelano che il funzionario intratteneva scambi commerciali con gli Ahsani che, in cambio, chiedevano il suo sostegno sul territorio. Queste azioni includevano l’ingresso in un progetto finanziato dall’ufficio del “Sua Altezza lo Sceicco Mohammed Bin Zayed”. Unaoil ha corrotto un responsabile di una società sussidiaria della Abu Dhabi National Oil Company. Questo insider ha manipolato una giuria di gara per conto di un cliente Unaoil, il conglomerato di aziende indiano Larsen and Toubro. 

Dopo Palmira, obiettivo su Raqqa

di Alberto Negri dal ilsole24ore

  

Gli occidentali sembrano specialisti nell’arte della guerra stupida. C’è da augurarsi di essere smentiti ma qualche domanda, mentre si prepara l’offensiva su Raqqa, capitale del Califfato e direzione strategica del terrorismo, bisogna farsela. Cosa sarebbe accaduto se Putin non fosse intervenuto a fianco di Assad? Forse oggi non parleremmo della liberazione di Palmira, uno degli scoop militari e mediatici meglio riusciti a Mosca.
E cosa sarebbe successo se nel settembre 2013 Stati Uniti eFrancia avessero “punito” Damasco? Bashar Assad stava per fare la fine di Gheddafi e il califfo al-Baghdadi avrebbe fatto colazione sulle rovine di Aleppo e Damasco. Noi occidentali eravamo saldamente dall’altra parte sostenendo un’improbabile opposizione “moderata”: Francia e Stati Uniti in realtà avevano dato via libera alla Turchia per aprire l’autostrada del Jihad e far affluire migliaia di combattenti destinati ad abbattere il regime alauita, alleato dell’Iran e inviso ai sunniti.
Come è andata è sotto gli occhi di tutti: i jihadisti hanno ingrossato le file dell’Isis e di Jabat al Nusra e si vendicano con i kamikaze nelle nostre strade per avere perso la guerra. E ora si aspettano di suscitare reazioni guidate dalla paura non dalla razionalità.
Prima di un’altra guerra al terrorismo l’Occidente dovrà sciogliere le sue contraddizioni altrimenti ne resterà avviluppato. Gli Stati Uniti e la coalizione dei “volenterosi”, alcuni dei quali sostenitori di ideologie vicine ai jihadisti, hanno dichiarato guerra all’Isis nel 2014 ottenendo qualche modesto successo in Iraq dove l’offensiva contro Mosul, annunciata da un anno, non si è ancora vista perché l’esercito di Baghdad è costituito soprattutto da milizie sciite. Non solo. Gli occidentali si sono entusiasmati per la resistenza di Kobane ma non dicono una parola sulla Turchia, la legittimano come un interlocutore privilegiato per tenersi i profughi siriani e i veti di Ankara tengono fuori i curdi siriani dai negoziati di Ginevra. Non c’è da meravigliarsi se Erdogan sbeffeggia i diplomatici europei presenti al processo contro i giornalisti di Chumurryet.
Damasco e la Russia hanno dei piani, gli Usa non hanno idea di come “liberare” Mosul che nel 2014 hanno visto occupare dal Califfato senza fare una piega perché pensavano che ricompensasse i sunniti della caduta di Saddam. Non si può fare una guerra senza una politica. Lo ha detto lo stesso Obama, quando era ancora senatore dell’Illinois: «Non sono contro le guerre ma contro la guerra imbecille, fondata non sulla ragione ma sulla collera».
Ma l’Occidente si prepara ad altre guerre insensate. La Libia pone le stesse domande della Siria: interverremo come nel 2011 lasciandoci alle spalle un caos irrimediabile? Oppure ingaggeremo un conflitto “cosmetico” per nascondere la sconfitta della Siria dove hanno perso tutti coloro che volevano abbattere Assad: turchi, sauditi, americani, francesi e un corteo di medie potenze, dal Qatar agli Emirati, il cui titolo di merito è investire a casa nostra e fare le guerre in casa d’altri per tenerle lontane da loro. Tra l’altro Riad deve anche occultare il disastro dello Yemen, un Vietnam arabo dove ha creato un caos inestricabile. La strategia occidentale basata sui bombardamenti e manovrando i combattenti locali non solo è fallita in Siria, Iraq e Afghanistan ma con il terrorismo è tornata indietro come un boomerang: un’altra guerra inutile sarebbe imperdonabile.

I miei siriani

  
 di Tonino D’Orazio 

I tuoi siriani, i suoi siriani, i nostri siriani, i vostri siriani, i loro siriani. Al declinarli in questo modo, ogni possessivo apre un capitolo di corresponsabilità. Dopo la nuova guerra in Libia, declineremo con: i miei libici, i tuoi libici, i nostri morti i loro morti, ecc…
In questa indotta situazione, per quanta fantasia abbiamo non riusciamo ad intravvederci la mano del fato, o che si possa chiamare solo petrolio. Non rischiamo nemmeno di pensare che la Siria sia sotto embargo occidentale (siamo anche noi, sono nostri) da cinque anni, e solo questo è già un disastro umanitario. Non hanno la forza ideologica di Cuba, anche perché tutti, con armi alla mano, vi hanno scorazzato impunemente, senza essere invitati, Onu o meno. Mai nessun paese è stato invaso in contemporanea da così tante nazioni, tutte socie della Siria nell’Onu.
Al Parlamento europeo, Gianni Pittella (capogruppo Pd), ha semplicemente costatato il luogo comune: “la situazione inumana nella quale dei rifugiati, degli esseri umani, vivono in Grecia o a Calais” (perché in altre parti stanno da re) e chiede “un’assistenza umanitaria urgente” da parte della Ue, cioè di se stesso. Sapendo, tra l’altro, che è già stata concessa dalla Commissione. Solo tempestività di apparire. L’assistenza sarà i miliardi, a noi negati, che daranno a Erdogan.
Anche gli Usa, che ovviamente in medio oriente non c’entrano nulla, chissà perché cominciano a inquietarsi. Il segretario di stato, John Kerry, dopo il suo giretto commerciale per una bella vendita di armi a tutti, e un buon “consiglio” sul da farsi a Renzi, ha parlato di “crisi mondiale” e non più “regionale” per i rifugiati in Europa. Ryan Crocker, ex ambasciatore Usa in Iraq e in Siria, ha sottolineato i rischi “esistenziali” che corre l’Europa, di fronte al “flusso di rifugiati” che potrebbe portare al “disfacimento dell’Europa come costruzione politica”. Loro non c’entrano e non è quello che volevano (sic!). Non sono i loro, adesso sono nostri i siriani.
L’Onu (un altro organismo che non c’entra nulla nelle guerre americane di Obama, se non altro per servilismo all’impero, omissione e tacito consenso) con il suo Alto Commissariato ai rifugiati, pontifica che l’Europa “è sull’orlo della crisi che essa stessa ha ampiamente provocato”. Giustamente, oltre gli americani (sempre che non c’entrano nulla) bisogna ringraziare i guerrafondai (a volte anche “socialisti”) francesi e inglesi. Noi seguiamo sempre a ruota, anche se questa volta, per la Libia, ci hanno spinto in testa, per solidarietà e corresponsabilità di club guerrafondaio. Niente Pilato questa volta.
La Ue pensa di sfuggire alle sue responsabilità con i soldi. Grande fantasia, ma cosa potevano pensare d’altro, (magari spingere a far cessare questa guerra), e in cambio di cospicui finanziamenti, spera di subappaltare ad Ankara il ruolo di guardiano e massacratore dei candidati all’esilio. Tutte le destre sono propense, non possono dirlo ufficialmente, a massacrarli per impedire il loro infido “viaggio”. Si rivolgono al boia Erdogan, pagandolo profumatamente. D’altra parte si fa lo stesso con i sicari e i mercenari. Poi una volta nelle tendopoli, in nome della caccia al “terrorista”, vai a vedere che succede. I siriani potranno scegliere di morire a casa sotto le bombe o “all’estero”, chissà come. Ma possiamo immaginare che Erdogan, manico del coltello in mano, non si accontenterà dei soldi, vorrà la copertura politica di neutralità per i suoi efferati bombardamenti in casa d’altri e poter continuare il genocidio curdo. A noi che importa, basta che fermi i rifugiati, nevvero? E poi siamo tanto amici insieme nella Nato.

La Grecia, sotto scacco e sotto ricatto, non può fare altro che accettare le proposte e i soldi. Ma questi non saranno gestiti da loro. Non si fidano, mentre di Erdogan sì, è sufficientemente nazista. E poi le forti tensioni che scaturiranno tra un popolo allo stremo e i rifugiati, che avranno almeno da mangiare, non potrà che fare bene, razzismo in salita, ad Alba Dorata. Un po’ come dai noi per Salvini, con slogan realistici che fanno presa: “Gli italiani in povertà e senza casa, e gli immigrati che vivono in ressort”. Anche se gestiti dalla malavita. Quelli sono i loro, e si può dire anche in termine di possesso. Ma per la Grecia il problema continua ad essere la Merkel. A metà marzo si vota in tre grandi lander tedeschi e l’impatto economico-psicologico dei rifugiati, in un primo momento accolti a “braccia aperte”, lascia intravvedere possibili e grandi incognite. Non è detto che non accetti di spingere la Grecia fuori da Shengen, anche se spergiura di no, quasi come un paese non Ue-land, dandogli quattro soldi, ricompattando però i paesi balcanici, più interessanti. Ci sarebbe poi anche la possibilità di chiudere fuori dai confini i macedoni e i bulgari recalcitranti. Sono deboli, sono paesi candidati all’adesione al paradiso Unione, facilmente ricattabili.Per la Grecia poi rimane sempre valido, per taluni esponenti tedeschi ed anche europei, il concetto, dopo averla divorata, della Grexit, cioè cacciare questo paese irrecuperabile malgrado tutti i “consigli” ricevuti; non si può chiedere indietro 1 euro in più per ogni euro prestato. Non esiste matematicamente e quindi non ce la faranno mai. In quel paese poi gli animi si stanno scaldando troppo e abbandonare quel “comunista” convertito di Tsipras al suo destino di spergiuro non dispiace politicamente alla troika di Bruxelles. Così imparano anche spagnoli e portoghesi.
Diceva un generale italiano in Istria: “I prigionieri affamati sono più ubbidienti”. Possiamo aggiungere tranquillamente che vale anche per i popoli.
Lo stesso Consiglio d’Europa considera la Francia a rischio per la diffusione di “discorsi di odio” e “constata un aumento considerevole del discorso di odio e, soprattutto, della violenza causata da razzismo e intolleranza”, con una crescita di “atti antisemiti e islamofobi”. Mi sa che pure i nostri amici di Israele non c’entrano nulla nella situazione siriana. L’estrema destra continua a mietere consensi, malgrado il socialista Hollande mostri i muscoli con i deboli e cioè lo sgombro feroce e iniquo del campo profughi, “la giungla” di Calais. Risultato, ora i 3.500 immigrati sono diffusi dappertutto sul territorio, pronti a ricongiungersi altrove per solidarietà di gruppo, cosa che succede sempre ai diseredati. Siamo animali sociali. Un numero ridicolo se si pensa che più di 130mila persone hanno già attraversato il Mediterraneo nei primi due mesi di quest’anno, per sfuggire dalle guerre, e molti sono diretti, volenti nolenti, dopo aver capito che in Italia non c’è più trippa per gatti e si rischia la schiavitù, nel centro-nord Europa. La Francia, che non è la disubbidiente Ungheria del fascista Orban, (quest’ultimo non a caso elogiato dalla Le Pen) non sta accettando il contingente di immigrati a lei riservato dalla Merkel. Problemi di politica interna. Già, c’è chi può e chi non può, in questa già disgregata Unione.
L’inglese Cameron del Brexit, pur avendo sganciato qualche misero milioncino a Hollande nel suo incontro di giorni fa a Amiens per far rimanere i rifugiati in Francia, sta più tranquillo, ha un muro di frontiera spesso burrascoso che si chiama Canale della Manica, il suo problema invece è l’enorme migrazione interna e legale dei cittadini comunitari, soprattutto polacchi e rumeni. Ma anche francesi e italiani. Oltre quelli mondiali del Commonwealth. Il suo paese non è comunque esente da una xenofobia in crescita. Un popolo in difficoltà fa sempre bene alle destre, trova facilmente il capro espiatorio che gli viene indicato.

E’ guerra! Ecco i retroscena. Con delle proposte per reagire

di Patrick Boylan da Megachip


 
Ieri il Giornale ha svelato che lo scorso 10 febbraio il Consiglio dei Ministri ha varato, segretamente, l’autorizzazione all’utilizzo di forze speciali italiane in Libia, al di fuori di qualsiasi autorizzazione dell’ONU e senza l’invito del governo libico, ancora in formazione (ma i cui principali esponenti hanno già fatto capire che considererebbero qualsiasi invasione europea come un atto di aggressione). Trattandosi dell’invio di forze speciali per una “operazione di emergenza” e non (ancora) dell’invio delle truppe regolari, si è potuto evitare il vaglio parlamentare.
L’ordine di invasione sarebbe imminente e attende solo la firma del Presidente del Consiglio Matteo Renzi.
Si tratta, concretamente, d’inviare per ora “solo” una testa di ponte il cui scopo dichiarato sarebbe quello di proteggere alcuni impianti petroliferi che interessano l’ENI; in seguito il governo conta di inviare diverse migliaia di truppe ma spera di annacquare il relativo dibattito parlamentare includendo l’invasione della Libia tra le “missioni di pace all’estero” da approvare in un pacchetto complessivo.
Ma quale sarebbe l’emergenza attuale in Libia che giustificherebbe l’invio immediato delle forze speciali italiane? Si tratta forse di proteggere certi impianti petroliferi, adocchiati dall’ENI, dalla minaccia del cosiddetto “Stato Islamico” (o “ISIS” o “Daesh”)? Niente affatto, l’ISIS non sta alle porte. Verosimilmente, in mancanza di altre spiegazioni, si tratta di proteggere questi impianti dai… francesi, le cui forze speciali hanno già invaso la Libia illegalmente giorni fa. A rivelarlo il 24 febbraio è stato il giornale parigino Le Monde, suscitando il furore del ministro della Difesa francese, Jean-Yves Le Drian, che aveva imposto la segretezza.
(I redattori del giornale ora rischiano tre anni di carcere e una multa da 45.000 euro. Ma l’11 gennaio dell’anno scorso, dopo l’attentato alla rivista Charlie Hebdo, non era proprio il ministro Le Drian in testa all’immenso corteo parigino “a difesa della libertà d’espressione e della stampa”?)
Per quanto incredibile e inquietante, dunque, sembra proprio così: stiamo assistendo ad una corsa frenetica tra forze speciali dell’Occidente – francesi e italiani, ma anche statunitensi e britannici – per accaparrarsi per primi, al di fuori di qualsiasi legittimazione internazionale, le risorse petroliferi della Libia, paese per ora inerme, diviso e quindi di facile preda.
Ma il pretesto ufficiale, più volte ventilato, per l’attacco alla Libia, non era andare a combattere il cosiddetto Stato Islamico?
Invece no – e bisogna arrendersi all’evidenza. L’Occidente non ha nessuna intenzione di eliminare l’ISIS, che è servito e serve ancora come pretesto per rimandare le proprie truppe, dapprima in Iraq (dopo essere state cacciate dalla guerriglia di quel paese cinque anni fa) ed ora in Libia e domani forse in Siria, per suddividere questi tre paesi in satrapie. Una fetta sottomessa alle forze armate di ExxonMobil e di BP, un’altra fetta sotto il controllo delle forze armate di Total, un’altra fetta ancora dominato dalle forze armate dell’ENI (anche se, formalmente, si tratta delle forze armate dei rispettivi paesi, quelle pagate dai contribuenti).
E il resto di questi territori martoriati – la parte centrale dell’Iraq, l’est della Siria e il centro sud della Libia (meno le zone nel Fezzan volute dai francesi per proteggere il loro feudo in Mali) – sarà lasciato in mano all’ISIS, la cui presenza continuerà ad essere invocata per giustificare le occupazioni militari. Non è a caso che, sin dall’inizio della loro finta mobilitazione anti-ISIS, gli Stati Uniti hanno parlato di una guerra “almeno trentennale”. La farannno durare fin quando dura il greggio da estrarre.
Infatti, come questa testata suggeriva due anni fa, quando i giornali mainstream parlavano appena dell’ISIS, i miliziani tagliagole sono stati creati dall’Occidente e gestiti attraverso l’Arabia Saudita, il Qatar e la Turchia, proprio per questa finalità: fornire la scusa all’Occidente per riprendersi l’Iraq e la Siria (ed ora la Libia), smembrando questi paesi.
Ciò non significa che i miliziani jihadisti vengano controllati direttamente dall’Occidente: sono gestiti indirettamente tramite i bombardamenti mirati che, senza eliminarli, fanno capire loro dove possono avanzare: in Iraq centrale sì, verso Baghdad solo quanto basta per far cadere il governo di al-Maliki, verso il Kurdistan no perché i Kurdi hanno già cominciato a spedire il loro petrolio in Occidente, verso Damasco sì – almeno, così prima dell’intervento russo fatto per respingere l’assalto e obbligare l’Occidente a intavolare trattative per il futuro di quel paese.
Questa orribile messa in scena chiamata “ascesa incontrollata dei miliziani dell’ISIS”, allora, è solo un mostruoso gioco delle parti?
Sì.
La creazione dell’ISIS nel 2012, come la creazione di al Qaeda nel 1989 oppure la creazione dei Contras nel 1979, rappresenta il “modello alternativo” usato dagli Stati Uniti ed i loro alleati per colonizzare i paesi del terzo mondo. Invece di mandare le proprie truppe (i propri “stivaloni sul terreno”) in Iraq per impossessarsi del paese, come fece Bush Jr, suscitando la protesta dei pacifisti nel mondo intero, l’amministrazione Obama ha scelto, quattro anni fa, di agire dietro le quinte, creando il mostro di Frankenstein che chiamiamo ora ISIS o Daesh. E creando sul terreno, nel contempo, ancora più morti, più devastazioni, più crudeltà inaudite, più fughe di rifugiati di quanto non fecero le truppe statunitensi di prima. Ma questa volta facendo morire gli altri, i dannati della terra, e soltanto loro – non più i “nostri ragazzi.” E stemperando così le proteste pacifiste in casa.
Contro quest’orrore, di una immoralità che supera ogni immaginazione, bisogna reagire. Bisogna unirsi per dire NO. Bisogna denunciare queste invasioni di paesi sovrani terzi come crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
I francesi hanno mandato le loro forze speciali illegalmente in Libia per impossessarsi di certe zone? Ebbene la risposta non deve essere: “Allora commettiamo l’illegalità anche noi” bensì “Minacciamo di portare la Francia davanti al Consiglio di Sicurezza e, se non si ottiene giustizia, davanti alla Corte dell’Aia, per esigere il suo rientro dalla Libia. E per lasciare che sia il governo libico a decidere a chi assegnare lo sfruttamento dei suoi impianti e giacimenti.” Idem per gli Stati Uniti e la Gran Bretagna.
Naturalmente, da solo l’Italia non ce la farebbe a portare avanti un’iniziativa diplomatica del genere; ma unita ai paesi Brics e a ciò che rimane dei paesi Alba, avrebbe sicuramente un peso negoziale sufficiente per fermare l’assalto alla Libia. Rimarrebbe naturalmente il problema di eliminare l’ISIS sul serio: ma anche questo si può ottenere molto più efficacemente attraverso la diplomazia, come viene spiegato nell’ultima parte di questo editoriale e nella seconda metà di quest’altro editoriale.
Ma bisogna mobilitarsi subito!
In previsione di tutto ciò, il Coordinamento contro la guerra, le leggi di guerra, la Nato ha già indetto, per il 12 marzo, una giornata di micro-manifestazioni decentrate in tutto il territorio della Repubblica italiana.
Ha preparato un manifesto che le realtà locali possono utilizzare, indicando nello spazio in fondo l’evento che intendono organizzare quel giorno: basta incollare nel riquadro un foglietto fotocopiato con tutte le indicazioni.
Il Coordinamento chiede alle realtà locali di segnalare sin d’ora la loro intenzione di organizzare un evento per il 12 marzo, scrivendo a 12marzocontrolaguerra@gmail.com e, in copia, a eurostop.it@gmail.com.
Inoltre, bisogna scattare una foto dell’evento e inviarla ai due indirizzi email, con una breve nota sullo svolgimento: verrà esposta sul sito bit.ly/12marzo-sito . Alcuni suggerimenti di eventi da organizzare vengono dati nell’articolo già linkato, ossia qui.
Per esempio, un comitato di attivisti a Roma ha chiamato tutti i romani a confluire il 12 marzo alle ore 16 davanti alla base del Comando Operativo Interforze (COI) a Cinecittà. Il COI coordina l’intervento militare italiano in Libia e si trova in via Scribonio Curione (metro A Numidio Quadrato); dopo un comizio, i partecipanti sfileranno per le strade del quartiere.
In mattinata, sempre a Roma, diversi altri gruppi di attivisti hanno in cantiere eventi di sensibilizzazione nei propri quartieri – per esempio un comizio a Monteverde, lenzuoli nei balconi a San Lorenzo, una biciclettata con striscione sulla Tuscolana. Per ragguagli: comitato@gmx.it.
Altrove in Italia sono previste manifestazione davanti al cantiere TAV della Val Clarea (Chiomonte), davanti alla base militare di Ghedi, davanti alla caserma Ederle a Vicenza, davanti a Camp Derby a Pisa e davanti alla base NATO di lago Patria (Napoli). Inoltre sono previste manifestazioni a Bologna (corteo regionale), a Novara (contro gli F35) e in Sicilia (contro l’uso della base di Sigonella per le aggressioni militari). Staremo a vedere quanto i mass media mainstream diano notizie di questi eventi.
Ma manifestare, il 12 marzo. la propria protesta contro la nuova guerra coloniale di Renzi è solo l’inizio. Il Coordinamento chiede ai pacifisti d’Italia di tenersi pronti per una seconda iniziativa che si terrà il 4 aprile e che è ancora in via di definizione.

Combattere la guerra si deve e si può.

Fonte: http://www.peacelink.it/conflitti/a/42848.html

La situazione militare in Siria

di Pier Francesco Zarcone da utopiarossa

Si tratta di un argomento praticamente non trattato dai grandi media. Al massimo ogni tanto si comunica il numero di vittime civili a seguito di scontri e bombardamenti, e si dà notizia di successi militari dell’Isis e di altre formazioni jihadiste, magari dilatandone la portata suscitando il classico effetto di Hannibal ante portas, ma senza inquadrarli nelle oggettive proporzioni tattiche e strategiche. Cosa accada davvero sui campi di battaglia resta sconosciuto ai più, e nella presente fase, alquanto negativa per i cosiddetti takfiri (sinonimo dei jihadisti per il loro tacciare di apostasia i musulmani di orientamento diverso), il silenzio è pressoché totale. Eppure in questi circa quattro anni di guerra in Siria sul piano militare (e politico) ci sono stati sviluppi interessanti. 

LE PREMESSE TATTICO-STRATEGICHE

In primo luogo va rimarcata l’opportunità della scelta fin dall’inizio effettuata dal governo di Damasco di fronte a una massiccia e capillare invasione di combattenti stranieri sostenuti (militarmente ed economicamente) dall’esterno. Le opzioni possibili erano due: a) cercare di difendere subito tutto il territorio siriano, con prevedibili esiti disastrosi sul terreno, oppure b) attestarsi nella difesa della capitale e della zona costiera (cioè dell’area con la maggiore concentrazione alawita e sciita in genere). Questa seconda ipotesi implicava il temporaneo abbandono al nemico dei territori orientali – che, seppure in buona parte desertici, presentano risorse energetiche importanti – e poi manovrare da quello “zoccolo duro” territoriale per un’auspicata azione di riconquista. La scelta è caduta sulla seconda opzione.
Al riguardo i grandi media l’hanno generalmente interpretata come segnale o della prossima sconfitta militare dei governativi o di una precisa exit strategy, nel senso che Assad avrebbe fatto della zona costiera il ridotto in cui rifugiarsi e concentrarvi la resistenza dopo il disastro sul campo, dato come inevitabile. La prospettiva strategica alla base di quella decisione era diversa e si basava – in ragione della globale situazione siriana, più complessa e comunque diversa rispetto a quelle di Egitto e Tunisia – sulla vera carta giocabile dal governo damasceno: l’appoggio pratico e concreto da parte di Russia, Iran e Hezbollāh libanese. Era quindi essenziale mantenere aperti i canali aerei, terrestri e marittimi con questi alleati, fornitori di aiuti non solo diplomatici, ma anche militari ed economici. Come infatti è avvenuto.

All’inizio della guerra l’Esercito Arabo Siriano (Eas) disponeva di circa 300.000 uomini (tre Corpi d’armata e un raggruppamento direttamente dipendente dallo Stato maggiore, per tredici divisioni: sei corazzate, quattro meccanizzate, due di Parà/Forze speciali, una meccanizzata di Guardie repubblicane, due brigate di fanteria indipendenti e sei reggimenti di Commandos indipendenti). Struttura portante per ogni comando di divisione, la brigata. La maggiore presenza di truppe (divisioni) all’inizio della guerra si trovava nella parte sudovest della Siria, l’11ª divisione era nella zona di Homs, la 18ª in quella di Aleppo, mentre la 17ª era nella parte est, zona di Deir Ezzour.
Non casualmente gli invasori takfiri avevano concentrato gli attacchi sulle città lontane dai centri con maggiore presenza di truppe governative (Hama, Homs e anche Aleppo), al fine di far concentrare su di esse il più consistente sforzo bellico, lasciando così sguarniti centri vitali; tenuto conto dei continui e abbondanti flussi di militanti jihadisti, questo avrebbe significato esporsi a una vasta manovra di accerchiamento non solo in caso di rovescio militare su quel fronte, ma anche qualora il massiccio concentramento governativo su esso venisse – per così dire – “agganciato” dal nemico, in modo da non poter effettuare manovre di ripiegamento senza incorrere in forti perdite. Tanto più che inizialmente l’Eas non era preparato a condurre una guerra non puramente convenzionale.
La prima fase del conflitto, quindi, fu di sostanziale ripiegamento difensivo e poco impegnata sul piano militare, mentre su quello politico il governo riscosse i suoi successi nel referendum costituzionale del febbraio 2012 e nelle elezioni di primavera: entrambi ignorati dai media e dai governi occidentali, in quanto suscettibili di far argomentare (non foss’altro per l’entità della partecipazione popolare) che tutto sommato l’elettorato siriano preferiva lo statu quo alle scelte auspicate da Washington e dall’Ue. Si trattò di successi politici del tutto ininfluenti sul piano militare, e infatti la stessa Damasco fu direttamente minacciata dai jihadisti, con l’attentato al ministero della Difesa (in cui morirono il ministro, generale Dawoud Rajiha, e furono seriamente feriti vari ufficiali d’alto rango) e combattimenti nella capitale. Poi i jihadisti vennero respinti, fu messo in sicurezza l’Aeroporto internazionale e le residue sacche nel Rif Dimanshq non furono più un reale pericolo.
Prima dell’intervento russo si è rivelata fondamentale, nel gennaio 2013, la decisione governativa di formare i Comitati popolari di difesa (detti anche “Milizia Ndf”), nelle cui fila entrarono veterani, giovani non ancora in età di leva, miliziani di gruppi già formatisi in via spontanea, militari rimasti separati dalle unità di appartenenza o anche disertori pentiti. Non solo furono dotati di armi automatiche, ma anche di lanciarazzi, mortai leggeri e medi, e di artiglierie di piccolo e medio calibro, in modo da far svolgere a questi miliziani gli indispensabili compiti di appoggio all’Eas, o presidiando e pattugliando territori già liberati o effettuando operazioni su scala ridotta. Il fatto di operare essenzialmente nelle zone di origine ha reso queste formazioni maggiormente motivate. Né va trascurata al riguardo l’importanza dell’apporto addestrativo da parte di elementi della Guardia rivoluzionaria iraniana. Poi sono intervenuti i Battaglioni del Partito Baath, unità di profughi palestinesi filosiriani e anche milizie religiose sciite e cristiano-assire. Questi volontari sono “coperti” dal mantenimento dei precedenti posti di lavoro, le loro famiglie ricevono dal governo aiuti alimentari e sovvenzioni, e spetta loro metà della paga dei soldati.
Nell’immediato le cose non sono state tanto semplici, giacché le forze armate di Damasco hanno dovuto subire duri colpi da parte jiahdista, come a Idlib, a Jisr al-Shoughour e a Tadmur-Palmira. Tuttavia il collasso militare non c’è stato. Da notare che l'”informazione” occidentale nulla dice circa la tenace resistenza, da anni, dei centri sciiti di Fouaa e Kafraya, oppure dei villaggi della zona di Aleppo come Nubbul e Zahraa; oppure del lungo assedio sostenuto dai militari nella prigione principale di Aleppo, solo alcuni mesi fa liberati dalla stretta jihadista, o anche dei due anni di assedio alla base di Kuweires o della strenua resistenza dei governativi a Deir Ezzour e Hasakah (difesa, oltre che da soldati dell’Eas e miliziani dell’Ndf, dalle Brigate del Baath e da cristiani assiri e curdi).
 
L’INTERVENTO RUSSO E LA SITUAZIONE ATTUALE

Ovviamente l’intervento russo ha fatto sì che le forze armate governative potessero passare a una fase più apertamente offensiva su veri settori, e da qui la riconquista di Homs e Hama, e una sostanziale rimonta ad Aleppo. In questa città i combattimenti continuano, ma ai jihadisti resta solo la parte est con 300.000 abitanti, mentre la parte ovest con 2 milioni di abitanti è sotto il controllo delle forze di Damasco. Innegabilmente senza l’intervento russo – a fronte del non ancora esaurito “serbatoio” di rinforzi umani per i jihadisti – il governo damasceno non avrebbe potuto passare all’attuale fase offensiva. Viene infatti valutata a circa il 70% la perdita del potenziale bellico dei jihadisti a seguito dei bombardamenti russi sui loro magazzini e fabbriche di armi, munizioni, esplosivi e sui depositi di carburante, oltre che sui centri di comando. Anche la loro capacità di manovra e di coordinamento rientra nella predetta percentuale.
Da ciò derivano estreme difficoltà per i jihadisti, dovendosi essi orientare sulla difesa delle posizioni ancora tenute. Proseguire nelle operazioni offensive implicherebbe infatti manovre e concentramenti di uomini e mezzi di una certa entità; cioè qualcosa di non occultabile alla sorveglianza aerea (oggi russo-siriana). E sempre di qui la maggiore capacità di manovra dell’Eas, tanto più che il ritiro dei jihadisti da vari centri abitati rende più agevole l’utilizzazione delle forze corazzate sostenute da un’aviazione che martella le postazioni nemiche prima dell’assalto finale. Superfluo dire che da sempre i conflitti locali servono pure a “testare” i nuovi armamenti, come sta accadendo per i blindati russi 8×8 Bumerang e il nuovo carro T-15.
L’intervento aereo russo conta su vari punti di partenza: la base di Mozdok nell’Ossezia del Nord, con 12 bombardieri pesanti Tu-22M3, in grado di operare in Siria dopo 2 ore e 44 minuti, protetti da una batteria di missili antiaerei S-400 stanziata nella base di Humaymim, Lataqia (è una delle quattro inviate in Siria), e dalla batteria della base di Quwayris, a 30 km a est di Aleppo; circa 64 aerei saranno presto operativi a Humaymim (24 Su-24M2, 12 Su-25, 12 Su-34 e 16 Su-30SM). Infine, una volta terminato il processo di modernizzazione dell’aeronautica militare siriana, entreranno in funzione dai 66 ai 130 aerei siriani (9 MiG-29SMT, 21 Su-24M2, 36 Jak-130 e probabilmente 64 MiG-23-98), in aggiunta ai 112 non modernizzati ma riparati dai russi (MiG-21, Su-22M4 e L-39). Sarebbe folle ritenere che tutto questo costoso materiale riguardi solo un intervento a favore di un alleato sul punto di crollare.
La presenza dell’Isis in Siria è innegabilmente pericolosa, ma non va valutata semplicemente guardando la carta geografica, oppure omologandola a quella in Iraq. Mentre in quest’ultimo paese l’Isis è insediato nella ricca e fertile zona di Ninive, in Siria in realtà controlla solo una piccola parte di “territorio utile”, alcune vie di comunicazione e alcuni punti di rilievo strategico, tra cui la città di Raqqa. Le cartine pubblicate dai media in cui si evidenziano i territori siriani in mano all’Isis comprendono enormi estensioni desertiche o rocciose praticamente spopolate, talché non hanno torto quanti le considerano fonte di oggettiva disinformazione, facendo cioè dell’Isis in Siria qualcosa di più incombente e massiccio di quanto non sia.
Il 2 ottobre e il 1° dicembre dello scorso anno, Obama dichiarò che la Russia incontrava in Siria difficoltà di rilievo e che i pochi successi non compensavano gli elevati costi sostenuti e futuri, tanto da parlare di sprofondamento russo in un nuovo Afghanistan. Ma il 28 dicembre la certo non filorussa Reuters ha pubblicato una valutazione fondata su interviste ad analisti del Pentagono, con conclusioni opposte: ottimi risultati già nei primi tre mesi di intervento, scarsi costi operativi (circa 1-2 miliardi di dollari l’anno), e quindi senza sostanziali problemi di bilancio per Mosca. In concreto i predetti analisti avrebbero valutato l’intervento russo come assai flessibile e soft in quanto a materiali e forze, ma rivelando una proficua capacità di coordinamento con le forze di terra. Particolare valenza è stata attribuita a un aspetto sopra accennato: la sperimentazione russa di nuovi armamenti in condizioni di combattimento e della loro capacità operativa immediata. A parte ciò, sembra che dagli analisti del Pentagono pervengano conclusioni non in linea con la tesi ufficiale circa la Siria teatro di guerra civile in cui i russi si sarebbero infilati, trattandosi in realtà di una guerra ibrida e asimmetrica alimentata da aggressori esterni e da competizione fra potenze straniere. Valutazioni del genere inducono a riflessioni critiche circa l’operato statunitense nei recenti teatri del suo intervento bellico. Vale a dire, si profila un dubbio: finora le imprese statunitensi hanno messo in campo mezzi, uomini e risorse economiche infinitamente maggiori, ma dai non esaltanti risultati, del resto sotto gli occhi di tutti. La performance russa in Siria dal canto suo attesterebbe una sorprendente situazione di recupero militare rispetto agli anni ’90, con l’ulteriore interrogativo – in prospettiva – circa l’eccesso di congruità del potenziale militare russo rispetto agli odierni conflitti locali. 

GLI USA

Poiché film e serie televisive made in Usa ci hanno abituati a divaricazioni e conflitti operativi fra Cia, Fbi, Dea e varie altre agenzie di intelligence, quanto segue non sembrerà molto strano o del tutto anomalo. Secondo un articolo di Seymour Hersh, pubblicato alla fine dello scorso anno sulla London Review of Books, vertici del Pentagono avrebbero dato vita a una svolta contraria alla linea finora tenuta da Washington e dalla Cia. La premessa sta nell’inclusione della Turchia nel programma della Cia per armare i “ribelli moderati” in Siria, e nel fatto che il governo turco decise di effettuare un “riorientamento” di questi aiuti statunitensi in favore dei jihadisti, tra cui Jabhat an-Nusra e l’Isis. Al Pentagono, invece, si sarebbero “accorti” della sostanziale inesistenza di questi ribelli moderati, e quindi nell’autunno del 2013 i Joint Chiefs of Staff (Jcs) del generale Martin Dempsey avrebbero deciso di inviare informazioni di intelligence a Germania, Russia e Israele affinché le trasmettessero al governo di Assad. Certo non gratuitamente, ma con la richiesta a Damasco di cercare di mettere un po’ di freno a Hezbollāh verso Israele, di tenere aperti i negoziati sulle alture del Golan e di indire le elezioni dopo la fine della guerra. Secondo questa ricostruzione, nell’estate del 2013, in barba alla Cia sarebbero state inviate ai ribelli siriani armi obsolete, quale attestazione di buona fede ad Assad. Il ritiro di Dempsey a settembre avrebbe posto fine al tentativo di intesa.
Nella Siria nordoccidentale la sconfitta jihadista sembra essere più che prossima. Nella provincia di Aleppo i governativi hanno già tagliato le maggiori vie di rifornimento dalla Turchia ed è finito il quadriennale assedio di Nubul e al-Zahra, con la liberazione di più di 70.000 abitanti, e la stessa grande città del nord non è lungi dall’essere ripulita dalla presenza takfira, e non c’è da stupirsi se a breve tutto il confine turco sarà di nuovo sotto il controllo di Damasco. Anche la provincia di Lataqia è praticamente ripulita.
Importante, anche in prospettiva, il fatto che nella Siria nordoccidentale la sconfitta jihadista sembra essere più che prossima. Si ha notizia che dal 10 febbraio sono in corso scontri e bombardamenti a nordovest della base aerea di Kuweyres contro militanti dell’Isis che cercano sia di arginarne l’avanzata governativa verso la parte orientale del sobborgo industriale aleppino di Sheikh Najjar (il che preluderebbe alla chiusura di una vasta sacca tra l’aeroporto di Aleppo e Kuweyres), sia di prevenire la riconquista di Al-Sin e Jubb al-Kalb. Il giorno 9 si è avuta notizia dell’arrivo a Damasco e Aleppo di ben 6.000 ufficiali e soldati iraniani: questo dopo un’opera di disinformazione di Teheran per far credere a un suo ritiro militare dalla Siria. 

TORNA IL PROBLEMA CURDO


Ci sono due fatti importanti da ricordare. Il 7 febbraio truppe siriane (appoggiate da miliziani di Hezbollāh e da paramilitari iracheni di Nujaba, Kataeb Hezbollah, Badr) hanno occupato la località di Kiffin, prossima a Ziyarah (sotto controllo di milizie curde) e creato nella zona un centro di coordinamento siriano-curdo, sia in funzione operativa sul campo, sia per non lasciare ai soli occidentali la “carta curda”. A ciò si aggiunga che truppe siriane e iraniane hanno l’ordine di non ostacolare l’azione delle milizie curde, ed è chiaro l’intento russo di far valere nei “colloqui di pace” (a prescindere dall’esito che daranno) il peso dell’avanzata delle forze curde verso il confine turco.
E proprio la questione curda potrebbe trovarsi dietro al fatto che, nel quadro della persistente e non ridotta tensione fra Russia e Turchia, si sia parlato da parte russa di un possibile intervento turco in Siria – seguìto dal minaccioso avvertimento che ogni eventuale incursione sarà affrontata con la forza e non con la diplomazia. Che Erdoğan possa compiere qualche colpo di testa non è impossibile: semmai c’è da chiedersi fino a che punto la Nato sarebbe così folle da andargli dietro. E c’è pure da domandarsi se esista un collegamento tra una tale previsione e la messa in allerta – ai primi di febbraio – delle forze aviotrasportate del Distretto militare meridionale russo. Il fatto è che il coordinamento tra i governativi siriani e le milizie curde potrebbe accelerare la completa e forse definitiva chiusura del confine turco ai rifornimenti per i jihadisti. Su Ankara incombe sempre il pericolo di saldature fra i curdi della Siria e quelli della Turchia, cosa suscettibile di complicare le relazioni anche con gli Usa. In precedenza Erdoğan aveva minacciato di bombardare i curdi siriani se avessero superato la linea dell’Eufrate, e quando in estate si prospettò un’operazione curda per prendere Jarabulus e quindi interrompere i rifornimenti all’Isis, la Turchia minacciò l’intervento militare: questione tamponata dagli Stati Uniti annullando quell’operazione. Sta di fatto che a nord di Aleppo i curdi hanno operato sotto la copertura degli aerei russi e si sono comunque avvicinati al confine. In questo pasticcio le possibilità di manovra russe ci sono eccome, facilitate dalla contraddittorietà (ovvero incompatibilità) delle alleanze di Washington. Non è chiaro fino a che punto Bashar al-Assad sia del tutto felice per la prospettiva di un’alleanza con i curdi, ma è certo che – a prescindere dal non potersi opporre alle manovre moscovite in questo senso e dall’utilità militare dell’apporto curdo – nel dopoguerra la questione dovrà essere affronta da Damasco realisticamente, e non certo lasciandola irrisolta alla maniera turca. Vedremo come andrà a finire, ma se davvero Putin riuscisse a sfilare i curdi (Iraq a parte) dall’intesa con gli Stati Uniti farebbe un bel colpaccio.

Il Califfato voluto dagli Usa

di Manlio Dinucci da voltairenet.org 

Mentre l’Isis occupa Ramadi, la seconda città dell’Iraq, e il giorno dopo Palmira nella Siria centrale, uccidendo migliaia di civili e costringendone alla fuga decine di migliaia, la Casa Bianca dichiara «Non ci possiamo strappare i capelli ogni volta che c’è un intoppo nella campagna contro l’Isis» (The New York Times, 20 maggio).

La campagna militare, «Inherent Resolve», è stata lanciata in Iraq e Siria oltre nove mesi fa, l’8 agosto 2014, dagli Usa e loro alleati: Francia, Gran Bretagna, Canada, Australia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain e altri. Se avessero usato i loro cacciabombardieri come avevano fatto contro la Libia nel 2011, le forze dell’Isis, muovendosi in spazi aperti, sarebbero state facile bersaglio. Esse hanno invece potuto attaccare Ramadi con colonne di autoblindo cariche di uomini ed esplosivi. Gli Usa sono divenuti militarmente impotenti? No: se l’Isis sta avanzando in Iraq e Siria, è perché a Washington vogliono proprio questo.
Lo conferma un documento ufficiale dell’Agenzia di intelligence del Pentagono, datato 12 agosto 2012, desecretato il 18 maggio 2015 per iniziativa del gruppo conservatore «Judicial Watch» nella competizione per le presidenziali [1]. Esso riporta che «i paesi occidentali, gli stati del Golfo e la Turchia sostengono in Siria le forze di opposizione che tentano di controllare le aree orientali, adiacenti alle province irachene occidentali», aiutandole a «creare rifugi sicuri sotto protezione internazionale». C’è «la possibilità di stabilire un principato salafita nella Siria orientale, e ciò è esattamente ciò che vogliono le potenze che sostengono l’opposizione, per isolare il regime siriano, retrovia strategica dell’espansione sciita (Iraq e Iran)». Il documento del 2012 conferma che l’Isis, i cui primi nuclei vengono dalla guerra di Libia, si è formato in Siria, reclutando soprattutto militanti salafiti sunniti che, finanziati da Arabia Saudita e altre monarchie, sono stati riforniti di armi attraverso una rete della Cia (documentata, oltre che dal New York Times [2], da un rapporto di «Conflict Armament Research»).
Ciò spiega l’incontro nel maggio 2013 (documentato fotograficamente) tra il senatore Usa John McCain, in missione in Siria per conto della Casa Bianca, e Ibrahim al-Badri, il «califfo» a capo dell’Isis [3]. Spiega anche perché l’Isis ha scatenato l’offensiva in Iraq nel momento in cui il governo dello sciita al-Maliki prendeva le distanze da Washington, avvicinandosi a Pechino e Mosca.
Washington, scaricando la responsabilità della caduta di Ramadi sull’esercito iracheno, annuncia ora di voler accelerare in Iraq l’addestramento e armamento delle «tribù sunnite». L’Iraq sta andando nella direzione della Jugoslavia, verso la disgregazione, commenta l’ex segretario alla difesa Robert Gates. Lo stesso in Siria, dove Usa e alleati continuano ad addestrare e armare miliziani per rovesciare il governo di Damasco. Con la politica del «divide et impera», Washington continua così ad alimentare la guerra che, in 25 anni, ha provocato stragi, esodi, povertà, tanto che molti giovani hanno fatto delle armi il loro mestiere. Un terreno sociale su cui fanno presa le potenze occidentali, le monarchie loro alleate, i «califfi» che strumentalizzano l’Islam e la divisione tra sunniti e sciiti. Un fronte della guerra, al cui interno vi sono divergenze sulla tattica (ad esempio, su quando e come attaccare l’Iran), non sulla strategia.
Armato dagli Usa, che annunciano la vendita (per 4 miliardi di dollari) all’Arabia Saudita di altri 19 elicotteri, per la guerra nello Yemen, e a Israele di altri 7400 missili e bombe, tra cui quelle anti-bunker per l’attacco all’Iran.

 Fonte Il Manifesto (Italia)

Ritorno dal Cuore della Terra


da ubu re

Seconda e penultima incursione nel libro di Piero Paglini “Al Cuore della Terra e Ritorno”.

Qui la prima parte del libro: Al Cuore della Terra 1

qui la seconda: Al Cuore della Terra 2

 
Il vecchio “secolo americano”
 

1. Bush padre e Bill Clinton avevano pensato di ristabilire un ordine mondiale di tipo
pseudo-rooseveltiano, rivitalizzando e ridefinendo, ad usum delphini, gli organismi di governo internazionali (tanto è vero che la teoria di Paul Wolfowitz sulla guerra preventiva benché già allora apprezzata non era stata accolta per motivi politici).
Contando sulla scomparsa dell’Unione Sovietica, con una Russia caratterizzata dallo sbrago cleptocratico e compradore imposto da Boris Yeltsin e, in definitiva, facendo leva su credenziali economiche e politiche prive di rivali, Bush Sr. nel 1991 riuscì senza molti sforzi a far pagare la Guerra del Golfo ai suoi alleati: 54,1 miliardi di dollari (otto volte la cifra sborsata dagli Usa) e Clinton, otto anni più tardi, riuscì a scagliare la Nato contro la Serbia. Tuttavia, la guerra del Kosovo aveva dimostrato che la comunità internazionale iniziava a nutrire perplessità e ad opporre resistenza rispetto al progetto di egemonia planetaria statunitense, che metteva in discussione l’ordine vestfaliano che nel bene e nel male era il quadro della legalità internazionale condiviso fino ad allora e mai messo in discussione formalmente. I Russi, ovviamente, erano molto preoccupati e i Cinesi irritati. Ma anche i più forti stati europei iniziavano a mostrare un entusiasmo che decresceva di pari passo coi progressi del progetto di moneta unica,come d’altronde era stato “previsto”, con stizza e minacce, da Martin Feldstein,poi consigliere di Bush Jr (cfr. “Il Sole 24 Ore”, 6-11-1997).

La benedizione Onu alla guerra del Kosovo fu così negata.
Certo, la fedeltà atlantica e il desiderio di non inimicarsi gli Usa erano e sono ancora fattori importanti, ma probabilmente nell’adesione dei Paesi della Nato alle guerre dei Balcani oltre alla fedeltà atlantica pesavano ormai altri interessi sottaciuti e da non
sbandierare con leggerezza. Un ruolo importante era giocato ad esempio dalla riesumazione di vecchie e mai abbandonate direttrici geopolitiche, come nel caso della Germania da sempre interessata ai Balcani. Nel caso dell’Italia invece si poteva intravedere una ratatuie di puro servilismo verso la superpotenza, di atavica piaggeria verso il Vaticano (da ricordarsi le sue ingerenze in Croazia), di opportunismo politico e forse di qualche dose di volontà egemonica nei confronti dell’Albania. Ad ogni modo, si navigava ancora sull’onda della belle époque finanziaria clintoniana, che allora andava sotto il nome di “web economy” (per i fraintendimenti che questa belle époque ha generato. Ma le cose erano in corso di veloce cambiamento.

2. Negli anni immediatamente seguenti si poteva assistere a una serie di eventi realmente da “fine millennio”: lo sgonfiamento della bolla finanziaria clintoniana (il famoso piano di “atterraggio morbido” del Governatore della Fed, Greenspan), l’introduzione dell’Euro come moneta scritturale (gennaio 1999), la scalata al potere di Vladimir Putin (che diverrà presidente della Federazione Russa nel maggio del 2000), e uno spostamento sempre più marcato dell’economia mondiale verso l’Asia, continente ormai centrato sulla Cina.
A quel punto gli Stati Uniti decisero di cambiare marcia. Con la presa del potere di Bush Jr e dei suoi consiglieri neocons, si ritornò a una riedizione in grande della strategia attuata dal presidente Truman all’indomani della II Guerra Mondiale.
Così, come il New Deal universale e visionario di Franklin D. Roosevelt era stato ridimensionato da Truman in un più realistico progetto di sistema gerarchico di stati attuato su una parte ridotta del pianeta, il cosiddetto “mondo libero”, allo stesso modo ora i propositi blandamente neo-rooseveltiani di Bill Clinton dovevano cedere il passo al progetto di un sistema gerarchico di stati di ampiezza planetaria, ciò che nella letteratura prese per l’appunto il nome di “Impero statunitense”.
Nel cosiddetto “movimento dei movimenti”, si poteva invece assistere a una spensierata confusione tra il significato di “impero” dato ad esempio da Arundhati Roy o da Chalmers Johnson (impero formale a guida statunitense) e il significato designato dal libro di Hardt e Negri, che era cosa ben differente e, soprattutto, di là da venire. Ma tant’è: l’importante era prendersela con un “impero”. Che poi quello statunitense non avesse di fronte moltitudini desideranti bensì persone in carne ed ossa che venivano massacrate a centinaia di migliaia, la cosa era evidentemente considerata grave ma secondaria da un punto di vista politico e analitico. Di fronte a questa inanità, non è sorprendente che il New York Times abbia eccitato
i narcisismi mediatici in un tripudio gioioso e strepitoso proclamando che il “movimento dei movimenti” era la “seconda potenza mondiale”; perché sapeva che lo era sì, ma a Paperopoli.  

Il progetto imperiale di Bush Jr era perseguito con le stesse tinte nazionalistiche della politica statunitense del secondo dopoguerra e con lo stesso sfruttamento di un supposto temibile nemico esterno: il comunismo nel 1946, il terrorismo internazionale nel 2001. Condoleezza Rice aveva dunque ragione quando paragonava il dopo 9/11 al biennio 1946-1947: come Truman, Bush Jr si era assunto il compito di condurre un mondo in preda a forze centrifughe in una struttura gerarchica di stati a guida Usa. Ma il suo parallelo andava ben più in là di quanto ella volesse far intendere. Infatti, se negli
anni Cinquanta il Sottosegretario di Stato, Dean Acheson, aveva salutato la crisi di Corea come una salvezza per il progetto dell’amministrazione Truman, l’Amministrazione Bush aveva tutte le ragioni per salutare come una salvezza l’attacco alle Torri Gemelle. E come abbiamo visto, i cinici cervelloni del Pnac
lo avevano invocato un anno esatto prima. Tuttavia proprio gli amplissimi spazi di manovra aperti dal collasso dello storicocontendente degli Stati Uniti, hanno in poco tempo trasformato il neo-unilateralismo statunitense in un limite fondamentale all’esercizio del suo potere.
Se infatti la strategia da Truman a Reagan si basava sulla possibilità di ritagliarsi una fetta di mondo su cui poter esercitare prima il proprio dominio e, in seguito, la propria egemonia, ora l’espansione globale di quella fetta rischia di portare a ciò che è stato
definito “sovradimensionamento strategico”, proprio nel momento in cuisi ritorna dall’egemonia al dominio.

3. La vulgata ha visto nella guerra in Iraq oltre alla rapina delle risorse petrolifere di quel Paese anche lo scenario per la realizzazione di profitti grandiosi da parte dei sodali di George Dubya Bush e dei loro fidi. Era un continuo di denuncie di come un gruppo privilegiato di aziende, in massima parte statunitensi e legate agli uomini
dell’Amministrazione Usa di allora, si stavano spartendo le enormi torte dell’invasione e della “ricostruzione”. Ed era vero; ma se questo aggiunge, se ancora possibile, ulteriore discredito morale sulla cricca di Bush, tuttavia si tratta per molti aspetti di “business as usual”. Concentrarsi su questi aspetti, indubbiamente spregevoli, può però
nascondere che le guerre di Bush, per quanto necessarie come vedremo nella Sezione VIII, non si stavano rivelando un buon affare per gli Usa. Ed è per questo che c’era bisogno del “nuovo corso” di Obama. Mantenere una posizione imperiale ha dei costi enormi. Ma come è ovvio il problema non è “quanto costa”, bensì “chi paga”;
e ciò dipende da chi ha il potere di far pagare. Chi sta allora pagando
il progetto neo-imperiale statunitense?

C’è stata fin da subito una grande riluttanza da parte degli alleati degli Stati Uniti a sostenere finanziariamente la guerra in Iraq. In compenso la guerra costa agli Usa uno sproposito. Nel loro libro “The Three Trillion Dollar War”, l’ex Senior Vice President e Chief
Economist della Banca Mondiale, oltre che premio Nobel per l’Economia, Joseph E. Stiglitz e Linda Bilmes dell’Università di Harvard, avevano previsto che alla data del 30 settembre 2008 – ovvero quando si sarebbe chiuso l’anno fiscale – in base alle richieste
complessive avanzate al Congresso degli Stati Uniti dall’Amministrazione Bush, il conflitto afgano e quello iracheno avrebbero inciso complessivamente sul bilancio federale per un ammontare pari a 845 miliardi di dollari (al valore del 2007). Una cifra notevolissima, se si pensa che secondo il servizio statistico del Congresso i 12 anni di guerra nel Vietnam sono costati 670 miliardi di dollari (sempre al valore del 2007). Ma è una cifra che impallidisce di fronte alle previsioni tra oggi e il 2017 (comprendenti
anche i costi nascosti come le spese assistenziali, sanitarie o psicologiche, per i reduci): fra le 1,7 (nelle “condizioni più favorevoli”) alle 2,7 migliaia di miliardi di dollari (secondo uno scenario “realistico-moderato”). E come se non bastasse il calcolo aggiornato ha portando il range delle stime a ben 4-6 sei trilioni di dollari.
A dispetto di queste cifre da capogiro, anche i più fedeli alleati degli Usa, ad eccezione del vassallo più sicuro, gli UK, fecero orecchie da mercante già durante la ridicola “conferenza dei donatori” dell’ottobre 2003 quando pure si pensava che la guerra costasse ordini di grandezza inferiori. Infatti, l’allora segretario di stato Colin
Powell aveva posto come obiettivo 36 miliardi di dollari ma si ritrovò con un pugno di mosche: gli ex grandi donatori della Guerra del Golfo, Germania e Arabia Saudita in testa, si comportarono da veri spilorci. Il Giappone fu il più munifico: 1,5 miliardi di dollari, un niente se confrontato ai 13 miliardi di dollari di 12 anni prima
e una miseria se si deflaziona la cifra.
4. Si stava dunque delineando una crisi di capacità egemonica di misura epocale messa in risalto proprio dal fatto che gli Stati Uniti avevano da poco convinto l’Onu a riconoscere una certa legittimazione alla presenza della coalizione in Iraq e quindi
formalmente il quadro giuridico non era più quello di un’arrogante unilateralità. Una legittimazione formale ampliava una delegittimazione di fatto. Anche la “coalizione dei volenterosi” si era dimostrata risibile sul campo: dei 28 paesi alleati nei primi due anni,
solo otto avevano inviato più di 500 soldati. A questa crisi di capacità egemonica non corrispondeva però una volontà politica di opposizione all’egemonismo statunitense. Il disallineamento tra riluttanza economica e appeasement politico era dovuto proprio all’espansionismo Usa. 
Secondo un’espressione molto esplicativa e pittoresca di Giovanni Arrighi, la azioni statunitensi erano ormai viste come causa di disordine internazionale e gli Stati Uniti stessi come un boss di quartiere che offre protezione contro il disordine da lui stesso provocato o minacciato.
Oltre che al lato politico-militare della faccenda questo sospetto si applica benissimo ancheal lato politico-finanziario. Se questo è vero, non penso che si spinga il ragionamento troppo oltre la realtà, se si ipotizza che per quanto riguarda Cina e Russia, il caos iracheno fosse visto come fonte di un doppio vantaggio.
In primo luogo un’America impantanata negli isolati Iraq e Afghanistan era uno spettacolo ancora più desolante di un’America impantanata nel Vietnam. In secondo luogo, iniziare le guerre in Afghanistan e Iraq in una posizione debitoria internazionale
senza precedenti sulla carta era una mossa azzardata da parte degli strateghi neocons.
Usiamo una formula dubitativa, perché l’azzardo deriva da un intreccio di circostanze, non da un presunto rapporto diretto che sussisterebbe in ogni contesto tra la situazione economica-finanziaria di uno Stato e la sua potenza.
Abbiamo accennato alla capacità degli Usa di uscire in vantaggio (grazie a una guerra mondiale) dalla crisi del ’29, e possiamo anche ricordare che durante le guerre francesi tra il XVIII e il XIX secolo la posizione di comando sulla finanza europea che la Gran Bretagna
aveva strappato all’Olanda con duri conflitti, unitamente alle innovazioni di prodotto e alla diffusione della meccanizzazione, riuscì a garantire all’Inghilterra il flusso dei crediti e a convertire il suo indebitamento in un fattore di possente crescita, di sovranità e infine di vantaggio che sarebbe sfociato nell’egemonia mondiale britannica per circa un secolo (nel 1793 gli interessi sul debito impegnavano almeno il 75% del bilancio della Gran Bretagna,
eppure la sua spesa pubblica tra il 1792 e il 1815 poté aumentare di circa sei volte, grazie al credito di cui godeva). Inoltre, erano quarant’anni che gli Usa traevano benefici dalla loro posizione debitoria grazie al predominio politico- militare.

Tuttavia si poteva sperare che la debolezza economica spingesse gli Usa verso un ripiegamento, per lo meno temporaneo. Negli stessi Usa si temeva che la dipendenza economica corresse il rischio di trasformarsi in vincolo politico sulla loro capacità di manovra. Un rischio che possiamo comprendere meglio se consideriamo quanto era successo storicamente durante i lunghi anni di crisi sistemica dell’egemonia britannica.
Anche la declinante Gran Bretagna, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, aveva reagito con vari conflitti al declino della sua egemonia. Innanzitutto con nuove conquiste coloniali e, infine, con l’aperto confronto con lo sfidante europeo: la Germania. Ma persino i limitati conflitti coloniali erano stati affrontati dall’Inghilterra
partendo da una situazione di bilanci in attivo, da un’Europa e un’America in larga misura ancora dipendenti da lei e quindi da una situazione politico-economica ideale.
Questa posizione vantaggiosa le era garantita dalla spoliazione diretta dell’India e delle altre colonie e indirettamente di altri ricchi paesi, come la Cina. Generalmente si pensa che in quei due colossi asiatici la Gran Bretagna operasse prevalentemente un saccheggio di materie prime, iniquo quanto si vuole, ma tutto sommato d’importanza
non direttamente strategica, che inoltre comportava uno sforzo del Paese conquistatore per la costruzione di infrastrutture e per l’amministrazione del Paese colonizzato. Le cose invece stavano diversamente.

Alla vigilia della conquista del Bengala, l’India incideva per il 22,6% sul Pil mondiale e per il 32% sul prodotto manifatturiero mondiale, mentre la Cina incideva rispettivamente per il 23,1% e il 32,8%. L’India fu conquistata direttamente e la Cina indirettamente da una nazione, l’Inghilterra, che in quel momento poteva vantare una
misera quota di Pil mondiale pari all’1,9% ma poteva contare su una straordinaria capacità in un altro settore, cioè nell’arte criminale, l’arte di fare la guerra. Bastano questi dati per ridicolizzare ogni discorso economicistico nell’analisi delle dinamiche capitalistiche.
A quei tempi India e Cina erano le maggiori potenze economiche mondiali ma non erano avvezze a guerre continue come invece lo eravamo noi nella Vecchia Europa.
Così dopo la conquista dell’India e dopo i trattati iniqui con la Cina che seguirono le Guerre dell’Oppio, da queste impressionanti potenze economiche iniziò un ingente travaso di risorse finanziarie. Dall’India questo travaso avveniva direttamente sottoforma di “debito”: 51 milioni di sterline nel 1857, 97 milioni nel 1862, 224 milioni nel 1900, 274 milioni nel 1913, 884 milioni nel 1939 (e solo una parte molto modesta di questo debito veniva spesa per l’India: ferrovie, irrigazione, …. Altro che “fardello”!).
Questo è il primo aspetto della rapina. Il secondo è invece quello degli input per l’industria del centro alimentata dalla finanza, ovvero del rifornimento di capitale circolante (prodotti alimentari e materie prime).
5. Se quindi non si considera il ruolo dell’Impero nella capacità britannica di giocare la funzione di potenza capitalistica economica, politica e militare egemonica,non si può pensare di capire cosa succede adesso.

Gli Inglesi erano perfettamente consapevoli che senza la ricchezza rapinata sottoforma di “debito indiano” e di uomini sequestrati come manodopera militare, cioè come soldati arruolati e mantenuti dall’India stessa, non avevano chance, mentre con l’India a disposizione potevano sia porsi al centro dei meccanismi mondiali di
accumulazione sia affrontare ogni tipo di conflitto armato. Ne erano talmente consapevoli da esserne ossessionati. Solo così si spiega l’inflessibilità meccanica (e disumana) della riscossione delle tasse indiane, persino in periodi di drammatica carestia.

Era così importante l’approvvigionamento di risorse dall’Asia per mantenere l’egemonia economica, militare e politica della Gran Bretagna, che il Maresciallo Montgomery, nelle sue memorie sulla II Guerra Mondiale, afferma che se la Germania avesse occupato l’Inghilterra sarebbe stato un duro colpo, ma non mortale: c’era già il
piano per trasferire il governo nel Canada da dove proseguire la lotta. Ma se la Germania avesse tagliato in due l’Impero, isolando la parte occidentale dall’India, la Gran Bretagna avrebbe dovuto firmare la resa il giorno dopo. Per fortuna Hitler seguiva pedissequamente gli insegnamenti di von Clausewitz che prescrivevano di concentrare lo sforzo bellico nel teatro principale del conflitto. Dato che il Führer era convinto che il teatro principale fosse l’Europa, gettò le sue armate nella trappola russa e fu così che tra il 1942 e il 1943 la Wehrmacht fu battuta dall’Armata Rossa senza più possibilità di riprendersi e l’Impero britannico rimase integro.
Ciononostante l’Inghilterra fece male i conti: i prestiti elargiti allo Zar durante la I Guerra Mondiale non vennero riconosciuti dal governo sovietico, le due guerre mondiali costarono molto di più di quanto previsto e così il credito nei confronti dell’India finì inesorabilmente per trasformarsi in debito e l’Inghilterra fu costretta a indebitarsi finanziariamente e politicamente anche con gli Usa. Tuttavia, per lungo tempo il possesso dell’India aveva permesso all’Inghilterra di essere il centro economico, finanziario, politico e militare del mondo e di proseguire con le sue guerre di espansione coloniale. Al contrario dell’Inghilterra, gli Usa non hanno mai posseduto
un impero coloniale, ma solo il proprio impero continentale, cioè gli Usa stessi.

Dovettero perciò agire in altro modo.
Come vedremo più in dettaglio, a partire dalla fine dell’amministrazione Carter per  supplire alla crisi, innanzitutto di potenza e poi economica, gli Stati Uniti divennero i maggiori
rastrellatori di risorse finanziarie del pianeta, prima attorno allo strabiliante rilancio della spesa militare durante la cosiddetta Seconda Guerra Fredda voluta da Reagan, poi con le politiche di liberalizzazione globale promosse da Reagan e Bush padre; infine
grazie alla “New economy” (alias “espansione borsistica”) clintoniana e alla successiva “bolla dei prestiti privati” di Bush Jr.

Nel frattempo l’economia statunitense per quanto riguarda i settori a bassa o media tecnologia e a medio-alta intensità di lavoro diventava sempre meno competitiva, così che il mercato americano veniva sempre più invaso dai prodotti esteri, innanzitutto cinesi, mentre le aziende multinazionali statunitensi decentravano intere linee all’estero, col risultato che il deficit commerciale Usa nei confronti di ogni altra nazione di peso della Terra iniziò ad aumentare progressivamente dalla metà degli anni Novanta. Una situazione che gli Stati Uniti dovevano però rovesciare a proprio vantaggio.
Attualmente gli Stati Uniti hanno bisogno di essere foraggiati dall’estero nella misura di due miliardi di dollari al giorno e si trovano a dover affrontare un deficit di competitività anche nei settori ad alta tecnologia. In compenso al gennaio 2012, 5048
miliardi di dollari pari a più del 36% del debito pubblico americano è posseduto da governi stranieri. Di questa cifra quasi il 23% è in mano alla Cina e il 21,7% al Giappone. Bisogna far notare che la quota cinese è superiore a quella complessiva di Inghilterra, Germania, Russia e Svizzera con l’aggiunta di tutti i Paesi produttori di petrolio.

Gli Stati Uniti riescono a mantenere una posizione di leadership grazie al fatto che nessun creditore ha interesse a far fuori il suo più grande debitore e, ben più importante, perché non c’è ancora nessuno che gli contesti apertamente l’egemonia mondiale politica, diplomatica, militare e finanziaria. Ciò ovviamente ha anche un
risvolto economico; un risvolto che tuttavia è comunemente interpretato come la radice del problema.

6. Se la strategia imperiale dei neocons statunitensi si è concretizzata in una tragedia per gli Afgani e gli Iracheni, vittime di sofferenze vergognose che generalmente vengono sottaciute o negate dalla stampa e dai politici occidentali, bisogna anche sottolineare
che i suoi ritorni sembrano aver disatteso le aspettative. Ad esempio, il controllo dell’Iraq non pare abbia finora liberato capacità aggiuntiva di produzionedi petrolio o fornito molti vantaggi strategici.

Al contrario, ha indotto nuovi problemi al sistema di dominio statunitense, come il progetto di pipeline Iran-Pakistan-India con possibile diramazione verso la Cina – un incubo per gli Usa, che per ora lo hanno fermato con gli accordi di collaborazione per
il nucleare civile con l’India – e un’accentuata dipendenza energetica dell’Europa dalla Russia.
Se si tiene conto di questi elementi e del fatto che la Russia è riuscita a ristabilire la sua storica egemonia sulle repubbliche centroasiatiche (persino sull’Uzbekistan, che appariva ormai perso), repubbliche incastonate come gioielli geopolitici tra Medio Oriente, Russia e
Cina e a poca distanza dall’India, allora non è difficile capire come mai queste siano oggetto delle attenzioni dei mestatori che fanno capo ai servizi di intelligence statunitensi, spesso travestiti da non-violenti e da Ong per i diritti umani, dediti alle “rivoluzioni colorate”.
Dato che i combustibili fossili giocano in mille ragionamenti, da quelli geopolitici a quelli ecologici, è necessario aprire una finestra su questo punto specifico.
Iniziamo facendo notare che storicamente ogni sconvolgimento in Medio Oriente ha generato una spinta verso l’alto del prezzo del petrolio.
E’ evidente che dopo il “mission accomplished” di Bush, il prezzo del greggio è iniziato inesorabilmente a salire sino a livelli impensabili, per poi discendere non semplicemente per via della crisi, come di solito si pensa, ma perché gli Usa hanno capito che questo aumento fantascientifico era un’arma geopolitica a doppio taglio.
La recente impennata del prezzo del greggio è stata generalmente attribuita alla richiesta cinese e degli altri Paesi emergenti, in special luogo l’India, che però sembra aver concorso in modo relativo all’aumento del costo del petrolio. Esistono infatti altre
dinamiche che devono essere valutate. Probabilmente c’è stata la tentazione di condurre una fase della partita giocando sul prezzo del petrolio ma ci si è in poco tempo accorti che stava diventando in un gioco rischioso. L’economia della Cina e quella degli Usa erano troppo strettamente intrecciate e, in compenso, l’aumento del
greggio favoriva enormemente la Russia, competitor meno integrato, con grande autonomia energetica e quindi più preoccupante. Tuttavia l’arma dell’aumento del prezzo del petrolio era stata usata nel 1973 da Nixon e si poteva basare su un meccanismo collaudato che esamineremo più avanti. 

Noi e l’Isis

di Tonino D’Orazio

Ha ragione Bergoglio e non solo. Siamo nella terza guerra mondiale. Il Nobel della pace Obama, in tono trionfante ci ha spiegato che di nuovo i nord americani sono in guerra alla testa di un’alleanza di ben 40 nazioni. Contro chi? Una creatura loro, l’Isis. Fantomatico gruppo che decapita, facendoci urlare alla vendetta, all’impiccagione, ed essere in realtà utilizzati per altri scopi.

Intanto con questa scusa gli americani sono riusciti a distruggere i pozzi petroliferi della Siria e il gasdotto proveniente dall’Iran. Cosa pensavano i siriani, di essersela scampata? E tutti quei civili sfollati, cosa fuggono, le bombe intelligenti americane o la religione islamica? Lo strumento utile, in barba alla Russia tenuta all’angolo, questa volta è l’Isis, già etichettata con facilità come terrorista, manco fossero a casa loro. L’altra volta, per massacrare l’Iraq di Saddam ci furono le fantomatiche “armi di distruzione di massa”. Poi ci fu l’amico della famiglia Bush, Bin Laden, e l’altro fantomatico Al Qaida. Accusato della distruzione delle torri gemelle di New York, ormai messo severamente e scientificamente in dubbio anche dai “non complottisti”. Di Al Qaida, a ben riflettere, vi sono stati fuori area solo alcuni attentati, direi cinicamente, nel filo temporale dell’occupazione dei vari stati petroliferi. A meno che la vita dei bianchi occidentali valga mille, o dieci mila, di quelle arabe.

Ma chi sono e cosa vogliono? Resistono all’occupazione e al depredamento del loro paese attaccando tutti, anche i “collaboratoristi”? Sfidano gli invasori? Strani ricordi. Sono utili ad un nuovo massacro dei curdi (i curdi del nord iracheno si sono dichiarati autonomi, con i loro pozzi petroliferi) aiutati dal silenzio storico dei turchi islamisti di Erdogan, quando si tratta di massacro di quella etnia, che mostrano solo i muscoli aspettando di invadere parte della Siria? Non lo sapremo mai, né dai notiziari televisivi né dai giornali, tutti allineati. Chi sono? Sono soltanto dei “cattivi” che scorazzano, decapitano uno o due persone per farci diventare forcaioli e sfottono gli americani facendole vestire di arancione, magari come i “prigionieri senza nome” torturati legalmente a Guantanamo. Adesso decapitano anche le donne. A quando i bambini? Sembra un film costruito a tappe con un crescendo tipico dei thriller. Non sapremo mai dove sono esattamente e quanti sono, anche se volessimo seguire localizzando i bombardamenti gratuiti. Sembra abbiano solo carri armati, in genere facili prede dell’aviazione sofisticata, eppure avanzano quasi senza resistenza, malgrado i “bombardamenti” americani mirati. Possibile? Eppure avanzano contro i curdi. Sembra incredibile che si nascondano dentro i pozzi di petrolio o sotto le tubature dei gasdotti. Certamente, 40 paesi alleati di uno che dirige e fa pagare dazio agli altri non sono mica poco. Solo Bergoglio inveisce contro la terza guerra mondiale in atto. E qualcuno dice ancora che i bombardieri F-35 non servono, invece ci saranno utili nel futuro prossimo. Come possiamo aiutare gli amici americani senza quegli aerei?

Si sentono tutti minacciati da questi specialisti addestrati dai nord americani. Come dice la H. Clinton:”Sono nostri e ci sono sfuggiti di mano”. Credibile? Saranno mica ancora “nostri” e stanno svolgendo il compitino a loro affidato? Insomma i Talebani non servono più, Al Qaida nemmeno, nell’immaginario collettivo dei bianchi (o filo-occidentali) forcaioli e guerrafondai bisognava creare un altro nemico. Putin è ancora un osso duro. I musulmani sono ossa più tenere, basta anche metterli gli uni contro gli altri. Eccolo allora nasce la creatura Isis, da non confondere con una nuova tassa renziana nascosta dalla parola e dal gioco delle tre carte per impoverire i già poveri.

Ma l’immaginario western non finisce qui. Sia Cameron (GB) per l’Iraq che Hollande (Fr) per l’Algeria, annunciano che daranno la caccia all’uomo fino a prendere “il” colpevole della decapitazione, perché, malgrado tutto, i loro servizi segreti li hanno riconosciuti. Avranno presto bisogno di un colpevole.

Ma dobbiamo tremare un po’ anche noi, viste le minacce di attentati profferite per le metropolitane, o i luoghi pubblici dei 40 paesi in guerra contro una tribù, anche se ben armata e con sofisticate armi certamente non di loro produzione. Cosa pensare di tutte queste minacce che durano ormai da più di 10 anni e in realtà mai avvenute? Sono bravi i servizi segreti oppure sono minacce fasulle alimentate per tenere buone e obbedienti le popolazioni?

Perché preoccuparmi di disoccupazione e drammaticità sociale quando ho un “nemico” che vuole uccidermi? Sarò al posto giusto e al momento giusto fuori dall’eventuale attentato? Devo evitare metropolitane, bus e aeroporti? Sono drammatiche preoccupazioni virtuali, intrisi di una paura reale e ben costruita per esserla.

Ma un’altra guerra, sottile e invadente sta venendo avanti. Di nuovo quella del petrolio. Un’eventuale caduta del barile a 60 $, sarebbe un evento devastante per parecchie economie recalcitranti. Qualche analista ipotizza che sia proprio Mosca il bersaglio principale di una strategia che l’Arabia Saudita potrebbe aver concordato con gli Stati Uniti. Così Putin dovrà venderci il gas al prezzo che diciamo noi e tenersi le sanzioni. Ma c’è anche il Venezuela nel mirino, oltre che l’Argentina (che non vuole pagare arretrati e tassi di interesse agli strozzini internazionali) e il Brasile (in fase pre-elettorale e partecipe della combriccola Brics recalcitrante all’impero), se non la stessa Nigeria. Perché poi gli stati uniti hanno scelto di raggiungere e superare l’Arabia Saudita a livello di esportazioni petrolifere? Sono rivali o diventati il gatto e la volpe contro tutti? E’ ipotizzabile la rapida e lucrosa costruzione di 1.000 petroliere per rifornire l’Europa, dopo aver impostato con i nazi-fascisti ucraini il “litigio” con Mosca?

Siamo in grande amicizia, o servitù, con una piovra mostruosa convinta di volere e dovere imperare sul mondo. Ha capito che da sola non ce la può fare, deve aprire troppi fronti, allora tocca un po’, sotto l’egida dell’Onu o meno, dare una mano. Siamo felici e contenti di dargliela. Dio mi salvi dagli amici.

DOPPIOCIECO

Per una Razionalità Moderatamente Pluralista