Teorie economiche alternative Implicazioni per la politica economica


di Fabio Petri da sinistrainrete

Ripubblichiamo, con il permesso dell’autore, un vecchio saggio di Fabio Petri del 26.1.1995 che ci sembra tuttavia ancora utile come introduzione all’importanza che una solida base di analisi economica ha per trarre valide conclusioni di politica economica [Sergio Cesaratto]
 Premessa

aeaCalendarC’è da chiedersi innanzitutto se problemi come la disoccupazione siano da considerare come mali inevitabili, da addebitare ai lavoratori che si ostinano a pretendere salari troppo alti, o se invece si tratti di qualcosa di curabile attraverso interventi governativi che non rendano necessaria una diminuzione dei salari. Questo è un primo gruppo di questioni per le quali aderire ad una scuola teorica o ad un’altra fa una grande differenza. Mi soffermerò su questa differenza e poi parlerò del problema del debito pubblico che è la questione di cui si più si parla in Italia. Come vedremo, anche in questo caso ci si chiederà: il debito pubblico nel nostro Paese va o no azzerato in tempi brevi, mediante un attivo del bilancio dello Stato -cioè tramite entrate dello Stato superiori alle spese?
Il punto da cogliere è che gli economisti non sono d’accordo su quale sia la migliore descrizione di come funziona un’economia di mercato, e proprio per questo non sono neppure d’accordo su quale siano le risposte – in termini di scelte di politica economica – da dare alle domande che ci siamo posti.
Vorrei tentare di individuare la radice di fondo di questo disaccordo tra gli economisti. Tale radice risiede fondamentalmente nelle differenze di impostazione tra le due principali teorie economiche. Una di queste teorie è quella che io chiamo classica e che è quella di Adam Smith, Ricardo, di Marx – oggi integrata con l’apporto di Keynes – l’altra è quella che io chiamo marginalista anche se più spesso la si chiama neoclassica – che è quella oggi dominante nel mondo accademico. Il mio intervento seguirà il seguente schema:

1. Quali sono le linee fondamentali di queste due impostazioni teoriche ed in che cosa differiscono nella struttura teorica.
2. Cercherò di dimostrare come dalle differenze tra queste due impostazioni, emergano visioni profondamente diverse della natura della società in cui viviamo.
3. Suggerirò che una di queste due impostazioni, quella marginalista o neoclassica, si sia rivelata scientificamente molto debole e quindi da scartare.
4. Cercherò di dimostrare che le risposte più appropriate da dare ai problemi che ho indicato – disoccupazione e debito pubblico- sono molto diverse di quelle attualmente accreditate.

1. Le linee fondamentali della teoria classica e della teoria marginalista

Cominciamo dalle differenze tra queste due impostazioni ponendoci questa domanda: come è spiegato nelle due impostazioni il livello medio dei salari? Perché in certi periodi esso aumenta ed in altri diminuisce?
La scuola classica
Non presupporrò quasi alcuna conoscenza da parte vostra di economia, immagino però che tutti abbiate sentito parlare di Adam Smith – filosofo e professore universitario della fine del Settecento in Scozia – e di David Ricardo – figlio di una famiglia ebrea londinese, diventato miliardario speculando sui cambi, il quale si ritirò a vita privata e si occupò di economia politica per passione e che fu anche parlamentare. La teoria di David Ricardo venne a mio avviso travisata e infine abbandonata, con la quasi sola eccezione di Karl Marx, che la riprese nella seconda metà dell’Ottocento, quando già il pensiero dominante si muoveva in un’altra direzione. Questa teoria fu poi mantenuta in vita quasi esclusivamente da economisti marxisti, i quali, per ragioni ideologiche, in pochi trovarono spazio nelle università. Solo in tempi recenti la si è ripresa, dopo l’impulso dato dalla rinascita del radicalismo negli anni sessanta, ed anche ad opera di un notevolissimo economista italiano che studiò a Cambridge, Piero Sraffa.
Ebbene in Smith, in Ricardo, in Marx, troviamo sostanzialmente la stessa idea su che cosa determini il livello dei salari. Si tratta di quella che Marx avrebbe chiamato lotta di classe, ma l’idea non è propriamente sua, la troviamo già in Adam Smith: ossia, per Marx, ciò che determina il livello medio dei salari è il rapporto di forza tra la classe dei capitalisti e la classe dei lavoratori, che è in genere nettamente favorevole ai primi tranne che nei periodi di scarsità di manodopera, dovuti alle epidemie che decimavano i lavoratori, o generati da momenti di rapida crescita economica. Ma al di fuori di tali contingenze i capitalisti sono sufficientemente forti da mantenere il salario molto vicino ai livelli più bassi. Adam Smith lo definisce come il livello “compatibile con il comune sentimento di umanità”. Questa idea del comune sentimento di umanità è un’idea interessante, su cui torneremo.
In genere, nella cultura comune della sinistra – in tutto il mondo – si pensa che questi siano concetti elaborati da Marx, mentre in realtà Marx non faceva che riprendere, approfondire e dire in termini più chiari quanto già era stato detto prima di lui. Con la differenza che Marx disse queste cose in un’epoca in cui il conflitto tra operai e capitalisti era ormai diventato aperto. Adam Smith, alla fine del settecento, quasi un secolo prima di Marx si esprime in modo chiarissimo:

“Quale sia il salario ordinario, dipende ovunque da un contratto normalmente stipulato tra lavoratori salariati e datori di lavoro, i cui interessi non sono affatto gli stessi. I primi sono disposti a intese al fine di fare aumentare i salari, i secondi al fine di farli abbassare. I lavoratori desiderano ottenere il più possibile, i datori di lavoro dare il meno possibile. In ogni caso non è difficile prevedere quale delle due parti sia normalmente avvantaggiata nella disputa, e sia quindi in grado di imporre all’altra parte i propri termini contrattuali. I datori di lavoro, essendo in minor numero possono accordarsi più facilmente; la legge – era palesemente così all’epoca di Smith – agevola o non ostacola il perseguimento dei loro interessi, mentre ciò non accade per i lavoratori. Ma soprattutto, in questo conflitto, i datori di lavoro possono resistere molto più a lungo. Un proprietario, un industriale, un mercante, potrebbe generalmente vivere anche per un anno o due senza impiegare alcun lavoratore, consumando il capitale accumulato. Al contrario, senza impiego molti lavoratori non potrebbero resistere neppure una settimana, pochi resisterebbero per un mese, quasi nessuno per un anno”.

Nella descrizione di Smith i datori di lavoro sono sempre e ovunque una “casta” caratterizzata da “una tacita, ma costante, uniforme intesa a non aumentare i salari al di sopra del loro saggio corrente. Violare questa intesa, ovunque è un’azione assai impopolare”, che solleva critiche da parte degli altri imprenditori. Ai datori di lavoro si oppongono, nella coalizione contraria, i lavoratori. “I loro interessi abituali sono talvolta l’alto prezzo dei viveri, talvolta i grandi profitti che i datori ottengono dal loro lavoro”. I lavoratori descritti da Smith nel cercare un intesa migliore fanno sempre molto chiasso.

“Per raggiungere una decisione sollecita essi ricorrono a metodi sempre più spregiudicati e talvolta alla violenza e all’oltraggio. Essi sono disperati e agiscono con la sconsideratezza dei disperati destinati o a morire di fame, o a spaventare i loro datori di lavoro affinché soddisfino immediatamente le loro richieste. In queste occasioni però, i datori di lavoro, dal canto loro, non sono meno chiassosi e non cessano di domandare ad alta voce l’assistenza della magistratura e l’applicazione rigorosa di quelle leggi che sono state promulgate con grande severità contro le coalizioni dei servitori lavoranti giornalieri. Per cui assai raramente i lavoratori traggono vantaggio dalla violenza di queste tumultuose coalizioni che, per l’intervento della magistratura, o per la maggior fermezza dei datori di lavoro, o ancora per la necessità della maggioranza dei lavoratori di sottomettersi per non perdere la loro fonte di sussistenza, generalmente finiscono con la punizione o la rovina dei loro capi”.

Si capisce allora come venisse spontaneo a qualsiasi lucido osservatore dell’epoca, ammettere che i salari erano determinati da quella che Marx da un lato e Smith – che non era certo un socialista né tanto meno un comunista rivoluzionario – dall’altro, avrebbero chiamato lotta di classe. Tale lotta di classe era ovviamente determinata dalla disoccupazione, dalla fermezza dell’appoggio dello Stato ai datori di lavoro e, soprattutto, dal livello dei consumi, quale ormai era considerato indispensabile dalla consuetudine, come compatibile con il comune sentimento di umanità.
La situazione era molto simile a quella dei servi della gleba nel feudalesimo, quando i signori feudali riuscivano a ottenere un reddito positivo, ottenuto dai versamenti da parte dei servi della gleba, dal prodotto sui loro campi, o dalle corvée che i servi effettuavano sui campi del signore. La domanda che bisogna porsi è: perché i servi della gleba accettavano di rinunciare a una parte di ciò che avrebbero dovuto avere di diritto? La risposta è semplice: perché i signori feudali erano l’anello forte della catena sociale, era loro il controllo delle terre. Essi avevano i soldati per far rispettare il loro controllo sulle terre, perciò potevano imporre ai servi della gleba di lavorare e a questi ultimi non rimaneva, evidentemente, altra scelta se non cedere, per non morire di fame. Questo spiega perché vennero promulgate leggi che vietavano di fuggire nelle città da un lato, e dall’altro l’indebolimento del sistema feudale in seguito allo sviluppo delle città. Ma finché i signori mantennero ben saldo il monopolio della possibilità di lavorare, essi poterono pretendere parte del prodotto dai servi della gleba, o parte del loro tempo di lavoro.
Nel fare un’analisi della storia del feudalesimo, si è anche descritto un ciclo che potremmo definire politico, in cui i signori feudali aumentano sempre più le loro pretese, le loro esazioni, chiedono corvée sempre più lunghe, elevano le gabelle su ponti e strade, fino a quando i contadini, esasperati, esplodono. Per lo più le rivolte vengono facilmente soffocate nel sangue, ma qualche volta i servi della gleba riescono a muoversi tutti insieme, a marciare verso il castello e ad incendiarlo. A questo punto gli altri signori si precipitano con le loro soldataglie dal feudatario in difficoltà e per evitare che l’episodio si ripeta fanno molte concessioni ai servi della gleba, la cui situazione migliora. Così si esaurisce il ciclo, che si riapre quando i signori ricominciano ad aumentare le esazioni, fino al successivo scoppio di ira popolare.
La situazione nel regime capitalistico è, secondo Adamo Smith, Ricardo e Marx, molto simile. C’è un monopolio collettivo, detenuto dai capitalisti, sulla possibilità di lavorare, poiché lavorare richiede il capitale che i proletari non hanno, né esso gli viene anticipato dalle banche, in quanto nullatenenti. I capitalisti allora offrono la possibilità di lavorare, a patto che parte del prodotto resti a loro come profitto.
Si capisce come in una situazione del genere ci sia una profonda indeterminatezza di quale debba essere il livello del salario: i capitalisti vogliono abbassarlo il più possibile, i lavoratori alzarlo il più possibile. Ma in ogni dato momento c’è una storia passata che ha formato delle consuetudini. In tutte le situazioni di indeterminatezza, è normale partire dalle consuetudini. Esse permettono infatti di regolare la vita senza che ogni giorno si debba ristabilire tutto da capo. Quando poi da una delle due parti ci si accorge che i rapporti di forza sono cambiati, si cerca di sostituire le vigenti consuetudini, spingendo in un’altra direzione. E’ assai difficile, tuttavia, modificare le consuetudini, in quanto esse hanno un potere di pressione fortissimo sui comportamenti sociali, anche nella società odierna. I barboni, ad esempio, vivono con pochissimo, sono compagnie sgradevoli per la gente comune, perché vivono in un modo molto diverso dal nostro, perché il tipo di vita che fanno è notevolmente deteriorato. Sono persone la cui vita è ormai incompatibile con quella normale degli altri. Per questo la pressione sociale – affinché la gente non dia fastidio agli altri e sia adattabile ai modelli di vita dominanti – è un deterrente fortissimo. Tale pressione sociale impone, con una forza impressionante, un livello minimo di consumi, al di sotto del quale nessuno è disposto ad andare. Proviamo a immaginare, per assurdo, che arrivi una classe di invasori e imponga a tutti lo stile di vita dei barboni: accadrebbe che la stragrande maggioranza della popolazione non sarebbe disposta ad abbassare fino a quella soglia il proprio stile di vita. Se per un barbone infatti il suo stato è il punto di arrivo di un lento processo di degradazione, per la gente normale un brusco abbassamento del tenore di vita è semplicemente insopportabile. C’è un livello di consumi al di sotto del quale non vale la pena vivere, e per difendere il quale anzi vale la pena mettere a repentaglio la propria vita.
La scuola marginalista
Quella fin qui esposta è l’idea degli economisti classici. Confrontiamola adesso con l’altra, quella che abbiamo chiamato marginalista. La visione è completamente diversa: l’idea è che ci siano una domanda e un’offerta di lavoro [la domanda è quella espressa dalle imprese che richiedono manodopera e l’offerta è quella dei lavoratori, che offrono la propria forza lavoro, N.d.R.] e che la domanda di lavoro aumenti se i salari si abbassano. Allora a determinare i salari sarà il gioco della domanda e dell’offerta, ed infatti quando c’è disoccupazione, se i lavoratori non sono sciocchi, accetteranno che in una tale contingenza i salari si abbassino: il risultato sarà che la domanda di lavoro da parte delle imprese aumenterà.
Ora, l’idea comune della concorrenza è: quando l’offerta di un bene è maggiore della domanda, il prezzo si abbasserà, perché se chi offre non riesce a vendere, pur di non restare con la merce invenduta accetterà di piazzare il suo prodotto ad un prezzo più’ basso. La teoria marginalista, a questo proposito, sostiene che se anche i lavoratori accettassero di comportarsi in modo concorrenziale, accettando quindi la caduta dei salari, finché permane la disoccupazione – questo significa offerta di lavoro maggiore della domanda – è necessario che il salario si abbassi ancora, cosicché la domanda di lavoro da parte delle imprese possa aumentare e si arrivi, per questa via, alla piena occupazione. Il livello a cui sarà sceso il salario è il livello a cui le forze di mercato tendono a spingere i salari. Ed è questo che spiega il livello dei salari: perché esso aumenta? Perché diminuisce? Quando diminuisce il livello dei salari? Semplicemente quando aumenta l’offerta di lavoro. La crescente offerta di lavoro da parte delle donne, ad esempio, fa ovviamente abbassare il livello del salario, diversamente le imprese non avrebbero incentivi a impiegare questa nuova forza lavoro. Questa è la teoria dominante, quella che appare, a prima vista, la più plausibile.
Cerchiamo di capire quale struttura teorica sorregge questa teoria. Si potrebbe, infatti, ragionare in tutt’altro modo: supponiamo che ci sia disoccupazione e che i lavoratori accettino di farsi concorrenza e i salari si abbassino. Ma quando i salari si abbassano, quelli che già lavoravano hanno meno soldi di prima, quindi comprano meno beni e la domanda di beni che le imprese vendono diminuisce. Esse vendono meno e cominciano a licenziare. Perciò se i salari si abbassano non aumenta l’occupazione, ma al contrario diminuisce. Allora quale di questi due ragionamenti è quello più solido?
Cerchiamo di capire perché, quando il salario si abbassa, le imprese hanno convenienza a impiegare più lavoratori. Per i sostenitori dell’idea marginalista o neoclassica, la produzione non deriva solo dal lavoro, ma anche dal capitale. Le imprese hanno infatti una certa quantità di capitale, e quando con questa quantità di capitale vogliono impiegare più lavoratori, ogni nuovo lavoratore impiegato fa aumentare la produzione, ma questo aumento è gradualmente sempre minore per ogni lavoratore in più: e questo perché con un dato impianto, con dati beni capitali, i lavoratori aggiuntisi permetteranno di produrre cose via via meno utili (in una data falegnameria con uno stabilimento di cento metri quadri, se comincio ad aumentare i lavoratori impiegati, il prodotto cresce, ma per ogni lavoratore in più diminuisce lo spazio a disposizione; ad un certo punto, aumentando ancora i lavoratori, nessuno potrà più lavorare!).
Quale sarà allora il ragionamento dell’impresa quando dovrà decidere quanti lavoratori domandare? Confronterà quanto prodotto in più le verrebbe dall’impiegare un nuovo lavoratore, con il costo che l’assunzione di quest’ultimo comporta. Supponiamo che il centunesimo lavoratore permetta all’impresa di produrre beni in più, e che tali beni in più le diano un ricavo in più, dalla vendita, di un milione e mezzo al mese. Il lavoratore costa – supponiamo – un milione e duecentomila lire al mese: se l’impresa decide di assumerlo avrà un milione e mezzo di ricavo, un milione e due di costo, e trecentomila lire le resteranno come profitto. Fatti questi calcoli il lavoratore viene assunto. Stesso ragionamento verrà fatto per i successivi possibili lavoratori che permetteranno ulteriori aumenti di prodotto (via via sempre minori). Di conseguenza i ricavi in più saranno anch’essi via via minori.
Per cui l’impresa continuerà ad assumere fintanto che il ricavo ottenibile dalla maggiore produzione ottenuta con nuovi lavoratori sarà superiore al costo per ogni lavoratore in più. Questo meccanismo spiega il perché sia diffusa l’idea che l’occupazione dipenda dal livello dei salari, ma ricordiamo che stiamo ipotizzando un capitale dato, cioè degli impianti dati.
Se invece il capitale impiegato aumenta, questo comporterà un aumento del prodotto ed allora, probabilmente, anche gli ulteriori lavoratori contribuiranno alla produzione in misura maggiore; a parità dei salari vi sarà maggiore domanda di lavoratori da parte dell’impresa e, qualora si fosse già in una situazione di piena occupazione, il salario tenderà a salire. Quindi se aumenta l’offerta di lavoro il salario si abbassa, mentre se aumenta il capitale impiegato il salario tende ad innalzarsi.
Attenzione: non si è ancora confutato l’altro modo di ragionare cui avevamo accennato, in base al quale se i salari scendono i lavoratori comprano meno beni, quindi le imprese venderanno meno e saranno costrette a licenziare (per cui scendendo i salari l’occupazione diminuisce!).
Questo modo di ragionare è confutato, dai marginalisti nel modo seguente.
Il ragionamento che io ho fatto per il lavoro si può fare in modo esattamente simmetrico per il capitale. Un impresa, in un dato momento, avrà sia una certa quantità di capiate impiegato, che una certa quantità di lavoro impiegato. Dunque l’impresa si può porre lo stesso problema che abbiamo posto per i lavoratori anche per la quantità di capitale da domandare: conviene impiegare più capitale? L’impresa farà esattamente lo stesso tipo di ragionamento: se impiegasse un’unità in più di capitale – diciamo un milione in più – per impiegare ulteriori macchinari ecc., di quanto aumenterebbe il prodotto e quindi il ricavo? Per calcolare in modo corretto bisogna tener conto, però, anche del fatto che l’impresa dovrebbe indebitarsi per poter investire, quindi dovrebbe pagare un interesse. Si dovrà dunque confrontare il ricavo in più con il costo lordo del capitale (perché l’impresa dovrà restituire sia il milione di capitale ottenuto a prestito che l’interesse). Ma pur con questa piccola complicazione il ragionamento sarà esattamente lo stesso che nel caso dei lavoratori.
Si metterà a confronto il costo in più di ogni unità aggiuntiva di capitale con il ricavo in più, e se quest’ultimo è superiore al costo in più, allora conviene prendere a prestito quell’unità in più di capitale. Ed anche qui l’idea è: dato l’impiego di lavoro, quanto più capitale impiego tanto più aumenta il prodotto, ma via via di meno. Quindi ci sarà un momento in cui il costo in più e il ricavo in più si pareggiano e lì l’impresa si ferma. Ma se è così, non può mai esserci problema a vendere tutto ciò che si produce: infatti una parte di ciò che si produce verrà domandato dai consumatori ed una parte dalle imprese, che la acquisteranno come investimento. Ma quando le imprese fanno investimenti in realtà stanno ampliando il loro capitale, e allora ciò vuol dire che stanno decidendo di impiegare più capitale. Come abbiamo visto le imprese decidono di impiegare più capitale quando il saggio di interesse – che è il prezzo che devono pagare per il capitale – si abbassa. In altre parole il saggio di interesse è il prezzo che regola domanda e offerta di capitale: basta che il saggio d’interesse sia determinato dalla concorrenza, per far sì che le sue variazioni portino a far coincidere l’offerta di beni capitali delle imprese con la domanda.
Risulterà quindi che il salario, sulla base della concorrenza, riesce a portare alla piena occupazione il mercato del lavoro, ed il saggio di interesse, sulla stessa base, riesce a garantire che tutti i beni non comprati dai consumatori vengano comprati dalle imprese. Per questo, se nel breve periodo può verificarsi che all’abbassarsi dei salari i lavoratori comprino meno e quindi le imprese vendano meno, semplicemente saranno le imprese a comprare di più sulla base della diminuzione del saggio d’interesse. In ogni caso, essendosi abbassato il salario, le imprese impiegano ulteriori lavoratori, aumentano la produzione, e l’aumento della produzione in parte verrà comprato dai lavoratori di nuova assunzione, mentre la differenza di nuovo dalle imprese, purché si abbassi a sufficienza il saggio di interesse. Insomma se i mercati concorrenziali vengono lasciati funzionare bene, non c’è mai problema a vendere tutto quanto prodotto. E questa è la teoria dominante nel mondo accademico.
Le implicazioni importanti di questa teoria sono due: la prima è che se lasciamo funzionare beni i mercati, questi porteranno alla piena occupazione – per cui la disoccupazione che si osserva nella realtà è fondamentalmente causata dai lavoratori ed in particolare dai sindacati, che bloccano il meccanismo di mercato non lasciando abbassare il salario. Per questo le imprese domandano solo il numero di lavoratori che rende il costo del lavoro uguale a quel prodotto in più che gli economisti chiamano prodotto marginale del lavoro. E poiché il potere dei sindacati deriva da un riconoscimento del loro ruolo da parte dei lavoratori, sono questi ultimi, in sintesi, i responsabili della disoccupazione. La seconda conseguenza importante di questa visione riguarda la remunerazione che va al lavoro come salario e la remunerazione che va al capitale come interessi: esse corrispondono in realtà, in un senso molto profondo, ad un ideale di giustizia.
Infatti pensiamo ad un qualsiasi lavoratore: poiché come abbiamo visto, le imprese domandano lavoro fino al punto in cui il ricavo in più è uguale al costo in più, ciò vuol dire che il salario di questo qualsiasi lavoratore è proprio uguale al prodotto in più che l’impresa perderebbe se lo licenziasse. Quando l’impresa decide di impiegare quel lavoratore, confronta il ricavo in più col costo in più. Allora se l’impresa licenziasse il lavoratore essa perderebbe un ricavo in più proprio pari al salario. Quindi ciò vuol dire che il valore del salario è uguale al valore dei beni in più prodotti da quel lavoratore. Quando reputiamo equo ciò che noi paghiamo a qualcuno? Quando in qualche modo quello che noi paghiamo a qualcuno corrisponde a ciò che questo qualcuno ha contribuito a darci. Mettiamoci dal punto di vista della società: come facciamo a misurare il contributo alla società di ciascun singolo lavoratore? Il contributo che ciascun lavoratore dà alla società è esattamente ciò che la società perderebbe se questo lavoratore decidesse di non lavorare più, e cioè proprio quel prodotto in più attribuibile all’ultimo lavoratore. E quanto riceve il lavoratore come salario? Il valore di quel prodotto in più. Tanto dà e tanto riceve. C’è una corrispondenza perfetta tra contributo alla società e paga al lavoro.
Ora, si può dimostrare – e ci arrivate già intuitivamente sulla base del ragionamento fatto prima – che lo stesso deve valere anche per il capitale. Abbiamo detto che le imprese decidono anche quanto capitale impiegare con lo stesso ragionamento; e impiegano capitale fino al punto in cui il ricavo in più dell’ultima unità di capitale è pari al costo in più. Ma ciò significa che anche il saggio d’interesse riflette proprio il contributo di ciascuna unità di capitale, cioè anche l’interesse risponde a giustizia. Voi potreste dire: “un attimo, il lavoratore fatica, soffre per lavorare, mentre chi dà il capitale che sofferenza subisce?” E invece c’è la risposta anche qui: la sofferenza è la rinuncia al consumo. Da dove deriva il capitale? Esso viene dal risparmio, e quando qualcuno risparmia, rinuncia a consumare, è una sofferenza anche quella. Allora c’è un sacrificio dietro il capitale, il sacrificio corrisponde al risparmio, cioè alla rinuncia al piacere di consumare quei soldi. Questo sacrificio permette di risparmiare e il risparmio crea capitale. Quindi c’è un sacrificio dietro ogni unità di capitale. Ed il contributo alla società di questo sacrificio è il contributo corrispondente all’aumento di produzione reso possibile da quell’ulteriore unità di capitale. Se qualcuno decidesse di non risparmiare, la società perderebbe qualcosa. Perderebbe proprio quella produzione in più resa possibile da quell’unità in più di capitale, resa possibile da quel risparmio.
In conclusione, quindi, dietro il salario c’è un sacrificio e quel sacrificio viene remunerato in base al contributo che esso fornisce alla società. Allo stesso modo, dietro l’interesse c’è un sacrificio, e anche quel sacrificio viene remunerato in base al contributo che esso fornisce alla società.
Diciamo la verità: è bello, c’è un’armonia, c’è un’eleganza, una simmetria affascinante in questa teoria. Si può capire perché essa abbia avuto un notevole successo in ambito accademico, ed essa, tra l’altro, sembra basarsi su cose che paiono corrispondere alla realtà. Sembra corrispondere alla realtà il fatto che se in un’impresa con un dato capitale impieghiamo sempre più lavoratori, ad un certo punto i lavoratori in più faranno sì aumentare il prodotto, ma via via di meno, perché diventano via via meno utili. Ad un certo punto addirittura saranno superflui, non si saprà più che farne del millesimo lavoratore in una piccola falegnameria.

2. Le differenze: due diverse visioni della società

Chiarito dunque questo fatto, chiarita quindi la profonda simmetria che in questa visione c’è tra redditi da lavoro e redditi da capitale, chiarita la giustizia che il mercato realizza nel determinare le retribuzioni del lavoro e del capitale, e chiarita l’efficienza di tutto ciò – perché, ricordate, si va alla piena occupazione, purché si lasci funzionare la concorrenza – vediamo allora, brevemente, di sottolineare le differenze rispetto all’altra impostazione, quella classica.
L’impostazione classica vede le cose – soprattutto per via del posteriore contributo di Keynes – proprio nel modo che vi dicevo: se si abbassano i salari, l’effetto sarà che i lavoratori acquisteranno di meno, cioè le imprese venderanno meno e quindi ci saranno licenziamenti.
La giustizia della retribuzione
Ma vediamo innanzitutto l’aspetto della giustizia della retribuzione. Se si vedono le cose alla maniera dei classici – ricordatevi quella analogia che vi ho fatto con il feudalesimo – parlare di profitti delle imprese – che è il linguaggio usato poi da Marx – oppure parlare di interessi sul capitale, fondamentalmente è la stessa cosa: sono redditi che derivano dalla proprietà del capitale. Spesso l’imprenditore è egli stesso il proprietario del capitale, quindi i profitti li percepisce senza nemmeno ripagarli con interessi, ma in realtà se avesse prestato a qualcun altro il capitale avrebbe preteso un interesse, quindi quello che guadagna come profitti anche in quel caso va suddiviso tra compenso per il rischio e interessi. Quindi parlare di interessi o profitti è equivalente.
Nella visione classica, la misura di ciò che va agli interessi o ai profitti, deriva dal semplice fatto che i capitalisti hanno il coltello dalla parte del manico. Essi dicono ai lavoratori: un salario talmente alto che vi consenta di appropriarvi di tutto il prodotto, senza che nulla resti a noi come interesse e profitti, semplicemente non lo permetteremo mai; per farvi lavorare con il nostro capitale – e ce l’abbiamo noi il capitale – vogliamo profitti o interessi. E quindi la situazione è analoga a quella dei signori feudali con i servi della gleba; ma se – come credo tutti – accettereste che il reddito dei signori feudali sia in realtà analogo al pizzo della mafia (che va dal commerciante e dice: io ho le pistole, o mi dai queste 400mila lire al mese o ti spariamo), allora è estremamente legittimo dire che il reddito del signore feudale sia un’estorsione, uno sfruttamento. E poiché la situazione per i profitti è del tutto analoga, i profitti sono sfruttamento. Adam Smith non usa questa parola – che userà Marx – ma in realtà abbiamo visto, dai passi di cui vi ho detto, che il concetto è lo stesso anche per Smith: tutto è necessario per poter fare sfruttamento.
La disoccupazione
Altra differenza interessante: un marginalista direbbe che se c’è disoccupazione la colpa è dei lavoratori che non lasciano abbassare i salari. Un classico che cosa direbbe? Direbbe: “è semplicemente umano e normale che i lavoratori resistano agli abbassamenti salariali”, perché nella impostazione classica – ed è qui in realtà la differenza di fondo – questa idea che quando il prezzo del lavoro si abbassa, le imprese ne domandano di più, o che se il prezzo del capitale si abbassa le imprese ne domandano in più, quindi l’idea che noi ci potremmo costruire una curva decrescente di domanda per i fattori produttivi, in cui tanto più basso è il prezzo del fattore produttivo, tanto maggiore sarà la domanda, questa idea nei classici non c’è proprio. Se i salari si abbassano, il risultato immediato, per i classici, è semplicemente che si alzano i profitti: va di meno ai lavoratori e va di più ai capitalisti. Gli effetti sull’occupazione il più delle volte sono negativi; possono essere positivi solo se i capitalisti decidono di investire di più. Ma come dirà l’analisi economica successiva, a partire da questo importante economista, Keynes, in realtà le imprese non investono solo perché stanno facendo profitti. Le imprese investono quando pensano di usare bene i loro profitti nel costruire ulteriori impianti, quando cioè si aspettano di riuscire a vendere di più. Perché le imprese investano di più è necessario cioè che la domanda di beni stia già crescendo, per cui le imprese si aspettano di riuscire a vendere ancora di più. Quindi il risultato più probabile è l’altro, proprio quello che l’abbassamento del salario faccia abbassare la produzione, faciliti le crisi economiche.
Allora, dicevo, in una situazione di questo tipo, in cui non c’è nessun meccanismo di domanda e offerta che possa spontaneamente determinare un salario, in cui se il salario si abbassa o si innalza semplicemente è questione continua di lotta di classe, è del tutto naturale che i lavoratori si rifiutino di abbassare il salario.
Del resto provate a metterla così: se un abbassamento di salario non fa aumentare l’occupazione, quale sarà l’esperienza storica dei lavoratori? Anche quelle rare volte che i disoccupati, per disperazione o altro, dicono: purtroppo sto morendo di fame, vado alla fabbrica e mi offro alla metà del salario dei già impiegati, che cosa succederà? Succederà che i già occupati, per evitare il licenziamento, accetteranno essi stessi di farsi pagare solo la metà. Nella visione marginalista il risultato di questo abbassamento dei salari sarà l’aumento della domanda di lavoro. Avranno lavoro sia quelli che già erano occupati che i disoccupati. Nella visione classica invece gli occupati restano occupati ad un salario inferiore – se non vengono addirittura licenziati per l’abbassamento della domanda di beni, dovuto alla diminuzione di reddito dei lavoratori – e i disoccupati restano disoccupati. L’unica cosa che è successa è che ci hanno perso tutti. Ci hanno perso anche i disoccupati, che sono in genere mantenuti, almeno in parte, dai redditi dei loro parenti occupati.
Questa esperienza storica insegna molto rapidamente ai lavoratori che farsi concorrenza in questo modo – in cui i disoccupati si offrono ad un salario più basso – è un disastro. L’unico risultato è che tutti i salari si abbassano e l’occupazione non aumenta. E quindi è del tutto ovvio che si formi quello che la storia insegna – cioè che si formino dei sentimenti di assoluta proibizione morale per la concorrenza salariale. E in effetti questa cosa è talmente forte, che praticamente non ci si pensa nemmeno. A chi di voi viene in mente, se non ha trovato lavoro, di andare ad offrirsi ad un salario inferiore a quello normale? Quando vi chiedono: avete bisogno di lavoro? Ovviamente vi offrite al salario normale, al salario abituale. Perché non ci si offre a meno? Io sostengo che non lo si fa perché l’esperienza storica ha insegnato che ciò non serve. Ed a questo punto è diventata parte integrante della cultura operaia l’idea che sia qualcosa che, semplicemente, non si fa.
E questo è confermato dal fatto che in quei casi in cui è legittimo pensare che abbassare i salari serva a difendere l’occupazione, allora i lavoratori lo accettano. Infatti, quando per esempio c’è una fabbrica in pericolo di chiusura, e si riesce a mostrare ai lavoratori che l’unico modo per salvarla è abbassare i salari, allora i lavoratori lo accettano (spesso accettano di formare una cooperativa, e rilevare loro la fabbrica, benché sappiano che siccome la fabbrica non stava andando bene, questo significherà che per mesi, o forse per anni, dovranno accettare un salario più basso di quello di mercato).
La crescita economica
Altra differenza estremamente importante: la crescita economica, da che cosa dipende? Secondo l’impostazione marginalista, abbiamo visto, si riesce sempre a vendere tutto ciò che si produce – ovviamente sto mettendola in termini un po’ rigidi, per qualche anno ci sarà magari qualche difficoltà, i processi di aggiustamento del mercato non sono istantanei, ma in media se si lascia funzionare bene il mercato, si riuscirà a vendere tutto – e allora ciò che non viene venduto per consumi verrà venduto alle imprese. Ciò significherà investimenti. Ma ciò che non viene venduto per consumi che cos’è? Pensiamolo dal punto di vista dei redditi. Ciò che viene prodotto dalle imprese ha un valore e costituisce reddito. Allora, evidentemente, solo una parte di questo reddito viene impiegato e speso a comprare beni di consumo. Tutto il resto viene risparmiato. Quindi quella parte del valore della produzione che non corrisponde ai consumi, corrisponde al risparmio. Abbiamo detto che il risparmio è quella cosa che crea capitale. Infatti che voi lo vediate come soldi non spesi, o come beni prodotti e non consumati, ma che vanno alle imprese, che cosa vedete? Vedete questo risparmio monetario, che va ad incrementare il valore monetario del capitale – e a questo corrispondono proprio beni prodotti e non consumati, che però vanno alle imprese che aumentano il valore dei beni fisici utilizzati come capitale. Quindi il risparmio crea capitale e quanto più si risparmia, tanto più capitale si crea. E’ il capitale in più che determina la crescita economica. Conclusione: la crescita è determinata dai risparmi. Se vogliamo crescere di più bisogna risparmiare di più.
Nell’altra visione, quella classica, invece, la crescita è determinata dalle decisioni delle imprese di investire, che dipendono da tutt’altre cose – per esempio dall’aspettativa che si possa vendere di più in futuro. E molto spesso queste decisioni di investire sono insufficienti a mantenere la piena occupazione del lavoro. E’ il caso di oggi in Italia: avrete letto che nell’ultimo hanno [1994, N.d.R.] sono stati 400 o 500mila i posti di lavoro persi. Mentre per i classici lo Stato deve intervenire attivamente per favorire la crescita economica e favorire l’occupazione, perché il mercato di per sé non garantisce affatto che si arrivi alla piena occupazione – questa curva di domanda decrescente di lavoro non c’è, come pure non c’è una curva di domanda decrescente del capitale – per i marginalisti, invece, il mercato mette tutto a posto da solo. E da ciò ovviamente derivano le posizioni di tipo liberale, liberista ecc. espresse da Berlusconi o da Bossi – per i quali non ci sono punti di disaccordo sostanziale nelle linee di politica economica.
La politica economica
Veniamo alle differenze tra le due impostazioni riguardo alla politica economica.
Per risolvere il problema della disoccupazione, secondo i marginalisti bisogna spezzare le reni ai sindacati – quello che esplicitamente disse di voler fare la Tatcher quando subentrò al governo in Inghilterra. Non per cattiveria, ma semplicemente in ossequio alle leggi del mercato. Se vogliamo aumentare l’occupazione bisogna che i salari scendano, facendo funzionare la concorrenza. Invece un classico, che abbia imparato la lezione di Keynes, direbbe che lo Stato deve intervenire attivamente stimolando la domanda. Se non si stimola la domanda le imprese non decideranno di produrre di più e quindi di assumere più lavoratori.
Sulla crescita economica, l’implicazione di politica economica della teoria marginalista è: per crescere di più bisogna risparmiare di più, cioè consumare di meno. Per questo è importante diminuire il deficit dello Stato, perché lo stato i soldi li usa per consumi. Noi non siamo abituati a vedere questa attività dello Stato come consumi, però lo sono. I soldi dello Stato vanno in sanità, stipendi dei dipendenti pubblici, pensioni: non sono investimenti. Questi soldi che lo Stato spende in deficit li ottiene da un prestito: si indebita. Ma i soldi che i titolari dei titoli di Stato prestano allo Stato, sono risparmi sottratti all’investimento presso le imprese, che permetterebbero l’acquisto di beni capitali. Lo Stato, dunque, col deficit aumenta i consumi e diminuisce i risparmi e quindi gli investimenti. Rallenta quindi la formazione di nuovo capitale, la crescita economica. Invece, nell’altra prospettiva, quella classica, se lo Stato spende fa bene, perché aumenta la domanda, inducendo le imprese a produrre di più. Le imprese che producono, se osservano che stanno producendo molto, decidono di ampliare l’impianto. Più lo Stato spende e più gli investimenti sono stimolati. Le due visioni non potrebbero essere più diverse.

3. La solidità scientifica delle due teorie economiche

E allora visto tutto questo, voi capite l’importanza del decidere, sul piano scientifico, quale di queste due visioni sia più solida. Ora, ovviamente, ci vorrebbe un intero corso di laurea – e in molte facoltà neppure ci si arriva – per spiegare bene, fino in fondo, in tutti i dettagli, gli aspetti negativi e positivi di queste due visioni.
Tuttavia voglio almeno accennarvi al fatto che l’economista italiano di cui vi dicevo, Sraffa, ha mostrato sì che gli autori classici non avevano risolto alcuni problemi teorici – in particolare la famosa teoria del valore-lavoro di Marx non funzionava bene – ma che si trattava di problemi risolvibili all’interno della loro stessa teoria. Marx aveva incontrato un problema nello spiegare la determinazione dei prezzi relativi delle merci, e sosteneva che essi fossero determinati dal lavoro da esse incorporato e questo non è vero. Ma la sua idea di fondo era che ci debba essere un qualche modo per spiegare i prezzi relativi, una volta che noi prendiamo il salario come dato e determinato dalla lotta di classe. E’ quello che Sraffa dimostra: su questo Marx aveva perfettamente ragione. Si può costruire un sistema matematico che mostra – dato il salario determinato dalla lotta di classe – come sia la concorrenza tra i capitalisti (i quali tendono a far sì che il rendimento del capitale diventi uguale tendenzialmente in tutte le industrie) a determinare i prezzi delle merci. Quindi è vero che Marx, e prima di lui Ricardo ecc., non erano riusciti a risolvere bene questa questione, ma essa non mette in crisi la loro teoria. Essa resta logicamente forte.
La teoria marginalista, invece, incontra gravissimi problemi. Li possiamo qui solo accennare. Per spiegare che gli abbassamenti dei salari determinino un aumento della domanda di lavoro da parte delle imprese, si è dovuto ragionare ipotizzando che sia data la quantità dei fattori produttivi diversi dal lavoro, cioè capitale e terra (per dire che il contributo alla produzione di ogni lavoratore aggiuntivo era via via minore, infatti, si è fatto l’esempio di un dato impianto – una falegnameria in cui più aumentano i lavoratori e più aumenta il prodotto, ma solo finché non comincia a mancare fisicamente lo spazio ecc.). Data una certa quantità di questi altri fattori, capitale e terra, se impieghiamo via via più lavoratori, questi lavoratori faranno cose via via meno utili. La teoria marginalista, dunque, per essere forte, ha bisogno di argomentare che sia legittimo ipotizzare come data la quantità di capitale. Ma questo, si dimostrerà, non è legittimo.
Infatti è possibile considerare come data la quantità di capitale in due sensi:

1) si considera come data la quantità dei singoli beni capitali;
2) si considera come dato il valore complessivo di tutti i beni capitali;

Il primo modo di considerare come data la quantità di capitale, considerando come data la quantità dei singoli beni capitali (si prende come data la quantità di viti, trattori, vanghe, vernici, benzina, torni ecc.) esistenti nell’economia, non funziona. Infatti, non appena le imprese impiegano più lavoratori, un’enorme numero di queste quantità si modificherà. Se l’impresa vuole produrre di più ha bisogno di più pezzi intermedi per ottenere i prodotti finali. Quindi quei beni capitali che sono pezzi intermedi del processo produttivo dovranno essere acquistati anticipando soldi, cioè sarà necessario prendere a prestito capitale. Qui i beni intermedi cambiano.
Inoltre, quando il salario si abbassa, tutti i prezzi cambiano, perché i salari entrano nei costi di produzione in modo diverso a seconda delle merci. Per i prodotti chimici, ad esempio – dato che si tratta di prodotti con enormi macchinari e pochissimo lavoro – se il salario scende il costo di produzione quasi non cambia. Invece per prodotti ottenuti con molto lavoro manuale, come i jeans, quando il salario si abbassa il costo di produzione scenderà molto. Quindi cambieranno i prezzi dei beni e di conseguenza cambierà la domanda di questi beni. Cambiando la domanda di questi beni, cambieranno anche i beni capitali impiegati e necessari per produrli. Se i jeans si abbassano di prezzo la gente comprerà più jeans, le imprese acquisteranno più macchinari per fare più jeans. Quindi dieci giorni dopo che si è abbassato il salario sarà aumentata la domanda di jeans e le imprese ordineranno più macchinari per fare jeans, e le fabbriche che producono questi macchinari ne fabbricheranno di più.
Ovviamente se si comprano più jeans si comprerà meno qualcos’altro, ad esempio meno prodotti chimici che non sono diminuiti di prezzo. Allora le imprese chimiche domanderanno meno beni capitali del tipo necessario a produrre prodotti chimici. In ogni caso le quantità dei singoli beni capitali non resteranno invariate all’abbassarsi del salario, e di conseguenza non è possibile considerare il capitale come dato in questo senso.
Allora forse si deve considerare la quantità di capitale come data nel secondo modo, cioè come valore complessivo di tutti i beni capitali. Questo lascerebbe effettivamente il capitale libero di cambiare di composizione – più macchine per fare jeans e meno macchine per fare prodotti chimici – senza che cambi il valore complessivo. Ed in effetti è questo il modo in cui, tradizionalmente, gli economisti di scuola marginalista parlano di una “data quantità di capitale” nella determinazione della domanda di lavoro. Ma, sfortunatamente per i marginalisti, la misura del capitale come valore di un complesso di beni – che sta anche cambiando – si modifica al modificarsi dei prezzi dei beni stessi. Abbiamo appena detto che quando i salari cambiano, anche i prezzi cambiano. Il risultato sarebbe dunque che il valore del capitale dipende dai salari, e cambia quando cambiano i salari.
Dunque non è possibile considerare come data la quantità di capitale, il che permetteva di costruire quella curva della domanda di lavoro che assieme all’offerta doveva determinare il salario. In questa teoria, infatti, finché non è determinato il salario non sappiamo il valore del capitale, finché non sappiamo il valore del capitale non conosciamo la domanda di lavoro, e quindi non sappiamo quale possa essere il salario di equilibrio: la teoria crolla.
In effetti, per motivi connessi a questi problemi teorici, la teoria marginalista negli ultimi anni è andata sviluppandosi in direzioni molto particolari, nel tentativo di fare a meno di questa nozione di capitale misurato come quantità di valore, della quale – come abbiamo visto – si riesce a dimostrare in due minuti l’insostenibilità. Dunque i marginalisti hanno tentato altre strade, che per brevità non vi posso illustrare. Si tratta delle cosiddette “Teorie moderne dell’equilibrio economico generale”. Ciò che vi posso dire è che un numero crescente di teorici dell’equilibrio economico generale ammettono che si stanno cacciando in un vicolo cieco, diventano sempre più scettici sulla loro stessa teoria. In effetti ho la netta impressione che ormai la teoria marginalista, che è ancora quella dominante a livello accademico, a livello dei consulenti di governo ecc., sia un gigante dai piedi d’argilla. Questa teoria resta ancora accettata soprattutto dagli economisti applicati, i quali per via della necessaria divisione del lavoro in ambito scientifico, hanno imparato questa teoria qualche decennio fa per poi mettersi ad applicarla, per fare studi applicati, senza più tenersi al corrente dei successivi dibattiti sulla solidità delle fondamenta di questa impostazione. Ed i successivi dibattiti, invece, stanno minando alla base questa teoria, in modo secondo me ormai totale.
In conclusione la teoria logicamente e scientificamente più solida è quella classica.

4. Le risposte ai problemi del debito pubblico e della disoccupazione

E su questa base veniamo a quei due problemi cui si accennava all’inizio, cioè la disoccupazione ed il debito pubblico ed al modo in cui affrontarli. Sul debito pubblico in realtà ve l’ho già anticipato. Per i marginalisti il debito pubblico crea dei problemi di instabilità finanziaria – perché ci sono tutti questi titoli che possono essere venduti e non rinnovati ed i risparmi portati all’estero – ma il problema veramente grave non è questo. Infatti si sa che l’instabilità finanziaria, se c’è un governo che vuole davvero intervenire in modo duro, è fermabile (certamente, comunque, il governo deve sormontare la resistenza della comunità finanziaria, che ha forti interessi nel poter avere perfetta libertà di movimento dei capitali perché in questo modo fa più soldi; ma un governo deciso a fermare l’instabilità finanziaria, di fatto ci riesce). Il vero problema che i marginalisti pongono, per sostenere che il debito pubblico va eliminato, è quello che vi dicevo prima: il debito pubblico fa sì che lo Stato si faccia prestare e usi per fini non di investimento, risparmi che altrimenti andrebbero ad aumentare gli investimenti. E così facendo diminuisce la crescita, col risultato che quando saremo anziani, e con noi i nostri figli, ci troveremo con molto meno capitale di quello che altrimenti ci sarebbe. E quindi c’è, in questo senso, un onere del debito pubblico sulle generazioni future.
Quest’onere non è dovuto alla semplice esistenza del debito pubblico – si tratta infatti di un debito degli italiani verso se stessi. Non si tratta di un vero debito perché non si tratta di un debito della nazione verso altri, bensì di un debito della nazione verso se stessa. Esso certo crea problemi redistributivi perché è molto difficile politicamente tassare solo quei cittadini che hanno prestato denaro allo Stato. Ma per la nazione nel suo complesso il debito pubblico non esiste. La nazione non è indebitata. Chi usa l’argomento della semplice esistenza del debito pubblico come fonte di problemi è ignorante o in malafede. Ed infatti il vero problema, che è poi quello che pongono gli economisti marginalisti seri, è che con il debito pubblico stiamo diminuendo l’accumulazione del capitale.
Invece nell’impostazione classica, proprio perché il debito pubblico non è un debito verso altri, esso non è un vero debito. E’ vero che esso crea problemi di instabilità finanziaria, ma questi problemi, con sufficiente volontà possono essere risolti. Il tentativo di diminuire il debito pubblico, una volta che c’è, crea disastri. Infatti per diminuire il debito pubblico bisogna aumentare le imposte o diminuire la spese. Se lo Stato diminuisce le spese esso induce una contrazione della domanda. Se invece lo Stato aumenta le imposte diminuisce il reddito delle persone e quindi, di nuovo, diminuisce la domanda. Il risultato sarà che lo Stato non riuscirà nemmeno a ridurre il debito pubblico, perché se diminuisce le spese diminuiscono anche le entrate (perché le imprese produrranno meno, guadagneranno meno e pagheranno meno come tasse). Lo Stato, quindi, nel cercare di aumentare le entrate le fa in realtà diminuire e fa aumentare soltanto la disoccupazione.
Abbiamo detto che per lo Stato l’instabilità finanziaria esiste solo finché esso non voglia schierarsi contro gli interessi della comunità finanziaria. Inoltre basta ricordare che in Inghilterra il debito pubblico è stato il doppio del prodotto nazionale per decenni, nell’ottocento. Allo Stato, invece, conviene, almeno temporaneamente, aumentare il debito pubblico, aumentando le spese. Questo farà aumentare i consumi, stimolerà le imprese a produrre di più ed ad investire . E allora forse si riuscirà perfino a ridurre il debito grazie all’aumento delle entrate. Certo, resta vero che se lo Stato finanzia le sue spese in deficit, ci saranno meno risparmi che si convogliano verso le imprese. Ma il punto da capire è questo: lo Stato, in questo modo, prende risparmi da un reddito più grande, perché è un reddito che è lo Stato stesso a stimolare, quindi lo Stato raccoglie dei risparmi che senza le sue spese, senza il suo stimolo sulla domanda, non sarebbero nemmeno esistiti. Quindi se lo Stato segue queste linee, raccoglie sì dei risparmi, ma ne restano ugualmente per l’industria ed in misura superiore che se lo Stato non si fosse indebitato.
Per quanto riguarda, invece, l’occupazione, lo Stato deve in un modo o nell’altro stimolare la domanda, addirittura aumentando i consumi (attraverso eventualmente aumenti dei salari). Questo certo crea problemi, perché aumentando i salari si ridurranno i profitti e la concorrenza internazionale può portare alla fuoriuscita di capitali. Non si possono dunque aumentare molto i salari, ma qualcosa si può fare. Quella stessa cosa che diminuisce l’instabilità finanziaria connessa ai titoli del debito pubblico – cioè controlli sull’apparato finanziario ed in particolare sui movimenti di capitale – può, se non impedire, almeno rendere un po’ più costoso esportare capitali all’estero. Questo diminuirebbe l’instabilità finanziaria, farebbe ridurre il tasso d’interesse interno che è necessario pagare ai capitalisti e quindi permettere di aumentare i salari, diminuendo nel contempo le spese dello Stato per gli interessi sul debito pubblico.
Ovviamente le cose non sono mai così facili. C’è – e questo lo ammette anche l’economista classico – un problema grave, che riguarda il vincolo esterno. Se il governo fosse un governo di sinistra, con economisti classici a fare da consulenti, le politiche di espansione della domanda potrebbero far crescere in modo più forte le importazioni delle esportazioni, i possessori di capitali si spaventerebbero temendo una svalutazione, esporterebbero capitali, ci sarebbe la svalutazione, essa porterebbe nel tempo ad inflazione ecc.
Questo problema del vincolo estero è sormontabile? Innanzitutto bisogna dire che se tutti i governi seguissero queste linee di espansione della domanda per favorire l’occupazione, il problema non esisterebbe. Tutti i paesi aumenterebbero le loro importazioni e cioè tutti aumenterebbero le esportazioni. Se tutte le nazioni decidessero di occuparsi del problema della disoccupazione, non ci sarebbe vincolo estero.
Questo ovviamente non succede, sia perché domina la teoria e la visione marginalista, sia per il cinismo del capitalista “marxista”, il quale pur privo di fiducia nelle teorie della scuola marginalista, trova conveniente che le sue proposte siano attuate: non credo che Agnelli abbia bisogno di cedere nelle tesi marginaliste per capire che se si abbassano i salari per lui c’è una convenienza. In ogni caso sono ragioni politiche ad impedire l’attuazione di queste politiche espansive. In altre parole non si tratta di ragioni connesse al naturale funzionamento dei meccanismi di una economia di mercato. E per ragioni politiche si deve intendere che c’è un gruppo, molto forte e compatto, soprattutto negli ambienti finanziari, che sostanzialmente dice “A noi queste politiche non convengono”.
Tuttavia, supposto che le altre nazioni non siano favorevoli a queste politiche per l’occupazione, il governo di una singola nazione potrebbe riuscire a portarle avanti con successo? In effetti, a mio avviso, delle vie le si potrebbe trovare. Innanzitutto un singolo Stato potrebbe accettare, per un certo periodo, di indebitarsi, concentrando la sua espansione soprattutto sugli investimenti, i quali potrebbero portare un tale ammodernamento da rendere questo Stato molto competitivo – il che permetterebbe poi di esportare molto (è ciò che in qualche misura hanno fatto le tigri asiatiche, la Corea, Hong Kong, Singapore ecc.).
Ma supponiamo che sia necessario aumentare le esportazioni più rapidamente di quanto non avverrebbe grazie agli investimenti (che hanno bisogno di tempo per fruttare) e che per farlo si debbano ridurre i costi delle imprese. Ma i costi delle imprese non sono costituiti solo dai salari! C’è anche il costo del denaro! Si potrebbe dunque ridurre il tasso d’interesse. Certo, sappiamo che c’è gente che si oppone a queste riduzioni, e non si tratta certo dei piccoli risparmiatori. Ai piccoli risparmiatori sarebbe facile spiegare che quel che perdono da una parte in termini di interessi sui titoli di Stato, lo guadagnano dall’altra in termini di minori spese sanitarie, maggiore occupazione per i propri figli ecc. A queste condizioni i piccoli risparmiatori non sarebbero contrari all’abbassamento dei tassi d’interesse. Chi è veramente contrario a queste riduzioni è chi possiede miliardi in titoli di Stato, e cioè non soltanto i vari Agnelli ecc., ma proprio le banche. Quelle banche che prima erano tutte pubbliche e che ora lo Stato sta privatizzando, diventando dunque qualcosa che lo Stato non può più controllare. Non ci sono affatto solide ragioni per sostenere le privatizzazioni, ed infatti all’estero, spesso, le imprese nazionalizzate funzionano benissimo. La Renault è nazionalizzata, la Wolkswagen lo era fino a poco tempo fa. Con una semplice particolarità: semplicemente i manager lavoravano.
Anche in Italia, del resto, molte imprese pubbliche erano in perdita perché dovevano fare prezzi bassi alle imprese private a cui vendevano beni capitali. Altre sono in perdita perché erano già in perdita quando lo Stato le ha comprate dai privati. E moltissime imprese private, invece, hanno fatto la fine che hanno fatto.
In conclusione pongo un’ultima questione. La promessa di Berlusconi di un milione di posti di lavoro non è insensata a priori. Sarebbe in qualche modo possibile, in un tempo relativamente breve, una creazione di lavoro così forte, ma ci vorrebbe la forza e la volontà di intaccare una serie di interessi economici e di privilegi, soprattutto legati agli ambienti finanziari – che sono quelli che obbligano l’Italia ad avere perfetta libertà di movimento dei capitali, il che rende estremamente difficile qualunque politica espansiva (infatti non appena l’Italia volesse espandere la produzione, avrebbe più importazioni che esportazioni e si verificherebbe il caso cui si accennava sopra: i possessori si spaventerebbero, comincerebbero a esportare capitali per timore di una svalutazione, questo porterebbe effettivamente alla svalutazione, essa protraendosi porterebbe inflazione ecc.).
Ma un governo che fosse deciso e che capisse che il mondo non funziona come dicono i marginalisti, ma piuttosto come dicono i classico-keynesiani, potrebbe effettivamente creare, in tempi ragionevolmente brevi, il famoso milione di posti di lavoro.

Le formule magiche degli economisti

La crisi economica ha riaperto la questione del rapporto tra matematica ed economia. La teoria mainstream ha fondato l’“equilibrio del sistema” su complesse costruzioni matematiche. Ma è incappata in clamorosi scivoloni: l’economia, infatti, non è una scienza esatta, ma una scienza storico-sociale.


di Roberto Petrini da keynesblog

 

Nel giugno del 2000 un gruppo di studenti di economia pubblicò sul web una petizione. I capi d’accusa che il documento formulava contro il modello di insegnamento dell’economia erano due: a) l’assenza di realismo; b) l’uso incontrollato e fine a se stesso della matematica. Il risultato – scrivevano gli studenti – era che l’economia stava correndo il rischio di diventare una scienza «autistica»: di qui l’esigenza impellente di bloccare questa nefasta tendenza. Da quell’appello nacque un vero e proprio movimento dal nome suggestivo ed evocativo: «Autisme-Economie».
Ma non sono solo gli studenti a denunciare il disagio dell’eccesso di matematizzazione dell’economia: già nel settembre del 1988, in una lettera a “Repubblica”, i maggiori economisti italiani lanciarono un severo ammonimento: “Economisti di varia tendenza e provenienza”, scrissero Paolo Sylos Labini, Giorgio Fuà, Giacomo Becattini, Onorato Castellino, Sergio Ricossa, Siro Lombardini e Orlando D’Alauro, “sentono il dovere di prendere pubblicamente posizione contro un pericolo che insidia gli studi di economia politica” ossia “che l’uso di strumenti raffinati di analisi venga scambiato, a prescindere dai contenuti, per una prova di maturità e competenza professionale o, peggio ancora, per il segno di riconoscimento del moderno studioso di economia politica”.[1]
Anni fa Paolo Sylos Labini puntò l’indice contro le «formalizzazioni astratte, eleganti ma inadatte ad interpretare la realtà».[2] Giorgio Fuà non si stancava mai di parlare delle «insidie dei numeri». «Grandi maestri del gioco del bridge, grandi maestri del gioco degli scacchi, hanno dimostrato capacità e destrezze straordinarie», diceva Fuà, riecheggiando più o meno le stesse opinioni di Sylos. «Ma un grande scacchista, mi chiedo, migliora il mondo? No, fa semplicemente vedere quanto è intelligente. La maggior parte degli economisti non si occupa di problemi gravi per l’umanità e per la società, ma di cose che danno loro il modo di dimostrare la propria destrezza».[3]
Nonostante questi moniti, gli economisti hanno continuato ad usare dosi massicce di matematica. Secondo un calcolo svolto qualche tempo fa, l’incidenza dell’algebra negli articoli delle principali riviste, che negli Anni Trenta era del 10 per cento, nel 1980 era salita all’80 per cento. Oggi siamo senz’altro a livelli superiori.[4]
Perché una minoranza assai qualificata di economisti non si stanca di mettere in guardia la disciplina da un uso eccessivo della matematica? In realtà è evidente come lo scetticismo di molti economisti nei confronti della “overdose dei numeri” non si basi su una scarsa considerazione della matematica in quanto scienza, dei suoi risultati, o addirittura su una antipatia nei confronti dei matematici. Il problema fondamentale è un altro e sta nell’uso che la scienza economica, a partire dalla fine dell’Ottocento, ha fatto della matematica. Nello specifico – e non a torto – nel mirino c’è il pensiero economico mainstream fautore del libero mercato e particolarmente sedotto dalla matematica.
Come riscostruiscono assai bene ne “La mano invisibile”, Bruna Ingrao e Giorgio Israel[5], la matematica – non la semplice algebra ma quella un po’ più complessa del calcolo infinitesimale, cioè degli assi cartesiani e delle derivate – entra alla grande nell’economia verso la metà dell’Ottocento. Sono i marginalisti – a partire da Léon Walras (1834-1910) – che di fronte ai tumulti sociali e alle teorie dei Marx e dei Proudhon, cercano di offrire una alternativa “scientificamente” fondata dell’economia.
Quale strumento appare più “scientifico” della matematica?  L’idea di base dei marginalisti è che il mondo economico sia regolato dalle leggi di natura e che allo “scienziato”, cioè all’economista, spetti il compito di scoprirle. Al centro del sistema c’è il consumatore, le sue preferenze e il mercato come meccanismo equilibratore tra domanda e offerta. Secondo i marginalisti il prezzo e il valore di un bene non scaturiscono da elementi «oggettivi» come la quantità di lavoro o i costi (come avveniva nell’economia classica), ma si fondano sull’aspetto «soggettivo» del valore d’uso. Il criterio che consente di misurare la «temperatura» delle preferenze del consumatore e del valore d’uso che egli attribuisce ad un bene, è l’utilità marginale che si calcola attraverso una funzione matematica. [6]
Del resto vale la pena notare che il concetto stesso di utilità marginale è stato tenuto a battesimo da un autorevole matematico, Daniel Bernoulli (1700-1782)[7]. Egli assume che la crescita della ricchezza individuale sia accompagnata da una crescita dell’utilità inversamente proporzionale alla ricchezza già posseduta, cioè fa ricorso ad un caso specifico dell’utilità marginale decrescente.[8]
Così descrive il metodo della scuola marginalista Federico Caffè: secondo l’indirizzo dell’equilibrio economico generale «date certe quantità iniziali di risorse produttive, data una certa tecnica di produzione, dato il sistema di preferenze dei soggetti economici, si mira a determinare la quantità di beni prodotti e scambiati, nonché i prezzi ai quali avvengono gli scambi, in una configurazione di equilibrio generale, nella quale sono realizzate simultaneamente le posizioni di equilibrio verso le quali tendono i vari soggetti economici». Caffè continua spiegando che i seguaci di questo indirizzo «nell’intento di rappresentare in modo simultaneo tutte le interdipendenze tra i fenomeni economici studiati, debbono necessariamente avvalersi del simbolismo matematico, che contraddistingue in modo specifico l’indirizzo stesso».[9]
Naturalmente l’impostazione marginalista-neoclassica, come è stato più volte osservato e sottolineato, ritiene che i lavoratori siano disposti ad accettare qualsiasi salario pur di ottenere un impiego e nega il conflitto distributivo – grande intuizione dell’economia classica – data l’esistenza di equilibri ottimali verso i quali il mercato indirizza automaticamente l’economia.
Tuttavia se si cerca di andare più a fondo nell’analisi del rapporto dell’economia con la matematica si scopre che il tema cruciale è di carattere epistemologico o, se vogliamo, di filosofia della scienza. L’economia, diversamente da altre scienze esatte, deve inevitabilmente interrogarsi sul tipo di razionalità che muove il consumatore, l’imprenditore o il risparmiatore (mentre, ad esempio, la fisica può ignorare la “psicologia” di un elettrone). Il processo dell’economia è una macchina in perenne movimento e gli operatori economici fanno scelte in continuazione: di conseguenza è fondamentale conoscere che percezione abbiano del futuro e come la elaborano. Sapere a quali dinamiche rispondano condizioni come quella della completa ignoranza, dell’incertezza o del semplice rischio.
L’incrocio più profondo dell’economia con la matematica, che con il calcolo delle probabilità ha tentato di dare indicazioni sugli eventi futuri, avviene proprio su questo terreno.
Vale la pena ricordare che per le teorie settecentesche della probabilità, quella classica di Jacques Bernoulli e quella frequentista di Gauss, quanto è accaduto nel passato può ripetersi e la “frequenza” di un avvenimento può darci indicazioni su quanto accadrà nel futuro. In questa cornice il “rischio”, inteso come qualcosa di oggettivo e misurabile, può essere calcolato in termini di probabilità (dadi, estrazioni del lotto, roulette, ecc.).
Negli Anni Trenta del Novecento – con Ramsey e De Finetti – si fa un passo in avanti: non solo il rischio oggettivo diventa calcolabile, ma anche l’incertezza. Quest’ultima viene assimilata al rischio, rendendola trattabile matematicamente attribuendo valutazioni di probabilità a ciascun evento possibile. L’estensione alla teoria economica di questa concezione è stata compiuta da von Neumann e Morgenstern: per costoro ciascun individuo, oltre ad un suo schema di preferenze, ha anche specifiche aspettative sul futuro organizzate in uno schema coerente[10].
Come si possono dare indicazioni sul futuro partendo da valutazioni soggettive e non più meramente oggettive? Per riuscire a valutare, oltre al più semplice rischio, anche l’incertezza bisogna prendere in considerazione le previsioni che i soggetti o gli operatori possono fare autonomamente su eventi o prezzi, marcandole sul mercato delle scommesse o, per esempio, sui mercati finanziari. Il “mercato” delle previsioni dei vari soggetti consente di attribuire a ciascun evento un coefficiente di probabilità e rende possibili previsioni su eventi incerti[11].
E’ evidente come l’approccio che conduce ad una certa  prevedibilità degli eventi coincida con l’idea di una forte razionalità degli operatori economici. Perfetta razionalità e perfetta concorrenza presiedono ad un mondo di equilibrio statico dove il bene comune verrebbe assicurato da un regime di liberi mercati concorrenziali grazie all’intervento di una mano invisibile.[12] Le variazioni intorno alla situazione “normale” non sono altro – per il mainstream –  che variazioni cicliche intorno ad una condizione “naturale”.
Eppure le ripetute crisi che hanno sconvolto il sistema capitalistico nei due secoli che abbiamo alle spalle dimostrano che l’economia è tutt’altro che stabile e tutt’altro che prevedibile perché gli operatori economici, lungi dal vivere in un mondo di rischio probabilistico calcolabile, vivono in un mondo di disarmante incertezza.
E’ sostanzialmente la tesi di John Maynard Keynes che scrisse un «Trattato sulla probabilità» nel 1931 e che vi iniziò a lavorare fin dalla sua dissertazione per ottenere una fellowship al King’s College di Cambridge nel 1908. Per Keynes – come argomenta Alessandro Roncaglia[13] -sostanzialmente ci si trova tra uno stato di assoluta ignoranza e la completa certezza (che include anche il rischio probabilistico), ma l’incertezza parziale costituisce la stragrande maggioranza delle situazioni concrete. Il futuro è dunque sempre pieno di sorprese, i periodi di tranquillità non durano in eterno. Nella impostazione di Keynes contano valutazioni soggettive fondate sull’esperienza e intuizioni personali che sono segnate anche dalla fiducia che chi fa una previsione ha nel proprio intuito.
La razionalità degli attori economici e finanziari sembra assai limitata e condizionata anche dall’effetto-gregge ben evidente quando si tenta di intuire la psicologia del mercato. “L’investimento professionale – scrive Keynes – può essere paragonato a quei concorsi dei giornali, nei quali i concorrenti devono scegliere i sei volti più graziosi fra un centinaio di fotografie, e nei quali vince il premio il concorrente che si è più avvicinato, con la sua scelta, alla media fra tutte le risposte; cosicché ciascun concorrente deve scegliere, non quei volti che egli ritenga più graziosi, ma quelli che ritiene più probabile attirino i gusti degli altri concorrenti, i quali a loro volta affrontano tutti quanti il problema dallo stesso punto di vista”.[14]
La recente crisi economica, scoppiata nell’estate del 2007 negli Stati Uniti e rimbalzata nel 2009-2012 in Europa, ha riaperto la questione del rapporto tra matematica ed economia. Sostanzialmente sui due fronti ai quali abbiamo accennato: l’equilibrio del sistema e la previsione del futuro. Su entrambi i fronti il pensiero mainstream, che  poggia fortemente su assunzioni di carattere matematico, è incappato in clamorosi scivoloni. Secondo Robert Lucas e la scuola di Chicago – che si espresse nella metà del decennio scorso – il sistema doveva andare incontro ad una Grande Moderazione ma così non è stato. I modelli econometrici Dsge, dynamic stochastic general equilibrium models, che incorporano molto dell’economia mainstream e non considerano il debito, hanno mancato clamorosamente le previsioni. Le equazioni di Merton e Scholes per prevedere l’andamento dei mercati finanziari, basate sostanzialmente sulla regolarità di quanto avvenuto nel passato, non sono servite ad evitare le clamorose perdite dei grandi gestori di capitali.
La cifra del capitalismo sembra sempre di più quella della instabilità: più che compiacersi di una “formula magica” in grado di spiegare definitivamente l’economia bisognerà essere pronti a rimboccarsi le maniche tenendo in debito conto che l’economia non è una scienza esatta ma bensì una scienza storico-sociale.
Intervento tenuto al convegno “Matematica e economia: presente e futuro” (Luspio, Laboratorio di scienze matematiche, Roma 14-15 settembre 2012)

NOTE

[1] G.Becattini, O.Castellino, O. D’Alauro, G.Fuà, S.Lombardini, S. Ricossa, P. Sylos Labini, Lettera al Direttore, “La Repubblica”, 30 settembre 1988.
[2] P.Sylos Labini, Un paese a civiltà limitata (intervista a cura di Roberto Petrini), Laterza, Roma-Bari 2001, p.72
[3] Cfr. G.Fuà, Uomini e leader, Centro studi Piero Calamandrei, Jesi 2000 (intervista a cura di Roberto Petrini). Fuà riecheggiava una frase di Richard Kahn.
[4] S.C.Dow, The use of mathematics in economics, Esrc – Public understanding of mathematics seminar, Birmingham, maggio 1999
[5] Cfr. B.Ingrao, G.Israel, La mano invisibile, Laterza, Roma-Bari, 1987
[6] Cfr. R.Petrini, Processo agli economisti, Chiarelettere, Milano 2009
[7] Membro della famiglia svizzera di matematici Bernoulli e nipote di Jacob o Jacques Bernoulli (1654-1705) autore di Ars conjectandi
[8] Crf. A.Roncaglia, La ricchezza delle idee, Laterza, Roma-Bari, 2003, p. 303
[9] F.Caffè, Lezioni di politica economica, Bollati Boringhieri, Torino, 2008, p.21
[10] Sul tema cfr. A.Roncaglia, Economisti che sbagliano, Laterza, Roma-Bari 2010 e A.Roncaglia, Le origini culturali della crisi, Moneta e credito, vol. 63 n.250 (2010), 107-118
[11] Ibidem
[12] H.Minsky, Keynes e l’instabilità del capitalismo, Bollati Boringhieri, Torino 2009, p.28
[13] A.Roncaglia, Economisti che sbagliano, op. cit.,p.65
[14] J.M.Keynes, Teoria generale, Utet, Torino, 1978, p. 316

da Micromega online

Hyman Minsky e la Crisi

Pubblichiamo l’intervento di Alessandro Roncaglia al convegno su “La crisi finanziaria e i suoi sviluppi: gli insegnamenti di Hyman Minsky”, Roma, 10 settembre 2012.

di Alessandro Roncaglia da Micromega

L’argomento del convegno, il pensiero di Hyman Minsky e gli insegnamenti che ne possiamo trarre per la crisi attuale, è in forte corrispondenza con gli obiettivi dell’associazione Economia civile, che ha organizzato questo incontro. I nostri riferimenti culturali indicano infatti chiaramente che per economia civile non intendiamo il settore non profit considerato come un terzo settore dell’economia in opposizione a Stato e mercato, come fa una vasta letteratura cattolica, ma una concezione dell’economia e della società tutta, che pur all’interno di un’economia sostanzialmente di mercato (per quanto coesistente con un ruolo rilevante del settore pubblico) pone a obiettivo centrale lo sviluppo civile della società nel suo complesso, tramite un insieme di regole e interventi pubblici ma anche tramite lo sviluppo e la difesa di una cultura civica, che nel nostro paese è ancora troppo poco diffusa. Credo di poter dire che Hyman sarebbe stato d’accordo con questa impostazione. Ad essa infatti ha fornito un importante contributo scientifico analizzando il modo di funzionare dell’economia capitalistica e mettendone in luce l’intrinseca instabilità e la propensione a cadere ripetutamente in situazioni di crisi. In questo modo Hyman poteva indicare a quali politiche ricorrere per rendere meno fragile l’economia e per sostenere l’occupazione, che costituiva per lui un obiettivo centrale. Anzi, proprio alla piena occupazione erano dirette le sue proposte di considerare il governo come datore di lavoro di ultima istanza, che affiancasse il ruolo comunemente attribuito alla banca centrale di prestatore di ultima istanza.

Provo a sintetizzare in tre punti il contributo di Hyman: incertezza, fragilità finanziaria, money manager capitalism. Nel suo primo importante libro, John Maynard Keynes, del 1975, Hyman propone una interpretazione di Keynes diversa da quella dominante della cosiddetta sintesi neoclassica di Hicks e Samuelson, ma anche da quella prevalente tra i post-keynesiani allievi diretti di Keynes a Cambridge, come Kahn e Joan Robinson. Minsky infatti nella sua interpretazione attribuisce un ruolo importante all’incertezza, discussa da Keynes nel suo Treatise on probability del 1921. L’incertezza non è considerata una caratteristica indefinita, contrapposta al rischio probabilistico; ma il caso generale di un continuum che ha ai suoi estremi la certezza assoluta e l’incertezza totale. Nella realtà ci troviamo comunemente in situazioni intermedie. Così Keynes, quando parla di grado di confidenza nell’argomento, sottolinea le differenze esistenti tra situazioni in cui l’incertezza è più o meno grande: ad esempio le decisioni d’investimento che riguardano un orizzonte temporale lungo vanno distinte da quelle sui livelli di produzione che riguardano un orizzonte temporale decisamente più breve.

Questa nozione di incertezza è alla base della teoria della liquidità di Keynes, cioè la spinta a detenere attività liquide per fare fronte a cambiamenti imprevisti nella situazione, ed è alla base della descrizione dei mercati finanziari come fondati su convenzioni adottate dagli operatori, cui ci si riferisce come al clima delle opinioni che possono cambiare anche bruscamente di fronte a modifiche della situazione.

Su questa base, e utilizzando in modo innovativo l’analisi dei flussi di fondi della tradizione di Irving Fisher, Minsky costruisce la sua teoria della fragilità finanziaria endogena: una teoria che avrebbe dovuto fruttargli il Nobel, se il comitato di Stoccolma fosse stato meno conservatore, meno orientato verso le teorie liberiste, che sostengono il mito della mano invisibile del mercato basandosi su assunti barocchi come quello di una economia a un solo bene o dalla quale l’incertezza sia completamente assente. Per questa teoria possiamo fare riferimento ai saggi raccolti nel libro Can “It” happen again? Essays on instability and finance, del 1982; il riferimento del titolo è alla Grande Crisi del 1929; la profezia di Hyman è appunto che una crisi di quelle dimensioni può ripresentarsi, come appunto è avvenuto.

Minsky descrive l’economia come un sistema di flussi di attività e passività; in questo schema d’analisi introduce la distinzione tra i) situazioni coperte, in cui i flussi di entrata previsti più che coprono per tutti i periodi a venire gli esborsi per gli interessi e gli ammortamenti sui debiti, ii) situazioni speculative, in cui la copertura è assicurata per gli interessi che man mano maturano ma non per l’intero ammontare delle rate di ammortamento del debito, per cui l’agente economico sa già in partenza che sarà costretto a ricorrere al mercato finanziario per finanziare la propria posizione, e infine iii) le situazioni di Ponzi finance, in cui il debito cresce nel tempo per l’impossibilità di fare fronte agli oneri per interessi e ammortamenti, come avviene ad esempio quando si specula sull’aumento di prezzo di un immobile ricorrendo a sempre nuovi prestiti per pagare le rate del mutuo.

All’interno di questo schema appare chiaro come per la stabilità dell’economia sia decisiva la correttezza delle valutazioni degli operatori economici sull’andamento futuro dei flussi di attività e passività, che sono ovviamente incerti. Minsky richiama al riguardo la nozione keynesiana di grado di fiducia, che è soggettiva: è l’operatore che si sente più o meno sicuro delle sue valutazioni, nel nostro caso delle sue valutazioni sull’andamento dei flussi di attività e passività e quindi sulla solvibilità futura delle sue posizioni. Sulla base del proprio grado di fiducia, l’operatore determina i margini di sicurezza da mantenere per fare fronte a cambiamenti nella situazione e assicurare la solvibilità delle proprie posizioni, che si tratti di posizioni coperte o speculative o Ponzi.

Minsky rileva che quando l’economia va bene e il clima delle opinioni migliora la quota delle operazioni speculative e Ponzi tende a crescere, rendendo più fragile la situazione finanziaria dell’economia. Inoltre in una fase di tranquillità il grado di fiducia degli operatori nelle proprie valutazioni tende a crescere e i margini di sicurezza vengono corrispondentemente ridotti. Gli stessi regolatori – sempre sotto pressione da parte degli operatori del settore – tendono a lasciare briglie sempre più sciolte al mercato. Ma se i tassi d’interesse crescono e/o l’economia inizia ad andare meno bene, le operazioni coperte possono diventare speculative e quelle speculative operazioni Ponzi. Specie nel caso delle operazioni Ponzi, quando la tendenza apparentemente inarrestabile all’aumento dei prezzi delle attività si esaurisce – si pensi a quanto è accaduto nel mercato immobiliare statunitense –, il clima delle opinioni muta bruscamente e gli operatori non riescono più a finanziare le proprie posizioni scoperte, portando a una liquidazione delle attività, quindi a un crollo ulteriore dei prezzi, con una crisi di liquidità che si trasforma rapidamente in una crisi di solvibilità, giungendo quindi a una crisi che è assieme finanziaria ed economica.

Nella crisi in atto, i riferimenti alla teoria di Minsky si sono moltiplicati. Si può discutere se la crisi abbia seguito esattamente il percorso indicato da tale teoria – Minsky concentrava l’attenzione su una catena di nessi di causa ed effetto che collega il settore finanziario a quello industriale – ma quel che è certo è che la teoria di Minsky fornisce elementi fondamentali per comprendere la situazione e intervenire su di essa: l’idea di una fragilità finanziaria che tende a crescere nei periodi “normali” e che esplode in crisi sempre più violente man mano che in base all’esperienza precedente gli operatori si persuadono che lo Stato interverrà a salvare la situazione; l’idea, quindi, della necessità di una regolamentazione dei mercati finanziari per impedire la crescita continua della fragilità finanziaria; l’idea che la politica economica debba prestare molta attenzione non solo all’andamento del reddito e dell’inflazione ma anche ai prezzi degli asset, come tra gli altri ha sostenuto negli anni precedente la crisi Kindleberger, che ha utilizzato la teoria di Minsky per la sua celebre storia delle crisi.

Per comprendere la situazione in cui ci troviamo dobbiamo tenere conto anche dell’evolversi nel tempo della natura stessa del capitalismo. Al riguardo possiamo fare riferimento a un altro scritto di Minsky, pubblicato nel 1990 nella raccolta di saggi in onore di Paolo Sylos Labini, intitolato “Schumpeter e la finanza” (Minsky, come Sylos, era stato allievo di Schumpeter). In questo lavoro, e prima ancora in alcune conferenze che ho avuto il privilegio di ascoltare negli anni ’80 alla International Summer School for Advanced Economic Studies di Trieste, Hyman ha sottolineato che alle fasi storiche del capitalismo commerciale, di quello finanziario e di quello manageriale è seguita, negli ultimi decenni, quella che ha battezzato la fase del capitalismo dei gestori di fondi finanziari (money manager capitalism). Si tratta di una fase in cui i mercati finanziari dominano l’economia reale: i manager finanziari, che gestiscono stock di ricchezza enormi comprando e vendendo continuamente attività per guadagnare su variazioni di prezzo anche minime, hanno un orizzonte temporale brevissimo.

L’economia manageriale è superata in quanto i manager delle grandi corporations non possono più contare su un potere sostanziale di fronte a una platea di piccoli azionisti, ma debbono fronteggiare operatori finanziari che possono creare (o cedere) pacchetti azionari di dimensioni significative, sufficienti a scalare i consigli di amministrazione. Diversamente dagli imprenditori che guidano un’impresa cercando di fare profitti sulla differenza tra ricavi e costi lungo l’intero arco di vita di un impianto industriale, i manager finanziari puntano a trarre profitti dalla differenza di prezzo di un asset ora e domani, o tra un’ora, o tra pochi minuti. Questo rende l’economia meno efficace sul piano della crescita della produttività o in relazione a problemi di sostenibilità ecologica e sociale data la minore attenzione prestata ai problemi di lungo periodo, più instabile di fronte ai cambiamenti del clima delle opinioni, più difficile da controllare con gli strumenti tradizionali di politica economica. Keynes diceva, nella Teoria generale, che sarebbe stata una situazione ben difficile quella in cui fosse stata la coda della finanza a muovere il cane dell’economia reale; ed è proprio quanto avviene non occasionalmente, ma sistematicamente, nel money manager capitalism descritto da Minsky. Un aspetto del money manager capitalism sottolineato da Minsky concerne le elevate retribuzioni dei manager, che vengono comunemente assimilate a salari mentre dovrebbero essere assimilate ai profitti: non solo per comprendere il tipo di incentivi cui queste retribuzioni danno luogo, ma anche e soprattutto per comprendere meglio l’evoluzione in atto nell’economia, per quanto riguarda l’andamento della distribuzione del reddito ma soprattutto l’evoluzione dei rapporti di potere e della struttura sociale.

Vi sono molti altri elementi utili nella teoria di Minsky sui quali ora non mi è possibile ora soffermarmi, come ad esempio l’importanza che viene attribuita alla distribuzione del reddito, in particolare all’andamento dei profitti e quindi agli elementi che li determinano. Per quest’aspetto Minsky richiama Kalecki, di cui invece critica la teoria monetaria troppo rudimentale. Se teniamo conto di questi elementi, possiamo vedere che quella di Minsky non è una teoria della finanza, ma una concezione generale del funzionamento dell’economia, che include aspetti finanziari e reali nel gioco delle loro interrelazioni. Inoltre possiamo sottolineare che la teoria di Minsky è articolata in modo non rigido, secondo il metodo delle catene causali brevi che Keynes riteneva il più adatto per un mondo in cui a ogni nesso di causa ed effetto non possiamo attribuire il carattere di necessità assoluta.

Di qui la mia convinzione, discussa a lungo con Hyman, che si potesse trovare un ponte tra Keynes e Sraffa – o, più precisamente, tra il Keynes come lo interpretava lui e lo Sraffa come lo interpretavo io, certo non tra il Keynes racchiuso nel breve periodo di Marshall o meglio di Richard Kahn o esteso al lungo periodo alla maniera della scuola di Cambridge di Kaldor, Joan Robinson o Pasinetti e lo Sraffa interpretato alla Garegnani come analisi delle posizioni di lungo periodo. Su questo tema abbiamo discusso parecchio durante le successive riunioni della scuola estiva di Trieste, organizzata da Parrinello con Garegnani e Kregel per raccogliere assieme i rappresentanti dei vari filoni di ricerca non neoclassici. Con Hyman avevamo anche pensato alla possibilità di scrivere un Manifesto keynesian-sraffiano sulle linee che ho appena accennato, ma purtroppo poi non se ne è fatto nulla. I temi aperti riguardavano, per quanto posso ricostruire ora, non la teoria dei mercati finanziari o la teoria del valore, ma la teoria del pricing e della distribuzione del reddito, a partire dal ruolo della nozione di saggio uniforme del profitto al quale Hyman obiettava e dalla nozione di nessi non soltanto ex post ma anche ex ante tra investimenti, profitti, saldo del bilancio pubblico e della bilancia dei pagamenti che a me sembrava e sembra difficile da sostenere.

Quali insegnamenti possiamo trarre dalla teoria di Minsky per la situazione di oggi?
L’insegnamento principale, credo, è che i problemi che abbiamo di fronte non riguardano semplicemente qualche errore nella conduzione della politica economica e la necessità di qualche modifica regolamentare relativamente modesta nel settore delle attività finanziarie. La crisi che abbiamo di fronte non è una semplice crisi da scoppio di una bolla immobiliare, seguita da una seconda crisi dei debiti sovrani e aperta al rischio di successive crisi che potrebbero riguardare le carte di credito o qualche mercato dei derivati e quindi qualche grande banca internazionale. La crisi che abbiamo di fronte ha caratteristiche di base comuni, pur assumendo connotati diversi nelle sue fasi successive: riguarda innanzitutto la fragilità dell’economia finanziarizzata, o come diceva Hyman la fragilità del money manager capitalism. I rimedi dobbiamo trovarli in questo contesto, in riforme istituzionali che ridimensionino il ruolo della finanza a quello di una coda che non sia in grado di far ballare il cane dell’insieme delle attività reali. Non si tratta, certo non solo, di far aumentare la capitalizzazione delle banche sulla base di valutazioni dei rischi condotte utilizzando modelli sofisticati ma con fondamenta assai dubbie, come è nella tradizione delle regole di Basilea. Si tratta piuttosto di riportare sotto controllo tutti i settori della finanza, limitandone le dimensioni e il potere di ricatto insito nel too big to fail.

Varie misure utili a muoversi in questa direzione sono già in discussione, come la Tobin tax sulle transazioni finanziarie, limiti alla dimensione delle istituzioni finanziarie per assicurare che un loro eventuale fallimento non crei problemi sistemici, vincoli ai tipi di operazioni permesse alle istituzioni finanziarie che raccolgono depositi dal pubblico, limiti drastici alla leva finanziaria per tutti gli operatori finanziari. Rinvio al riguardo a un recente lavoro di Elisabetta Montanaro e Mario Tonveronachi, presentato due giorni fa a un convegno organizzato dalla Ford Foundation. Queste misure vanno realizzate in tempi rapidi, se non vogliamo essere travolti da una successione di emergenze.

Hyman, come Sylos Labini, considerava come un impegno civile l’attività di ricerca nel campo dell’economia: un’attività di ricerca che va quindi condotta in modo aperto, tramite la discussione e il confronto, e non cercando di imporre la propria posizione sulle altre tramite la forza del potere politico, come invece purtroppo sta accadendo in questo periodo tramite meccanismi di valutazione della ricerca decisamente non neutrali tra i diversi orientamenti e le diverse aree della ricerca economica.

Crisi e teorie economiche, cambia il vento?

A cinque anni dallo scoppio della crisi il bilancio sull’efficacia delle contromisure che sono state adottate appare completamente negativo. C’è però una ragione di ottimismo: il dibattito tra gli economisti si è riaperto. Anticipiamo l’intervento che terrà Roberto Petrini al convegno “La crisi finanziaria e i suoi sviluppi: gli insegnamenti di Hyman Minsky” organizzato dalla Fondazione A.J. Zaninoni e da “Economia Civile” (10 settembre, ore 16.00 Sala delle Colonne, Camera dei Deputati piazza Poli 19, Roma)

di Roberto Petrini da Micromega
Pochi giorni fa, la più grande crisi economica dopo il 1929, ha compiuto cinque anni. Sono passati esattamente cinque anni infatti da quel 31 luglio del 2007 quando due hedge fund di Bear Stearns dichiararono bancarotta: pochi giorni dopo, il 9 agosto, ci fu il primo crollo di Wall Street. Il resto è storia nota: una enorme crisi, misurabile in una straordinaria contrazione del prodotto e una gigantesca perdita di posti di lavoro, che si è ribaltata dagli Stati Uniti all’Europa.

Si può tentare un bilancio sulle cause, sugli effetti, sull’efficacia delle contromisure, sulle implicazioni per la teoria economica. Il bilancio appare naturalmente negativo su tutti i fronti. Tranne uno: il dibattito tra gli economisti si è riaperto, il conformismo si è spezzato e si cerca un nuovo paradigma.

E’ evidente come la crisi abbia avuto come causa scatenante aspetti reali dell’economia: negli Usa la polarizzazione dei redditi ha reso necessario un sostegno della domanda basato sui debiti (mutui subprime, carte di debito e crediti al consumo). In Europa la polarizzazione dei redditi tra Stati più competitivi con bilance commerciali in surplus e stati poco competitivi e in perenne deficit, ha gonfiato i debiti dei paesi mediterranei detenuti all’estero provocando il “botto” del 2009-2010.

Qual è stato il segno comune delle due crisi? La risposta è: la finanza. L’economia di carta è plasticamente rappresentata dai 600 trilioni di titoli derivati che galleggiano sul pianeta e dai 52 mila miliardi di dollari di titoli di Stato emessi nel mondo (8.000 solo in Europa).
Ma veniamo agli aspetti teorici.

La matrice teorica nell’ambito della quale la crisi si è potuta incubare, sviluppare ed esplodere, in assenza di sensibili allarmi preventivi, è stata – come ha spiegato Alessandro Roncaglia nel libro “Economisti che sbagliano. Le radici culturali della crisi” – quella del liberismo. Nella prima metà degli Anni Duemila i maggiori economisti mainstream americani da Robert Lucas al banchiere centrale Alan Greenspan descrivevano una economia destinata ad un futuro stabile e di “grande moderazione”. L’Europa pensava di aver raggiunto la stabilità con il rigore di Maastricht, con la presunta convergenza di tassi d’interesse e inflazione e con la prospettiva di un salvifico mercato unico che avrebbe evitato gli shocks asimmetrici. Tutti avevano una sconfinata fiducia nelle capacità del mercato di autoregolarsi, senza necessità di interventi esterni.
Malafede? Ideologia? Errori da matita blu? Si può dar credito alla felice osservazione di Minsky – riabilitato da Martin Wolf sul Financial Times già dal novembre del 2008 – contenuta in “Keynes e l’instabilità del capitalismo”:

“Se per trent’anni la storia non genera fenomeni che pur vagamente somiglino a una crisi finanziaria o a una profonda depressione, può facilmente farsi strada l’ipotesi che, in realtà, crisi e depressioni siano solo miti, anomalie del passato”.
Invece la crisi c’è stata e sulla sbarra oggi ci sono le disuguaglianze economiche, la chimera del Dio Mercato in grado di consegnarci il migliore dei mondi possibili e il sistema della turbofinanza radicale in grado di spalmare il rischio per il pianeta e assicurarlo contro ogni instabilità o fallimento.

Negli ultimi tempi, a far data dalla supremazia del pensiero liberista in economia cominciata negli Anni Ottanta, l’egemonia è stata completa: basti pensare, come esempio, all’aggregato di potere culturale e finanziario rappresentato, fino a qualche tempo fa, da Standard and Poor’s, McGraw-Hill e Business Week, agenzia di rating, casa editrice di testi universitari di economia e periodico di informazione economica.

Oggi il vento è cambiato – e forse è questo è l’unico aspetto positivo di questa crisi.
Negli Stati Uniti, sebbene non manchino le critiche, Obama ha rimesso lo Stato al centro dell’azione politica. Si elencano: l’intervento di salvataggio del sistema finanziario e industriale, gli stimoli all’economia, la riforma sanitaria, il blocco della riduzione delle tasse, l’aumento del tetto al debito pubblico, il ruolo determinate della Fed come prestatore di ultima istanza. Negli Usa la crisi è nata ma si può dire che è stata combattuta in modo appropriato: basta guardare i dati del Pil.

Sul piano dei valori che sottendono all’economia non si può evitare di ricordare la suggestiva enciclica di Benedetto XVI, Caritas in veritate, uscita poco dopo lo scoppio della crisi, che invita a mitigare il profitto con il concetto di bene comune e scaglia anatemi contro la finanza predatoria.

La crisi europea ha provocato un profondo ripensamento nel linguaggio e nel pubblico dibattito. Solo un paio di anni fa il Sole 24 Ore, ospitava in prima pagina un editoriale di Luigi Zingales che si intitolava “Speculatori, vil razza dannata (ma utile)”. Un altro articolo di un altro editorialista recitava: “Come molti economisti, anch’io credo nel ruolo positivo della speculazione in mercati concorrenziali e trasparenti”.

Oggi la stessa Europa sembra aver cambiato paradigma: lo spread non è più il termometro dello stato canaglia, ma frutto evidente della speculazione. Tant’è che lo si vuole raffreddare attraverso interventi della Bce e si è creato – con la modifica dell’articolo 136 del Trattato – un fondo per la “stabilità della zona euro” che per statuto può intervenire sul secondario e sul primario dei titoli di Stato. Evidentemente non si considera più sacro il verdetto dei mercati che il governatore della Bce Draghi ha definito “irrazionali” e che il premier Mario Monti ha così descritto: “I mercati non vanno demonizzati ma neanche ‘angelizzati’ perché non esprimono sempre la reale situazione dei paesi”. Accantonato il mito dell’efficienza assoluta dei mercati oggi anche la cancelliera Merkel non usa mezzi termini e li ha bollati come “nemici del popolo”. C’è addirittura il rischio che il vento cambi in modo troppo violento o scomposto? 

DOPPIOCIECO

Per una Razionalità Moderatamente Pluralista