L’Europa e le false credenze della Sinistra

di Alessandro Somma da Micromega
 

Tragedia greca

L’Unione europea ha finalmente dichiarato la conclusione del programma di assistenza finanziaria imposto alla Grecia nel maggio del 2010. In questi otto anni il Paese ha ricevuto prestiti per 243 miliardi di Euro dal fondi Salva-Stati, e per 32 miliardi di Euro dal Fondo monetario internazionale. In cambio ha realizzato centinaia di riforme strutturali con le quali ha tagliato la spesa sociale per l’istruzione, la sanità e le pensioni, ridimensionato la pubblica amministrazione, privatizzato i beni pubblici e le principali infrastrutture, liberalizzato i servizi, precarizzato il lavoro e indebolito il sindacato.

La dimensione della macelleria sociale provocata da queste misure si coglie dai dati che documentano l’esplosione della povertà, la compressione dei salari e delle pensioni, la crescita della disoccupazione soprattutto giovanile, la perdita dei posti di lavoro nel settore pubblico, la condizione miserevole in cui è ridotta la sanità e il sistema della sicurezza sociale nel suo complesso. Anche i parametri economici documentano in modo incontrovertibile l’insuccesso della cura imposta dall’Europa: il deficit è stato annullato e anzi il Paese è ora in surplus, ma al prezzo di un rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo passato dal 146% dell’anno in cui la Troika è giunta ad Atene, al 178,6% di adesso. Sono cresciuti anche la pressione fiscale e l’ammontare dei prestiti in sofferenza delle banche, mentre sono calati la competitività e il potere di acquisto.

Vi sono dunque riscontri notevoli di quanto l’assistenza finanziaria fornita alla Grecia sia stata fallimentare se non criminale, tenuto conto che il 90% delle somme prese a prestito hanno beneficiato le banche francesi e tedesche espostesi per aver tentato di lucrare sui titoli del debito greco. Ciò nonostante Atene sarà costretta a proseguire lungo la strada imposta da Bruxelles come contropartita per l’assistenza, e continuerà a essere sorvegliata da Commissione, Banca centrale e Fondo monetario internazionale. Il Paese sarà infatti sottoposto alla “sorveglianza rafforzata” prevista per i casi in cui si temono “gravi difficoltà per quanto riguarda la sua stabilità finanziaria, con probabili ripercussioni negative su altri Stati membri nella zona euro”[1]. Sebbene il programma di assistenza finanziaria sia formalmente concluso, di fatto esso prosegue, così come la cessione di sovranità politica ed economica alla Troika, presumibilmente sino al 2022.

Nel documento della Commissione europea con il quale si è attivata la sorveglianza si lodano le autorità greche perché il bilancio dell’anno in corso si chiuderà probabilmente con un surplus del 3,5%. E tuttavia si stigmatizzano l’entità del debito e gli altri parametri negativi appena elencati: ad essi la Grecia dovrà rimediare attuando un programma di riforme concordato con la Commissione europea come contropartita per la formale conclusione del programma di assistenza finanziaria[2].

La Commissione europea ha voluto sottolineare che il programma di riforme non costituisce una sorta di nuovo piano di assistenza condizionata, ma è chiaro che si tratta di una scusa non richiesta, equivalente a un’accusa manifesta. E difatti Atene si è impegnata a mantenere un surplus del 3,5% per il futuro, ovvero, inevitabilmente, a “modernizzare il welfare” e dunque a tagliare ulteriormente la spesa sociale soprattutto per le pensioni e la sanità. Dovrà poi rilanciare il programma di dismissione del patrimonio pubblico, privatizzando quanto di appetibile è rimasto ancora nelle mani dello Stato. Non mancano poi impegni a intervenire ulteriormente nel mercato del lavoro per “salvaguardare la competitività” e dunque renderlo sempre più flessibile e sottopagato, nel settore privato come nel settore pubblico: si dovranno realizzare “riforme per modernizzare la gestione delle risorse umane nella Pubblica amministrazione”[3].

La resa dei conti

Alla luce di queste vicende si capisce lo scontro in atto entro la Sinistra europea, che comprende oramai forze collocate su fronti davvero inconciliabili. Da una lato Syriza, il partito di Tsipras che si è arreso alla Troika, divenendo il fedele esecutore materiale dei programmi che questa ha riservato per la Grecia. Dall’altro lato il Partie de Gauche di Mélenchon, che ha recentemente lasciato la Sinistra europea in polemica contro la decisione di non espellere Syriza: forza politica che “sta spingendo la sua logica austeritaria sino a limitare il diritto di sciopero, così accogliendo in modo sempre più servile i diktat della Commissione europea”[4]. In mezzo l’indecisione delle altre formazioni aderenti alla Sinistra europea, in qualche modo alimentata dalla posizione della Linke, che giustifica le politiche di Atene: “è ricattata dalla Troika” e dunque non ha scelta[5].

Peraltro la Linke non è compatta, e i suoi orientamenti sono sempre meno rappresentativi di quanto avviene nella sinistra radicale, dove non regge più il mantra che fa da sfondo alla posizione ufficiale sulla sinistra greca: l’Europa dei mercati può essere riformata e divenire un’Europa del lavoro e dei diritti. È oramai diffusa la convinzione opposta, ovvero che questa Europa è irriformabile perché l’Unione economica e monetaria è un dispositivo neoliberale concepito per cancellare le tracce del compromesso keynesiano che resistono qua e là, e soprattutto per impedire che questo possa tornare. Il tutto presidiato da una sorta di mercato delle riforme: la vita della costruzione europea nel suo complesso viene scandita da forme di assistenza finanziaria condizionata all’adozione di riforme di chiara matrice neoliberale. Lo abbiamo riscontrato in occasione degli allargamenti a sud e ad est, e lo sperimentiamo con il modo scelto per affrontare la crisi del debito sovrano e persino con la gestione dei fondi strutturali: inizialmente concepiti come strumento di redistribuzione delle risorse dai Paesi ricchi ai Paesi poveri, poi trasformati anch’essi in dispositivi volti a presidiare l’ortodossia neoliberale[6].

Insomma, l’Europa della moneta unica si regge sulla spoliticizzazione del mercato e sulla sterilizzazione del conflitto sociale. Per cambiarla occorre contrastare la prima riattivando il secondo: occorre tornare alla dimensione nazionale per ripristinare la dialettica democratica e rifondare le basi di una comunità di popoli. E a monte si devono combattere i luoghi comuni che impediscono di vedere in questo percorso l’unica via di uscita, che continuano cioè a illudere circa la possibilità di percorrere scorciatoie. Primo fra tutti la credenza secondo cui l’europeismo coincide con l’internazionalismo, e deve pertanto essere difeso, e poi la confusione tra identità nazionale e nazionalismo, che deve pertanto essere combattuta senza esitazione.

Cosmopolitismo

La confusione tra internazionalismo e cosmopolitismo o europeismo è alla base della convinzione che il favore per i processi di denazionalizzazione appartiene alla storia e alle idealità della sinistra.

Questi processi sono stati avviati a partire dagli anni Ottanta, ma la loro teorizzazione è molto più risalente: la troviamo in uno scritto di Friedrich von Hayek pubblicato sul finire degli anni Trenta[7]. Il punto di partenza è la costruzione di un ordine internazionale incentrato sulla pace, raggiungibile unicamente attraverso una “federazione interstatale” fondata sulla libera circolazione dei fattori produttivi. Solo abolendo le barriere economiche si eliminano le occasioni di conflitto, in quanto i membri della federazione possono disporre di un “meccanismo efficace per la risoluzione di ogni controversia”, e inoltre la federazione nel suo complesso è “tanto forte da eliminare qualsiasi rischio di attacco dall’esterno”. Se invece ci si limita a realizzare “l’unità politica”, ovvero si rinuncia a “una politica fiscale e monetaria comune”, allora si produce in ciascuno Stato “una solidarietà di interessi tra tutti i suoi abitanti, e conflitti” con gli interessi degli “abitanti di altri Stati”.

Hayek parla insomma del vincolo esterno rappresentato dalla forza condizionante di un “mercato unico”, che rende agli Stati “chiaramente impossibile influenzare i prezzi dei diversi prodotti”, e dunque ostacolare il mercato concorrenziale: tanto che “sarà difficile produrre persino le discipline concernenti i limiti al lavoro dei fanciulli o all’orario di lavoro”. Il tutto mentre occorre ovviamente evitare che la stessa possibilità sia accordata al sistema delle relazioni industriali, o peggio trasferita a una qualche autorità federale. Del resto, a quest’ultimo livello, incidono contrasti tra operatori economici sconosciuti a livello statale, tanto da rendere estremamente difficile, se non impossibile, la conclusione di accordi di matrice protezionista o comunque di intralcio per il funzionamento del mercato. Se non altro perché “la diversità di condizioni e i diversi gradi di sviluppo economico raggiunti dai diversi membri della federazione faranno sorgere seri ostacoli alla produzione di regole federali”.

Che il vincolo esterno si traduca inevitabilmente in una diminuzione degli spazi assicurati alla decisione democratica, è dunque un risvolto ineliminabile e anzi voluto della costruzione federale. Per Hayek il livello statale era oramai espressione inemendabile della volontà di redistribuire risorse con modalità alternative a quelle assicurate dal mercato. Questo era dipeso dall’invadenza delle istituzioni democratiche, sicché solo alimentando il livello sovrastatale si poteva ovviare all’inconveniente: “se il prezzo da pagare per lo sviluppo di un ordine democratico internazionale è la restrizione del potere e delle funzioni del governo, è comunque un prezzo non troppo alto”.

Internazionalismo

Come abbiamo detto, se il fascino del cosmopolitismo miete vittime a sinistra, è perché viene identificato con l’internazionalismo, nonostante vi siano insormontabili differenze di fondo: innanzi tutto in ordine alla libera circolazione dei fattori produttivi. Quest’ultima è l’essenza dell’ordine neoliberale, per cui gli Stati sono meri contenitori di risorse che possono e anzi devono circolare senza vincoli alcuni, anche per mettere in moto il meccanismo attraverso cui rendere il pensiero unico irreversibile: quello per cui gli Stati devono fare di tutto per attirare investitori, ovvero abbattere i salari e la pressione fiscale sulle imprese, con ciò impedendo il funzionamento del compromesso keynesiano. L’internazionalismo valorizza invece la frizione tra l’estrema volatilità dei “flussi di segni di valore, merci, servizi, informazioni e membri delle élite che li governano” e l’irrimediabile radicamento dei “corpi di coloro che chiedono cibo, casa, lavoro e affettività”[8]. E in tale prospettiva rigetta quanto si potrebbe chiamare l’internazionalismo delle élites: il cosmopolitismo buono solo a presidiare il mercato autoregolato, a spoliticizzarlo in quanto arena nella quale sviluppare il conflitto redistributivo.

Altrimenti detto, il cosmopolitismo alimenta l’immagine dell’individuo come cittadino del mondo, privo di radicamento territoriale e dunque in balìa delle forze del mercato autoregolato, e nel fare questo ridefinisce i compiti dei pubblici poteri: non più relativi alla gestione del conflitto redistributivo, bensì concernenti tutti il presidio della concorrenza e la sterilizzazione del conflitto sociale. L’esatto opposto dell’internazionalismo, che infatti mira a ribaltare questo schema, ovvero a consentire alle classi subalterne di conquistare lo Stato attraverso l’esercizio della sovranità popolare: finalità per la quale occorre valorizzare la dimensione nazionale e dunque la sovranità statale.

La contrapposizione tra cosmopolitismo e internazionalismo veniva riconosciuta e tematizzata all’epoca in cui l’ortodossia neoliberale non era ancora divenuta l’orizzonte fisso per la costruzione e lo sviluppo dell’ordine economico. Lo vediamo considerando i passaggi parlamentari che hanno accompagnato l’adesione dell’Italia prima al Consiglio d’Europa, poi alla Comunità economica europea, e infine al Sistema monetario europeo.

Il Consiglio d’Europa nasce sul finire degli anni Quaranta per rafforzare la pace nella giustizia e nella cooperazione internazionale. Allora in particolare Lelio Basso ebbe a stigmatizzare il comportamento della borghesia, storicamente espressiva di una “coscienza nazionale”, che aveva abbandonato il “vecchio esasperato nazionalismo” e assunto come sua bandiera il “cosmopolitismo”. E che lo aveva fatto per motivi non certo nobili: voleva resistere alla “pressione di classi che hanno acquistato la coscienza dei propri diritti e che, non potendoli soddisfare nel quadro delle antiquate strutture, minacciano di farle saltare”[9].

Probabilmente Basso non conosceva le tesi di von Hayek in materia di federazione statale, e tuttavia le riflessioni del primo ben possono costituire la traccia per una puntuale reazione critica alle proposte del secondo. Il deputato socialista chiarisce che l’emancipazione delle classi subalterne passa dalla loro capacità di togliere “alla nazione il carattere di espressione esclusiva della classe dominate”, ma non anche di abbandonarla come terreno di lotta politica. E ciò equivale a dire che il proletariato deve acquisire “contemporaneamente la coscienza di classe e la coscienza nazionale, ponendo le basi per un vero internazionalismo, per una federazione di popoli liberi”.

La distinzione tra cosmopolitismo e internazionalismo, speculare a quella tra nazionalismo delle classi dominanti e sentimento nazionale delle classi subalterne, ricorre anche nelle discussioni che hanno accompagnato la nascita della Comunità economica europea.

La Relazione al disegno di legge di ratifica dei Trattati di Roma aveva fatto chiari riferimenti al senso della denazionalizzazione che la costruzione europea avrebbe provocato: “la tecnica moderna non può applicarsi completamente che nei grandi spazi e nei grandi mercati”, motivo per cui gli Stati nazionali dovevano trasmettere la certezza che la loro azione “ispirata a motivi più o meno giustificati non può in alcun caso limitare le dimensioni del mercato”. Si sarebbe in tal modo realizzata l’utopia neoliberale: il “diffondersi della domanda verso i prodotti migliori ed a miglior prezzo”, l’espansione “dell’offerta verso zone di potenziali acquirenti oggi artificialmente tenuti esclusi dalla protezione doganale e quantitativa”, e la dissoluzione delle “posizioni monopolistiche createsi all’interno dei più asfittici mercati nazionali”[10].

Proprio la contestazione di questi automatismi ispira la reazione dell’opposizione di allora. Il deputato comunista Giuseppe Berti li stigmatizza, precisando che in un mercato comune incentrato sulla libera circolazione dei fattori produttivi “la lotta di classe all’interno può attenuare le caratteristiche più negative… ma non può certo mutarne il carattere, poiché questo è fissato, è irreversibile, è immutabile”. Non si potrà cioè incidere sulla circostanza per cui il mercato comune favorirà i “grandi monopoli industriali”, in particolare i tedeschi in quanto “grandi beneficiari dei Trattati”, mentre impedirà “l’affermazione delle classi lavoratrici” e comprimerà “la forza contrattuale dei sindacati”[11]. Anche per questo occorreva ribadire, con Gian Carlo Pajetta, l’utilità di preservare la dimensione statuale in quanto terreno di conflitti sociali capaci di emancipare le classi subalterne: occorreva “comprendere… quale valore grande, decisivo sia quello dell’indipendenza nazionale”[12].

L’opposizione all’internazionalismo delle élites viene ribadita dalla sinistra storica anche sul finire del 1978, in occasione del varo del Sistema monetario europeo: un sistema di limiti alla fluttuazione dei cambi concepito come avvio di un’unione monetaria fondata sul controllo dell’inflazione e dunque della spesa pubblica. Luigi Spaventa, all’epoca deputato della Sinistra indipendente, non utilizza il linguaggio dei suoi predecessori, bensì quello dell’economista intento ad avvertire circa le dinamiche di un’area monetaria in cui non vi sono obblighi per “i Paesi che accumulano riserve ad adottare politiche interne più espansive”. Le conclusioni sono però le stesse: a queste condizioni “la stabilità del cambio viene perseguita a spese dello sviluppo dell’occupazione e del reddito”. Il tutto provocato in particolare dalla Germania, che vuole “evitare il danno che potrebbe derivare alle esportazioni tedesche da ripetute rivalutazioni del solo marco, ma non accetta di promuovere uno sviluppo più rapido della domanda interna”[13].

Maastricht come religione

Le cose sarebbero però cambiate in occasione della ratifica del Trattato di Maastricht. Guido Carli, Ministro del tesoro tra il 1989 e il 1992, era consapevole che avrebbe condotto ad “allargare all’Europa la Costituzione monetaria della Repubblica federale di Germania”. E lo apprezzava proprio per questo, perché avrebbe implicato “la concezione dello Stato minimo” e dunque un “mutamento di carattere costituzionale”, per cui si sarebbero ristrette le libertà politiche e riformate quelle economiche: realizzando in particolare “una redistribuzione delle responsabilità che restringa il potere delle assemblee parlamentari ed aumenti quelle dei governi”, e un ripensamento complessivo delle “leggi con le quali si è realizzato in Italia il cosiddetto Stato sociale”[14].

L’elogio del vincolo esterno compare anche in occasione del dibattito parlamentare per la ratifica del Trattato di Maastricht. Il liberale Paolo Battistuzzi riconosce che esso impone agli Stati una “stretta disciplina economica finanziaria”, per l’Italia “un compito quasi sovrumano” i cui “effetti recessivi saranno particolarmente forti”, e tuttavia lo considera un condizionamento positivo: “quell’accordo significa rigore economico, trasparenza politica, risanamento anche delle istituzioni”[15]. Nel dibattito non emerge invece la contrarietà della sinistra storica alla costruzione europea, dimentica della distinzione tra cosmopolitismo e internazionalismo rivendicata fino a qualche anno prima.

L’allora Partito democratico della sinistra, per bocca di Claudio Petruccioli, decide di “confermare e rafforzare la scelta strategica dell’unità dell’Europa”, sulla quale “convergono le ragioni della democrazia, del lavoro, della pace e dell’internazionalismo”. E se prima si dicevano cose diverse, era solo a causa della Guerra fredda, che impediva di riconoscere apertamente come “l’idea di Europa” fosse “implicita non solo nelle origini internazionaliste, ma anche nella coscienza dell’antifascismo e della Resistenza”[16]: una ricostruzione molto approssimativa e con il senno di poi, da cui trae conferma la sensazione che l’europeismo di oggi costituisca il rimpiazzo, davvero poco meditato sebbene rassicurante come solo sanno essere le religioni, dell’internazionalismo di ieri e più in generale della crisi delle idealità ereditate dal passato.

Nonostante fosse evidente che l’idea di Europa cui si riferiva Petruccioli non ha nulla a che spartire con l’Europa di Maastricht, la bandiera dell’opposizione a quest’ultima, e nel contempo alle chiusure nazionaliste, viene raccolta solo da Rifondazione comunista. È Giovanni Russo Spena a soffermarsi sul contrasto tra Costituzione italiana e Trattato di Maastricht, innanzi tutto dal punto di vista della disposizione che ammette limitazioni della sovranità solo se volte a promuovere, in condizioni di parità, la pace e la giustizia tra le nazioni (art. 11). Peraltro la costruzione europea comporta trasferimenti e non semplici limitazioni di sovranità, il che è insito nella sua natura di organismo sovranazionale: capace di esercitare porzioni più o meno ampie di sovranità autonoma e concorrente con quella degli Stati. Con il risultato che si finisce per intaccare in modo irrimediabile il carattere unitario e non divisibile della sovranità[17].

Si realizza cioè uno scenario molto diverso rispetto alla partecipazione ad organismi internazionali che trovano il loro fondamento e il loro limite nella sovranità degli Stati, e che infatti non possono produrre regole direttamente rivolte ai loro cittadini. E i Costituenti avevano in mente quest’ultima situazione, giacché disposero in materia di limitazioni della sovranità pensando alle Nazioni Unite: tipica organizzazione internazionale la cui Carta codifica non a caso il “principio della sovrana eguaglianza di tutti i suoi Membri” (art. 2).

Identità nazionale

Peraltro anche nella sinistra radicale si sarebbe in qualche modo digerita l’equazione che identifica l’europeismo con l’internazionalismo. Con le conseguenze da cui abbiamo preso le mosse: un dibattito paralizzante sui massimi sistemi, proprio mentre i dati di realtà offrono spunti incontrovertibili per rigettare l’opzione europeista.

A questa situazione concorre probabilmente l’ambiguità dei riferimenti all’identità nazionale in quanto vicenda screditata dal cosmopolitismo neoliberale e dalla sua ostilità nei confronti delle identità collettive in genere[18]. Quei riferimenti si prestano infatti ad alimentare discorsi attorno a sedicenti tratti naturali o essenziali di una comunità nazionale coesa, ricostruita attorno a valori non negoziabili e magari premoderni, buoni solo a sterilizzare i conflitti prodotti dalla modernità: a spoliticizzare il mercato e a rendere storicamente possibile il funzionamento del capitalismo.

C’è però un modo diverso di intendere l’identità nazionale, che discende dall’equazione che identifica la nazione con il popolo, nel solco di quanto ha fatto la Costituzione. E che soprattutto trae fondamento dall’essere il popolo un concetto che ha perso il significato di “discendenza” per assumere quello di “assemblea che decide”, di “insieme dei cittadini” accomunati dalla condivisione di diritti e doveri[19]. Di qui la connotazione dell’identità nazionale in termini alternativi a quelli ricavati da ontologie di varia natura, che rileva nella sua contingenza anche quando è relativa a sedimentazioni storiche di lungo periodo. E che in quanto tale evita la confusione tra nazione e nazionalismo, destinata invece a manifestarsi nel momento in cui si passa da una concezione volontaristica di nazione a un modo di intenderla in senso naturalistico[20].

Più precisamente, il riferimento all’identità nazionale rinvia alla cittadinanza come condivisione di un “progetto comune in un determinato territorio”, o meglio come appartenenza “a una comunità solidale che stabilisce come distribuire la ricchezza prodotta in quel territorio”, a prescindere dalla riconduzione al medesimo “gruppo etnico o religioso”[21]. Con ciò evidenziando gli stessi tratti cui rinvia “l’indole di un popolo” intesa come “l’insieme delle regole del gioco private e pubbliche di una certa società sedimentate in secoli di storia”[22]: regole concernenti in ultima analisi la conduzione del conflitto redistributivo e la possibilità di recepirne l’esito.

Se così stanno le cose, l’identità nazionale contribuisce a valorizzare la democrazia in quanto pratica saldamente legata alla dimensione statuale[23]: la dimensione del conflitto democratico, con cui collegare al circuito della rappresentanza le decisioni di fondo sul modo di essere dell’ordine economico, oltre che dell’ordine politico. Il riferimento all’identità rinvia all’esistenza di una cornice comune entro cui sviluppare il conflitto, equiparandolo a un confronto tra avversari piuttosto che tra nemici: a un agonismo piuttosto che a un antagonismo. Nel contempo consente però una convivenza della “lealtà comune ai principi di libertà e uguaglianza per tutti” con un “disaccordo sulla loro interpretazione”[24].

Il momento Polanyi

Se la sinistra è in crisi, come si usa dire con un eufemismo, è anche perché si avvita attorno a dibattiti appesantiti dalla resistenza di luoghi comuni come quelli di cui ci siamo occupati. Se lo si riconoscesse, ci si potrebbe finalmente concentrare sul modo corretto di interpretare la realtà, magari a partire da quanto è stato efficacemente descritto in termini di momento Polanyi[25].

Il riferimento è a Karl Polanyi, il fondatore dell’antropologia economica che decenni or sono analizzò l’avvento del fascismo come reazione a quanto aveva caratterizzato l’Ottocento: la dissociazione tra economica e società provocata dall’avvento dei mercati autoregolati[26]. Le società governate dai mercati autoregolati sono infatti votate all’autodistruzione, e per questo prima o poi reagiscono e premono per la risocializzazione dell’economia. Questo si accompagna necessariamente a un recupero della dimensione nazionale, che può avvenire nel rispetto della partecipazione democratica, come accadde con il New Deal statunitense, ma anche in un tutt’uno con l’edificazione di un ordine autoritario o totalitario: il fascismo.

L’epoca attuale è indubbiamente caratterizzata dal rigetto del mercato autoregolato e dal processo di denazionalizzazione che ha accompagnato la sua affermazione, nel solco di quanto auspicato da von Hayek decenni or sono e incarnato ora dall’Unione europea. Il tutto sta però avvenendo a destra, secondo lo schema del nazionalismo economico: si sta profilando una lotta tra Stati per la conquista dei mercati, unita allo sviluppo di un sistema di socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti. E si stanno diffondendo valori premoderni, escludenti e non negoziabili, buoni solo a occultare la violenza della modernità capitalistica.

Ci sarebbe invece bisogno di una lotta degli Stati contro i mercati, che tuttavia non prende corpo anche per le colpe della sinistra: prigioniera degli stessi luoghi comuni che a partire dagli anni Ottanta l’hanno trasformata in un fedele custode dell’ortodossia neoliberale. Incapace di riconoscere che gli attuali processi di denazionalizzazioni sono inarrestabili, che occorre pertanto evitare di lasciare alla destra il compito di interpretarli.

NOTE


[1] Art. 2 Regolamento 21 maggio 2013 n. 472 “sul rafforzamento della sorveglianza economica e di bilancio degli Stati membri nella Zona Euro che si trovano o rischiano di trovarsi in gravi difficoltà per quanto riguarda la loro stabilità finanziaria”. [2] Commission implementing decision on the activation of enhanced surveillance for Greece dell’11 luglio 2018, C/2018/4495 fin. [3] Specific commitments to ensure the continuity and completion of reforms adopted under the ESM programme (22 giugno 2018), http://www.consilium.europa.eu/media/35749/z-councils-council-configurations-ecofin-eurogroup-2018-180621-specific-commitments-to-ensure-the-continuity-and-completion-of-reforms-adopted-under-the-esm-programme_2.pdf. La vastità del piano di privatizzazioni si ricava dalla tabella di marcia predisposta dall’Hellenic Republic Asset Development Fund: v. da ultimo l’Asset development plan del 5 giugno 2018, http://www.hradf.com/storage/files/uploads/adp-en05062018.pdf [4] Dichiarazione del 30 gennaio 2018, http://www.lepartidegauche.fr/le-parti-de-gauche-sadresse-au-pge. [5] U. Satter, Französische Genossen nehmen Syriza ins Visier (1. febbraio 2018), https://www.neues-deutschland.de/artikel/1078183.streit-bei-der-europaeischen-linken-franzoesische-genossen-nehmen-syriza-ins-visier.html. [6] A. Somma, Europa a due velocità. Postpolitica dell’Unione europea, Reggo Emilia, 2018, p. 145 ss. [7] F. von Hayek, The Economic Conditions of Interstate Federalism, in 5 New Commonwealth Quarterly, 1939, p. 131 ss. [8] C. Formenti, La variante populista, Roma, 2016, p. 256. [9] AC 13 luglio 1949, 10292 ss. [10] La Relazione è riportata in Senato della Repubblica, L’autorizzazione alla ratifica dei Trattati di Roma, Roma, 2007, p. 12. [11] AC 25 luglio 1957, 34736 ss. [12] Ivi, 34518 ss. [13] AC 12 dicembre 1978, 24892 ss. [14] G. Carli, Cinquant’anni di vita italiana (1993), Roma e Bari, 1996, p. 432 ss. [15] AC 28 ottobre 1992, 5261. [16] Ivi, 5251 ss. [17] A. Guazzarotti, Sovranità e integrazione europea, in Rivista AIC, 2017, 3, p. 8 ss. [18] G. Preterossi, Residui, persistenze, illusioni: il fallimento politico del globalismo, in Scienza e politica, 2017, p. 113. [19] A. Tedde, Conflitto di classe e forma istituzionale repubblicana, in Democrazia e diritto, 2016, p. 107 s. [20] D. Moro, La gabbia dell’Euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra, Reggio Emilia, 2018, p. 35 ss. [21] C. Formenti, Quelle sinistre che odiano il popolo (29 gennaio 2018), http://temi.repubblica.it/micromega-online/quelle-sinistre-che-odiano-il-popolo-contro-lideologia-del-politicamente-corretto. [22] S. Cesaratto, Chi non rispetta le regole? La Germania e le doppie morali dell’Euro, Reggio Emilia, 2018, p. 9. [23] Ad es. E.J. Hobsbawm, La fine dello Stato, Milano, 2007, p. 46 s. [24] C. Mouffe, Il conflitto democratico (2013), Milano, 2015, pp. 25 ss. e 73 ss. [25] S. Cesaratto, Polanyi moment (22 settembre 2017), http://sollevazione.blogspot.com/2016/09/polany-moment-quale-strategia-di.html. [26] K. Polanyi, La grande trasformazione (1944), Torino, 1974.


(23 luglio 2018)


La Crisi Organica dell’Italia

di Thomas Fazi (dall’American Affairs Journal)
traduzione di Domenico D’Amico
Se un paese rinuncia o perde il potere di emettere la propria moneta, acquisisce lo status o di autorità locale o di colonia.

Il marxista italiano Antonio Gramsci coniò il termine “crisi organica” per descrivere un genere di crisi che si differenzia dalle “normali” crisi, finanziarie, economiche o politiche. Una crisi organica è una “crisi onnicomprensiva” che coinvolge la totalità di un ordine (o sistema) che, quali che siano le ragioni, non è più in grado di generare consenso sociale (in termini ideologici o materiali). Le contraddizioni essenziali che tale genere di crisi insinua nel sistema non possono essere affrontate dalle classi dirigenti. Le crisi organiche sono allo stesso tempo economiche, politiche, sociali e ideologiche – in termini gramsciani, sono crisi di egemonia – e di solito conducono al rigetto nei confronti dei partiti politici istituzionali, delle politiche economiche e delle scale dei valori.
Tuttavia, esse non portano di necessità a un rapido collasso dell’ordine dominante. Gramsci ha definito queste situazioni come interregnain cui “il vecchio muore e il nuovo non può nascere” e possono manifestarsi “i fenomeni morbosi più svariati” [Quaderno 3 (XX) § (34) ndt]
Gramsci parlava dell’Italia degli anni 10 del Novecento. A distanza di un secolo, il paese si trova di fronte a un’altra crisi organica. Più precisamente, si tratta di una crisi del modello dopo-Maastricht del capitalismo italiano, avviato nei primi anni 90.
Tale modello, a mio avviso, potrebbe essere descritto come un genere peculiare di capitalismo comprador – termine utilizzato di solito nel contesto del vecchio sistema coloniale per descrivere un regime nel quale le classi dominanti di un paese formano un’alleanza con gruppi di interesse stranieri in cambio di un ruolo subordinato all’interno della gerarchia di potere. Sebbene la crisi abbia covato per qualche tempo sotto la cenere, nelle ultime elezioni politiche, tenute il 4 marzo 2018, è venuta allo scoperto.
I risultati di queste elezioni sono noti. La classe politica che ha governato l’Italia nell’ultimo quarto di secolo, rappresentata dal Partito Democratico (PD) e da Forza Italia, ha subito un crollo senza precedenti, ricevendo, rispettivamente, il 18,7 e il 14% dei voti. A fronte di ciò, i due maggiori partiti “anti-establishment” – il Movimento Cinque Stelle (M5S) e la Lega Nord (Lega) – hanno visto uno spettacolare balzo in avanti, ottenendo, rispettivamente, il 32.7 e il 17,4% dei consensi. Nell’insieme, la coalizione di centro-destra – che include, oltre alla Lega Nord (ora il partito maggiore della coalizione), Forza Italia di Silvio Berlusconi e la piccola formazione post-fascista Fratelli d’Italia – ha ottenuto il 367% dei voti. Tutte le altre formazioni – dall’ultra-liberista ed europeista +Europa, coalizzato col PD, al partito di centro-sinistra Liberi e Uguali, una scheggia del PD che ha fatto campagna contro di esso, e infine alla sinistra radicale di Potere al Popolo – hanno fallito miseramente. Di questi, solo Liberi e Uguali ha superato la soglia minima del 3% necessaria per entrare in parlamento.
Chi siano i perdenti è evidente, mentre manca un indiscusso vincitore. La nuova legge elettorale – approvata nel 2017 da PD, Forza Italia e Lega Nord, con l’intento manifesto di ostacolare il Movimento Cinque Stelle – richiede che ogni partito, o coalizione di partiti, che voglia formare una maggioranza e quindi un governo, debba ottenere almeno il 40% dei voti (alle elezioni o con accordi post-elettorali). Negli ultimi due mesi e mezzo, M5S e Lega – i due candidati più ovvi per la formazione di una coalizione fattibile – sono stati impegnati in negoziati febbrili. Al momento della stesura di quest’articolo, sembrerebbe che si sia raggiunto un accordo tra i due partiti, anche se i dettagli non sono ancora di dominio pubblico. Il profilo del prossimo governo italiano, perciò, resta ancora indefinito. Non possiamo nemmeno escludere la possibilità che i due partiti non riescano a superare l’attuale impasse, il che porterebbe il presidente a nominare un esecutivo temporaneo “tecnocratico”, o addirittura a indire nuove elezioni. In ogni caso, qualsiasi sia l’esito dei negoziati, una cosa è chiara: queste elezioni hanno mutato per sempre il panorama politico italiano.
I Frutti dell’Austerità
Il crollo dei partiti istituzionali – e l’ascesa di quelli “populisti” – può essere compreso solo nel contesto della “recessione più grave e più lunga della storia italiana”, come afferma il governatore della banca centrale italiana, Ignazio Visco. A partire dalla crisi finanziaria del 2007-2009, il PIL italiano si è ridotto di un abbondante 10%, retrocedendo a livelli di più di dieci anni fa. Riguardo il PIL pro capite, la situazione è perfino peggiore: in questi termini la situazione italiana è regredita a quella di vent’anni fa, cioè a prima che il paese divenisse un membro fondatore della moneta unica. L’Italia e la Grecia sono i soli paesi industrializzati la cui economia non ha ancora recuperato sui livelli pre-crisi finanziaria. Il risultato è che circa il 20% delle capacità industriali dell’Italia sono andate distrutte, e il 30% delle imprese ha chiuso i battenti. Si tratta di una distruzione di ricchezza che, a sua volta, ha scosso le fondamenta del sistema bancario, che è stato (ed è tuttora) colpito dalle sofferenze delle piccole e medie imprese (PMI).
La crisi occupazionale italiana continua a essere una delle peggiori d’Europa. L’Italia ha un tasso ufficiale di disoccupazione dell’11% (12% al sud) e un tasso di disoccupazione giovanile del 35% (con picchi del 60% in alcune regioni meridionali). E non consideriamo nemmeno i sotto-occupati e i lavoratori scoraggiati (persone che hanno rinunciato alla ricerca di impiego, e che quindi non figurano nelle statistiche ufficiali). Se lo facessimo, arriveremmo a uno sbalorditivo tasso di disoccupazione del 30%, che sarebbe il più alto d’Europa. In anni recenti anche il tasso di povertà è cresciuto drammaticamente: il 23% della popolazione, circa un italiano su quattro, è oggi a rischio di povertà – il livello più alto dal 1989.
Queste cifre spaventose sono il risultato di cause sia strutturali sia congiunturali, anche se, è ovvio, collegate tra loro. Da un punto di vista congiunturale sono in larga parte la conseguenza della severa politica di austerità messa in atto tra il 2011 e il 2013 dal governo “tecnocratico” di Mario Monti. Monti stesso, in un’intervista alla CNN, ammetteva che l’obbiettivo della politica di austerity era quello di “distruggere la domanda interna mediante il consolidamento fiscale [i.e. Il risanamento di bilancio – ndt]”. Queste politiche proseguirono con tutti i governi successivi, incluso quello di Renzi (2014-2016) e quello uscente presieduto da Paolo Gentiloni.
Effettivamente, il “successo” della distruzione della domanda interna da parte di Monti viene ora confermato da uno studio nascosto nei recessi di un allegato all’ultimo documento programmatico di bilancio italiano, studio che arriva alla conclusione che le misure di consolidamento fiscale (tagli alle spese e aumento delle tasse) perseguite nel periodo 2012-2015 hanno ridotto il PIL italiano di quasi il 5% (circa 75 miliardi di euro l’anno, per un totale sbalorditivo di circa 300 miliardi), i consumi del 4%, gli investimenti del 10%, per via degli gli “effetti recessivi del consolidamento fiscale sia sul PIL sia sulle principali componenti della domanda (consumi e investimenti)”.
Sebbene lo studio in questione prenda in esame un periodo di tempo che giunge solo al 2015, negli ultimi anni la posizione fiscale restrittiva dei governi è rimasta pressoché immutata. Anzi, l’Italia è uno dei pochi paesi ad aver mantenuto un significativo avanzo primario di bilancio [cioè entrate superiori alle spese, al netto della spesa per interessi – ndt] – equivalente oggi a circa l’1,5% del PIL – per tutto il periodo della recessione post-crisi, ad onta di ogni buon senso economico (1). La conseguenza è stata una cruda riduzione dello stato sociale (particolarmente in campo sanitario). Allo stesso tempo, una serie sempre più folta di nuove imposte ha generato scontento sia nella piccola sia nella media impresa.
Il Partito Democratico (PD) è stato al governo sin dal 2013 e ha supervisionato per più di cinque anni l’austerity e le “riforme strutturali” imposte dalla UE. Dati gli effetti disastrosi di queste politiche, c’è poco da essere sorpresi se gli elettori si siano fatti beffe della retorica del governo uscente sulla “ripresa economica”. Il tanto pubblicizzato “milione di nuovi posti di lavoro” creato negli ultimi quattro anni è costituito in maggioranza da lavori temporanei e malpagati – grazie alla riforma neoliberista del mercato del lavoro di Matteo Renzi, il cosiddetto Jobs Act, che ha facilitato le procedure di licenziamento e ha abrogato l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori che in precedenza proteggeva i lavoratori dal licenziamento ingiustificato. Perfino il primo ministro uscente, Paolo Gentiloni, ha ammesso che “la crescita economica non ha ridotto le disuguaglianze, anzi in molto paesi, inclusa l’Italia, continuano ad aumentare, anche se c’è la crescita. Stanno raggiungendo livelli ancora più intollerabili”.
Questa polveriera sociale è stata resa ancora più pericolosa dall’esplosione della cosiddetta crisi migratoria. A partire dal 2014, più di 600.000 migranti e richiedenti asilo sono entrati illegalmente in Italia. Questi arrivi hanno alimentato malumori in molti italiani, che ritengono che gli immigrati ricevano dallo stato più assistenza di loro. Ha anche condotto a un crescente senso di insicurezza.
Secondo un sondaggio internazionale Ipsos del luglio 2017, il 66% degli italiani pensa che ci siano troppi immigrati nel paese, la seconda percentuale più alta tra i 25 paesi oggetto del sondaggio. Il Partito Democratico, nelle parole di Francesco Ronchi, “non ha tenuto conto di queste preoccupazioni e ha cercato di nascondere la gravità della questione”. Nel settembre del 2016 – al culmine della crisi migratoria, con migliaia di stranieri che entravano in Italia attraverso la Libia – l’allora primo ministro Renzi dichiarava: “Non c’è nessuna emergenza. C’è un po’ di gente [There are some people]”. [non sono riuscito a trovare la fonte – ndt]
La Trasformazione della Sinistra Italiana
Odio e paura, disoccupazione, insicurezza e povertà: sono queste le cause del voto di svolta del 4 marzo. Il Movimento Cinque Stelle e la Lega si sono avvantaggiati della crescente insoddisfazione per lo status quo, rivolgendo la loro attenzione alla sicurezza sociale (specialmente il M5S), meno tasse (specialmente la Lega), e più controllo sull’immigrazione (entrambi). Al contempo, gli elettori hanno esplicitamente castigato il partito considerato il maggiore responsabile per la situazione: il PD. Si tratta senza dubbio del partito maggiormente penalizzato da queste elezioni, avendo visto la somma totale dei consensi crollare per più della metà in pochi anni (nelle elezioni europee del 2014 aveva ottenuto il 41% dei voti). Tale esito catastrofico è un ulteriore esempio di “pasokificazione”, nella quale partiti socialdemocratici, nominalmente di centro-sinistra, così come le loro controparti di centro-destra, vengono puniti dagli elettori per la loro adesione ad austerity e neoliberismo. (Il termine pasokificazione si riferisce al partito socialdemocratico greco PASOK, praticamente annientato nel 2014 come conseguenza del suo futile approccio alla crisi del debito greco, dopo aver dominato la scena politica per più di trent’anni). Tra gli altri partiti di centro-sinistra che hanno subito lo stesso destino ci sono il Partito Socialista Francese, il Partito Laburista Olandese (PvdA) – e adesso il PD.
Tuttavia, pasokificazione potrebbe essere un termine troppo tenero, nel caso del PD. Mentre il PASOK e altre simili formazioni si sono originate come genuini partiti socialdemocratici, e solo in seguito sono stati corrotti dall’ideologia neoliberista, il Partito Democratico è stato fondato nel 2007 come un partito della “terza via”, neoliberista e centrista, in opposizione alla tradizione storica (comunista e socialista) della sinistra italiana. Il PD sarebbe dovuto essere un partito finalmente libero dal peso morto delle politiche di massa della sinistra del XX Secolo, pronto ad abbracciare le magnifiche sorti e progressive della politica post-ideologica. Basta con le teorie totalizzanti, i conflitti di classe, l’interventismo statale e la redistribuzione della ricchezza; avanti col liberismo economico, il dominio del mercato, i diritti individuali (piuttosto che sociali), l’innovazione, la governance e la politica just-in-time [responsiveness]. La nascita del PD dovrebbe essere vista come il punto di arrivo della pluridecennale migrazione verso destra della sinistra post-comunista italiana. Il processo ebbe inizio nel 1991, con la trasformazione del Partito Comunista Italiano (PCI) nel Partito Democratico della Sinistra (PDS), già nel nome depurato di qualsiasi riferimento al socialismo. Il nome cambiò successivamente in Democratici di Sinistra (DS) e, alla fine, eliminando perfino ogni riferimento alla “sinistra”, in PD. Ogni volta il partito si è distanziato sempre di più dalla sua base d’origine, la classe lavoratrice, per reinventarsi come il partito della (in declino) classe medio-alta progressista.
Il PD è la perfetta incarnazione di questo perversa convergenza politica, comune ad altri partiti di centro-sinistra, tra il politicamente corretto da una parte (femminismo, antirazzismo, multiculturalismo, diritti LGBTQ, eccetera) e dall’altra l’economia ultra-liberista (anti-statalismo, austerity fiscale, deregolamentazione, deindustrializzazione, finanziarizzazione, eccetera), cosa che Nancy Fraser ha opportunamente etichettato come “neoliberismo progressista” (2) – un’ideologia che non ha nulla da offrire alle masse crescenti di disoccupati e lavoratori iper-sfruttati. Al riguardo, come osserva Nicola Melloni, colpisce il fatto che oggi il PD
…sia l’unico partito ad avere un’autentica natura di classe, il cui elettorato è per lo più composto da benestanti altamente istruiti. Solo l’8% dei disoccupati e il 12% dei lavoratori dipendenti hanno votato per il PD. Cosa ancora più interessante, secondo un sondaggio SWG meno di un terzo degli elettori che avevano scelto il PCI nel 1988 ha votato per il PD nel 2018.
Per farla breve, la sconfitta del PD si può comprendere solo nel contesto della più che decennale metamorfosi della sinistra italiana. E questa, a sua volta, può essere compresa solo nel contesto dei profondi mutamenti intervenuti nell’economia italiana dell’ultimo trentennio. Sotto questo aspetto, la crisi economica del paese è solo l’epifenomeno di una crisi “strutturale” del capitalismo italiano molto più profonda (anche se drammaticamente accelerata dalle politiche post-crisi).
In termini economici, l’Italia è stata de facto in crisi ben prima del crollo del 2008. Fino alla fine degli anni 80, il paese aveva conosciuto trent’anni di crescita relativamente solida; poi, tra i primi e la metà degli anni 90, tutti i maggiori indicatori economici – produttività, produzione industriale, crescita pro capite, eccetera – cominciarono a manifestare un costante declino, e da allora sono ristagnati. Si tratta, in gran parte, del risultato dell’adesione a una super-struttura economica – istituita dal trattato di Maastricht del 1992, che aprì la strada alla fondazione della Unione Monetaria Europea (UME) nel 1999 – che era (ed è) fondamentalmente incompatibile con la politica economica del paese.
Come osserva acutamente Fritz W. Scharpf, ex direttore del Max-Planck-Institut für Gesellschaftsforschung (MPIfG) [Istituto Max Planck per lo Studio delle Società], il regime dell’euro può essere descritto come un processo di “convergenza strutturale forzata”, finalizzato a imporre il modello economico dei paesi del nord (quali Germania e Paesi Bassi), basato sui profitti da esportazione, sulle economie profondamente diverse dei paesi meridionali, come l’Italia, che guardano più alla dinamica dei salari e domanda interna. Scharpf nota che “l’impatto economico dell’attuale regime dell’euro è fondamentalmente asimmetrico. È modellato sulle precondizioni strutturali e sugli interessi economici dei paesi del nord, ed è in conflitto con le condizioni strutturali delle politiche economiche meridionali – condannate così a lunghi periodi di declino economico, stagnazione o bassa crescita”.
Visti i risultati particolarmente disastrosi del regime dell’euro in Italia, la decisione di entrare nell’unione monetaria – e la persistente difesa di quel regime da parte della classe dirigente – potrebbe sembrare una forma di autolesionismo. Tuttavia, come scriviamo Bill Mitchell ed io nel nostro recente volume Reclaiming the State, l’Unione Monetaria Europea deve essere letta come progetto tanto economico, quanto politico. Nel corso degli anni 70 e 80, i salari in crescita, l’aumento dei costi e una maggiore competizione internazionale portarono a una stretta dei profitti, il che provocò le ire dei maggiori detentori di capitale. A livello ancora più radicale, il regime di piena occupazione “minacciava di porre le premesse per un superamento del capitalismo” stesso, visto che una classe operaia sempre più politicizzata stava iniziando a fare causa comune coi movimenti di controcultura, nel pretendere una radicale democratizzazione della società e dell’economia. Come aveva anticipato trent’anni prima l’economista polacco Michał Kalecki, per la classe dominante il pieno impiego non era diventato una semplice minaccia economica, ma anche politica. Comprensibilmente, la questione suscitava la preoccupazione delle élite, come illustrato dai molti documenti prodotti a suo tempo.
La Sovranità Nazionale e il Paradosso della Debolezza
Lo spesso citato rapporto del 1975 Crisi della Democraziadella Commissione Trilaterale, affermava, dal punto di vista dell’establishment, che erano necessarie contromisure a più livelli. Non solo era favorevole a una riduzione del potere contrattuale dei lavoratori, ma anche alla promozione di “un maggior grado di moderazione nella democrazia” e un maggior disimpegno (o “non coinvolgimento”) della società civile rispetto all’operare del sistema politico, da ottenersi per mezzo della diffusione dell’”apatia”. In questo contesto, si capisce meglio perché le élite europee abbiano abbracciato i “vincoli esterni” dell’UME come un sistema per depoliticizzare la politica economica, in modo da sottrarre al controllo democratico e parlamentare le politiche macroeconomiche, per mezzo di un auto-imposta riduzione della sovranità nazionale. Il loro obbiettivo non era semplicemente quello di mettere le politiche economiche fuori dalla portata delle sfide popolar-democratiche, ma anche quello di ridurre il costo politico della transizione neoliberista, che chiaramente implicava scelte impopolari, scaricando la responsabilità di tali misure su fattori e istituzioni esterne. Si può dire che questa sia l’incarnazione di quello che Edgar Grande chiamail “paradosso della debolezza”, per il quale le élite nazionali trasferiscono una parte del potere a un decisore sovranazionale (apparendo in tal modo più deboli) per essere in grado di sopportare meglio la pressione da parte degli attori sociali, asserendo che “lo vuole l’Europa” (e divenendo così più forti). Come dice Kevin Featherstone: “Gli impegni vincolanti della UE permettono ai governi di varare riforme impopolari nei loro paesi, e nel contempo darne la colpa alla UE, anche se essi stessi desideravano attuarle” (corsivo mio).
Nel caso dell’Italia questo è quantomai chiaro. Probabilmente lo si deve al fatto che l’economia mista, statocentrica, dell’Italia del dopoguerra è stata vista dalle classi dirigenti come decisamente incompatibile col paradigma neoliberista emerso negli anni 80. In questa prospettiva, l’Italia aveva bisogno di “riforme” energiche, anche in assenza di qualsiasi consenso popolare. Così, Maastricht venne vista da una gran parte dell’establishment italiano come lo strumento per realizzare la trasformazione radicale – o neoliberalizzazione – della politica economica del paese. Guido Carli, importante ministro dell’economia tra il 1989 e il 1992, non ne fa un segreto. Nelle sue memorie Carli scriveva:
L’Unione Europea implica (…) l’abbandono dell’economia mista, l’abbandono della pianificazione economica, la ridefinizione dei parametri della composizione della spesa pubblica, la restrizione dei poteri delle assemblee parlamentari a favore di quelli dei governi (…) la cancellazione del concetto di servizi sociali gratuiti (e la conseguente riforma del sistema sanitario e della sicurezza sociale) (…) la riduzione della presenza dello Stato nel sistema finanziario e industriale (…) l’abbandono di dazi e controllo dei prezzi.
È evidente che Carli concepiva l’Unione Europea soprattutto come un mezzo per imporre nientemeno che la trasformazione integrale dell’economia italiana – una trasformazione che non sarebbe stata possibile, o lo sarebbe stata con molta difficoltà, senza gli autoimposti vincoli esterni creati prima da Maastricht , quindi dall’euro. È così che, ad esempio, il governo Amato riuscì nel 1992 la CGIL a porre termine alla scala mobile, che collegava i salari all’inflazione, non confrontandosi direttamente coi lavoratori, ma essenzialmente richiamandosi al vincolo esterno del Sistema Monetario Europeo (SME), sistema di cambio semi-fisso che avrebbe spianato la strada all’euro. Carli stesso riconobbe che “l’Unione Europea rappresentava un percorso alternativo per la soluzione di problemi che non riuscivamo a gestire attraverso i normali canali di governo e parlamento”. Perciò, la decisione italiana di aderire allo SME e quindi all’UME non si può comprendere unicamente all’interno di interessi a carattere nazionale. Piuttosto, come ha sottolineato James Heartfield, la si dovrebbe vedere come lo strumento con cui una parte della “comunità nazionale” (l’élite politica ed economica) è riuscita a depotenziarne un’altra (i lavoratori).
Il Capitalismo Comprador in Italia
Dal punto di vista dell’establishment, il fatto che l’Unione Monetaria Europea comportasse anche la deindustrializzazione e “mezzogiornificazione” del paese – a beneficio delle imprese tedesche e francesi, che acquisirono un gran numero di attività (o comunque una loro quota importante) in Italia e in altri paesi periferici – e la sua retrocessione a un ruolo subordinato all’interno della gerarchia europea di potere, è stato un piccolo prezzo da pagare per la vittoria in patria contro le classi lavoratrici. In questo senso, il regime economico dell’Italia post-Maastricht può essere accostato a una forma di capitalismo comprador – un regime semi-coloniale in cui le classi dominanti di un paese in pratica si alleano con interessi stranieri in cambio di rapporti di classe più favorevoli in patria. Ironicamente, la sinistra post-comunista ha rivestito un ruolo cruciale nel dare legittimità alla narrazione del vincolo esterno; già nei primi anni 90, la sua sottomissione al neoliberismo era talmente profonda che i suoi maggiori rappresentanti si erano convinti che l’Unione Europea fosse davvero per l’Italia l’imperdibile occasione di unirsi finalmente alla famiglia delle nazioni “moderne” e “virtuose”. Non è una coincidenza che l’economica “terapia d’urto” degli anni 90 (in particolare lo smantellamento e la privatizzazione del settore, una volta imponente, delle industrie di stato) venne patrocinato in gran parte da governi di centro-sinistra.
La medesima logica del vincolo esterno la vediamo all’opera anche oggi. È sempre più evidente, ad esempio, che la cosiddetta crisi del debito sovrano del 2010-2011 non è stata una risposta “naturale” dei mercati all’“eccessivo” debito pubblico italiano, ma un’azione in larga parte “architettata” dalla Banca Centrale Europea (BCE) mirata a forzare gli stati a implementare l’austerity. Come ha osservato di recente Luigi Zingales, docente di finanza alla University of Chicago, alla fine la BCE è intervenuta sul mercato dei titoli italiani, ma solo dopo una lunga attesa:
Questo ritardo non era dovuto a incompetenza, ma al palese desiderio di imporre la ‘disciplina del mercato’ – cioè fare pressione sul governo perché migliorasse la situazione fiscale. È stata una forma di violenza economica che ha lasciato l’economia italiana in rovina e gli elettori italiani legittimamente furiosi nei confronti delle istituzioni europee”.
La crisi del debito, combinata con le ritardate reazioni della BCE, portò a invocazioni isteriche da parte dei media perché si mettesse freno al deficit per mezzo di misure di austerity d’emergenza, e portò al governo “tecnocratico” di Mario Monti. Ma la sola ragione per cui l’Italia aveva sperimentato una “crisi del debito sovrano” fu, in primo luogo, il fatto che, come tutti i paesi dell’eurozona, utilizzava di fatto una valuta straniera. Proprio come un singolo stato (ad esempio) degli Stati Uniti o dell’Australia, i paesi dell’eurozona accedono a prestiti in una valuta su cui non hanno alcun controllo (non possono né fissare i tassi di interesse né rinnovare il debito emettendo nuova moneta, e perciò, a differenza dei paesi che contraggono debiti nella loro propria valuta, sono a rischio di insolvenza [default]). Come testimonia un recente rapporto della BCE “sebbene l’euro sia una moneta a corso forzoso [fiat currency], le autorità fiscali degli stati che vi aderiscono hanno rinunciato alla capacità di contrarre un debito non passibile di default”.
Ciò conferisce un potere enorme alla BCE, che non è eletta da alcuno e non risponde ad alcuno, che può usare (e di fatto usa) il suo potere di emissione monetaria per imporre le proprie politiche sui governi recalcitranti (come ha fatto con la Grecia nel 2015, quando ha tagliato la liquidità d’emergenza alle banche greche per costringere il governo di Syriza a invertire la rotta e accettare il terzo memorandum di salvataggio), o addirittura ottenerne le dimissioni, com’è successo in Italia nel 2011. Come ha di recente riconosciuto il Financial Times, la BCE ha di fatto “costretto Silvio Berlusconi ad abbandonare la sua carica a favore del mai eletto Mario Monti”, ponendo le sue dimissioni come condizione per l’ulteriore sostegno da parte della BCE alle banche e ai titoli italiani. Questo esemplifica ciò che il grande economista britannico Wynne Godley† intendeva scrivendo, nel lontano 1992, che “se un paese rinuncia o perde [il potere di emettere la propria moneta], acquisisce lo status o di autorità locale o di colonia”.
Per l’establishment politico italiano quell’esperienza fu un efficace memento del patto faustiano che aveva firmato aderendo all’eurozona. Rinunciando alla sovranità economica del proprio paese, avevano messo la loro sopravvivenza politica nelle mani di tecnocrati che nessuno ha mai eletto. È una lezione che anche il PD ha imparato a proprie spese, dopo anni di infinite (e alla fine inutili) contrattazioni con la Commissione Europea al fine di ottenere un minimo grado di “flessibilità fiscale”. La potremmo chiamare la vendetta della depoliticizzazione: una strategia che si era mostrata positiva per gli obbiettivi interni delle élite locali fintanto che il regime dell’euro aveva potuto garantire un minimo di crescita ai paesi della periferia.
Ma adesso che le contraddizioni fondamentali del sistema Europa sono venute a galla, le élite politiche italiane si sono ritrovate prive degli strumenti economici per mantenere il consenso sociale. Come scrive Scharpf, nei paesi come l’Italia l’unione monetaria non ha comportato solo pesanti costi socioeconomici, ma ha anche avuto “l’effetto di distruggere la legittimità democratica dei governi”.
Uno dei corollari di questa perdita di legittimità democratica è che gli appelli alla logica del vincolo esterno non hanno più il peso che avevano in precedenza. I cittadini – non solo quelli italiani – sono disposti sempre di meno a giustificare lo status quo in base a norme arbitrarie e punitive e diktat esterni, la cui natura politica (cioè non neutrale) diventa sempre più evidente. Lo dimostra il fatto che i tentativi da parte dell’establishment italiano ed europeo di screditare le proposte “populiste” a causa della loro presunta insostenibilità fiscale, minaccia alla stabilità finanziaria o incompatibilità con la normativa europea, è clamorosamente fallito. Anzi, è stato controproducente. Come lo sono state, dal punto di vista dell’establishment, le affermazioni, da parte dei maggiori rappresentanti dellUE, che qualsiasi nuovo governo si debba adeguare alle decisioni prese da quelli precedenti. Dato che sempre più ci si rende conto della natura antidemocratica e neocoloniale dell’Unione Europea, simili tattiche intimidatorie non funzionano più. In questa chiave, il voto del 4 marzo non è stato tanto un voto “contro l’Europa” – anche se i partiti tradizionalmente europeisti sono stati severamente castigati – quanto un voto contro la depoliticizzazione, e a favore dio una ripoliticizzazione del processo decisionale nazionale. Cioè per un maggior grado di controllo collettivo sulla politica e la società, che di necessità può essere esercitato solo a livello nazionale.
Il Futuro dell’Italia
È possibile, per i partiti “anti establishment” che hanno dato voce a quest’esigenza di ripoliticizzazione – Movimento Cinque Stelle e Lega – soddisfare le aspettative? È improbabile. Alla fine dei conti, nessuno dei due partiti offre una alternativa praticabile allo status quo, almeno in termini di politica economica. Il programma economico della Lega è tuttora piuttosto neoliberista: la proposta economica principale del partito è una flat tax che sostituisca l’attuale tassazione (più o meno) progressiva, una proposta chiaramente regressiva, con l’aggiunta di qualche iniziativa di protezione sociale (abolizione della legge Fornero, che ha allungato l’età pensionabile). In modo analogo, il programma del M5S “non è nemmeno lontanamente il programma di una formazione progressista”, come scrive Nicola Melloni. Anche se la sua immagine, come quella di movimenti populisti di sinistra quali Podemos e Occupy, è costruita sulla contrapposizione tra popolo e oligarchia, il M5S riduce questa oligarchia “a una ‘casta’ politica corrotta” dice Melloni. “Fattori economici come la relazione tra capitale e lavoro, le disuguaglianze, o lo stesso capitalismo, sono assenti. Piuttosto, si tratta di una formazione populista ma di centro – abbastanza opportunista da cavalcare qualsiasi battaglia che possa riscuotere consensi, ma priva dell’ambizione di cambiare, o anche solo di riformare, il sistema”. In questo senso, essi sono l’esempio perfetto dei “fenomeni morbosi” di cui parlava Gramsci.
Cosa più importante, anche se il M5S e la Lega avessero davvero intenzione di cambiare il sistema, per farlo dovrebbero mettere in discussione il regime dell’euro, ma nessuno dei due sembra volerlo. Sebbene entrambi i partiti vengano descritti come euroscettici, o addirittura come anti-europeisti, sono stati prontissimi a giurare fedeltà all’Unione Europea, prima e dopo il voto. Finché manterranno questa posizione, il loro fallimento è una certezza. Come detto più sopra, le istituzioni europee hanno un nutrito arsenale di strumenti “per sottomettere, e all’occorrenza rendere impotente la funzionalità democratica dei governi del sud” come dice Scharpf. “Anche se l’Italia possiede un potere contrattuale maggiore di quello della Grecia, finanziariamente la si può ugualmente strangolare”, scrive Zingales, come è successo alla Grecia nel 2015, se venisse percepita come una minaccia al regime neocoloniale dell’Europa.
In conclusione, a prescindere dai risultati dei negoziati, o anche nella prospettiva di eventuali nuove elezioni, la crisi organica dell’Italia è qui, e qui resterà. E non avrà soluzione finché non se ne affronterà la causa essenziale: la fondamentale incompatibilità tra la politica economica italiana e la moneta unica.
Note
(1) Un governo con un avanzo primario sta spendendo nell’economia reale meno di quanto ne estragga attraverso la tassazione, e quindi sta sottraendo ricchezza all’economia, di solito per ridistribuirla ai titolari, interni ed esteri, di titoli di stato (in genere banche o individui affluenti). Il buon senso economico suggerirebbe che un governo coinvolto in una recessione dovrebbe comportarsi esattamente all’opposto: produrre deficit per stimolare l’attività economica.
(2) Vedi anche Nancy Fraser, “From Progressive Neoliberalism to Trump—and Beyond,” American Affairs1, no. 2 (Winter 2017): 46–64.

Thomas Fazi è l’autore di The Battle for Europe (Pluto, 2014) e co-autore di Reclaiming the State (Pluto, 2017).

dello stesso autore: Per una Sinistra di Nuovo Grande

Qui o si disfa l’Europa o si muore

di Nicodemo da il Diario di Spinoza

Che si fotta questa Europa e pure l’altra. 
Non c’è verso di farglielo capire a certi compagni, nemmeno dopo la Grecia, l’Apocalisse zombie della sinistra italiana. Persino io per non essere il solito cane sciolto rabbioso mi ero accodato agli tsipriani(per non dire tsiprioti). Alè OKI, facciamogliela vedere a questo merdosi di burocrati. Si è vistoInsomma non ci vuole uno scienziato per capire che ogni singola fibra di questa Europa è innervata dall’ideologia ispirata al santo Hayek. Se potessero stamperebbero banconote con la sua effige. Eppure no, i grulli credono che l’Europa si può cambiare dal di dentro. Forse non sanno che tutto è deciso da organismi sovranazionali non eletti da nessuno (Consiglio Europeo, Commissine Europea, entiendes?), che rispondono solo alle loro teste bacate. Se anche succedesse il miracolo di un’Europa rosso fuoco con 27 paesi a guida di coalizioni di sinistra sarebbe dura lo stesso. Figuriamoci. Eppoi voglio vedere la Germania e i suoi vassalli a buttare il loro mercantilismo dalla finestra e distribuire l’avanzo primario ai diseredati. Posso capire il timore di molti poveretti, che come tante cavie da laboratorio sono stati condizionati ad avere paura di uscire dalla gabbia, e preferiscono stare rannicchiati fra le sbarre piuttosto che arrischiarsi a mettere il naso fuori. ” Dove credi di andare miserello, fuori di qui è molto peggio resta dove sei”. Ed ecco che tutti hanno un timore fottuto di rompere la gabbia, per paura dell’ignoto e per paura di non avere più nemmeno quel poco di becchime garantito. Ma questi intellettuali no cazzo, non hanno scusanti, non possono fare i cani di guardia dei padroni europei. Chi con un po’ di fegato non sceglierebbe l’incertezza della libertà alla sicurezza della gabbia? Non sia mai, gli stati nazioni, orrore, grondano sangue del secolo breve, il ritorno al nazionalismo giammai, eppoi mercato grande nazione grande (sic). Ma vaffanc… Vogliono la Catalogna e il municipalismo, ma la nazione sovrana e padrona di essere solidale, contrariamente al flagello Europa no, non va bene. Voglio vedere i municipalisti dove trovano i soldi col patto di stabilitàChi si fotta questa Europa e pure l’altra
 

Il voto tedesco accelera la crisi europea. Recuperiamo la sovranità nazionale per difendere la democrazia

Dopo le elezioni in Germania si corre verso una nuova crisi dell’eurozona: per contrastare da una parte le suicide imposizioni autoritarie delle istituzioni europee e l’austerità imposta dai mercati finanziari, e dall’altra la montante onda dei nazionalismi xenofobi, l’unica possibilità di riscossa democratica è quella di difendere strenuamente gli interessi nazionali ripristinando la sovranità delle istituzioni elette dai cittadini.
 

di Enrico Grazzini da Micromega

Le elezioni tedesche e la fine delle illusioni europeiste

Nonostante i roboanti discorsi dell’ex banchiere Rothschild ed attuale presidente francese, Emmanuel Macron, e del premier italiano Paolo Gentiloni sulla “rifondazione europea”, il destino dell’eurozona appare sempre più cupo. Macron e Gentiloni possono declamare finché vogliono le magnifiche e progressive sorti dell’Europa vendendo illusioni europeiste con l’intento di distrarre i loro popoli dalla distruzione dello stato sociale e dalle controriforme del mercato del lavoro che i due leader stanno imponendo ai loro paesi.

Tuttavia, a parte i proclami franco-italiani, non la Francia e tanto meno l’Italia saranno determinanti per l’avvenire dell’Europa e della moneta unica: sarà sempre e solo la Germania a decidere del futuro dell’Unione Europea e dell’euro. E gli ultimi risultati elettorali indicano chiaramente una volta di più che – dopo lo spietato assoggettamento della Grecia – la Germania punterà a sganciarsi da qualsiasi vincolo europeo e a soddisfare esclusivamente i suoi interessi nazionalistici a scapito delle altre nazioni dell’eurozona.

La sorpresa che ha guastato le pur ostinate illusioni europeiste viene dalla Germania, proprio dal centro di gravità dell’Europa. Quasi tutti gli osservatori politici questa volta sono d’accordo: il nuovo probabile governo “giamaica” formato dai popolari, dai liberali e dai verdi, e guidato dalla inossidabile (anche se indebolita) Merkel, sarà ancora più inflessibile e duro di quello precedente verso le prospettive europeiste e in particolare verso i paesi mediterranei. Non avrà alcuna volontà di perseguire politiche europee di ampio respiro e di attuare politiche espansive. Non vorrà assolutamente mai mutualizzare i debiti e correre il rischio di trasferire risorse verso i “pigri e indolenti” paesi bagnati dal Mediterraneo. In una parola: nessuna volontà di cooperazione.

La Germania continuerà senza alcun dubbio ad avere record mondiali di avanzo commerciale, continuerà a fare una politica economica ultrarestrittiva che porta ad attivi di bilancio pubblico, e continuerà così ad esportare deflazione e disoccupazione in tutta Europa e nel mondo. Non ci sarà alcun accordo con Macron sulle sue richieste di una Europa più espansiva e più unita anche sul piano fiscale e politico: al massimo il nuovo governo Merkel riuscirà (forse) ad accordarsi con Macron per nominare un ministro del Tesoro europeo guardiano delle finanze dei paesi debitori, e soprattutto per condividere i costi del nucleare francese e delle avventure militari all’estero, e limitare drasticamente i flussi migratori dall’Africa e dall’Asia.

La nuova Germania che esce da queste elezioni è sempre più spostata a destra – grazie all’affermazione del partito AFD – e dichiaratamente nazionalista e anti-europea: nel nuovo probabile governo giamaica solo i verdi sono dichiaratamente pro-Europa. Però saranno costretti a puntare più sull’ecologia e sulle auto elettriche che sull’Europa unita. Tuttavia è dubbio che la prevedibile crescente durezza teutonica darà dei frutti: sarà difficile per il nuovo governo tedesco proseguire ancora più tenacemente nel soffocamento dei paesi debitori senza provocare nuove e più accese rivolte.

La moneta unica è stata fin dall’inizio basata sul dogma della libera e incontrollata circolazione dei capitali finanziari globali che mirano a sfruttare come parassiti le risorse economiche nazionali sfruttando i debiti dei Paesi più deboli. In questo contesto l’eurozona è diventata l’unione tra paesi creditori e paesi debitori. Un’unione monetaria snaturata e impossibile, gestita attraverso politiche neo coloniali di austerità che hanno come obiettivo la resa completa dei debitori, la svalutazione del lavoro e dei capitali produttivi nazionali, la spoliazione dei contribuenti, il depauperamento dei ceti medi dei paesi periferici. In una parola, questa eurozona serve ormai gli interessi puramente finanziari ed è molto utile ai paesi più forti per sottomettere quelli più deboli e impossessarsi delle loro risorse. A causa del risultato delle elezioni in Germania l’eurozona diventerà una camicia di forza ancora più stretta.

La convergenza dei paesi europei è diventata divergenza. Le diseguaglianze aumentano.

L’Unione Europea e l’eurozona sono nate per fare convergere le economia dei diversi paesi europei. Ma le diseguaglianze dentro e tra i Paesi dell’eurozona aumentano e non si riducono, come ha riconosciuto a chiare lettere e con dati statistici alla mano perfino Benoît Cœuré, membro dell’Executive Board della BCE.

Cœuré ha affermato “che non esiste quasi alcuna convergenza – misurata in termini di PIL pro capite – sin dai primi anni ’90 tra i 12 Stati membri dell’area dell’euro che si sono uniti prima del 2002. E di recente abbiamo anche visto una vera e propria divergenza – certamente uno sviluppo preoccupante per una moneta unione. …Le differenze nei livelli di reddito reale rimangono elevati e possono anche crescere… Senza prospettive credibili di recuperare i paesi con reddito più elevato, alcuni potrebbero mettere in discussione i vantaggi dell’appartenenza all’unione monetaria. In altre parole, senza una reale convergenza, non potremmo garantire la promessa che abbiamo fatto quando l’euro è stato introdotto, cioè che avrebbe portato prosperità e opportunità”. 1

Per salvare l’euro e il sistema finanziario europeo la BCE ha inondato di liquidità le grandi banche con il suo programma di Quantitative Easing da 2 triliardi (migliaia di miliardi) di euro. La BCE sta comprando i titoli di debito degli stati europei e le obbligazioni delle maggiori corporations europee (come in Italia ENEL, ENI, Telecom). La BCE sta in effetti creando una bolla finanziaria che arricchisce solo gli operatori finanziari che scommettono in borsa e negli altri mercati finanziari e valutari; tuttavia la BCE non è riuscita a risollevare l’economia reale, cioè a rilanciare consumi e investimenti. Ora si lamenta perfino che (proprio a causa della sua politica) i salari non sono cresciuti abbastanza da rilanciare la domanda! La bolla finanziaria creata dal Q.E. prima o poi è destinata a scoppiare coinvolgendo nella crisi anche gli stati creditori.
L’architettura della moneta unica impedisce alla BCE di intervenire per monetizzare direttamente il debito degli stati in difficoltà e sottrarli così alla speculazione finanziaria; inoltre impedisce alla BCE di finanziare direttamente l’economia reale. Così, quando – prevedibilmente entro il prossimo anno – finirà il programma di espansione monetaria della BCE di Mario Draghi, ovvero quando Draghi smetterà di acquistare i titoli di stato dell’eurozona, la grande finanza internazionale potrà speculare senza più limiti sui debiti nazionali e colpire gli stati più esposti. Il problema è che, come ha scritto a chiare lettere Joseph Stiglitz, l’euro è una moneta insostenibile – a meno che, ha aggiunto lui, non ci sia la volontà politica di riformare strutturalmente l’eurosistema; ma questa volontà manifestamente manca del tutto –2.

Sindacati e Confindustria favorevoli all’euro che però soffoca le attività produttive e il lavoro.

E’ paradossale ma, nonostante la palese crisi strutturale dell’eurozona, gran parte degli intellettuali e delle istituzioni della produzione e del lavoro continuano a rimanere ancora testardamente fedeli alle illusioni sulla moneta unica. Sindacati e Confindustria sembrano essere afflitti dalla sindrome di Stoccolma verso quel sistema dell’euro che in pochi anni ha tolto all’Italia il 25% della sua capacità produttiva e ha portato la disoccupazione ai livelli massimi. Con il Fiscal Compact l’economia italiana verrebbe poi distrutta.

Non si comprende perciò perché quasi tutta l’intelligenza italiana – come, per fare dei nomi, Sergio Fabbrini, docente della LUISS, l’università della Confindustria, che vorrebbe una Europa più sovranazionale e meno intergovernativa (ovvero una Europa che non esisterà mai) o come Alberto Quadrio Curzio, presidente dell’Accademia Nazionale dei Lincei, che vorrebbe l’espansione degli investimenti europei (quando la Germania invece punta a contrarli) – continuino a illudersi e a illudere sulla possibilità di creare un’Europa più ricca ed equilibrata, mentre essa è invece egemonizzata dai concorrenti tedeschi e francesi.

Non si comprende come la confindustria e i sindacati, ma anche e soprattutto la sinistra, continuino a santificare l’Europa e l’euro, a illudersi di riuscire a farli diventare benevoli fattori di sviluppo e di crescita. Sindacati e Confindustria, in quanto rispettivamente rappresentanti (nel bene e nel male) del lavoro e del capitale industriale, dovrebbero invece difendere con vigore l’economia nazionale, le forze produttive, l’occupazione, senza subordinarsi agli interessi della finanza predatoria e al nazionalismo tedesco e francese.

I crediti germanici del Target 2 e il debito italiano

Il paradosso è che l’euro rischia di crollare addosso anche alla ricca Germania. Il Target 2 – il sistema dei pagamenti e di compensazione utilizzato dalle banche dell’eurozona – vede la Germania in credito (crescente) verso le altre nazioni dell’euro di ben 835 miliardi di euro – l’Italia ha invece un debito di 430 miliardi, anch’esso in crescita –. La Bundesbank ha il timore (peraltro in parte giustificato) di finanziare attraverso il Target 2 i deficit degli altri paesi europei, e, nel caso di una nuova probabile crisi, di non recuperare mai più centinaia di miliardi.

L’euro è intrinsecamente fragile e alla lunga si rivelerà controproducente per gli stessi creditori, Germania in primis.
Non a caso il tabù della moneta unica irreversibile – come scudo per i Paesi europei di fronte alle crisi – sta crollando. Il liberale Christian Wolfgang Lindner, ministro in pectore delle finanze tedesche, ha già affermato che non è più disposto a finanziare con fondi europei la Grecia e gli altri paesi debitori, e che è piuttosto preferibile che questi escano dall’euro. Probabilmente molti del costituendo governo tedesco preferirebbero perfino concordare lo scioglimento dell’euro – e questo non sarebbe male, anzi! – pur di non accollarsi il peso di una nuova crisi.

La fine dell’euro “strutturalmente insostenibile” – già preconizzata da Joseph Stiglitz nel suo libro sull’euro – potrebbe essere vicina. 3
E’ per questo motivo che Mario Draghi ritarda continuamente la fine del Q.E.
La situazione è confusa e incerta. Ma un fatto è certo. Di fronte all’irrigidimento nazionalistico di Germania e Francia, di fronte alla caduta delle illusioni europeiste, occorre riconoscere finalmente che bisogna innanzitutto salvaguardare con grande vigore e forza i nostri interessi nazionali. Recuperare la sovranità (che è potere decisionale autonomo) significa recuperare anche la democrazia, ovvero il potere dei cittadini di decidere, senza delegare a istituzioni sovranazionali e intergovernative (incontrollabili e incontrollate) il proprio destino.

La legge di bilancio di Padoan: l’Italia corre il pericolo di fare la fine della Grecia

I conti sono semplici ma spietati. La crescita reale del PIL italiano è attualmente di 1,5%, l’aumento dell’inflazione è pari a 0,8%, quindi noi cresciamo nominalmente del 2,3%, mentre il tasso di interesse che paghiamo ai mercati finanziari è del 3%. Questo significa che la nostra crescita reale e il tasso di inflazione non bastano a ripagare l’interesse sul debito pubblico e che dobbiamo indebitarci sempre di più per ripagare una posizione debitoria che continua a crescere.

Una situazione disastrosa che il grande economista americano Hyman Minsky descriveva come “la condizione Ponzi”, che porta dritto al crack finanziario. Una condizione ancora più grave se si considera che, come ha dimostrato Marcello Minenna in un recente articolo sul Financial Times, dal marzo 2015 al giugno 2017 circa 250 miliardi hanno lasciato l’Italia per essere investiti all’estero4. Ovvero gli investitori italiani e stranieri fuggono dall’Italia temendo il crollo. La fuga di capitali verso l’estero vale molto di più del saldo positivo della bilancia commerciale (50 miliardi). Quindi l’economia nazionale continua a perdere euro.

Per diminuire il debito pubblico il nostro ineffabile ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, nel Documento di economia e finanza (DEF) che prepara la prossima (assolutamente invotabile) legge di bilancio, ha programmato per i prossimi anni un saldo positivo tra entrate e spese pubbliche (il cosiddetto avanzo primario) pari al 3,5 % del PIL. Si tratta di un gigantesco e insopportabile salasso. Da due decenni ormai l’avanzo primario italiano – che segnala il fatto gravissimo che i contribuenti pagano più tasse di quanto lo stato spende per i servizi ai cittadini, cioè che lo stato depreda i cittadini per pagare il sistema finanziario – vale circa l’1-2% del PIL (dai 20 ai 30 miliardi circa). Questi avanzi non sono però sufficienti a coprire il debito dello stato e quindi lo stato è stato costretto a chiedere soldi al mercato finanziario per coprire gli oneri del debito stesso (circa 60-80 miliardi all’anno).

Per rompere il circolo vizioso, l’ineffabile Padoan intende fare crescere l’avanzo primario dal 1,7% del 2017 al 3,5% circa del PIL del 2020. Ovvero: più entrate e meno spese, cioè più tagli alla spesa sociale, più privatizzazioni dei beni comuni e anche più tasse! In questo modo i contribuenti dovrebbero pagare ogni anno ai creditori dello stato circa 67 miliardi all’anno per servire il debito pubblico e fare in modo che non aumenti. Una somma enorme che deriverebbe da ulteriori riduzioni selvagge a sanità, istruzione, pensioni, ecc e, certamente, dall’aumento della pressione fiscale.
Ma anche questo piano suicida è destinato a fallire miseramente dal momento che ogni taglio alla spesa pubblica comporta anche una più che proporzionale diminuzione del PIL (moltiplicatore keynesiano negativo). Vale a dire che i tagli peggiorano la situazione economica. E’ così assolutamente prevedibile che il debito pubblico sul PIL continuerà a crescere, e che l’Italia dovrà sopportare una nuova condizione di grave crisi finanziaria (e sociale).

Non a caso anche il segretario del PD Matteo Renzi è entrato in conflitto con la politica di Padoan e con il suo furore europeista: Renzi, da politico consumato, ha compreso che i progetti di Padoan sono un suicidio economico compiuto sull’altare della servile subordinazione all’Europa, e che per cercare di conquistare l’elettorato e tentare di mantenersi in sella al governo occorre al contrario fare politiche espansive e cominciare a contestare le politiche europee.
Sovranità nazionale e sovranità monetaria
Nel mondo si assiste al contrasto sempre più acceso tra la globalizzazione incontrollata guidata dai capitali speculativi e il nazionalismo più bieco e sciovinista. Non si può ovviamente approvare né la globalizzazione finanziaria né lo sciovinismo commerciale e culturale. Ma occorre prendere atto che la grande finanza è per sua natura cosmopolita e “internazionalista”, mentre il lavoro ha forti radici nazionali: è un dato di fatto imprescindibile che le lotte del lavoro per la democrazia e per i diritti sociali si svolgono quasi esclusivamente dentro i confini dello stato nazionale. E’ inoltre un dato di fatto che la neo-colonizzazione monetaria non solo attacca il lavoro ma svalorizza anche il capitale produttivo nazionale. La lotta per la democrazia e il progresso non può quindi che fondarsi innanzitutto sulla difesa dell’interesse nazionale sia sul piano economico che politico.

La difesa della sovranità nazionale dovrebbe essere il primo obiettivo delle forze progressiste e della sinistra democratica, mentre al contrario sembra che esse da tempo abbiano rinunciato alla salvaguardia degli interessi nazionali, forse per paura di confondersi con la destra sciovinista e razzista. Ma questo timore è assurdo: per esempio, destra e sinistra hanno entrambi votato contro la controriforma della Costituzione di Renzi, ma a nessuno è saltato in mente di pensare che le loro politiche convergano. La difesa dell’interesse nazionale dalle imposizioni di istituzioni europee non elette e dalle scorrerie del capitalismo speculativo non dovrebbe essere appannaggio della destra ma della sinistra. Senza riconquistare sovranità a livello nazionale è impossibile ricominciare a costruire una Europa cooperativa.

Con la svolta a destra della Germania, è possibile fare una previsione: tutti i grandi riformatori idealisti di sinistra, da Tsipras a Varoufakis, alla sinistra spinelliana, ai verdi europei, dovranno ben presto rinunciare a ogni bel sogno di riformare … tutto il continente! Le forze progressiste non sono riuscite a sconfiggere l’austerità nel loro Paese e hanno lasciato le classi più svantaggiate in mano alle retoriche nazionaliste delle destre scioviniste e xenofobe, dichiaratamente anti-europee. L’ondata di destra è pericolosa e crescente. E’ ora che le forze progressiste riprendano a difendere gli interessi nazionali e popolari, altrimenti le destre domineranno definitivamente la scena politica.

Senza l’intervento deciso e massiccio dello stato, senza forme di moneta nazionale, senza una banca pubblica di sviluppo, senza investimenti pubblici, senza un Piano del Lavoro, senza politica industriale, non si esce dalla crisi. Se vogliamo risolvere la crisi occorre che le questioni della sovranità nazionale, della sovranità monetaria, della democrazia e della finanza – tutte strettamente collegate tra loro – tornino a essere centrali per realizzare a livello nazionale una politica di sviluppo sostenibile. In quest’ambito la sovranità monetaria gioca un ruolo fondamentale che non si può sottostimare. Per sostenere questa tesi vorrei qui citare alcune fonti autorevoli e autorevolissime.

Abramo Lincoln: «Il governo […] non ha necessità né deve prendere a prestito capitale pagando interessi come mezzo per finanziare lavori governativi e imprese pubbliche. Il governo dovrebbe creare, emettere e far circolare tutta la valuta e il credito necessari per soddisfare il potere di spesa del governo e il potere d’acquisto dei consumatori. Il privilegio di creare ed emettere moneta non è solamente una prerogativa suprema del governo, ma rappresenta anche la maggiore opportunità creativa del governo stesso. […] La moneta cesserà di essere la padrona e diventerà la serva dell’umanità. La democrazia diventerà superiore al potere dei soldi»5,

Mayer Amschel Rothschild: “Datemi il controllo della moneta di una nazione e non mi importa di chi farà le sue leggi.6

W. L. Mackenzie King, primo ministro canadese 1935-1948. “Se una nazione perde il controllo della moneta e del credito, non importa poi nulla chi fa le leggi. Fino a quando il controllo della moneta e del credito non viene recuperato dal governo e riconosciuto come la sua responsabilità più sacra, tutti i bei discorsi sulla sovranità del parlamento e della democrazia sono assolutamente inutili”7.

Luciano Gallino: “Scegliendo di entrare nella zona euro, lo stato italiano sì è privato di uno dei fondamentali poteri dello stato, quello di creare denaro . Per gli stati dell’eurozona, in forza del Trattato di Maastricht soltanto la BCE può creare denaro in veste di euro, sia esso formato da banconote, depositi, regolamenti interbancari o altro; a fronte, però, del divieto assoluto, contenuto nell’art. 123 (mi riferisco alla versione consolidata del Trattato) di prestare un solo euro a qualsiasi amministrazione pubblica – a cominciare dagli stati membri. … Al tempo stesso accade che le banche private abbiano conservato intatto il potere di creare denaro dal nulla erogando crediti o emettendo titoli finanziari negoziabili. Tutto ciò ha messo gli stati dell’eurozona in una posizione che si sta ormai rivelando insostenibile. Debbono perseguire politiche economiche fondate su una moneta straniera, appunto l’euro, ma se hanno bisogno di denaro debbono chiederlo in prestito alle banche private, pagando loro un interesse assai più elevato di quello che esse pagano alla BCE”8.

Ricordo che Luciano Gallino ha promosso insieme a un gruppo di intellettuali ed economisti – me compreso – il progetto di moneta fiscale che costituisce un primo ma decisivo passo verso la ripresa della sovranità monetaria. Per dirla con le parole di Gallino: “La questione centrale è che questa proposta di moneta fiscale rappresenta nella UE il primo tentativo concreto di togliere alle banche il potere esclusivo di creare denaro in varie forme, per restituirlo almeno in parte allo stato. E’ una delle maggiori questioni politiche della nostra epoca”.

Infine in un libro appena pubblicato “Reclaiming the State. A Progressive Vision of Sovereignty for a Post-Neoliberal World” William Mitchell e Thomas Fazi si propongono di dimostrare che la sovranità nazionale è indispensabile per contrastare la globalizzazione che arricchisce l’1% e impoverisce i popoli9.

“La lotta per difendere la sovranità e la democrazia dall’attacco della globalizzazione neoliberale è l’unica base sulla quale può essere rifondata la sinistra (e può anche venire contrastata con successo la destra nazionalista). Considerando la guerra costante che il neoliberismo conduce contro la sovranità, non dovrebbe sorprenderci il fatto che la questione della sovranità sia diventata il problema principale e il quadro di contesto della politica contemporanea… Lo svuotamento della sovranità nazionale e la compressione dei meccanismi di democrazia popolare – ovvero il processo definito spesso come “depoliticizzazione” – sono elementi essenziali del progetto neoliberista, finalizzato ad isolare le politiche macroeconomiche dalla critica popolare e a rimuovere qualsiasi ostacolo ai flussi commerciali e finanziari… Il fatto che la richiesta di sovranità nazionale sia stata al centro delle campagne di di Donald Trump e della Brexit, e che attualmente domini il discorso pubblico, che abbia un carattere reazionario e quasi-fascista – dal momento che la sovranità è definita in gran parte lungo linee etniche, xenofobe e autoritarie – non dovrebbe impedirci di rivendicare la sovranità nazionale in quanto tale. La storia dimostra che la sovranità nazionale e l’autodeterminazione nazionale non sono concetti intrinsecamente reazionari e necessariamente collegati a una ideologia di patriottismo guerrafondaio: in effetti sovranità nazionale e autodeterminazione nazionale sono state le parole d’ordine dei socialisti del diciannovesimo e ventesimo secolo e dei movimenti di liberazione di sinistra … Sarebbe un errore grave cercare di comprendere come Trump abbia sedotto i lavoratori considerando solo che questi siano imbevuti di ideologia di estrema destra. In realtà le classi lavoratrici si sono semplicemente rivolte agli unici movimenti e ai partiti che (finora) hanno promesso di proteggerli dai brutali processi di globalizzazione neoliberista (anche se ovviamente è assai discutibile che questi partiti possano o vogliano veramente mantenere la promessa)”.

Secondo Mitchell e Fazi per riconquistare la sovranità politica e la democrazia è indispensabile recuperare anche e soprattutto la sovranità monetaria.

NOTE

1 “Convergence matters for monetary policy” Speech by Benoît Cœuré, Member of the Executive Board of the ECB, at the Competitiveness Research Network (CompNet) conference on “Innovation, firm size, productivity and imbalances in the age of de-globalization” in Brussels, 30 June 2017

2 Joseph Stiglitz “L’euro. Come una moneta comune minaccia il futuro dell’Europa” Einaudi, 2017

3 Joseph Stiglitz “L’euro. Come una moneta comune minaccia il futuro dell’Europa” già citato

4 Marcello Minenna “The ECB’s story on Target2 doesn’t add up” Financial Times, 14 settembre 2017

5 A. Lincoln, in R.L. Owen, «National Economy and the Banking System of the United States», 76th Cong., 1st sess. Senate Doc. 23, United States Govt. Print. Off., Washington D.C. 1939.

6 Frase attribuita a Rothschild e citata in Monetarists Anonymous, Economist.com, 29 settembre 2012.

7 Citato da Sergio Cesaratto “Sovranità monetaria e democrazia” Economia e politica, 11 giugno 2011

8 Vedi eBook edito da MicroMega: “Per una moneta fiscale gratuita. Come uscire dall’austerità senza spaccare l’euro” a cura di Biagio Bossone, Marco Cattaneo, Enrico Grazzini e Stefano Sylos Labini, con la prefazione di Luciano Gallino.

9 William Mitchell e Thomas Fazi ““Reclaiming the State. A Progressive Vision of Sovereignty for a Post-Neoliberal World”, Pluto Press 2017. La traduzione in italiano delle frasi citate è responsabilità mia.

Per una Sinistra di Nuovo Grande

di William Mitchell e Thomas Fazi (da American Affairs)
traduzione di Domenico D’Amico
Attualmente l’Occidente si trova nel bel mezzo di una ribellione contro l’establishment, una ribellione di proporzioni storiche. Il voto sulla Brexit nel Regno Unito, l’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti, il rifiuto della riforma costituzionale neoliberista di Matteo enzi in Italia, l’inopinata crisi di legittimità dell’Unione Europea – per quanto questi fenomeni, pur correlati, differiscano quanto a fini e motivazioni ideologiche, rappresentano tutti il rifiuto dell’ordine (neo)liberista che ha dominato il mondo, particolarmente l’Occidente, negli ultimi trent’anni.
Anche se il sistema si è dimostrato capace (per lo più) di assorbire e neutralizzare simili agitazioni elettorali, nell’immediato non ci sono segni che questa rivolta contro l’establishment possa placarsi. (1) Nel mondo industrializzato il consenso per i partiti anti-establishmant è al suo massimo dagli anni 30, e continua a crescere. (2) Contemporaneamente, il sostegno per i partiti maggiori, inclusi quelli di tradizione socialdemocratica, è crollato. Le cause immediate di questa reazione avversa sono piuttosto ovvie. La crisi finanziaria del 2007-2009 ha posto sotto gli occhi di tutti la terra bruciata che il neoliberismo lascia dietro di sé, per nascondere la quale le élite hanno fatto grandi sforzi, sia materialmente (tramite la finanziarizzazione) sia ideologicamente (tramite i richiami alla “fine della Storia”). Mentre il credito si esauriva, diventava evidente che per anni l’economia aveva continuato a crescere perché le banche stavano distribuendo, per mezzo del debito, il potere di acquisto che l’impresa non forniva col salario. Per parafrasare Warren Buffett, l’abbassamento della marea sollevata dal debito ha rivelato che quasi tutti, di fatto, stavano nuotando nudi.
La situazione, ieri come oggi, si è aggravata ulteriormente a causa delle politiche di austerità e di deflazione salariale perseguite dopo la crisi da molti governi occidentali, particolarmente quelli europei. Questi governi hanno visto nella crisi l’opportunità di imporre un regime neoliberista ancora più drastico, e di perseguire politiche delineate per compiacere il settore finanziario e le classi abbienti, a spese di chiunque altro. Per cui il progetto (ancora da portare a termine) a base di privatizzazioni, deregolamentazioni e tagli allo stato sociale, è stato rilanciato con rinnovato rigore.
In un contesto di crescente insoddisfazione popolare, disordini sociali e disoccupazione di massa in molti paesi europei, le élite politiche di entrambe le sponde dell’Atlantico hanno risposto con argomentazioni e politiche in continuità col passato. Come risultato, il contratto sociale che lega i cittadini ai tradizionali partiti di governo è più a rischio oggi di quanto lo sia mai stato dai tempi della II Guerra Mondiale – e in alcuni paesi è probabilmente già saltato.
Il Declino della Sinistra
Anche limitando il raggio della nostra analisi al periodo postbellico, movimenti e partiti anti-sistema non sono una novità in Occidente. Almeno fino agli anni 80, l’anticapitalismo rimaneva una forza rilevante con cui si doveva fare i conti. La novità è che oggi – a differenza di venti, trenta o quaranta anni fa – sono movimenti e partiti di destra ed estrema destra (insieme a nuove formazioni del neoliberista “estremo centro”, come il partito La République en Marche del neo-presidente francese Emmanuel Macron) a guidare la rivolta. Messi insieme, destra ed “estremo centro” sopravanzano di gran lunga movimenti e partiti di sinistra, sia in termini di forza elettorale sia in termini di influenza sull’opinione pubblica. A parte poche eccezioni, nella maggior parte dei paesi i partiti di sinistra – vale a dire quelli a sinistra dei tradizionali partiti socialdemocratici – sono relegati ai margini dello spettro politico. Contemporaneamente, paese europeo dopo paese europeo, le tradizionali forze socialdemocratiche vengono “pasokizzate” – cioè ridotte all’irrilevanza parlamentare, alla pari di molte delle loro controparti di centro-destra, per via della loro adesione al neoliberismo e all’incapacità di offrire credibili alternative allo status quo. (Il termine “pasokizzato” si riferisce al partito socialdemocratico greco PASOK, praticamente spazzato via nel 2014 come conseguenza della sua inetta gestione della crisi debitoria della Grecia, dopo aver dominato la scena politica per più di trent’anni). Un destino analogo si è abbattuto su molti ex giganti dell’establishment socialdemocratico, quali il Partito Socialista francese e il Partito Laburista olandese (PvdA). Il consenso dei partiti socialdemocratici è oggi al livello più basso degli ultimi settant’anni – e la discesa continua. (3)
Come dovremmo spiegarci il declino della Sinistra – non soltanto il declino elettorale di quei partiti che sono comunemente associati all’ala sinistra dello spettro politico, a prescindere dal loro effettivo orientamento politico, ma anche il declino dei valori fondamentali della Sinistra sia nei partiti sia nella società in generale? Come mai la Sinistra anti-establishment si è finora dimostrata incapace di riempire il vuoto provocato dal crollo della Sinistra di potere [establishment Left]? Più in generale, com’è giunta la Sinistra a contare così poco nella politica globale? È possibile per la Sinistra, sia culturalmente sia politicamente, tornare a essere una forza di primo piano nella nostra società? E nel caso, in qual modo?
In questi ultimi anni la Sinistra ha fatto qualche progresso in alcuni paesi. Esempi significativi includono Bernie Sanders negli Stati Uniti, il partito Podemos in Spagna e Jean-Luc Mélenchon in Francia, così come l’ascesa al potere di Syriza in Grecia (prima che venisse rapidamente rimessa in riga dall’establishment europeo). Tuttavia è innegabile che, per lo più, i movimenti e partiti di estrema destra siano stati più efficaci di quelli di sinistra o progressisti nell’attingere al malcontento di masse diseredate, marginalizzate, impoverite ed espropriate dalla quarantennale lotta di classe scatenata dalle classi dominanti. In particolare, queste sono le sole forze capaci di fornire una risposta (più o meno) coerente alla diffusa – e crescente – aspirazione a una maggiore sovranità territoriale o nazionale. Questa esigenza viene vista sempre di più come l’unico modo, in mancanza di un reale meccanismo rappresentativo sovranazionale, per riconquistare un qualche grado di controllo collettivo su politica e società, e in particolare sui flussi di capitale, sugli scambi e sulle persone che formano il nucleo della globalizzazione neoliberista.
Data la guerra che il neoliberismo ha condotto contro la sovranità, non dovrebbe sorprenderci che “la sovranità [sia] diventata lo schema dominante [master frame] [1] della politica contemporanea,” come nota Paolo Gerbaudo. (4) Dopotutto, lo svuotamento della sovranità nazionale e le restrizioni al meccanismo della democrazia popolare – ciò che si è definito come depoliticizzazione – è stato un elemento essenziale del progetto neoliberista, mirante a proteggere le politiche macroeconomiche dalla contestazione popolare, e a rimuovere qualsiasi ostacolo si opponesse agli scambi economici e ai flussi finanziari. Dati gli effetti nefasti della depoliticizzazione, è del tutto naturale che la rivolta contro il neoliberismo debba primariamente e principalmente assumere la forma di una richiesta impellente di ripoliticizzazione dei processi decisionali nazionali.
Il fatto che alcune visioni della sovranità nazionale si configurino per linee etniche, esclusiviste e autoritarie, non dovrebbe essere visto come incriminante per la sovranità nazionale in se stessa. La storia dimostra che la sovranità nazionale e l’autodeterminazione nazionale non sono intrinsecamente concetti reazionari e sciovinisti – di fatto, essi sono stati il grido di battaglia di innumerevoli movimenti di liberazione, socialisti e di sinistra, nel XIX e XX Secolo.
Anche limitando la nostra analisi ai maggiori paesi capitalisti, è evidente che in pratica tutti i maggiori progressi sociali, economici e politici dei secoli passati sono stati ottenuti tramite le istituzioni dello stato-nazione democratico, e non per mezzo di istituzioni multilaterali, internazionali o sovranazionali. Anzi, le istituzioni globali sono state variamente utilizzate per far regredire quelle medesime conquiste, come abbiamo visto nel contesto della crisi dell’Euro, durante la quale istituzioni sovranazionali (che non rispondono a nessuno) come la Commissione Europea, l’Eurogruppo e la Banca Centrale Europea hanno usato il loro potere e la loro autorità per imporre una rovinosa austerità a paesi in difficoltà. Il problema, per farla breve, non è la sovranità in quanto tale, ma il fatto che questo concetto sia stato abbandonato nelle mani di chi cerca di imporre un progetto xenofobico e identitario. Sarebbe perciò un grave errore liquidare la seduzione del “Trumpenproletariat” da parte dell’Estrema Destra come un caso di falsa coscienza, come osserva Marc Saxer. (5) Le classi lavoratrici si stanno semplicemente rivolgendo agli unici (finora) movimenti e partiti che promettono loro un minimo di riparo dai venti brutali della globalizzazione neoliberista. Che intendano davvero mantenere simili promesse, questo è un altro discorso. A ogni modo, ciò fa sorgere un interrogativo ancora più grande: perché la Sinistra non è stata capace di offrire alle classi lavoratrici e alle classi medie sempre più proletarizzate un’alternativa credibile al neoliberismo e alla globalizzazione neoliberista? Più di preciso, perché non è stata capace di sviluppare una visione progressista della sovranità nazionale? Come diciamo nel nostro libro di imminente uscita, Reclaiming the State: A Progressive Vision of Sovereignty for a Post-Neoliberal World (Pluto, Settembre 2017), le ragioni sono tante e intrecciate tra loro. Per cominciare, è importante comprendere che l’attuale crisi esistenziale della Sinistra ha profonde radici storiche, risalenti almeno fino a anni 60. Se vogliamo capire lo sbandamento della Sinistra, è da qui che la nostra analisi deve iniziare.
La Fine dell’Era Keynesiana
Oggi molti a Sinistra magnificano l’era “keynesiana” del secondo dopoguerra come un’età dell’oro in cui i lavoratori organizzati, insieme a pensatori e politici illuminati (come lo stesso Keynes) furono capaci di imporre ai capitalisti recalcitranti un “compromesso di classe” portatore di un progresso sociale mai visto prima – che però è stato in seguito rintuzzato dalla cosiddetta controrivoluzione neoliberista. Se ne è dedotto, quindi, che per sconfiggere il neoliberismo basterebbe che un numero sufficiente di appartenenti all’establishment adottasse un ordine di idee alternativo [al loro]. Tuttavia, l’ascesa e declino del keynesismo non si può spiegare semplicemente considerando il potere della classe lavoratrice o la vittoria di un’ideologia sull’altra, ma dovrebbe essere vista come il risultato della convergenza fortuita, nel secondo dopoguerra, di una serie di condizioni sociali, ideologiche, politiche, economiche, tecniche e istituzionali.
Non facendolo, si commetterebbe lo stesso errore che in molti, a Sinistra, commisero nell’immediato dopoguerra. Non riuscendo a valutare fino a che punto il compromesso di classe alla base del sistema fordista-keynesiano fosse, di fatto, elemento fondamentale di quello specifico (storicamente) regime di accumulazione, molti socialisti di quel periodo si convinsero “di aver fatto più del dovuto nel modificare l’equilibrio del potere di classe e la relazione tra stato e mercato”. (6) In linea con questo ragionamento, ignorarono il fatto che la classe capitalista aveva attivamente sostenuto il compromesso di classe solo nella misura in cui era funzionale al profitto, e che perciò, una volta cessata la sua utilità, l’avrebbe rigettato. Alcuni affermavano perfino che il mondo industrializzato fosse già entrato in una fase postcapitalista, nella quale tutti gli aspetti caratteristici del capitalismo erano scomparsi per sempre, grazie a una fondamentale traslazione di potere a favore del lavoro e a svantaggio del capitale, e dello stato a svantaggio del mercato. Inutile dirlo, le cose non stavano affatto così. In aggiunta, il monetarismo – precursore ideologico del neoliberismo – aveva cominciato a diffondersi nelle concezioni politiche della Sinistra sin dai tardi anni 60.
In tal modo, nella Sinistra furono in molti a trovarsi sprovvisti degli strumenti teorici necessari per comprendere contrastare adeguatamente la crisi capitalisticache negli anni travolse il modello keynesiano. Si convinsero invece che la lotta distributiva sorta a quell’epoca si potesse risolvere all’interno dei limiti angusti del sistema socialdemocratico. La verità era che il conflitto capitale-lavoro riemerso negli anni 70 si sarebbe potuto risolvere solo in due modi: dalla parte del capitale, attraverso una riduzione del potere contrattuale del lavoro, o dalla parte del lavoro, attraverso un estensione del controllo dello stato su produzione e investimenti. Come mostriamo in Reclaiming the State, riguardo l’esperienza dei governi socialdemocratici britannici e francesi degli anni 70 e 80, la Sinistra non ebbe la volontà di percorrere questa strada. L’unica scelta rimasta fu quella di “gestire la crisi del capitale per conto del capitale”, come scriveva Stuart Hall, legittimando ideologicamente e politicamente il neoliberismo come unica soluzione per la sopravvivenza del capitalismo. (7)
Da questo punto di vista, il governo britannico del laburista James Callaghan (1976-1979) reca gravi responsabilità. In un famoso (o famigerato) discorso del 1976 Callaghan giustificava il programma governativo di tagli alla spesa e moderazione salariale dichiarando che il keynesismo era morto, legittimando indirettamente l’emergente dogma monetarista (neoliberista) e creando di fatto le condizioni perché l’“austerity lite” [austerità moderata] del Partito Laburista venisse rimodulata da Margarett Tatcher in un assalto totale alla classe lavoratrice. Forse ancora peggio, Callaghan rese popolare il concetto che l’austerity fosse l’unica soluzione per la crisi degli anni 70, anticipando il mantra “non ci sono alternative” [there is no alternative (TINA)] di Tatcher, sebbene al tempo alternative radicali esistessero, come quelle proposte da Tony Benn e altri. Ma queste, tuttavia, “nella comune percezione non esistevano più” [no longer perceived to exist]. (8)
In questo senso, lo smantellamento del sistema keynesiano postbellico non può essere spiegato semplicemente come la vittoria di un’ideologia (“neoliberismo”) su un’altra (“keynesismo”), ma interpretato come la risultanza di numerosi, e intrecciati, fattori ideologici, economici e politici: la risposta dei capitalisti al calo dei profitti e alle implicazioni politiche delle strategie per la piena occupazione, i difetti strutturali del “keynesismo reale” [actually existing keynesism]; e la significativa incapacità della Sinistra di proporre una risposta coerente alla crisi del sistema keynesiano, men che meno un’alternativa radicale.
La Globalizzazione e lo Stato
Oltretutto, lungo gli anni 70 e 80, un nuovo (ed errato) concetto condiviso a sinistra cominciò a concretizzarsi nel contesto dell’internazionalizzazione economica e finanziaria – quella che oggi chiamiamo “globalizzazione” – e rese lo stato sempre più impotente rispetto alle “forze del mercato”. Ne conseguiva, questo il ragionamento, che le nazioni non avevano quasi altra scelta che abbandonare le strategie economiche nazionali e qualsiasi strumento tradizionale di intervento nell’economia – imposte e altre barriere commerciali, controllo del capitale, manipolazione di valute e tassi di scambio, politiche fiscali e politiche legate alle banche centrali. Al massimo, avrebbero potuto solo sperare in forme di gestione economica transnazionali o sovranazionali. In altre parole, l’intervento dei governi nell’economia veniva visto non solo come inefficace ma, sempre di più, come del tutto impossibile. Tale processo – generalmente (ed erroneamente) descritto come passaggio dallo stato al mercato – era accompagnato da un attacco feroce contro la stessa idea di sovranità nazionale, sempre più denigrata come reliquia del passato. Come scriviamo in Reclaiming the State, la Sinistra – in particolare la Sinistra europea – in queste vicende ha giocato anch’essa un ruolo essenziale, rafforzando la migrazione ideologica verso una visione del mondo post-nazionale e post-sovranità, spesso in anticipo sulla Destra. Al riguardo, uno dei punti di svolta più consequenziali fu, nel 1983, la svolta verso l’austerità di François Mitterrand – il cosiddetto tournant de la rigueur – appena due anni dopo la storica vitoria elettorale socialista del 1981. L’elezione di Mitterand fece credere a molti che una rottura radicale col capitalismo – almeno con la sua forma estrema affermatasi nei paesi anglosassoni – fosse ancora possibile. Giunti al 1983, comunque, i socialisti francesi erano riusciti a “dimostrare” l’esatto contrario: che la globalizzazione neoliberista era una realtà inevitabile e ineluttabile. Secondo le parole di Mitterand: “Ormai la sovranità nazionale non significa più granché, né possiede un ruolo apprezzabile nella moderna economia globale. (…) È indispensabile un alto grado di sovranazionalità”. (9)
Le ripercussioni del voltafaccia di Mitterand sono percepibili tutt’oggi. Intellettuali progressisti e di sinistra insistono spesso che quella svolta fosse prova del fatto che la globalizzazione e l’internazionalizzazione della finanza avesse posto fine all’era dello stato-nazione e alla sua capacità di perseguire politiche che non siano in consonanza coi diktat del capitale globale. Il concetto è questo: se un governo cerca autonomamente di perseguire la piena occupazione e un piano progressista e redistributivo, inevitabilmente verrà punito dalle forze anonime del capitale globale. Si pretende che Mitterand non avesse altra scelta che abbandonare i suoi progetti di riforme radicali. Per molti sinistrorsi di oggi, Mitterand rappresenta quindi un politico pragmatico consapevole delle forze capitalistiche globali cui doveva far fronte, e abbastanza responsabile da fare quel che era giusto per la Francia.
In realtà, uno stato sovrano che emetta moneta – come la Francia degli anni 80 – lungi dall’essere inerme dinanzi al capitale globale, possiede ancora la capacità di fornire ai propri cittadini piena occupazione e giustizia sociale. Quindi, com’è riuscita l’idea della “morte dello stato” a mettere radici così profonde nella coscienza collettiva? A questa visione postnazionale del mondo era (è) sottesa l’incapacità da parte del personale intellettuale e politico della Sinistra di comprendere – e in qualche caso il tentativo di nascondere – che la “globalizzazione” non era (non è) il risultato di cambiamenti economici e tecnologici inesorabili, ma in gran parte il prodotto di processi gestiti dallo stato. Tutti gli elementi che associamo alla globalizzazione neoliberista – delocalizzazione, deindustrializzazione, libero flusso di merci e capitali eccetera – sono stati (e sono), nella maggior parte dei casi, il risultato di scelte fatte dai governi. Più in generale, gli stati continuano a svolgere un ruolo cruciale nel promuovere, garantire e sostenere la struttura neoliberista internazionale (per quanto le cose sembrino in via di cambiamento) e insieme creare le condizioni interne che permettono all’accumulazione globale di prosperare.
La medesima cosa si può affermare per il neoliberismo tout court. È convinzione diffusa – particolarmente a sinistra – che il neoliberismo abbia implicato (anche oggi) una “marcia indietro”, uno “svuotamento” o “esaurimento” dello stato, il che a sua volta ha rafforzato il concetto che attualmente lo stato sia stato “sopraffatto” dal mercato. Tuttavia, uno sguardo più attento noterà che il neoliberismo non ha comportato un’uscita di scena dello stato quanto piuttosto una sua riconfigurazione, mirata a porre il timone della politica economica “nelle mani del capitale, e principalmente degli interessi finanziari”, come scrive Stephen Gill. (10)
È lapalissiano, dopotutto, che il processo neoliberista non sarebbe stato possibile se i governi– e in particolare quelli socialdemocratici – non fossero ricorsi a tutta una panoplia di strumenti per promuoverlo: la liberalizzazione di merci e flussi di capitale; la privatizzazione di risorse e servizi sociali; la deregolamentazione delle attività d’impresa, e dei mercati finanziari in particolare; la riduzione dei diritti dei lavoratori (primo e più importante, il diritto alla contrattazione collettiva) e, più in generale, la repressione dell’attivismo sindacale; la riduzione delle tasse sulla ricchezza e sul capitale, a spese dei lavoratori e della classe media; la decimazione dei programmi sociali, e via e via. Queste politiche sono state sistematicamente perseguite in tutto l’Occidente (e imposte ai paesi in via di sviluppo) con inedita determinazione, e col sostegno di tutte le maggiori istituzioni internazionali e dei principali partiti politici.
Perfino la perdita di sovranità nazionale invocata nel passato, come lo è tuttora, per giustificare le politiche neoliberiste, è in gran parte il risultato di una volontaria e cosciente limitazione dei diritti sovrani degli stati da parte delle varie élite nazionali. A questo scopo, le svariate politiche adottate dai paesi occidentali includono: (1) ridurre il potere dei parlamenti, a fronte di quella delle burocrazie di governo; (2) rendere le banche centrali indipendenti dai governi, col fine dichiarato di sottomettere questi ultimi a una “disciplina basata sul mercato”; adottare una politica focalizzata sull’inflazione come strategia principale delle banche centrali – un approccio che mette in primo piano una bassa inflazione come principale obbiettivo della politica monetaria, escludendo altri obbiettivi quali, ad esempio, la piena occupazione; adottare regole limitatrici dell’azione politica – sulla spesa pubblica, sulla proporzione debito-PIL, sulla concorrenza eccetera – in modo da limitare quello che i politici possono fare su mandato dei loro elettori; (5) subordinare i settori di spesa al controllo delle tesorerie; (6) riadottare tassi di scambio fissi, che limitano gravemente la capacità dei governi di esercitare il controllo sulla politica economica; e infine, cosa forse più importante, (7) cedere prerogative nazionali nelle mani di istituzioni sovranazionali e burocrazie interstatali quali l’Unione Europea.
La ragione per cui i governi sceglievano volontariamente di “legarsi le mani” è fin troppo chiara: come esemplifica il caso europeo, la creazione di “vincoli esterni” autoimposti ha permesso alle classi politiche nazionali di ridurre il costo politico della transizione neoliberista – che implicava ovviamente politiche impopolari – dando la colpa a regole prestabilite e a istituzioni internazionali “indipendenti”, che a loro volta venivano presentate come il risultato inevitabile delle nuove, crude realtà della globalizzazione.
Lo Statalismo del Neoliberismo
Inoltre, il neoliberismo è stato (ed è) associato a varie forme di autoritarismo di stato – quindi il contrario dello stato minimo invocato dai neoliberisti – dato che gli stati hanno rinforzato il settore securitario e poliziesco, componente di una generale militarizzazione della gestione delle manifestazioni di protesta. In altre parole, non solo la politica economica neoliberista richiede la presenza di uno stato forte, ma addirittura di uno stato autoritario sia a livello nazionale sia internazionale, in particolar modo quando si tratta di forme estreme di neoliberismo, come quelle sperimentate dai paesi periferici. In questo senso, l’ideologia neoliberista, almeno nelle sue vesti antistataliste, dovrebbe essere considerata come un mero, conveniente alibi per quello che è stato, ed è, un progetto essenzialmente politico e statale. Il capitale rimane dipendente dallo stato tanto oggi quanto al tempo del keynesismo – per tenere sotto controllo le classi lavoratrici, salvare grandi imprese che altrimenti finirebbero in bancarotta, aprire mercati in altri paesi (utilizzando a volte l’intervento militare) eccetera. L’ironia suprema, o chiamiamola indecenza, è che i partiti della Sinistra tradizionale, sia al governo sia all’opposizione, sono diventati i portabandiera del neoliberismo.
Nei mesi e anni seguenti al crollo finanziario del 2007-2009, la perenne dipendenza del capitale – e del capitalismo – la dipendenza dallo stato in un’era neoliberista è diventata vistosamente evidente, visto che i governi degli Stati Uniti, Europa e altrove hanno tratto in salvo le rispettive istituzioni finanziarie a colpi di bilioni di dollari. Eppure a quel tempo nessun importante opinionista ha strillato “E i soldi da dove si prendono?” Ben presto, comunque, quegli stessi soggetti, alcuni dei quali diretti beneficiari dei provvedimenti di salvataggio, sono tornati al solito ritornello, ammonendoci che i governi sono in bancarotta, che i nostri nipoti saranno stritolati dal crescente peso del debito pubblico, e che l’iperinflazione è in agguato. Successivamente alla cosiddetta crisi dell’euro del 2010, in Europa tutto questo è stato accompagnato da un assalto su tutti i fronti contro il modello socioeconomico europeo del dopoguerra, con l’obbiettivo di ristrutturare e riprogettare le società e le politiche europee secondo linee maggiormente favorevoli al capitale. Una tale riconfigurazione radicale delle società europee – che, lo ripetiamo, ha visto in prima linea i governi socialdemocratici – non si basa su un arretramento dello stato rispetto al mercato, ma piuttosto da una ri-intensificazione dell’intervento statale a favore del capitale. (11)
Nondimeno, l’idea erronea del declino dello stato-nazione è diventata ormai elemento integrante [entrenched fixture] della Sinistra. Visto quanto sopra, non sorprende affatto che le maggiori formazioni di sinistra siano oggi del tutto incapaci di offrire una concezione positiva della sovranità nazionale che si contrapponga alla globalizzazione neoliberista. A peggiorare ulteriormente la situazione, molti a sinistra si sono bevuti le favole macroeconomiche che l’establishmant utilizza per scoraggiare qualsiasi uso alternativo delle misure fiscali dello stato. Ad esempio, hanno accettato senza fare domande la cosiddetta analogia del “bilancio familiare”, che sostiene che i governi emittenti valuta, come un nucleo familiare, hanno limiti finanziari ineludibili [are financially constrained], e che un deficit fiscale diventa un carico rovinoso per le future generazioni.
Dall’Emancipazione alla Ratificazione dello Status Quo
Tutto ciò procede di pari passo con un altro, parimenti tragico, sviluppo. Dopo la sua storica sconfitta, la tradizionale attenzione anticapitalista della Sinistra verso il concetto di classe ha lasciato il campo a una versione liberal-individualista dell’emancipazione. Soggiogati dalle teorie postmoderniste e poststrutturaliste, gli intellettuali della Sinistra hanno abbandonato le categorie marxiane di classe per concentrarsi invece su elementi del potere politico sull’uso di linguaggio e narrazioni come mezzo per consolidare i significati. Questo cambio di rotta ha anche delineato nuove aree di lotta politica che sono diametralmente opposte a quelle descritte da Marx. Negli ultimi trent’anni l’attenzione della Sinistra si è spostata dal “capitalismo” a questioni come il razzismo, la politica di genere, l’omofobia, il multiculturalismo eccetera. La marginalità non viene più descritta in termini di classe ma in termini di identità. La lotta contro l’illegittima egemonia della classe capitalista ha lasciato il campo alle lotte di una varietà di gruppi e minoranze (più o meno) oppresse e marginalizzate: donne, neri, LGBTQ eccetera. Il risultato è che la lotta di classe ormai non viene più vista come la via per la liberazione.
In questo mondo postmodernista, solo le categorie che trascendono i confini tra le classi vengono considerate rilevanti. In aggiunta, le istituzioni sviluppatesi per difendere i lavoratori contro il capitale – come sindacati e partiti socialdemocratici – sono ormai succubi di questi obbiettivi estranei alla lotta di classe [non-class struggle foci]. Come osserva Nancy Fraser, il risultato che è emerso, praticamente in tutti i paesi occidentali, è una perversa consonanza politica tra “le correnti principali dei nuovi movimenti sociali (femminismo, antirazzismo, multiculturalismo e diritti LGBTQ) da una parte, e dall’altra i settori imprenditoriali di servizi ‘simbolici’ e di fascia alta (Wall Street, Silicon Valley e Hollywood)”. (12) Il risultato è un progressismo neoliberista “che mette insieme ideali ridimensionati di emancipazione e forme letali di finanziarizzazione,” con i primi che prestano il loro carisma a queste ultime.
Man mano che la società si è andata dividendo sempre di più tra una classe urbanizzata, socialmente progressista, cosmopolita, ben educata, altamente mobile e specializzata, e una classe periferica, a bassa specializzazione, di bassa cultura, che lavora di rado all’estero e che affronta la concorrenza degli immigrati, la Sinistra di governo ha costantemente preso le parti della prima. In effetti, il divorzio tra le classi lavoratrici e la Sinistra intellettuale e culturale può essere considerato uno dei principali motivi dietro la ribellione di destra che investe attualmente l’Occidente. Come ha affermato Jonathan Haidt, il modo in cui le élite urbane globaliste parlano e agiscono innesca involontariamente le tendenze autoritarie di una frangia di nazionalisti. (13) In quest’orribile circolo vizioso, tuttavia, più le classi lavoratrici si volgono verso populismi e nazionalismo di destra, più la Sinistra intellettual-culturale moltiplica le sue fantasie liberali e cosmopolite, esacerbando ancora di più l’etnonazionalismo del proletariato.
Ciò è particolarmente evidente nel dibattito politico europeo in cui, nonostante gli effetti disastrosi di Unione Europea e unione monetaria, la Sinistra di governo – appellandosi spesso ai medesimi argomenti utilizzati più di una generazione addietro da Callaghan e Mitterand – resta aggrappata a simili istituzioni. A dispetto di ogni prova del contrario, la Sinistra di governo afferma che queste istituzioni possono essere riformate in chiave progressista, e rifiuta ogni argomentazione a favore di una nuova agenda progressista basata su una ritrovata sovranità nazionale, bollandola come un “arretramento su posizioni nazionaliste”, destinate inevitabilmente a far precipitare il continente in un fascismo stile anni 30. (14) Una tale posizione, per irrazionale che sia, non desta sorpresa, considerando che, dopotutto, l’unione monetaria europea è un’idea partorita dalla Sinistra europea. Tuttavia, questa posizione presenta numerosi problemi, che in definitiva hanno la loro radice nell’incapacità di comprendere l’autentica natura dell’Unione Europea e dell’unione monetaria. Per prima cosa, si ignora il fatto che la costituzione politica e l’economia dell’UE sono strutturate proprio per ottenere i risultati che abbiamo sotto gli occhi: l’erosione della sovranità popolare, il massiccio trasferimento della ricchezza dalle classi medie e basse a quelle dominanti, l’indebolimento della classe lavoratrice, e più in generale l’arretramento delle conquiste democratiche e socioeconomiche ottenute nel passato dalle classi subordinate. L’UE è progettata appositamente per impedire quel tipo di riforme radicali a cui aspirano i progressisti integrazionisti e federalisti.
Ancora più importante è il fatto che queste posizioni riducono la Sinistra al ruolo di difensore dello status quo, permettendo in tal modo alla Destra politica di monopolizzare le legittime rimostranze anti-sistema (e specificamente anti-UE) dei cittadini. Questo significa cedere alla Destra e all’estrema Destra la lotta discorsiva e politica per l’egemonia post-neoliberismo. Non è arduo accorgersi che se un cambiamento in chiave progressista si può attivare solo al livello globale o europeo – in altri termini, se l’alternativa offerta all’elettorato è tra un nazionalismo reazionario e un progressismo globalista – allora per la Sinistra la battaglia è persa in partenza.
Rivendicare lo Stato
Non dev’essere così per forza, tuttavia. Come spieghiamo in Reclaiming the State, una visione progressista, emancipazionista della sovranità nazionale radicalmente alternativa a quelle della Destra e dei neoliberisti – una visione basata sulla sovranità popolare, sul controllo democratico dell’economia, sul pieno impiego, la giustizia sociale, una redistribuzione dai ricchi verso i poveri, una politica di inclusione, e più in generale la trasformazione socio-ecologica della società e della produzione – una tale visione è possibile. È anzi indispensabile. Come scrive J. W. Mason:
“Qualsiasi ordinamento [sovranazionale] si possa immaginare in linea di principio, l’applicazione concreta degli apparati di sicurezza sociale, delle leggi sul lavoro, della protezione dell’ambiente e della redistribuzione della ricchezza avviene a livello nazionale, ed è perseguita da governi nazionali. Per definizione, ogni lotta mirante alla conservazione la democrazia sociale di oggi è una lotta per difendere le istituzioni nazionali.” (15)
In modo analogo, la lotta per difendere la sovranità democratica contro l’offensiva della globalizzazione neoliberista è l’unica base su cui si possa rifondare la Sinistra, sfidare la Destra nazionalista e ricucire lo strappo tra la Sinistra e la sua “naturale” base sociale – i diseredati. A questo fine, la Sinistra deve anche abbandonare la sua ossessione per le politiche identitarie e recuperare un “concetto di emancipazione più allargato, antigerarchico, egualitario, di classe e anticapitalistico” che un tempo era il suo marchio di fabbrica. Simili priorità, ovviamente, non sono in contraddizione con le lotte contro il razzismo, il patriarcato, la xenofobia e altre forme di oppressione e discriminazione. (16) Abbracciare una concezione progressista della sovranità significa anche lasciarsi alle spalle i tanti falsi miti macroeconomici che affliggono i pensatori progressisti e di sinistra. Come abbiamo già affermato, uno dei miti più diffusi e persistenti è il presupposto che i governi siano schiavi delle loro entrate. Dando credito a simili miti, la Sinistra è diventata incapace di concepire alternative radicali. E tuttavia, è proprio di alternative radicali che c’è bisogno. Come ha osservato di recente Perry Anderson: “Per i movimenti anti-sistema della Sinistra in Europa” – come altrove, del resto – “la lezione di questi ultimi anni è chiara. Se non vogliono farsi sorpassare dai movimenti di destra, non possono permettersi di essere meno radicali nell’attaccare il sistema, e in questa opposizione devono essere coerenti.” (17) In altre parole, la Sinistra deve tornare a essere radicale. In Reclaiming the State illustriamo quelli che riteniamo i requisiti necessari – in termini teorici, politici e istituzionali – per la creazione di una concezione all’interno della quale il perseguimento di un progetto socialmente ed economicamente progressista sia tecnicamente possibile. Questo è ciò che è necessario:
  1. Una concezione corretta delle capacità dei governi monetariamente sovrani (o comunque emittenti valuta), e più specificamente la consapevolezza che simili governi non sono mai vincolati alle entrate e alla solvibilità, dato che emettono la loro moneta con un atto legislativo e di conseguenza non possono “finire i soldi” o diventare insolventi. Questi governi hanno sempre una capacità illimitata di spendere la loro stessa valuta: cioè possono acquistare tutto ciò che vogliono, finché esistono beni e servizi acquistabili con la valuta da loro emessa, e possono utilizzare il loro potere di emettere moneta per finanziare massicci investimenti in infrastrutture sociali e materiali. Come minimo, possono reclutare i disoccupati e riutilizzarli produttivamente (ad esempio, con un Programma di Lavoro Garantito [job guarantee] [2] Questo, naturalmente, non si può applicare a paesi che facciano parte dell’Unione Monetaria Europea. La comprensione della realtà operativa delle moderne economie di emissione valutaria diviene quindi una conditio sine qua non per prefigurare una visione progressista ed emancipatoria della sovranità nazionale.
  2. Una drastica espansione del ruolo dello Stato – e un pari ridimensionamento del ruolo del settore privato – nel sistema di investimenti, produzione e distribuzione. Un progetto progressista per il XXI Secolo deve quindi di necessità comportare una larga ri-nazionalizzazione dei settori chiave dell’economia – incluso, cosa più importante, il settore finanziario – e un nuovo e aggiornato concetto di pianificazione, mirato a porre le leve della politica economica sotto controllo democratico.
Questi due elementi, a nostro avviso, forniscono la base su cui costruire un’alternativa progressista e radicale al neoliberismo, i cui dettagli dovrebbero risultare da un ampio dibattito tra pensatori progressisti, movimenti sociali e pariti politici, a livello nazionale e internazionali.
Per finire, è chiaro che il possesso di un programma socioeconomico convincente non basta per conquistare il cuore e la testa della gente. A parte la centralità dello Stato dal punto di vista politico-economico, la Sinistra deve farsi una ragione del fatto che la gran maggioranza della gente che non appartiene – e mai apparterrà – all’élite internazionale e giramondo, la loro idea di cittadinanza, di identità collettiva e di bene comune sono inestricabilmente legati al concetto di nazionalità. Alla fine dei conti, essere un cittadino vuol dire dibattere con altri cittadini all’interno di una comunità politica condivisa, e far sì che la classe dirigente risponda delle proprie decisioni [hold decision-makers accountable]. Oggi la Destra è vittoriosa perché è in grado di intessere un’efficace narrazione dell’identità collettiva in cui la sovranità nazionale viene sviluppata in chiave nativista o addirittura razzista. I progressisti quindi devono essere in grado di produrre narrazioni e miti altrettanto potenti, che riconoscano il bisogno di appartenenza e interconnessione degli esseri umani. In questo senso, una visione progressista della sovranità nazionale dovrebbe mirare alla ricostruzione e ridefinizione dello stato-nazione come luogo in cui i cittadini possano trovare rifugio nella “sicurezza nella democrazia [democratic protection], la legalità popolare, l’autonomia locale, i beni collettivi e le tradizioni egualitariste” piuttosto che in una società culturalmente ed etnicamente omogeneizzata, come dice Wolfgang Streeck. (18) Questo è anche il requisito indispensabile per la costruzione di un nuovo ordine internazionale, basato sull’interdipendenza, e tuttavia indipendenza degli stati nazionali.
Articolo apparso in origine su American Affairs, Volume I, Numero 3 (Autunno 2017), pagg. 75-91
Note
1 See Perry Anderson, “Why the System Will Still Win,” Le Monde diplomatique, Marzo 2017.
2 Ray Dalio et al., Populism: The Phenomenon, Bridgewater, 22 marzo 2017.
3 “Rose Thou Art Sick,” Economist, 2 aprile 2016.
4 Paolo Gerbaudo, “Post-Neoliberalism and the Politics of Sovereignty,” openDemocracy, 4 novembre 2016.
5 Marc Saxer, “In Search of a Progressive Patriotism,” Medium, 15 aprile 2017.
6 Adaner Usmani, “The Left in Europe: From Social Democracy to the Crisis in the Euro Zone: An Interview with Leo Panitch,” New Politics 14, no. 54 (Inverno 2013), http://newpol.org/content/left-europe-social-democracy-crisis-euro-zone-interview-leo-panitch.
7 Stuart Hall, “The Great Moving Right Show,” Marxism Today (Gennaio 1979): 18.
8 Colin Hay, “Globalisation, Welfare Retrenchment and ‘the Logic of No Alternative’: Why Second-Best Won’t Do,” Journal of Social Policy 27, no. 4 (Ottobre 1998): 529.
9 John Ardagh, France in the New Century: Portrait of a Changing Society (London: Penguin, 2000), 687–88.
10 Stephen Gill, “The Geopolitics of Global Organic Crisis,” Analyze Greece!, 5 giugno 2015, http://www.analyzegreece.gr/topics/greece-europe/item/231-stephen-gill-the-geopolitics-of-global-organic-crisis.
11 Richard Peet, “Contradictions of Finance Capitalism,” Monthly Review 63, no. 7 (Dicembre 2011), https://monthlyreview.org/2011/12/01/contradictions-of-finance-capitalism/.
12 Nancy Fraser, “The End of Progressive Neoliberalism,” Dissent, January 2, 2017, https://www.dissentmagazine.org/online_articles/progressive-neoliberalism-reactionary-populism-nancy-fraser.
13 Jonathan Haidt, “When and Why Nationalism Beats Globalism,” American Interest 12, no. 1 (Luglio 2016), https://www.the-american-interest.com/2016/07/10/when-and-why-nationalism-beats-globalism/.
14 Yanis Varoufakis e Lorenzo Marsili, “Varoufakis: ‘A un anno dall’Oxi, non rifugiamoci nei nazionalismi. Un’Europa democratica è possibile,’” La Repubblica, July 8, 2016, http://www.repubblica.it/esteri/2016/07/08/news/varoufakis_a_un_anno_dall_oxi_non_rifugiamoci_nei_nazionalismi_un_ europa_democratica_e_possibile_-143703316/.
15 J. W. Mason, “A Cautious Case for Economic Nationalism,” Dissent (Primavera 2017), https://www.dissentmagazine.org/article/cautious-case-economic-nationalism-global-capitalism.
16 Fraser, “The End of Progressive Neoliberalism.”
17 Anderson, “Why the System Will Still Win.”
18 Wolfgang Streeck et al., “Where Are We Now? Responses to the Referendum,” London Review of Books38, no. 14 (14 luglio 2016), https://www.lrb.co.uk/v38/n14/on-brexit/where-are-we-now.
note del traduttore
[1] Master frame: cfr. (a cura di) Nicola Montagna, I movimenti Sociali e le Mobilitazioni Globali, Franco Angeli 2007, pagg. 28 e sgg.

[2] Crf. qui.

L’Europa compie sessant’anni: facciamole la festa

Mentre si celebrano i sessant’anni del Trattato di Roma che avviò l’avventura europea occorre chiedersi se l’Europa, divenuta un Superstato di polizia economica, sia riformabile dall’interno, come sostiene ad esempio Varoufakis. Oppure se – in assenza di conflitto sociale e di un ceto politico disponibile alla disobbedienza istituzionale – sia necessario tornare alla dimensione nazionale per poter ripensare poi l’Unione come costruzione resistente al progetto neoliberale.

di Alessandro Somma da Micromega

Ancora scioccati per l’esito del referendum sulla Brexit, lo scorso settembre i Capi di Stato e di governo dell’Unione europea si sono riuniti a Bratislava per discutere di come recuperare la fiducia dei cittadini scossi da “paure riguardo a migrazione, terrorismo e insicurezza economica e sociale”[1]. Le paure del primo tipo hanno ricevuto un’attenzione particolare, sfociata nell’impegno solenne a evitare “i flussi incontrollati dello scorso anno” e a “ridurre ulteriormente il numero dei migranti irregolari”. Si è subito istituita una guardia costiera europea per contrastare con la forza l’arrivo dei migranti, e deciso di collaborare con i governi più o meno autoritari dei Paesi di provenienza o di transito per impedire le partenze. Il tutto ripreso in occasione di altri vertici, convocati per rafforzare la volontà di rispettare gli accordi con il despota di Ankara e di intensificare i rapporti con Al-Sarraj, Presidente del traballante governo libico di unità nazionale[2].

Anche la volontà di rilanciare la costruzione europea come baluardo per la sicurezza interna ed esterna dei cittadini è stata declinata in modo concreto: si intensificheranno i controlli antiterrorismo e si amplierà la cooperazione in materia di difesa. Più fumose invece le ricette per fronteggiare l’insicurezza sociale ed economica: più fumose e soprattutto più ideologiche. Ci si affiderà ai mercati, che saranno la panacea di tutti i mali nel momento in cui potranno funzionare nel pieno rispetto delle ricette neoliberali: saranno il mercato unico digitale e un ulteriore sviluppo della libera circolazione dei capitali, a produrre sicurezza economica e sociale.

Insomma, il rilancio della costruzione europea è una combinazione di chiusure e aperture: le prime dedicate alle persone, le seconde riservate alle merci e ai capitali. E che questa sia l’unica ricetta che i leader europei sono capaci di partorire, lo testimoniano anche le iniziative intraprese in vista della riunione dei Capi di Stato e di governo, che il 25 marzo si ritroveranno a Roma per festeggiare i sessant’anni del Trattato che prende il nome dalla capitale italiana: il Trattato che avviò l’avventura europea.

Una leader e tre sudditi a Versailles

Il calendario dei festeggiamenti per il compleanno dell’Europa è stato deciso in un vertice tra i leader francese, italiano, spagnolo e tedesco, tenutosi a Versailles il 6 marzo scorso. Il luogo è stato scelto per richiamare il senso della costruzione europea: Versailles è un simbolo di pace perché lì si sono sottoscritti gli accordi che terminarono la prima guerra mondiale, e proprio la volontà di assicurare un futuro di pace ha ispirato la nascita della Comunità economica europea nel 1957.

Si pensava allora che l’integrazione economica potesse produrre unità politica, e per questo l’Europa nacque come mercato comune. Ci si è insomma ispirati al modello dell’Unione doganale tedesca del 1834, una coalizione di oltre trenta Stati che precedette la fondazione dell’Impero tedesco, il Secondo Reich, sorto nel 1871. E del resto, dal punto di vista tedesco, la costruzione europea ha prodotto notevoli risultati: la prosperità della Germania si fonda proprio su quella visione economicista, alla base della moneta unica e del suo utilizzo come leva per costruire, attraverso l’austerità, i successi tedeschi a partire dalle miserie altrui.

Che occorra cambiare passo è dunque evidente a tutti, ma non ai quattro leader incontratisi a Versailles, impegnati a consumare uno dei più patetici e fastidiosi riti della governance europea: il teatrino per cui un gruppo ristretto di Paesi si autorappresenta come avanguardia illuminata, per questo legittimata a indicare il futuro radioso verso cui tutti gli altri devono precipitarsi. Le cose stanno ovviamente in tutt’altro modo, e non solo perché i quattro leader non hanno nulla di illuminato, ma perché tre di loro sono tutt’altro che leader, bensì sudditi capaci al massimo di aspirare a un selfie con chi davvero comanda: Angela Merkel.

François Hollande rappresenta un Paese che in passato ha composto con la Germania l’asse attorno a cui ruotavano le vicende europee. Quel passato, però, è oramai un ricordo sbiadito dal baratro verso cui i parametri di Maastricht stanno precipitando i francesi. Oggi l’asse si limita ad amplificare i desiderata di Berlino, che per Parigi sono ordini indiscutibili, presidiati dall’apparato sanzionatorio europeo sempre pronto a entrare in funzione.

a Spagna di Mariano Rajoi è invece il Paese che simboleggia al meglio i disastri prodotti dall’imperialismo economico della Germania, dal suo atteggiarsi a Minotauro globale al contrario[3]: invece di generare domanda per assorbire le merci prodotte negli altri Paesi, presta soldi a questi ultimi affinché consumino le sue. Salvo poi chiudere i rubinetti in caso di bisogno, come è avvenuto dopo lo scoppio della crisi economica e finanziaria: è questa l’origine del disastro della Spagna, passata da un debito pari a poco più del 35% del pil nel 2007, a quasi il 100% del pil di adesso.

E che dire di Paolo Gentiloni, la pallida e soporifera fotocopia di quel Matteo Renzi tanto bravo a insultare i tedeschi davanti alle telecamere, ma ancora più bravo a chinare il capo di fronte alle richieste più sconce in cambio di qualche offensivo zerovirgola di flessibilità in più. Dobbiamo a questo atteggiamento, se con l’ultimo Documento programmatico di bilancio l’Italia si è impegnata a risparmiare circa 35 miliardi di Euro tra il 2018 e il 2019, ovvero a realizzare tagli inimmaginabili per un Paese in ginocchio come il nostro[4].

Ebbene, al vertice di Versailles i quattro, al netto delle tante parole al vento, più o meno di circostanza, e degli slogan vuoti buoni solo a indorare pillole amare, hanno ribadito la volontà di intensificare gli sforzi comuni in materia di migrazioni e lotta al terrorismo. Per bocca di Hollande hanno poi precisato che l’insicurezza dei cittadini di cui farsi carico non è tanto quella sociale, bensì quella che richiede politiche securitarie e la costruzione di “un’Europa della difesa”. Merkel si è invece incaricata di sottolineare che, in materia di economia, la strada intrapresa è quella giusta, e che anzi occorre accelerare, se del caso lasciando per strada chi non tiene il passo: “dobbiamo avere il coraggio di accettare che alcuni Paesi possano andare avanti più rapidamente di altri”[5].

Europa a due velocità

Un vertice dei Capi di Stato e di governo di poco successivo all’incontro di Versailles, il 9 marzo, viene dedicato ai temi economici e sociali. È l’occasione per mostrare ottimismo, per celebrare una ripresa ancora impercettibile sul piano dell’occupazione, e soprattutto dell’equa distribuzione della ricchezza. Sufficiente però per affermare trionfalmente che “devono essere proseguite le riforme strutturali volte a modernizzare le nostre economie”: si deve cioè ridurre ancora la spesa sociale, privatizzare quel poco che è ancora pubblico, liberalizzare i pochi servizi ai cittadini rimasti, e soprattutto precarizzare ancora di più il lavoro. E si deve ribadire “l’importanza che riveste per l’occupazione, la crescita e la competitività, un mercato unico funzionante basato sulle quattro libertà”, ovvero, la libera circolazione di merci, servizi, capitali e persone (il riferimento è ovviamente ai soli lavoratori europei). E non importa se ci sono ostacoli all’estensione delle quattro libertà oltre il contesto europeo, ad esempio il recente affossamento del Trattato transatlantico di libero scambio (Ttip). Ci si può rifare con il Trattato tra Ue e Canada (Ceta), appena approvato dal Parlamento europeo, e con nuovi accordi con l’America meridionale, il Messico, il Giappone e la Cina[6].

Al vertice del 9 marzo non si poteva poi perdere l’occasione per rilanciare la linea appena dettata dalla Germania. Si ripete che occorre viaggiare a rotta di collo verso l’Europa dei mercati, tuttavia a due velocità: chi non vuole, o non è degno in base ai parametri di Maastricht, è tenuto a non intralciare la marcia trionfale di chi ha fatto i compiti a casa.

A questi aspetti, il giorno dopo il vertice, viene dedicata una riunione informale dei Capi di Stato e di governo. Ne conosciamo il contenuto attraverso una relazione confezionata per il Parlamento europeo da Donald Tusk, Presidente del Consiglio europeo appena confermato nella carica. Lì si ribadisce che la proposta di un’Europa a due velocità farà da sfondo alle celebrazioni per i sessant’anni del Trattato di Roma[7]. Anche se in particolare i Paesi dell’est si sono mostrati tiepidi se non contrari, giacché ciò che Angela vuole, il Donald polacco non può certo ignorare.

In fin dei conti l’Europa a due velocità formalizza una situazione di fatto: la distinzione tra i Paesi della Zona Euro e l’Europa a 28 (e in prospettiva a 27). I tedeschi hanno però ora interesse a individuare, all’interno della Zona Euro, una élite chiamata a rafforzare l’Unione economica e monetaria, a presidiarla come perno attorno a cui consolidare l’Europa neoliberale, da imporre come obiettivo indiscutibile verso cui tutti sono chiamati a convergere. Gli altri Paesi potranno decidere i tempi, ma non anche mettere in discussione l’esito finale, protetto dal moto di contestazione di ciò che è diventata la costruzione europea: un Superstato di polizia economica, che utilizza la concorrenza per dirigere i comportamenti individuali, sterilizzare il conflitto, e ridurre l’inclusione sociale a inclusione nel mercato.

Insomma, l’Europa lenta dovrà prima o poi raggiungere l’Europa veloce, ma solo apparentemente potrà farlo con calma. I ritmi sono infatti quelli scanditi dallo schema per cui Bruxelles concede risorse solo in cambio di riforme strutturali di matrice neoliberale. Questo schema, utilizzato prima per l’allargamento a sud, poi per l’allargamento a est e da ultimo per affrontare la crisi dei debiti sovrani[8], verrà infatti generalizzato, sino a divenire il principale motore della costruzione europea. Bruxelles lo ha detto apertamente con riferimento all’utilizzo dei fondi strutturali, da vincolare con veri e propri contratti al rispetto delle “procedure di governance economica”. E lo ha ribadito con la proposta di istituire “un apposito strumento finanziario” per incentivare “riforme difficili”, come quelle “miranti a rafforzare la flessibilità del mercato del lavoro”[9].

Cinque scenari per il futuro dell’Europa

L’Europa a due velocità rappresenta uno dei cinque scenari prefigurati dalla Commissione in un contributo sul futuro dell’Unione. È quello per cui “chi vuole di più fa di più”, da ritenersi una variante rispetto ad un secondo scenario: la scelta di “fare molto di più insieme”. Seguono tre scenari che non comportano un’espansione del livello europeo: andare “avanti così”, favorendo il “miglioramento graduale del funzionamento della zona euro”, restringere il raggio di azione, decidendo di “fare meno in modo più efficiente”, o ancora alimentando “solo il mercato unico”, senza comunque mettere in discussione la moneta unica[10].

Ma torniamo allo scenario preferito dai tedeschi, che nelle parole della Commissione è la situazione in cui si favorisce la nascita di “una o più coalizioni di volenterosi che operano in ambiti specifici”. Forse a Bruxelles è sfuggito che “coalizione di volenterosi” è stato anche il nome scelto da George W. Bush per indicare i Paesi che lo appoggiarono nell’invasione dell’Iraq. Sicuramente, però, hanno presente che l’idea di un’Europa a due velocità non è nuova, così come l’attaccamento dei tedeschi a questa formula: risale agli anni dei negoziati per il Trattato di Amsterdam del 1997, che preparò l’allargamento a est.

All’epoca il mitico Ministro delle finanze Wolfgang Schäuble teorizzò l’edificazione di un “nucleo europeo” (Kerneuropa), composto dai Paesi intenzionati a intensificare il livello di integrazione, dal quale erano ovviamente esclusi gli Stati meridionali, e in prospettiva quelli orientali. Questi ultimi dovevano essere ricondotti alla costruzione europea per prevenire una destabilizzazione dell’area, ma proprio per questo la costruzione non doveva più essere una comunità di pari. Si poteva procedere anche verso un’Europa federale, con istituzioni democratiche e politiche sociali condivise, ma questo schema era riservato a Belgio, Lussemburgo e Olanda in quanto Paesi associati all’asse franco-tedesco (i fondatori della Comunità economica europea senza l’Italia). Solo questi Paesi erano in regola con i parametri di Maastricht, e dunque con quanto costituisce il fondamento dell’Unione economica e monetaria: da ritenersi “il nucleo forte dell’unione politica” e non un semplice “elemento di integrazione aggiuntivo”. Solo questi Paesi avrebbero così rappresentato il centro produttore di disciplina capace di piegare le indisciplinate periferie meridionale e orientale[11].

Il sesto scenario

Sono passati oltre vent’anni dalla riflessione di Schäuble sul nucleo europeo, ma nel frattempo poco o nulla è cambiato: l’ottuso teutonico è ancora al suo posto, e le sue parole dettano ancora la linea di Bruxelles. Tanto che il contributo della Commissione al dibattito sul rilancio della costruzione europea evita accuratamente di ricomprendere l’unico scenario cui guardano i popoli europei stremati dall’austerità. Manca insomma il sesto scenario, quello della rottura o quantomeno della discontinuità rispetto all’Europa di Maastricht, che distrugge lo Stato sociale, precarizza il lavoro, privatizza i beni comuni, e da ultimo erige muri contro le persone mentre promuove la libera circolazione delle merci.

Di certo non rappresenta una rottura la prospettiva indicata dal nazionalismo economico, che usa i muri per bloccare la circolazione delle merci, oltre che delle persone. Esso alimenta la lotta planetaria tra Stati in competizione per la conquista dei mercati, ma non libera la politica dalla sua subordinazione all’economia. Questa ben può convivere con la riscoperta dei confini senza per ciò solo essere messa in discussione: il nazionalismo economico e il neoliberalismo sono variazioni su un medesimo tema.

Occorre allora chiedersi se il sesto scenario sia compatibile con questa Europa, ovvero se essa è riformabile dall’interno. Oppure se per realizzarlo occorra smontare l’Europa, tornare alla dimensione nazionale per poi rimontare l’Europa come costruzione resistente al progetto neoliberale. Occorre in altre parole verificare dove si colloca lo spazio tra Maastricht e il nazionalismo economico, il “terzo spazio” utilizzabile per ripensare la costruzione europea attorno ai valori della “democrazia, solidarietà, eguaglianza e dignità”.

Sono, queste, espressioni utilizzate da chi pensa che simili valori possano ancora emergere dall’Europa di Maastricht, innanzi tutto promuovendo un ritorno agli anni precedenti l’affermazione del pensiero neoliberale, gli anni del compromesso keynesiano: sarebbe cioè possibile riattivare forme di incisiva redistribuzione della ricchezza e piani di investimento a sostegno della domanda. E si potrebbe persino andare oltre, prevedendo per un verso un reddito di esistenza, e per un altro forme di democrazia economica ricalcate sulla pratica dei beni comuni, da valorizzare per consentire persino un controllo parlamentare sull’operato delle banche centrali[12].

Ci troviamo di fronte a uno scenario che dire idilliaco è poco: siamo entrati nella dimensione onirica. Il terzo spazio presuppone trasformazioni troppo ambiziose perché possano scaturire da questa Europa. Per realizzarlo, i Paesi europei dovrebbero prima elaborare una politica economica, fiscale di bilancio volta a favorire la piena occupazione, piuttosto che la stabilità dei prezzi[13]. Dovrebbero poi mettere in comune i loro sistemi di sicurezza sociale, il loro mercato del lavoro, e soprattutto i loro debiti. Infine dovrebbero delineare una politica monetaria ricavata da questi propositi, quindi ripensare radicalmente la moneta unica. Ma non possono farlo, perché le leve del potere necessario a produrre queste trasformazioni sono a Bruxelles.

Per i teorici del terzo spazio, tutto ciò può invece accadere se solo si attiva una “democrazia reale e costante”, che riviva nel conflitto. Non solo il conflitto sociale, a partire da quello prodotto nelle città per il riconoscimento dei diritti sociali, ma anche quello istituzionale. Anche le istituzioni, dalle amministrazioni comunali ai governi, possono disobbedire all’Europa dell’austerità, promuovendo così un circuito di “élite insubordinate” capace realizzare il sesto scenario senza mettere in discussione la costruzione europea in quanto tale[14].

Per quanto lo si possa ardentemente sperare, è lecito dubitare che tutto ciò possa davvero accadere. Non si vede un ceto politico disponibile a impugnare le armi della disobbedienza istituzionale, e i pochi eventualmente pronti a farlo sono troppo impegnati a complicare la geografia dei partitini, o peggio dei gruppi parlamentari della sinistra. E neppure si vede la tensione sociale che dovrebbe attivare il conflitto nelle città: vi sono qua e là movimenti capaci anche di ottenere qualche successo, ma si tratta di iniziative effimere e sporadiche, instabili e prive di un coordinamento a livello europeo, in ogni caso scollegate da un luogo nel quale operare una sintesi tra rappresentanza e mediazione.

Nazione, lavoro e conflitto sociale

Su una cosa i teorici del terzo spazio hanno ragione da vendere: le possibilità di un cambiamento sono direttamente proporzionali al livello di conflitto sociale che si riuscirà a produrre attorno all’idea di un’Europa democratica e solidale, in quanto tale radicalmente ostile al progetto neoliberale e al nazionalismo economico. Solo che il conflitto non può essere unicamente quello acceso dalle élites insubordinate, neppure se affiancato a quello dei movimenti per la rivendicazione dei diritti sociali. Occorre il contributo dei lavoratori, di chi è più direttamente colpito dalla rottura del patto fondativo del costituzionalismo antifascista: quello per cui il lavoro, in quanto concorso al benessere collettivo, assicura mezzi sufficienti a condurre un’esistenza libera e dignitosa.

Se i lavoratori sono indispensabili a contrastare l’Europa dei mercati, allora diviene altrettanto indispensabile un ritorno alla dimensione nazionale. È questa la sede in cui i lavoratori hanno ottenuto un’accettabile mediazione tra capitalismo e democrazia: quella, alla base del compromesso keynesiano, per cui non si mettevano in discussione proprietà privata e principio di concorrenza, ma lo Stato operava in cambio una redistribuzione della ricchezza attraverso politiche fiscali e di bilancio di sostegno alla domanda[15]. Di qui l’aperto contrasto con la costruzione europea così come si è consolidata a partire dal Trattato di Maastricht, che ha imposto politiche economiche incentrate sul solo controllo dei prezzi, fondamento per il varo della moneta unica. E che a monte ha liberalizzato la circolazione dei capitali, imponendo così agli Stati di comprimere i salari e ridurre la pressione fiscale per attirarli: con ciò rendendo irreversibile il rovesciamento del compromesso tra capitalismo e democrazia ottenuto dai lavoratori.

Il tutto senza considerare che il capitale non conosce, diversamente dal lavoro, il radicamento territoriale: se il primo è oramai ridotto a un fascio di flussi finanziari, il secondo è inchiodato alla dimensione spaziale. Ha dunque bisogno di rappresentanza politica, ancora una volta quella assicurata, alle condizioni attuali, dal solo livello nazionale. Del resto l’Europa è per un verso un’entità tecnocratica, messa al riparo dalla politica prima ancora che dalla democrazia, funzionante secondo schemi numerici in quanto tali indiscutibili. Ma per un altro verso è pur sempre una costruzione governata dai Capi di Stato e di governo dei Paesi membri, che non a caso compongono il Consiglio europeo: l’organo che “dà all’Unione gli impulsi necessari al suo sviluppo e ne definisce gli orientamenti politici e le priorità politiche generali” (art. 15 Trattato Ue). E i Capi di Stato e di governo possono divenire cinghia di trasmissione delle istanze del lavoro solo se i parlamenti nazionale si svincolano dai condizionamenti derivanti dalle cessioni di sovranità finora utilizzate per alimentare l’Europa neoliberale.

Ovviamente tutto ciò non cancella la necessità di momenti forti di coordinamento sovranazionale, all’altezza della dimensione alla quale opera il capitale. E neppure esclude che il ripiegamento sulla dimensione nazionale debba poi cedere il passo a una riespansione del livello sovranazionale, da riattivare se e nella misura in cui la costruzione europea si trasforma in un motore di democrazia e solidarietà. Tanto meno impedisce di vedere che i richiami al Novecento non si possono intendere come il tentativo di recuperare un passato che per molti aspetti non può tornare, se non altro per i limiti insormontabili del modello di sviluppo a cui ha dato vita.

Si commette dunque un errore grave a ritenere, come fanno i teorici del terzo spazio, che il livello nazionale non debba tornare protagonista: che questo significhi automaticamente “rifugiarsi in un’immaginaria autarchia nazionale”, o gettare “benzina sulla xenofobia già dilagante”[16]. Certo, la dimensione nazionale non implica di per sé un potenziamento della sovranità popolare, e dunque dei processi di democratizzazione. E ciò nonostante occorre liberarsi dalla convinzione, ricorrente nella sinistra radicale europea, che la dimensione sovranazionale è in quanto tale da preferire alla dimensione nazionale[17]. L’omaggio a schemi preconfezionati impedisce sempre di vedere i motivi di forza e i motivi di debolezza delle opzioni in campo, e a monte la loro pluralità: porta a riprodurre a sinistra la logica del Tina (There is no alternative), che invece a parole si dice di voler combattere.

Riflettiamo allora senza pregiudizi, dal momento che non ci muoviamo qui nel campo delle certezze assolute, e che dunque abbiamo bisogno di approfondire e confrontarci. Senza imporci limiti diversi da quelli che riguardano l’individuazione dell’obiettivo: combattere il neoliberalismo, incluso quello che si esprime attraverso il nazionalismo economico. Valorizzando la circostanza che il lavoro è il motore di questa lotta, e che questa si fonda su conflitti tradizionalmente efficaci nella misura in cui possono condizionare il modo di essere della statualità.

È evidente che così non si risolveranno tutti i problemi. Ma se non altro si eviterà di lasciare il campo a chi cavalca il moto verso la riscoperta della dimensione nazionale per tornare all’imperialismo economico. Giacché la dimensione statuale può invece combattere i mercati, o almeno ricondurli entro un ordine politico motore di emancipazione individuale e sociale, e non anche garante intransigente del principio di concorrenza.

NOTE

[1] Dichiarazione di Bratislava del 16 settembre 2016, http://www.consilium.europa.eu/press-releases-pdf/2016/9/47244647412_it.pdf.

[2] Cfr. Consiglio europeo del 15 dicembre 2016 – Conclusioni della Presidenza, http://www.consilium.europa.eu/it/meetings/european-council/2016/12/20161215-euco-conclusions-final_pdf e Dichiarazione di Malta dei membri del Consiglio europeo sugli aspetti esterni della migrazione del 3 febbraio 2017, http://www.consilium.europa.eu/it/meetings/european-council/2017/02/03-malta-declaration-it_pdf.

[3] Questa immagine efficace si deve a S. Cesaratto, Sei lezioni di economia. Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne), Reggio Emilia, Imprimatur, 2016, p. 32 ss.

[4] Piano programmatico di bilancio per il 2017, p. 6 ss. (www.mef.gov.it/inevidenza/documenti/DOCUMENTO_PROGRAMMATICO_DI_BILANCIO_2017-IT_-_new.pdf).

[6] Consiglio europeo del 9 marzo 2017 – Conclusioni della Presidenza, http://www.consilium.europa.eu/it/meetings/european-council/2017/03/09-conclusions-pec_pdf.

[7] Relazione del presidente Donald Tusk al Parlamento europeo sul Consiglio europeo del 9 marzo e sulla riunione informale dei 27 Capi di Stato o di governo del 10 marzo, http://www.consilium.europa.eu/it/meetings/european-council/2017/03/09-conclusions-pec_pdf.

[8] Cfr. A. Somma, La dittatura dello spread. Germania, Europa e crisi del debito, Roma, DeriveApprodi, 2014, spec. pp. 200 ss. e 239 ss.

[9] Un piano per un’Unione economica e monetaria autentica e approfondita. Avvio del dibattito europeo, Com/2012/777 def. V. anche la Comunicazione della Commissione sulle tappe verso il completamento dell’Unione economica e monetaria, Com/2015/600 def.

[10] Libro bianco sul futuro dell’Europa. Riflessioni e scenari per l’UE a 27 verso il 2025 (1. marzo 2017), https://ec.europa.eu/commission/sites/beta-political/files/libro_bianco_sul_futuro_dell_europa_it.pdf.

[11] Cfr. Überlegungen zur europäischen Politik (1. settembre 1994), documento predisposto da Wolfgang Schäuble e Karl Lamers (in quanto esponenti del Partito cristianodemocratico), http://www.cducsu.de/upload/schaeublelamers94.pdf.

[12] L. Marsili e Y. Varoufakis, Il terzo spazio. Oltre establishment e populismo, Roma e Bari, Laterza, pp. ix ss. e 67 ss.

[13] Cfr. A. Somma, Maastricht, l’Europa della moneta e la cultura ordoliberale. Storia di una regressione politica, in A. Barba et al., Rottamare Maastricht. Questione tedesca, Brexit e crisi della democrazia in Europa, Roma, DeriveApprodi, 2016, p. 57 ss.

[14] Ivi, pp. 71 ss. e 101 ss. V. anche Una disobbedienza costruttiva per rifondare l’Europa. Intervista a Yanis Varoufakis di Giacomo Russo Spena (17 marzo 2017), in questa Rivista, http://temi.repubblica.it/micromega-online/varoufakis-una-disobbedienza-costruttiva-per-rifondare-leuropa.
[15] Per tutti A. Barba e M. Pivetti, La scomparsa della sinistra in Europa, Reggio Emilia, Imprimatur, 2016, p. 15 ss. e passim.

[16] L. Marsili e Y. Varoufakis, Il terzo spazio, cit., p. 32 s.

[17] Cfr. M. Damiani, La sinistra radicale in Europa. Italia, Spagna, Francia, Germania, Roma, Donzelli, 2016, p. 189 ss.

(25 marzo 2017)

Dal diario di un impaziente Note sparse su sinistra, Europa, sovranità

di Mimmo Porcaro da sinistrainrete

Schivare il concreto
E’ da quando ho compreso il nesso tra Unione europea, dominio di classe e crisi irredimibile della sinistra, è da quel difficile passaggio (dovuto alla dura esperienza del secondo governo Prodi, da me vissuta direttamente anche a livello comunitario, ad una rilettura dei classici e poi ai testi di Bagnai, Cesaratto, Barra Caracciolo, Giacché ed altri) che mi torna spesso in mente una frase di Elias Canetti: “Schivare il concreto è uno dei fenomeni più inquietanti dello spirito umano”. Schivare il concreto, per la sinistra, significa per esempio schivare il problema del potere, e quindi il problema dello stato. Da convinto marxista so bene che è caratteristica specifica del capitalismo quella di esercitare il dominio di classe attraverso i meccanismi apparentemente impersonali e neutri dell’economia (non altrettanto bene lo sanno coloro che continuano a dire che l’euro è “solo una moneta”…). Ma so anche che, perché questi meccanismi apparentemente solo economici funzionino è necessario, Marx dixit, l’intervento disciplinante dello stato. E so (da Giovanni Arrighi) che alle fasi di crescita in cui il dominio si esercita in forma prevalentemente economica (finanziarizzazione e globalizzazione) succedono le fasi di crisi in cui lo stato ritorna prepotentemente sulla scena, e diviene evidente che chi lo controlla decide se si esce dalla crisi in direzione progressiva, ossia col socialismo, oppure con la guerra e con una nuova forma di capitalismo.

Eludere lo stato
Eppure dello stato la sinistra (soprattutto quella sedicente antagonista, critica ed alternativa) non parla quasi mai. Parla invece molto del non-stato: autorganizzazione, autogestione, produzione diretta di socialità, sperimentazione di forme extrastatuali di politica e di forme extramercantili di economia. Che bei concetti, che finezza di analisi, che assoluta, totale, irresponsabile mancanza di concretezza! Poi dice che il “popolo” si butta a destra! Prendiamo il sistema sanitario nazionale: disegnatene, se siete capaci, un modello fondato su autogestione e produzione diretta di socialità (con l’inevitabile corredo del decentramento…), dimostratemi che funziona e, se funzione, dimostratemi che non aggrava le differenze tra classi e territori. Come dite? Dite che è difficile? Che questo è un esempio estremo? Ma quale esempio estremo! Si tratta dell’essenziale, dell’eguaglianza di tutti di fronte alla malattia ed al dolore: e per ottenere questa eguaglianza è necessaria l’esistenza di strutture burocratiche, centralizzate e dotate della capacità di finanziarsi, ovvero di imporre anche ai riottosi la solidarietà fiscale. Dunque serve, ahinoi, un apparato coercitivo. Che orrore, vero? Si dirà che apparati del genere tendono inevitabilmente a sclerotizzarsi, a divenire autoreferenziali, autoritari ecc. . Verissimo! Affianchiamoli allora con agili ed efficaci associazioni autonome di cittadini e lavoratori che sappiano controllarli, contrastarli, proporre modelli alternativi, preparare gruppi dirigenti di ricambio. Ma non pensiamo di sostituirli con queste associazioni. Elaboriamo una nuova teoria dello stato ed una teoria della dialettica permanente tra stato e organismi di classe e cittadinanza. Non limitiamoci a pensare soltanto a ciò che sta fuori dallo stato, perché così lasciamo la gestione dello stato stesso ad altri (ben contenti del nostro antistatalismo…) e partecipiamo alla privatizzazione delle funzioni pubbliche sotto il manto della loro socializzazione.

Come superare il lavoro salariato
Un discorso analogo vale per la questione del lavoro. Vogliamo superare la forma-salario? Bene: cominciamo a garantire la piena occupazione (cosa che oggi, e soprattutto in Italia, si può ottenere solo con l’intervento pubblico e con la proprietà pubblica nei settori strategici) e così riduciamo al minimo l’esercito industriale di riserva e con esso il ricatto costante del licenziamento, che è la forma più brutale della schiavitù salariale. Poi riportiamo ad un livello decente le prestazioni del welfare, e così aumentiamo la quota del reddito percepito indipendentemente dalla prestazione lavorativa. Poi, sulla base della piena occupazione, iniziamo a ridurre l’orario di lavoro a parità di reddito (anche utilizzando, a questo punto, forme di reddito integrativo), e sviluppiamo libere – ma socialmente verificabili – attività di cura dell’ambiente sociale e naturale che costituiscano non già il titolo individuale per la fruizione dei servizi del welfare, ma la condizione sociale perché detti servizi siano sempre più estesi e gratuiti. Non basta? Fate un po’ voi. Vi sembra una proposta reazionaria (come dicono Grillo ed i postoperaisti) perché prevede il lavoro per tutti quando oggi non ci sarebbe più bisogno di lavorare, o quasi, e quindi sarebbe giunta l’ora del reddito incondizionato svincolato dal lavoro? Un tempo vi avrei detto: liberi di pensare e dire quel che volete. Oggi vi dico che ogni parola spesa in questo senso alimenta la crescita della destra dura. Perché?

Come non superare il lavoro salariato
Perché, vedete, potrei farvi tanti bei discorsi in cui spiegarvi l’ovvio. E cioè che si deve preferire il lavoro garantito al reddito garantito perché ci sarà pure l’espansione del lavoro intellettuale (che comunque è anch’esso lavoro, e assai più duro e “materiale” di quanto molti non dicano), ma qualcuno deve pur lavorare per costruire le sedie dove il “cognitariato” posa il suo pensoso posteriore, qualcuno deve pur scaricarsi i bancali carichi delle merci ecologicamente irreprensibili che consumate tra un clik e l’altro. E poi che non si può dire che si partecipa alla cooperazione sociale (e quindi si ha diritto per questo solo motivo a un reddito) anche solo facendo zapping davanti alla TV, perché così, secondo la vostra ipotesi, si forniscono informazioni che poi il capitale usa per valorizzarsi. In quel momento infatti non si è lavoratori (ossia membri di un processo collettivo consapevolmente orientato) ma prodotti, merci (ossia individui trasformati in spettatori dalla macchina mediatica), attori passivi della circolazione del capitale: altro che espressione della libera cooperazione produttiva, base del comunismo. Potrei dirvi questo ed altro, ma preferisco per una volta avere un approccio diverso, e mettermi nei panni di un lavoratore che, sia privato o pubblico, schiacciato dal superlavoro, non vede l’ora che una bella leva di giovani venga a dargli man forte. Provate a dirgli che tutti quei giovani disoccupati, in realtà disoccupati non sono perché producono socialità, e “quindi” valore, anche quando sparano cazzate al bar (attività peraltro nobilissima), e che perciò devono percepire un bastevole reddito a prescindere. E che poco importa se per fornirglielo si dovrà attingere dalla sanità o dal sistema pensionistico o magari ridurre un tantinello il reddito di chi si ostina a fare il lavoratore tradizionale. Provate a dirgli che invece di avere al suo fianco un paio di nuovi colleghi che alleggeriscono il suo lavoro, verranno piuttosto alleggerite le sue tasche per finanziare una indennità di disoccupazione mascherata. Provate a dirglielo: non voterà per Salvini, ma direttamente per Hitler. Insomma: non abbiamo diritto al reddito perché siamo “sempre” lavoratori. Abbiamo diritto al lavoro e al reddito, diretto o indiretto che sia, perché siamo cittadini. E dobbiamo lavorare, ossia svolgere una funzione socialmente essenziale, perché tutto ciò che giustamente percepiremo a prescindere dal lavoro non sia una mancia revocabile a piacimento, non sia una diminuzione della nostra dignità, ma un frutto di essa.

Giochi di sovranità
L’odio per lo stato si accompagna benissimo all’amore sconsiderato per l’Europa. Perché l’Unione europea si presenta come un non-stato: e poco importa se in essa il (presunto) declino dello stato si accompagna al dominio del mercato: secondo la nostra sinistra basta sostituire le relazioni mercantili con quelle sociali e il gioco è fatto. E che ci vorrà mai? Gli è, però, che l’Unione non è la tomba della sovranità in generale: è la tomba della sovranità democratica e popolare, di quella sovranità che è essenziale al funzionamento di ogni costituzione. Anche la forma in apparenza meramente economica assunta dell’Unione è in realtà frutto della sovranità, o meglio, dell’incrocio di tre distinte sovranità statali: quella degli Stati uniti (che non hanno mai voluto un’Europa apertamente politica), quella della Germania (che sapeva di non poter egemonizzare l’Europa, almeno all’inizio, in forma direttamente politica) e quella degli altri stati europei, che regolavano così i conti con le proprie classi subalterne fingendo che le decisioni dipendessero da altri. L’emergere della crisi ha fatto riemergere il carattere totalmente intergovernativo delle decisioni, e se un qualche superamento della frammentazione premierà gli sforzi dei fanatici del “più Europa” (tra i quali, of course, la sinistra) sarà, non tanto paradossalmente, un rafforzamento della forma peggiore di sovranità: una kernEuropa unita da vincoli economici ancor più classisti e soprattutto da un comune potere militare. Bella fine, per gli antisovranisti, partecipare alla costruzione di un maxi-sovrano che premierà la Germania conferendole l’arma nucleare!

La riforma impossibile
Eppure, perseverare diabolicum, si continua ad illudersi sulla riformabilità dell’Unione, a predicare piani B, ad esigere riforme dei trattati, a volere l’Europa “sociale”, a chiedere cioè cose che, se mai si realizzassero, provocherebbero l’exit della Germania e la fine dell’Unione, e a chiederle avventuristicamente, ossia senza minimamente prepararsi a quel ritorno alla nazione che sarà la forma inevitabile (almeno all’inizio) della rottura dell’Ue. Ma in realtà si chiedono queste cose perché si sa benissimo che non si realizzeranno mai. E’ infatti impossibile che non si capisca che non esistono le condizioni politiche né per la formazione di un’efficace movimento di classe o di cittadinanza europeo, né per utilizzare una qualche positiva divisione delle classi dominanti europee. Negli ultimi dieci anni e più abbiamo visto crisi, disoccupazione, guerre, miseria crescente, muri contro i migranti, ma non abbiamo visto mai nessun movimento sindacale o civile a livello europeo capace anche solo di iniziare una vera controffensiva. Abbiamo avuto l’evidente sofferenza dei paesi dell’Europa meridionale e la risposta dei dominanti europei è stata la punizione della Grecia: e se qualche divisione si vede in Europa non è tra la Merkel e qualcosa di meglio, ma tra la Merkel e la destra peggiore. Tutto ciò non avviene a caso. La “cecità” dell’Europa centro-settentrionale è in realtà il lucido perseguimento dell’obiettivo della centralizzazione dei capitali e dello sfruttamento del lavoro e del risparmio del sud a profitto del nord. E l’inesistenza di movimenti antiliberisti efficaci deriva dal fatto che l’Unione non è semplicemente uno spazio, che qualcuno può ritenere “migliore” di quello nazionale per il semplice fatto che è più “grande, ma è piuttosto una macchina che avanza distruggendo le forze che dovrebbero – in ipotesi – democratizzarla.

Trappole europee
Sono tre le micidiali trappole che impediscono sul nascere la formazione di una opposizione sociale unitaria a livello europeo. La prima è la “trappola di Von Hayek”, il quale fin dagli anni trenta aveva capito che per rendere strutturalmente impossibile il socialismo sarebbe stato opportuno costruire una bella federazione con una bella moneta comune, perché in tal modo ogni singolo stato, vincolato da una disciplina monetaria decisa altrove, avrebbe dovuto rinunciare a politiche di redistribuzione del reddito, delegandole al livello sovranazionale: ma al livello sovranazionale le storiche divisioni fra stati avrebbero avuto il sopravvento rendendo così impossibile qualunque tipo di redistribuzione. Ben pensato e ben fatto, direi! La seconda è la “trappola della sovranità”: protestate a Roma e vi dicono di andare Bruxelles, andate a Bruxelles e vi dicono di rivolgervi a Francoforte, e qui il banchiere centrale vi dice che si limita ad applicare norme tecniche coerenti con le dinamiche del mercato mondiale: e vorrete mica mettervi contro il mercato mondiale, voi poveri untorelli? E poi, alla fin fine, sono gli stati nazionali a nominare di fatto il banchiere: rivolgetevi a loro! La terza è la trappola della governance: chi comanda davvero, in questi decenni, ha centralizzato e reso impermeabili le decisioni strategiche ma ha delegato alla negoziazione sociale quelle secondarie: una vera bazza per tutte quelle ong, quei sindacati e simili che così possono illudersi di contare qualcosa, e soprattutto possono contare i denari che vengono dalla partecipazione a questo o quel progetto europeo. Credete che da questo mondo associativo, che costituisce una delle più strutturate basi della sinistra, possa venir fuori qualcosa di serio contro la logica dell’Unione?

Piccole monete per piccole patrie
E infatti ne vengono fuori solo palliativi, pannicelli caldi, o vere e proprie “furbate” dagli esiti paradossali. Prendete questa cosa delle monete “sociali” o della “moneta fiscale”. Intendiamoci, nulla in contrario, in linea di principio, in determinati momenti e per determinate questioni. Ma questi espedienti, pensati per non porre il problema dell’exit, avrebbero bisogno, per funzionare davvero, proprio di quella rigida chiusura nazionalistica, quando non localistica, che si rimprovera a chi dall’euro vuole uscire. Infatti la moneta fiscale e quella locale funzionano (come soluzione principale) solo per una nazione o una regione completamente chiuse agli scambi con l’estero. Se invece a questi scambi ti devi aprire ti accorgi che è impossibile usare queste monete per regolare i conti con l’estero, ossia per affrontare quello che è il problema principale di un’economia ormai dipendente come la nostra. Proprio per questo l’eventuale momentaneo beneficio di una moneta sociale e fiscale (i soldi comunque girano, le attività economiche riprendono e così la domanda ecc. ecc.) si convertirebbe da subito in un aumento del deficit con l’estero che, non potendo mai risolversi (per quanto riguarda i rapporti con i paesi europei) con la flessibilità monetaria, dovrebbe essere risolto con la flessibilità salariale. Al ribasso, ovviamente. Ecco che cosa succede a schivare il concreto, concretissimo problema dell’euro

Poesia e prosa
Ma che ce lo diciamo a fare? Qui non è questione di opinioni, di “franca e fraterna discussione”, di lotta ideologica. Certo, c’è una parte non piccola di militanti di sinistra che rimane europeista per dubbi sul prima e sul dopo (sulla genesi dell’Ue e sui modi dell’exit), per abitudine intellettuale, per diffidenza verso certe forme di sovranismo. Con costoro bisogna essere pazienti e non spocchiosi. Bisogna ricordarsi che non è stato facile neanche per noi uscire dall’europeismo: e l’abbiamo fatto di fronte alla palese evidenza del coup d’état di Napolitano-Monti: la droga soporifera successivamente spacciata da Mario Draghi ha annebbiato la vista a molti. Ma per la gran parte della sinistra, ed in particolare per i gruppi dirigenti ed i quadri intermedi, non è questione di poesia europeista ma di prosa. In Italia chi guadagna più di 1.500 euro al mese è europeista. Chi ne guadagna dai 1.000 ai 1.500 è indeciso. Chi sta sotto i 1.000, o chi è disoccupato, è antieuropeista: e se invece per ora si tiene in disparte, domani sarà decisamente anti-euro. Questo per dirvi come va il mondo. La nostra tragedia sta nel fatto che la base sociale della sinistra (quella da cui provengono i quadri) e la sua base di massa (quella da cui provengono gli elettori) appartengono generalmente al primo e al secondo scaglione: e i dirigenti soprattutto al primo. Chi glielo fa fare di rompere gli equilibri e di correre i rischi politici dell’exit? E chi glielo fa fare di porsi il problema dello stato, visto che sulle questioni essenziali (ossia sull’indiscutibilità dell’europeismo) lo stato italiano si muove secondo i desiderata della sinistra e per il resto con 1.500 e più euro al mese, welfare e pensione da lavoratore di lungo corso si vivacchia mica male?

Ancora una divisione tra i lavoratori
La nostra vera tragedia, la tragedia di quel che resta del movimento dei lavoratori e del movimento socialista e comunista, e quella di tutti i cittadini che ancora credono alla Carta fondamentale non è lo strapotere del capitale ma la divisione interna al mondo del lavoro. L’esperienza della lotta di classe post ’45 è certamente ambigua e contraddittoria, ma è difficile negare che nello stato sociale e nel partito di massa, il lavoro qualificato (fosse esso di origine “colta” o meno) aveva la funzione di mediare tra lo stato e la parte meno qualificata del lavoro stesso. Stato e partito erano il luogo di un’alleanza. Progressivamente, il ritrarsi dello stato e la forma privata assunta da molte attività intellettuali hanno creato una frattura che al momento non si vede come risanare, se non con una grande esperienza collettiva di emancipazione, dettata da una qualche necessità storica. Insomma: in Italia esiste un blocco deflazionista, composto non solo dai possessori di grandi e medi capitali, ma anche dai medi risparmiatori e da grandissima parte dei lavoratori garantiti, un blocco che teme l’instabilità e l’inflazione più di ogni altra cosa, che egemonizza il movimento dei lavoratori facendo dimenticare a tutti che l’inflazione è inseparabile da una politica di piena occupazione, e viceversa. Finché questo blocco non si estinguerà (per la progressiva scomparsa del lavoro garantito) o non si spaccherà, non risolveremo nulla. Per adesso questo blocco si candida, qualora ce ne fosse bisogno, a salvare l’appartenenza dell’Italia all’Unione promuovendo una sacra alleanza contro il populismo sovranista. Ad amministrare la miseria italiana per conto della Germania. Nuovi Tsipras crescono.

Sovranità e classe
Qualche evoluzione a sinistra, e nelle vicinanze, si inizia per fortuna a vedere. C’è però troppa timidezza nell’accettare in pieno il terreno della sovranità nazionale. Si ha forse paura di tornare a un tempo in cui l’aggettivo “nazionale” (interesse nazionale, solidarietà nazionale) copriva pratiche di compromesso di classe a perdere. E lo posso capire. Ma oggi le cose stanno all’opposto: oggi la sovranità nazionale viene distrutta proprio per rendere impossibili politiche pro labour. Ed oggi la rinazionalizzazione della politica (un dato di fatto, non una scelta degli ottusi sovranisti) non è un incidente di percorso che interrompe la pacifica marcia della globalizzazione: è piuttosto l’inevitabile risultato dialettico della globalizzazione stessa, che è stata ed è un processo di gerarchizzazione a cui si risponde, inevitabilmente, situandosi in quegli spazi che storicamente hanno (o possono tornare ad avere) quel quantum di forza finanziaria e politica che serve ad ostacolare il libero movimento del capitale. Ossia le nazioni. Dice: ma la sovranità rimanda ad un potere assoluto, trascendente, nemico della società e quindi dei lavoratori… . Ma quando mai? Nella logica del pensiero costituzionale italiano (Mortati in primis) la sovranità è la possibilità di porre in essere comandi politici che non siano condizionati da potentati, interni o esterni allo stato, che possano ostacolare la funzione redistributiva dello stato stesso. La sovranità è la base di una costituzione lavorista, e dalla costituzione stessa è limitata(giustamente: perché il sovrano, quand’anche sia il popolo, può sempre sbagliare). La lotta per l’autonomia di classe ha bisogno di strumenti di politica economica che solo la sovranità nazionale può fornire, ed è per questo che autonomia di classe e sovranità nazionale si intrecciano. Una sovranità nazionale che è primo passo per la creazione di nuove relazioni internazionali che costituiscano lo spazio necessario a condurre in porto efficaci esperienze socialiste. Siamo socialisti ed internazionalisti: quindi vogliamo ricostruire uno stato capace di redistribuire (e per questo ci serve la condizione formale della sovranità nazionale), e quindi dobbiamo anche poter far muro contro la piena libertà di movimento dei capitali (e per questo ci serve uno spazio internazionale cooperativo – e non gerarchico come è quello dell’Unione).

Sovranità e democrazia di base
Dice: ma come, proprio tu che per anni hai teorizzato la necessità di una politica che non si fissi sullo stato, che sia in grado di intaccare i poteri sociali più diffusi, che consenta una attivazione diretta dei lavoratori e della cittadinanza, proprio tu mi vai a riscoprire lo stato, la sovranità e addirittura la nazione? Si, e non sento nemmeno il bisogno di fare troppa autocritica (se non per aver dato troppo credito al “movimento dei movimenti”, non cogliendo fino in fondo la natura relativamente aristocratica di certe forme di mobilitazione). Non ho mai assunto una posizione anarchica (anzi, ho polemizzato espressamente con Negri ed Hardt). Non ho mai detto che si cambia il mondo senza prendere il potere (anzi, ho polemizzato espressamente con Holloway, pur riconoscendone i meriti). Ho semplicemente detto: a) che la funzione di un’entità “terza” che dirima grazie all’autorità politica i conflitti sociali (inevitabili anche nel migliore dei mondi) è ineludibile, e che quindi è ineludibile una qualche forma di stato, altrimenti il soviet più forte mangerà sempre il soviet più debole; b) che ogni stato, anche e soprattutto lo stato che si pretende espressione diretta del popolo, della classe o della famosa moltitudine, tende inevitabilmente alla degenerazione gerarchica; c) che quindi è necessario affiancare allo stato una rete di associazioni autonome dei lavoratori e dei cittadini, capace di interloquire e confliggere con lo stato stesso e, se necessario, di produrre nuovi gruppi dirigenti in sostituzione di quelli eventualmente degenerati. Aggiungo che tali associazioni, se sono veramente mosse dall’esigenza di organizzare la lotta dei ceti popolari per più decenti condizioni di vita e di costruire forme efficaci di democrazia di base, troverebbero oggi grande giovamento proprio da una ricostruzione della sovranità nazionale, perché così avrebbero di fronte ad un interlocutore preciso, identificabile e certamente assai più permeabile della Commissione europea e di consimili mostri. Per capirci: le “città ribelli”, se si organizzano contro un governo nazionale per esigerne politiche coerentemente redistributive, sono un grande momento di presa di parola delle classi popolari e di costruzione delle condizioni dell’eguaglianza. Se invece si presentano come snodi di una governance europea, si perdono nell’indefinito dei progetti macro-clientelari e divengono vettore di diseguaglianza, creando un solco trai luoghi che hanno le possibilità ed il coraggio di ribellarsi e quelli che non sanno o non possono farlo. C’è qualcuno, trai movimenti, le associazioni ecc. ecc. che abbia voglia di affrontare questo “piccolo” problema? Vogliamo proprio far sì che l’anarchismo perda tutta la sua possibile funzione critica e si riduca ad essere anarcocapitalismo d’accatto, ideologia del dominio dei penultimi sugli ultimi?

Non “tornare” ma “inventare”
Non vedo solo una timidezza nell’accettare il terreno della sovranità. Vedo anche una certa leggerezza nell’accettarlo. Intendiamoci: rivendicare la sovranità è condicio sine qua non di qualunque politica degna di questo nome. Ma non si può semplicemente dire “torniamo alla sovranità nazionale”. Se è vero che oggi la sovranità è limitata anche formalmente (e questa è una grave regressione) non si può dimenticare che negli anni successivi al ’45 essa era comunque sostanzialmente limitata. Una funzione fondamentale della sovranità, quella militare, era concentrata nello stato egemone. Ed anche la sovranità economica era sottoposta a vincoli, per quanto, almeno all’inizio, molto elastici. Queste limitazioni, poi erano strettamente funzionali al mantenimento delle gerarchie di classe interne ad ogni paese. Insomma, se si vuole usare la sovranità nazionale come momento di controffensiva dei lavoratori bisogna reinventarne le condizioni, lavorare per la formazione di un mondo multipolare e per il suo equilibrio pacifico, scegliere le relazioni internazionali che meglio consentano lo sviluppo della lotta di classe. Un terreno tutto da dissodare. E così non si può dire semplicemente “torniamo alla politica mediterranea cooperativa” tipica dell’Italia. Tale politica infatti non fu solo cooperativa, ma anche a suo modo imperialistica, fu in fondo solo una variante tattica dell’atlantismo – e difatti perse ogni autonomia quando il sovrano atlantico lo impose, e si mosse in un ambiente di interlocutori stabili che oggi non esistono più. Qui, per noi, abituati a pensare alla politica estera più che altro in termini di slogan e tifo, c’è davvero un lavoro enorme da fare. Né si può dire semplicemente ”torniamo alle imprese pubbliche”, perché queste veramente pubbliche non furono, a causa di una forma giuridica e di un regime di controlli che le resero man mano oggetto di uso privatistico da parte di manager e partiti. Soprattutto, dato il monopolio manageriale del know how, la redazione delle norme che avrebbero dovuto regolare il comportamento delle grandi imprese era di fatto affidata alle imprese stesse (e lo stesso discorso vale per la Banca d’Italia). Si deve quindi inaugurare la stagione dell’impresa pubblica nel nostro paese. E le competenze della società civile potrebbero avere oggi molto da dire nell’ambito di una ripresa ragionata dell’economia mista.
Ecco, vogliamo parlare di queste cose o ci basta cianciare su Minzolini e sulle pseudo-scissioni del PD? E’ possibile che non si riescano a studiare in maniera organizzata tutte queste questioni? E’ possibile. E così, reso impaziente dall’età avanzata e dall’avanzare dei tempi, mi toccherà di stizzirmi ancora, e di sfogarmi ancora con v

L’Europa, da trent’anni al fianco della finanza

La crisi finanziaria del 2007-9 può essere considerata una conseguenza di quel trentennale processo di finanziarizzazione – termine di cui esistono diverse definizioni ma che per semplicità possiamo identificare con il peso e il potere crescenti assunti dalla finanza e dal capitale finanziario nell’economia – che fu la risposta (indubbiamente geniale) del capitalismo alla stagnazione dei salari provocata dalla guerra vittoriosa ingaggiata dal capitale nei confronti del lavoro nel corso e per mezzo di quella che è stata definita la “controrivoluzione neoliberista”. In sostanza, la crescente erosione dei salari e del potere d’acquisto dei lavoratori in diversi paesi occidentali fu “compensata” dall’aumento esponenziale dell’indebitamente privato, ossia da quello che alcuni hanno definito una paradossale forma di “keynesismo privatizzato”. Sarebbe a dire che le banche hanno permesso ai lavoratori, tramite il credito/debito, di mantenere inalterati i loro livelli di consumo, nonostante la stagnazione salariale verificatasi dagli anni ’70 in poi.
Questo processo di finanziarizzazione si è espletato sostanzialmente in due modi: (i) a livello internazionale, attraverso la liberalizzazione dei flussi di capitale, che – è il caso di sottolineare – fu una scelta squisitamente politica e non una conseguenza inevitabile della modernità e del progresso, come spesso viene detto, anche a sinistra; (ii) a livello nazionale, attraverso la liberalizzazione dei sistemi bancari e creditizi nazionali, per mezzo dello smantellamento di tutta quell’architettura regolatoria messa in piedi in alcuni paesi in seguito alla grande depressione e poi in maniera più diffusa in seguito alla seconda guerra mondiale, e che fu una delle architravi del cosiddetto “trentennio glorioso” (che poi tanto glorioso non fu ma quello è un altro discorso).
Su entrambi questi fronti l’Europa – e, ahimè, la sinistra europea – ha fatto da apripista. Sul fronte della liberalizzazione dei capitali l’Europa ha praticamente anticipato tutti. Basti pensare che già nell’Atto unico dell’86 – quindi parliamo di un momento in cui praticamente tutti i paesi europei impiegavano controlli di capitale di qualche tipo ed anzi questi erano considerati fondamentali per il corretto funzionamento del mercato unico – Jacques Delors, l’allora presidente della Commissione, riuscì a inserire la libera circolazione dei capitali (non solo tra paesi membri ma anche tra paesi della CEE e paesi terzi) tra le architravi della nascente costituzione economica europea. Questo diede uno spinta decisiva alla liberalizzazione dei flussi di capitale a livello globale. Come scrive Rawi Abdelal, professore di management internazionale ad Harvard: «Questa nuova definizione del carattere economico europeo rappresentò il motore principale della diffusione della libera circolazione dei capitali a livello mondiale… I mercati finanziari globali sono globali in primo luogo grazie al processo di integrazione finanziaria europea». Tale processo ha inoltro giocato un ruolo cruciale nel determinare la crisi dell’eurozona, come vedremo.
Questo per quanto riguarda la liberalizzazione dei flussi di capitale. L’Europa però ha fatto da apripista anche sull’altro fronte di tale processo, la liberalizzazione e la deregolamentazione dei sistemi bancari nazionali. Si è parlato tanto in questi anni del ruolo giocato nella crisi finanziaria dall’abrogazione da parte di Clinton, nel 1999, della famosa legge Glass-Steagall, introdotta da Roosevelt negli anni ’30 per separare le banche commerciali dalle banche d’investimento e impedire la formazione di quelle banche “too big to fail” che hanno giocato un ruolo determinate nella crisi. Ora, quello fu sicuramente un passaggio importante per quanto riguarda il contesto statunitense. Quello che però spesso ci si dimentica di dire è che l’Europa anticipò praticamente di un decennio gli Stati Uniti nell’abrogare le varie leggi “Glass-Steagall” che esistevano nei diversi ordinamenti nazionali europei. Già nel 1989 la Seconda direttiva bancaria della CEE, finalizzata alla creazione di un mercato unico dei servizi finanziari, gettò di fatto le basi legali per l’estensione del cosiddetto “modello tedesco” della banca universale – sarebbe a dire un sistema in cui alle banche è permesso di partecipare ad attività diverse e di agire sia da banca commerciale che da banca d’investimento – al resto della Comunità europea.
La Seconda direttiva rappresentò una sorta di legge bancaria sovranazionale che funse da quadro di riferimento per le riforme dei vari sistemi bancari nazionali negli anni a venire. In Italia la direttiva fu recepita nella Legge Amato del 1990, che permise alle banche di superare il divieto, introdotto nel 1936, di operare contemporaneamente come imprese commerciali e di investimento. Rappresentò in un certo senso l’equivalente italiano dell’abolizione della Glass-Steagall fatta da Clinton, con dieci anni di anticipo rispetto agli Stati Uniti però. Come per la liberalizzazione dei flussi di capitale, anche questo ebbe inevitabilmente un impatto a livello internazionale, fornendo l’impulso alla liberalizzazione dei sistemi bancari anche all’infuori dell’Europa e in particolare negli USA. Uno dei risultati della Seconda direttiva bancaria, infatti, fu il progressivo consolidamento delle banche europee, che in pochi anni divennero significativamente più grandi e concentrate delle loro corrispettive statunitensi, tanto che cominciarono ad acquisire diverse banche statunitense. Fu proprio la minaccia (reale) rappresentata dalle banche europee a cui si appellarono le banche statunitensi per ottenere dai legislatori l’abolizione della Glass-Steagall.
Arriviamo così alla crisi finanziaria del 2007-9. Va notato che persistono ancora delle letture molto discutibili di cosa fu realmente quella crisi. È ancora diffusa, per esempio, l’opinione secondo cui le banche e le istituzioni europee furono semplici “vittime collaterali” di una crisi generatasi oltreoceano. Non è così. Come scrisse Luciano Gallino: «Non si è affatto trattato di una crisi americana seguita da una crisi europea; in realtà la prima e la seconda sono due volti, o due fasi, di una medesima crisi del capitale finanziario». Come è noto, negli Stati Uniti la crisi fu il risultato dello scoppio della bolla dei cosiddetti subprime: mutui facili concessi dalle banche americane a soggetti a basso reddito che non erano in grado di ripagare tali debiti, cosa che però importava poco alla banche giacché questi debiti venivano impacchettati (“cartolarizzati”) e poi rivenduti a terzi.
Le stesse dinamiche ebbero luogo in Europa, solo su scala molto più grande. Prima di entrare nel merito della faccenda, è opportuno notare che – proprio in virtù del ruolo di avanguardia giocato dall’Europa nei processi di finanziarizzazione – alla vigilia della crisi (ma lo stesso è vero anche oggi) il sistema bancario europeo si presentava molto più grande di quello americano. Tanto per farsi un’idea: a fine 2007, tra i primi venti gruppi bancari del mondo per volume degli attivi, ben quattordici erano europei e solo tre erano americani. In totale, alla vigilia della crisi finanziaria, gli istituti finanziari europei (esclusi quelli svizzeri) – settemila in tutto – detenevano attivi per 37,7 trilioni di euro, pari quasi al 300 per cento del PIL dell’Unione. Di questi, 20 trilioni – pari al 150 per cento del PIL dell’UE – erano in mano a dieci mega-banche (con attivi equivalenti a una grossa fetta del PIL dei rispettivi paesi). Per contro, gli attivi totali del sistema bancario americano ammontavano “solo” al 78 per cento del PIL.
Se prendiamo la cosiddetta “leva finanziaria” – cioè il rapporto tra capitali propri e capitali presi a prestito – come misura della propensione al rischio e alla speculazione finanziaria di una certa banca, risulta evidente che le banche europee, lungi dall’essere delle vittime collaterali dei malaffari delle banche americane, erano dedite esattamente alle stesse pratiche ad altissimo rischio sistemico (e al limite della legalità) delle loro controparti d’oltreoceano. E spesso su scala ancora maggiore. Se Lehman Brothers e Bank of America – due delle banche al centro della crisi dei subprime – registravano alla vigilia della crisi rispettivamente una leva di 31:1 e 11:1, in Europea ING registrava una leva di 49:1, Deutsche Bank di 53:1 e Barclays – che risultava essere la banca più indebitata al mondo – addirittura di 61:1. Questo giusto per farsi un’idea di quanto sia fallace l’idea che esista una “cattiva” finanza americana e una “buona” finanza europea.
Dicevamo che in Europa abbiamo visto delle dinamiche simili alla crisi dei subprime USA. Ecco, sostanzialmente potremmo dire che se negli USA le banche si concentrarono su cittadini subprime, in Europa le banche si concentrarono su paesi subprime. Con l’introduzione dell’euro abbiamo assistito ad un’esplosione dei flussi finanziari transfrontalieri. In pratica, enormi flussi di capitale si sono riversati dai paesi del centro (come Francia e Germania) verso quelli della periferia, alla ricerca di margini di profitto più alti di quelli che potevano ottenere in patria. Nella maggior parte dei casi, questi flussi si sono riversati verso altre banche – contribuendo all’aumento dell’indebitamento privato dei paesi della periferia – ma in alcuni casi si sono riversati anche in titoli di Stato, come in Grecia, favorendo invece l’aumento dell’indebitamento pubblico. Questo ha contribuito ad alimentare enormi bolle speculative in paesi come Irlanda, Spagna e Grecia, che a loro volta sono all’origine degli altrettanto enormi squilibri di partite correnti generatisi in seguito all’introduzione dell’euro. In tutti i casi, comunque, l’aumento dei livelli di indebitamento – sia privato che pubblico – nel periodo antecedente alla crisi può essere ricondotto alla creazione e all’architettura ultra-finanziarizzata dell’unione monetaria, come ha riconosciuto lo stesso vicepresidente della BCE Vítor Constâncio.
Uno potrebbe dire: ma le banche non si rendevano conto di correre dei rischi a prestare grandi quantità di denaro alle banche e ai governi di paesi politicamente poco affidabili e strutturalmente piuttosto deboli? La risposta, di cui troviamo conferma nelle dichiarazioni di diversi banchieri europei, è che no, non pensavano di correre dei rischi perché erano sicuri che in caso di crisi le istituzioni pubbliche sarebbero intervenute per salvarle. E così è stato: secondo un rapporto della Commissione Europea, tra ottobre 2008 e ottobre 2010 la Commissione stessa ha approvato 4.600 miliardi di euro di aiuti di Stato in favore delle istituzioni finanziarie da parte di paesi UE, equivalenti al 37 per cento del PIL dell’Unione. Quattro paesi hanno presentato programmi di aiuti alle banche che vanno dai 600 miliardi della Germania agli 850 del Regno Unito (che nel 2008 ha anche parzialmente nazionalizzato due banche, la Royal Bank of Scotland e la Lloyd Banking Group). I programmi di altri quattro paesi variavano tra i 320 miliardi dell’Olanda e i 350 della Francia. L’ammontare del sostegno pubblico effettivamente utilizzato dalle istituzioni finanziarie è stato di 960 miliardi di euro nel 2008 e 1100 miliardi nel 2009: oltre 2000 miliardi di euro in soli due anni.
Ovviamente questi salvataggi non hanno solo riguardato le banche dei paesi coinvolti: indirettamente hanno riguardato anche le banche creditrici, ossia le banche dei paesi del centro – Germania e Francia – che si erano indebitate nei confronti delle banche (e nel caso della Grecia del governo) della periferia. Salvando le banche della periferia i governi di quei paesi hanno indirettamente salvato le banche dei paesi del centro. Questi salvataggi sono ovviamente all’origine dell’esplosione dei livelli di deficit e di debito pubblico a cui abbiamo assistito dal 2009 in poi, che è stato poi utilizzato – in un’operazione di propaganda francamente vergognosa – per trasformare una crisi finanziaria e del debito privato in una crisi del debito pubblico e delle finanze pubbliche, giustificando così l’imposizione di quelle violentissime misure di austerità che sono all’origine della profondissima crisi sociale ed economica in cui versa l’Europa (e in particolare i paesi della periferia).
Ma non è finita qui. Come è noto, l’effetto dei salvataggi bancari – e più in generale della crisi economica – sulle finanze pubbliche di questi paesi è stato così devastante che di lì a poco, dopo la Grecia, anche Irlanda, Portogallo e Spagna si sono visti costretti a chiedere “aiuto” alla troika. Anche in questo caso, però, emerge che il grosso dei soldi è stato utilizzato per permettere alle banche della periferia (e nel caso della Grecia, allo Stato) di onorare gli impegni con le banche creditrici, in gran parte banche tedesche e francesi, non per risanare i buchi di bilancio. Di fatto, si è trattato di un doppio salvataggio a favore delle banche creditrici (triplo se includiamo anche il modo in cui il sistema TARGET2 della BCE ha permesso alle banche del centro di rientrare di una parte dei loro debiti nei confronti delle banche della periferia). Agli interventi statali a sostegno delle banche bisogna poi aggiungere il sostegno della BCE, che di fatto si è attivata per offrire una fonte illimitata di liquidità alle banche della zona euro.
Per concludere, potremmo dire che, di fronte di una crisi dettata da un’eccessiva finanziarizzazione dell’economia, le autorità pubbliche hanno sostanzialmente scelto di accelerare ancora di più nel siffatto processo di finanziarizzazione. L’Europa è un esempio lampante: da un lato abbiamo avuto misure di austerità feroce per i governi e per “l’economia reale” – che hanno accelerato processi di deindustrializzazione già in corso – mentre dall’altro abbiamo visto le autorità nazionali e sovranazionali fare di tutto di tutti per rilanciare i processi di accumulazione finanziaria, senza perseguire praticamente alcuna riforma fondamentale del sistema bancario. Non è dunque esagerato affermare che la crisi in Europa è stata utilizzata soprattutto per approfondire e “portare a termine”, per così dire, il processo di neoliberalizzazione e di finanziarizzazione dell’economia, di cui oggi paghiamo le conseguenze in termini economici e politici.
Rielaborazione di una relazione tenuta in occasione dell’incontro su “Il sistema bancario europeo e la crisi” organizzato da Rethinking Economics Bologna all’Università di Bologna il 9 marzo 2017. 
Pubblicato da Eunews il 13/3/2017

Il fallimento della governance europea.

di Tonino D’Orazio
 
Indipendentemente da chi, e come, sceglie questa Europa con passione, la situazione di crisi sembra essere sempre più evidente. Un gruppetto di paesi, intanto a quattro, e ironia della sorte tre sono mediterranei in difficoltà e un altro, la Germania, in cerca di assodare la sua area di dominio economico e politico si “associano” contro gli altri. E cosa fanno i tre vituperati Pigs (ricordare …) mediterranei? Si affondano, con le pezze al sedere, in un progetto di fuga in avanti. Progetto che, in questa fase, richiederebbe maggior cautela, soprattutto perché il nord e l’est dell’Unione scalpitano. La Commissione a trazione tedesca gioca l’ultima carta e “tutela” i forti-deboli, ma soprattutto se stessa. In più: “l’euro solo per chi vuole”. (sic)
L’uscita della Gran Bretagna (Brexit), con toni sempre più severi per una separazione costosa e sgradevole, e la Grecia (Grexit) sempre più alle strette dall’essere “cacciata” se non continua, a morte, il principio dell’austerità, (se non fosse che rimane ancora qualcosa da spolpare l’avrebbero già fatto),sono la dimostrazione della degenerazione e di un vero fallimento di quel che si voleva fare dell’Europa e di quel che rimane dell’Unione.
La Comunità era una associazione volontaria di paesi i cui governi avevano cercato di assicurare la pace e la cooperazione. Gli attuali leader invece, Commissione in testa, sembrano voler vendicarsi di qualsiasi governo che vuole “lasciare” o che metta in discussione il malgoverno attuale, l’ideologia attuale, tra l’altro sancito da un buffo, e al dunque deludente, Trattato dell’Unione. E che si fa? Un gruppetto dei “forti”, tra cui l’Italia, batte chiodo? Stringe il laccio? Continua imperterrito sulla stessa strada? La Germania non vuole “sbattere” da sola? (Dicitura di molti economisti mondiali Nobel compresi).
E’ un Trattato buffo per la democrazia, e dà ragione a chi non lo voleva in questi termini, perché spostava i processi democratici, dal Parlamento Europeo eletto, a una Commissione non rappresentativa e “non eletta da nessuno”. Tra l’altro con una immaginazione veramente limitata, pensando che tutti, economicamente sotto strozzinaggio bancario, avrebbero potuto pagare il debito pubblico in questo modo irrealizzabile. Draghi e la BCE cominciano a rendersene conto con qualche finta “apertura”,(“si potrebbe anche uscire dall’euro”, pagando! Con cosa, magari rendendo la carta stampata euro ricevuta?), ma tant’è, chi ha avuto ha avuto e non possono tornare indietro. Non è l’idea di avere l’euro in comune che manca, è la sua gestione speculativa contro i popoli e i milioni di poveri dell’Unione. Che prima o poi, se la storia è la storia,qualcosa pur diranno in qualche modo.
Tra l’altro i governi nazionali non detengono più il potere formale di determinare le politiche economiche che riguardano i loro cittadini, soprattutto nella zona euro, con vincoli discutibili in merito ai valori che dovrebbe avere la Comunità nata e sperata per 60 anni meno gli ultimi 20. Questo è uno degli elementi maggiori che minano la fiducia dei cittadini, in tutta Europa. Le elezioni appena passate e le prossime rappresentano solo questo, contro una governance ingessata e fortemente prepotente, se non strafottente. Se pensiamo solamente al trattamento sadico verso una Grecia, che in fondo rappresenta solo 1% del Pil dell’Unione, la sensazione popolare in tutta Europa è stata molto emotiva sul tono minaccioso della Commissione o la banda dei “5 presidenti”. Potrebbe succedere a tutti.
Si intravvede in questa governance Commissariale come non siano i rappresentanti eletti a determinare le politiche, ma una forma ristretta di “responsabilità democratica” del Trattato. Da qui le minacce, notate sempre di più in questi ultimi anni, contro gli stati che utilizzerebbero i referendum contro le loro imposizioni, dopo aver già fatto modificare quasi tutte le Costituzioni nazionali. Minacce ridicole che rinsaldano il risentimento popolare montante, suffragate da una disuguaglianza sociale evidente e da un fallimento complessivo. Ognuno può personalmente verificare dove si trova negli ideali e verso il futuro.
Dal punto di vista della democrazia i poteri concessi alla Commissione sono estremamente problematici. Essa “impone” le procedure per gli squilibri macroeconomici di un paese utilizzando i governi e i piani di azione correttivi che ritiene opportuno, indipendentemente da tutto, in nome delle “regole” da loro stessi stabilite. Anzi, quando parla di “coordinamento delle politiche fiscali ed economiche”, mai attuate, sembra considerarle un problema apolitico. Negli errori drammatici commessi in questi anni, sia sul sociale che sull’economico, sembra non debba pagare nessuno. E così è, la Commissione non è sanzionabile da nessuno, nemmeno politicamente. Non ha bisogno dell’approvazione dei parlamenti nazionali. Però, è poco, ma si fa strada la sanzione “morale” di un Europa che storicamente si è costruita “sul sociale” e sulle lotte del mondo del lavoro.
Forse la sanzione arriverà dalle varie tornate elettorali nazionali. Sui 60 anni di Europa si spera di tornare insieme alla casella 40, ai concetti di Comunità e armonizzazione dei popoli che non può che essere la pace e la redistribuzione della ricchezza. Può essere l’unico obiettivo credibile della sinistra europea se vuole sopravvivere. All’orizzonte non c’è nulla di questo. Per la pace rischiamo addirittura di costruire un esercito europeo anti Russia. La Germania, dopo due guerre micidiali, non ha ancora imparato la lezione. Per la redistribuzione forse basta non dare al sistema bancario quello che non gli è dovuto, in ringraziamento del “furto” complessivo della ricchezza dei propri paesi. Le banche sembrano ancora presi dalla ludopatia borsistica e speculativa e non riescono a smettere di giocare con i nostri soldi.
Se questa governance doveva ottenere l’abolizione dei diritti del mondo del lavoro, affamare il popolo e ridurlo in individui necessitosi, alleggerire gli stati dalle loro risorse sul sociale (sanità, previdenza, pensioni, educazione …); sulle infrastrutture (strade, comunicazioni, telefonia …) e spostarle in privatizzazioni arricchendo i “pochi” amici; rendere i beni comuni, acqua compresa, merci, concetto identico per la forza lavoro, si può dire allora che la Commissione non ha assolutamente fallito nel suo impegno e nel suo programma.

DOPPIOCIECO

Per una Razionalità Moderatamente Pluralista