Per una Sinistra di Nuovo Grande

di William Mitchell e Thomas Fazi (da American Affairs)
traduzione di Domenico D’Amico
Attualmente l’Occidente si trova nel bel mezzo di una ribellione contro l’establishment, una ribellione di proporzioni storiche. Il voto sulla Brexit nel Regno Unito, l’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti, il rifiuto della riforma costituzionale neoliberista di Matteo enzi in Italia, l’inopinata crisi di legittimità dell’Unione Europea – per quanto questi fenomeni, pur correlati, differiscano quanto a fini e motivazioni ideologiche, rappresentano tutti il rifiuto dell’ordine (neo)liberista che ha dominato il mondo, particolarmente l’Occidente, negli ultimi trent’anni.
Anche se il sistema si è dimostrato capace (per lo più) di assorbire e neutralizzare simili agitazioni elettorali, nell’immediato non ci sono segni che questa rivolta contro l’establishment possa placarsi. (1) Nel mondo industrializzato il consenso per i partiti anti-establishmant è al suo massimo dagli anni 30, e continua a crescere. (2) Contemporaneamente, il sostegno per i partiti maggiori, inclusi quelli di tradizione socialdemocratica, è crollato. Le cause immediate di questa reazione avversa sono piuttosto ovvie. La crisi finanziaria del 2007-2009 ha posto sotto gli occhi di tutti la terra bruciata che il neoliberismo lascia dietro di sé, per nascondere la quale le élite hanno fatto grandi sforzi, sia materialmente (tramite la finanziarizzazione) sia ideologicamente (tramite i richiami alla “fine della Storia”). Mentre il credito si esauriva, diventava evidente che per anni l’economia aveva continuato a crescere perché le banche stavano distribuendo, per mezzo del debito, il potere di acquisto che l’impresa non forniva col salario. Per parafrasare Warren Buffett, l’abbassamento della marea sollevata dal debito ha rivelato che quasi tutti, di fatto, stavano nuotando nudi.
La situazione, ieri come oggi, si è aggravata ulteriormente a causa delle politiche di austerità e di deflazione salariale perseguite dopo la crisi da molti governi occidentali, particolarmente quelli europei. Questi governi hanno visto nella crisi l’opportunità di imporre un regime neoliberista ancora più drastico, e di perseguire politiche delineate per compiacere il settore finanziario e le classi abbienti, a spese di chiunque altro. Per cui il progetto (ancora da portare a termine) a base di privatizzazioni, deregolamentazioni e tagli allo stato sociale, è stato rilanciato con rinnovato rigore.
In un contesto di crescente insoddisfazione popolare, disordini sociali e disoccupazione di massa in molti paesi europei, le élite politiche di entrambe le sponde dell’Atlantico hanno risposto con argomentazioni e politiche in continuità col passato. Come risultato, il contratto sociale che lega i cittadini ai tradizionali partiti di governo è più a rischio oggi di quanto lo sia mai stato dai tempi della II Guerra Mondiale – e in alcuni paesi è probabilmente già saltato.
Il Declino della Sinistra
Anche limitando il raggio della nostra analisi al periodo postbellico, movimenti e partiti anti-sistema non sono una novità in Occidente. Almeno fino agli anni 80, l’anticapitalismo rimaneva una forza rilevante con cui si doveva fare i conti. La novità è che oggi – a differenza di venti, trenta o quaranta anni fa – sono movimenti e partiti di destra ed estrema destra (insieme a nuove formazioni del neoliberista “estremo centro”, come il partito La République en Marche del neo-presidente francese Emmanuel Macron) a guidare la rivolta. Messi insieme, destra ed “estremo centro” sopravanzano di gran lunga movimenti e partiti di sinistra, sia in termini di forza elettorale sia in termini di influenza sull’opinione pubblica. A parte poche eccezioni, nella maggior parte dei paesi i partiti di sinistra – vale a dire quelli a sinistra dei tradizionali partiti socialdemocratici – sono relegati ai margini dello spettro politico. Contemporaneamente, paese europeo dopo paese europeo, le tradizionali forze socialdemocratiche vengono “pasokizzate” – cioè ridotte all’irrilevanza parlamentare, alla pari di molte delle loro controparti di centro-destra, per via della loro adesione al neoliberismo e all’incapacità di offrire credibili alternative allo status quo. (Il termine “pasokizzato” si riferisce al partito socialdemocratico greco PASOK, praticamente spazzato via nel 2014 come conseguenza della sua inetta gestione della crisi debitoria della Grecia, dopo aver dominato la scena politica per più di trent’anni). Un destino analogo si è abbattuto su molti ex giganti dell’establishment socialdemocratico, quali il Partito Socialista francese e il Partito Laburista olandese (PvdA). Il consenso dei partiti socialdemocratici è oggi al livello più basso degli ultimi settant’anni – e la discesa continua. (3)
Come dovremmo spiegarci il declino della Sinistra – non soltanto il declino elettorale di quei partiti che sono comunemente associati all’ala sinistra dello spettro politico, a prescindere dal loro effettivo orientamento politico, ma anche il declino dei valori fondamentali della Sinistra sia nei partiti sia nella società in generale? Come mai la Sinistra anti-establishment si è finora dimostrata incapace di riempire il vuoto provocato dal crollo della Sinistra di potere [establishment Left]? Più in generale, com’è giunta la Sinistra a contare così poco nella politica globale? È possibile per la Sinistra, sia culturalmente sia politicamente, tornare a essere una forza di primo piano nella nostra società? E nel caso, in qual modo?
In questi ultimi anni la Sinistra ha fatto qualche progresso in alcuni paesi. Esempi significativi includono Bernie Sanders negli Stati Uniti, il partito Podemos in Spagna e Jean-Luc Mélenchon in Francia, così come l’ascesa al potere di Syriza in Grecia (prima che venisse rapidamente rimessa in riga dall’establishment europeo). Tuttavia è innegabile che, per lo più, i movimenti e partiti di estrema destra siano stati più efficaci di quelli di sinistra o progressisti nell’attingere al malcontento di masse diseredate, marginalizzate, impoverite ed espropriate dalla quarantennale lotta di classe scatenata dalle classi dominanti. In particolare, queste sono le sole forze capaci di fornire una risposta (più o meno) coerente alla diffusa – e crescente – aspirazione a una maggiore sovranità territoriale o nazionale. Questa esigenza viene vista sempre di più come l’unico modo, in mancanza di un reale meccanismo rappresentativo sovranazionale, per riconquistare un qualche grado di controllo collettivo su politica e società, e in particolare sui flussi di capitale, sugli scambi e sulle persone che formano il nucleo della globalizzazione neoliberista.
Data la guerra che il neoliberismo ha condotto contro la sovranità, non dovrebbe sorprenderci che “la sovranità [sia] diventata lo schema dominante [master frame] [1] della politica contemporanea,” come nota Paolo Gerbaudo. (4) Dopotutto, lo svuotamento della sovranità nazionale e le restrizioni al meccanismo della democrazia popolare – ciò che si è definito come depoliticizzazione – è stato un elemento essenziale del progetto neoliberista, mirante a proteggere le politiche macroeconomiche dalla contestazione popolare, e a rimuovere qualsiasi ostacolo si opponesse agli scambi economici e ai flussi finanziari. Dati gli effetti nefasti della depoliticizzazione, è del tutto naturale che la rivolta contro il neoliberismo debba primariamente e principalmente assumere la forma di una richiesta impellente di ripoliticizzazione dei processi decisionali nazionali.
Il fatto che alcune visioni della sovranità nazionale si configurino per linee etniche, esclusiviste e autoritarie, non dovrebbe essere visto come incriminante per la sovranità nazionale in se stessa. La storia dimostra che la sovranità nazionale e l’autodeterminazione nazionale non sono intrinsecamente concetti reazionari e sciovinisti – di fatto, essi sono stati il grido di battaglia di innumerevoli movimenti di liberazione, socialisti e di sinistra, nel XIX e XX Secolo.
Anche limitando la nostra analisi ai maggiori paesi capitalisti, è evidente che in pratica tutti i maggiori progressi sociali, economici e politici dei secoli passati sono stati ottenuti tramite le istituzioni dello stato-nazione democratico, e non per mezzo di istituzioni multilaterali, internazionali o sovranazionali. Anzi, le istituzioni globali sono state variamente utilizzate per far regredire quelle medesime conquiste, come abbiamo visto nel contesto della crisi dell’Euro, durante la quale istituzioni sovranazionali (che non rispondono a nessuno) come la Commissione Europea, l’Eurogruppo e la Banca Centrale Europea hanno usato il loro potere e la loro autorità per imporre una rovinosa austerità a paesi in difficoltà. Il problema, per farla breve, non è la sovranità in quanto tale, ma il fatto che questo concetto sia stato abbandonato nelle mani di chi cerca di imporre un progetto xenofobico e identitario. Sarebbe perciò un grave errore liquidare la seduzione del “Trumpenproletariat” da parte dell’Estrema Destra come un caso di falsa coscienza, come osserva Marc Saxer. (5) Le classi lavoratrici si stanno semplicemente rivolgendo agli unici (finora) movimenti e partiti che promettono loro un minimo di riparo dai venti brutali della globalizzazione neoliberista. Che intendano davvero mantenere simili promesse, questo è un altro discorso. A ogni modo, ciò fa sorgere un interrogativo ancora più grande: perché la Sinistra non è stata capace di offrire alle classi lavoratrici e alle classi medie sempre più proletarizzate un’alternativa credibile al neoliberismo e alla globalizzazione neoliberista? Più di preciso, perché non è stata capace di sviluppare una visione progressista della sovranità nazionale? Come diciamo nel nostro libro di imminente uscita, Reclaiming the State: A Progressive Vision of Sovereignty for a Post-Neoliberal World (Pluto, Settembre 2017), le ragioni sono tante e intrecciate tra loro. Per cominciare, è importante comprendere che l’attuale crisi esistenziale della Sinistra ha profonde radici storiche, risalenti almeno fino a anni 60. Se vogliamo capire lo sbandamento della Sinistra, è da qui che la nostra analisi deve iniziare.
La Fine dell’Era Keynesiana
Oggi molti a Sinistra magnificano l’era “keynesiana” del secondo dopoguerra come un’età dell’oro in cui i lavoratori organizzati, insieme a pensatori e politici illuminati (come lo stesso Keynes) furono capaci di imporre ai capitalisti recalcitranti un “compromesso di classe” portatore di un progresso sociale mai visto prima – che però è stato in seguito rintuzzato dalla cosiddetta controrivoluzione neoliberista. Se ne è dedotto, quindi, che per sconfiggere il neoliberismo basterebbe che un numero sufficiente di appartenenti all’establishment adottasse un ordine di idee alternativo [al loro]. Tuttavia, l’ascesa e declino del keynesismo non si può spiegare semplicemente considerando il potere della classe lavoratrice o la vittoria di un’ideologia sull’altra, ma dovrebbe essere vista come il risultato della convergenza fortuita, nel secondo dopoguerra, di una serie di condizioni sociali, ideologiche, politiche, economiche, tecniche e istituzionali.
Non facendolo, si commetterebbe lo stesso errore che in molti, a Sinistra, commisero nell’immediato dopoguerra. Non riuscendo a valutare fino a che punto il compromesso di classe alla base del sistema fordista-keynesiano fosse, di fatto, elemento fondamentale di quello specifico (storicamente) regime di accumulazione, molti socialisti di quel periodo si convinsero “di aver fatto più del dovuto nel modificare l’equilibrio del potere di classe e la relazione tra stato e mercato”. (6) In linea con questo ragionamento, ignorarono il fatto che la classe capitalista aveva attivamente sostenuto il compromesso di classe solo nella misura in cui era funzionale al profitto, e che perciò, una volta cessata la sua utilità, l’avrebbe rigettato. Alcuni affermavano perfino che il mondo industrializzato fosse già entrato in una fase postcapitalista, nella quale tutti gli aspetti caratteristici del capitalismo erano scomparsi per sempre, grazie a una fondamentale traslazione di potere a favore del lavoro e a svantaggio del capitale, e dello stato a svantaggio del mercato. Inutile dirlo, le cose non stavano affatto così. In aggiunta, il monetarismo – precursore ideologico del neoliberismo – aveva cominciato a diffondersi nelle concezioni politiche della Sinistra sin dai tardi anni 60.
In tal modo, nella Sinistra furono in molti a trovarsi sprovvisti degli strumenti teorici necessari per comprendere contrastare adeguatamente la crisi capitalisticache negli anni travolse il modello keynesiano. Si convinsero invece che la lotta distributiva sorta a quell’epoca si potesse risolvere all’interno dei limiti angusti del sistema socialdemocratico. La verità era che il conflitto capitale-lavoro riemerso negli anni 70 si sarebbe potuto risolvere solo in due modi: dalla parte del capitale, attraverso una riduzione del potere contrattuale del lavoro, o dalla parte del lavoro, attraverso un estensione del controllo dello stato su produzione e investimenti. Come mostriamo in Reclaiming the State, riguardo l’esperienza dei governi socialdemocratici britannici e francesi degli anni 70 e 80, la Sinistra non ebbe la volontà di percorrere questa strada. L’unica scelta rimasta fu quella di “gestire la crisi del capitale per conto del capitale”, come scriveva Stuart Hall, legittimando ideologicamente e politicamente il neoliberismo come unica soluzione per la sopravvivenza del capitalismo. (7)
Da questo punto di vista, il governo britannico del laburista James Callaghan (1976-1979) reca gravi responsabilità. In un famoso (o famigerato) discorso del 1976 Callaghan giustificava il programma governativo di tagli alla spesa e moderazione salariale dichiarando che il keynesismo era morto, legittimando indirettamente l’emergente dogma monetarista (neoliberista) e creando di fatto le condizioni perché l’“austerity lite” [austerità moderata] del Partito Laburista venisse rimodulata da Margarett Tatcher in un assalto totale alla classe lavoratrice. Forse ancora peggio, Callaghan rese popolare il concetto che l’austerity fosse l’unica soluzione per la crisi degli anni 70, anticipando il mantra “non ci sono alternative” [there is no alternative (TINA)] di Tatcher, sebbene al tempo alternative radicali esistessero, come quelle proposte da Tony Benn e altri. Ma queste, tuttavia, “nella comune percezione non esistevano più” [no longer perceived to exist]. (8)
In questo senso, lo smantellamento del sistema keynesiano postbellico non può essere spiegato semplicemente come la vittoria di un’ideologia (“neoliberismo”) su un’altra (“keynesismo”), ma interpretato come la risultanza di numerosi, e intrecciati, fattori ideologici, economici e politici: la risposta dei capitalisti al calo dei profitti e alle implicazioni politiche delle strategie per la piena occupazione, i difetti strutturali del “keynesismo reale” [actually existing keynesism]; e la significativa incapacità della Sinistra di proporre una risposta coerente alla crisi del sistema keynesiano, men che meno un’alternativa radicale.
La Globalizzazione e lo Stato
Oltretutto, lungo gli anni 70 e 80, un nuovo (ed errato) concetto condiviso a sinistra cominciò a concretizzarsi nel contesto dell’internazionalizzazione economica e finanziaria – quella che oggi chiamiamo “globalizzazione” – e rese lo stato sempre più impotente rispetto alle “forze del mercato”. Ne conseguiva, questo il ragionamento, che le nazioni non avevano quasi altra scelta che abbandonare le strategie economiche nazionali e qualsiasi strumento tradizionale di intervento nell’economia – imposte e altre barriere commerciali, controllo del capitale, manipolazione di valute e tassi di scambio, politiche fiscali e politiche legate alle banche centrali. Al massimo, avrebbero potuto solo sperare in forme di gestione economica transnazionali o sovranazionali. In altre parole, l’intervento dei governi nell’economia veniva visto non solo come inefficace ma, sempre di più, come del tutto impossibile. Tale processo – generalmente (ed erroneamente) descritto come passaggio dallo stato al mercato – era accompagnato da un attacco feroce contro la stessa idea di sovranità nazionale, sempre più denigrata come reliquia del passato. Come scriviamo in Reclaiming the State, la Sinistra – in particolare la Sinistra europea – in queste vicende ha giocato anch’essa un ruolo essenziale, rafforzando la migrazione ideologica verso una visione del mondo post-nazionale e post-sovranità, spesso in anticipo sulla Destra. Al riguardo, uno dei punti di svolta più consequenziali fu, nel 1983, la svolta verso l’austerità di François Mitterrand – il cosiddetto tournant de la rigueur – appena due anni dopo la storica vitoria elettorale socialista del 1981. L’elezione di Mitterand fece credere a molti che una rottura radicale col capitalismo – almeno con la sua forma estrema affermatasi nei paesi anglosassoni – fosse ancora possibile. Giunti al 1983, comunque, i socialisti francesi erano riusciti a “dimostrare” l’esatto contrario: che la globalizzazione neoliberista era una realtà inevitabile e ineluttabile. Secondo le parole di Mitterand: “Ormai la sovranità nazionale non significa più granché, né possiede un ruolo apprezzabile nella moderna economia globale. (…) È indispensabile un alto grado di sovranazionalità”. (9)
Le ripercussioni del voltafaccia di Mitterand sono percepibili tutt’oggi. Intellettuali progressisti e di sinistra insistono spesso che quella svolta fosse prova del fatto che la globalizzazione e l’internazionalizzazione della finanza avesse posto fine all’era dello stato-nazione e alla sua capacità di perseguire politiche che non siano in consonanza coi diktat del capitale globale. Il concetto è questo: se un governo cerca autonomamente di perseguire la piena occupazione e un piano progressista e redistributivo, inevitabilmente verrà punito dalle forze anonime del capitale globale. Si pretende che Mitterand non avesse altra scelta che abbandonare i suoi progetti di riforme radicali. Per molti sinistrorsi di oggi, Mitterand rappresenta quindi un politico pragmatico consapevole delle forze capitalistiche globali cui doveva far fronte, e abbastanza responsabile da fare quel che era giusto per la Francia.
In realtà, uno stato sovrano che emetta moneta – come la Francia degli anni 80 – lungi dall’essere inerme dinanzi al capitale globale, possiede ancora la capacità di fornire ai propri cittadini piena occupazione e giustizia sociale. Quindi, com’è riuscita l’idea della “morte dello stato” a mettere radici così profonde nella coscienza collettiva? A questa visione postnazionale del mondo era (è) sottesa l’incapacità da parte del personale intellettuale e politico della Sinistra di comprendere – e in qualche caso il tentativo di nascondere – che la “globalizzazione” non era (non è) il risultato di cambiamenti economici e tecnologici inesorabili, ma in gran parte il prodotto di processi gestiti dallo stato. Tutti gli elementi che associamo alla globalizzazione neoliberista – delocalizzazione, deindustrializzazione, libero flusso di merci e capitali eccetera – sono stati (e sono), nella maggior parte dei casi, il risultato di scelte fatte dai governi. Più in generale, gli stati continuano a svolgere un ruolo cruciale nel promuovere, garantire e sostenere la struttura neoliberista internazionale (per quanto le cose sembrino in via di cambiamento) e insieme creare le condizioni interne che permettono all’accumulazione globale di prosperare.
La medesima cosa si può affermare per il neoliberismo tout court. È convinzione diffusa – particolarmente a sinistra – che il neoliberismo abbia implicato (anche oggi) una “marcia indietro”, uno “svuotamento” o “esaurimento” dello stato, il che a sua volta ha rafforzato il concetto che attualmente lo stato sia stato “sopraffatto” dal mercato. Tuttavia, uno sguardo più attento noterà che il neoliberismo non ha comportato un’uscita di scena dello stato quanto piuttosto una sua riconfigurazione, mirata a porre il timone della politica economica “nelle mani del capitale, e principalmente degli interessi finanziari”, come scrive Stephen Gill. (10)
È lapalissiano, dopotutto, che il processo neoliberista non sarebbe stato possibile se i governi– e in particolare quelli socialdemocratici – non fossero ricorsi a tutta una panoplia di strumenti per promuoverlo: la liberalizzazione di merci e flussi di capitale; la privatizzazione di risorse e servizi sociali; la deregolamentazione delle attività d’impresa, e dei mercati finanziari in particolare; la riduzione dei diritti dei lavoratori (primo e più importante, il diritto alla contrattazione collettiva) e, più in generale, la repressione dell’attivismo sindacale; la riduzione delle tasse sulla ricchezza e sul capitale, a spese dei lavoratori e della classe media; la decimazione dei programmi sociali, e via e via. Queste politiche sono state sistematicamente perseguite in tutto l’Occidente (e imposte ai paesi in via di sviluppo) con inedita determinazione, e col sostegno di tutte le maggiori istituzioni internazionali e dei principali partiti politici.
Perfino la perdita di sovranità nazionale invocata nel passato, come lo è tuttora, per giustificare le politiche neoliberiste, è in gran parte il risultato di una volontaria e cosciente limitazione dei diritti sovrani degli stati da parte delle varie élite nazionali. A questo scopo, le svariate politiche adottate dai paesi occidentali includono: (1) ridurre il potere dei parlamenti, a fronte di quella delle burocrazie di governo; (2) rendere le banche centrali indipendenti dai governi, col fine dichiarato di sottomettere questi ultimi a una “disciplina basata sul mercato”; adottare una politica focalizzata sull’inflazione come strategia principale delle banche centrali – un approccio che mette in primo piano una bassa inflazione come principale obbiettivo della politica monetaria, escludendo altri obbiettivi quali, ad esempio, la piena occupazione; adottare regole limitatrici dell’azione politica – sulla spesa pubblica, sulla proporzione debito-PIL, sulla concorrenza eccetera – in modo da limitare quello che i politici possono fare su mandato dei loro elettori; (5) subordinare i settori di spesa al controllo delle tesorerie; (6) riadottare tassi di scambio fissi, che limitano gravemente la capacità dei governi di esercitare il controllo sulla politica economica; e infine, cosa forse più importante, (7) cedere prerogative nazionali nelle mani di istituzioni sovranazionali e burocrazie interstatali quali l’Unione Europea.
La ragione per cui i governi sceglievano volontariamente di “legarsi le mani” è fin troppo chiara: come esemplifica il caso europeo, la creazione di “vincoli esterni” autoimposti ha permesso alle classi politiche nazionali di ridurre il costo politico della transizione neoliberista – che implicava ovviamente politiche impopolari – dando la colpa a regole prestabilite e a istituzioni internazionali “indipendenti”, che a loro volta venivano presentate come il risultato inevitabile delle nuove, crude realtà della globalizzazione.
Lo Statalismo del Neoliberismo
Inoltre, il neoliberismo è stato (ed è) associato a varie forme di autoritarismo di stato – quindi il contrario dello stato minimo invocato dai neoliberisti – dato che gli stati hanno rinforzato il settore securitario e poliziesco, componente di una generale militarizzazione della gestione delle manifestazioni di protesta. In altre parole, non solo la politica economica neoliberista richiede la presenza di uno stato forte, ma addirittura di uno stato autoritario sia a livello nazionale sia internazionale, in particolar modo quando si tratta di forme estreme di neoliberismo, come quelle sperimentate dai paesi periferici. In questo senso, l’ideologia neoliberista, almeno nelle sue vesti antistataliste, dovrebbe essere considerata come un mero, conveniente alibi per quello che è stato, ed è, un progetto essenzialmente politico e statale. Il capitale rimane dipendente dallo stato tanto oggi quanto al tempo del keynesismo – per tenere sotto controllo le classi lavoratrici, salvare grandi imprese che altrimenti finirebbero in bancarotta, aprire mercati in altri paesi (utilizzando a volte l’intervento militare) eccetera. L’ironia suprema, o chiamiamola indecenza, è che i partiti della Sinistra tradizionale, sia al governo sia all’opposizione, sono diventati i portabandiera del neoliberismo.
Nei mesi e anni seguenti al crollo finanziario del 2007-2009, la perenne dipendenza del capitale – e del capitalismo – la dipendenza dallo stato in un’era neoliberista è diventata vistosamente evidente, visto che i governi degli Stati Uniti, Europa e altrove hanno tratto in salvo le rispettive istituzioni finanziarie a colpi di bilioni di dollari. Eppure a quel tempo nessun importante opinionista ha strillato “E i soldi da dove si prendono?” Ben presto, comunque, quegli stessi soggetti, alcuni dei quali diretti beneficiari dei provvedimenti di salvataggio, sono tornati al solito ritornello, ammonendoci che i governi sono in bancarotta, che i nostri nipoti saranno stritolati dal crescente peso del debito pubblico, e che l’iperinflazione è in agguato. Successivamente alla cosiddetta crisi dell’euro del 2010, in Europa tutto questo è stato accompagnato da un assalto su tutti i fronti contro il modello socioeconomico europeo del dopoguerra, con l’obbiettivo di ristrutturare e riprogettare le società e le politiche europee secondo linee maggiormente favorevoli al capitale. Una tale riconfigurazione radicale delle società europee – che, lo ripetiamo, ha visto in prima linea i governi socialdemocratici – non si basa su un arretramento dello stato rispetto al mercato, ma piuttosto da una ri-intensificazione dell’intervento statale a favore del capitale. (11)
Nondimeno, l’idea erronea del declino dello stato-nazione è diventata ormai elemento integrante [entrenched fixture] della Sinistra. Visto quanto sopra, non sorprende affatto che le maggiori formazioni di sinistra siano oggi del tutto incapaci di offrire una concezione positiva della sovranità nazionale che si contrapponga alla globalizzazione neoliberista. A peggiorare ulteriormente la situazione, molti a sinistra si sono bevuti le favole macroeconomiche che l’establishmant utilizza per scoraggiare qualsiasi uso alternativo delle misure fiscali dello stato. Ad esempio, hanno accettato senza fare domande la cosiddetta analogia del “bilancio familiare”, che sostiene che i governi emittenti valuta, come un nucleo familiare, hanno limiti finanziari ineludibili [are financially constrained], e che un deficit fiscale diventa un carico rovinoso per le future generazioni.
Dall’Emancipazione alla Ratificazione dello Status Quo
Tutto ciò procede di pari passo con un altro, parimenti tragico, sviluppo. Dopo la sua storica sconfitta, la tradizionale attenzione anticapitalista della Sinistra verso il concetto di classe ha lasciato il campo a una versione liberal-individualista dell’emancipazione. Soggiogati dalle teorie postmoderniste e poststrutturaliste, gli intellettuali della Sinistra hanno abbandonato le categorie marxiane di classe per concentrarsi invece su elementi del potere politico sull’uso di linguaggio e narrazioni come mezzo per consolidare i significati. Questo cambio di rotta ha anche delineato nuove aree di lotta politica che sono diametralmente opposte a quelle descritte da Marx. Negli ultimi trent’anni l’attenzione della Sinistra si è spostata dal “capitalismo” a questioni come il razzismo, la politica di genere, l’omofobia, il multiculturalismo eccetera. La marginalità non viene più descritta in termini di classe ma in termini di identità. La lotta contro l’illegittima egemonia della classe capitalista ha lasciato il campo alle lotte di una varietà di gruppi e minoranze (più o meno) oppresse e marginalizzate: donne, neri, LGBTQ eccetera. Il risultato è che la lotta di classe ormai non viene più vista come la via per la liberazione.
In questo mondo postmodernista, solo le categorie che trascendono i confini tra le classi vengono considerate rilevanti. In aggiunta, le istituzioni sviluppatesi per difendere i lavoratori contro il capitale – come sindacati e partiti socialdemocratici – sono ormai succubi di questi obbiettivi estranei alla lotta di classe [non-class struggle foci]. Come osserva Nancy Fraser, il risultato che è emerso, praticamente in tutti i paesi occidentali, è una perversa consonanza politica tra “le correnti principali dei nuovi movimenti sociali (femminismo, antirazzismo, multiculturalismo e diritti LGBTQ) da una parte, e dall’altra i settori imprenditoriali di servizi ‘simbolici’ e di fascia alta (Wall Street, Silicon Valley e Hollywood)”. (12) Il risultato è un progressismo neoliberista “che mette insieme ideali ridimensionati di emancipazione e forme letali di finanziarizzazione,” con i primi che prestano il loro carisma a queste ultime.
Man mano che la società si è andata dividendo sempre di più tra una classe urbanizzata, socialmente progressista, cosmopolita, ben educata, altamente mobile e specializzata, e una classe periferica, a bassa specializzazione, di bassa cultura, che lavora di rado all’estero e che affronta la concorrenza degli immigrati, la Sinistra di governo ha costantemente preso le parti della prima. In effetti, il divorzio tra le classi lavoratrici e la Sinistra intellettuale e culturale può essere considerato uno dei principali motivi dietro la ribellione di destra che investe attualmente l’Occidente. Come ha affermato Jonathan Haidt, il modo in cui le élite urbane globaliste parlano e agiscono innesca involontariamente le tendenze autoritarie di una frangia di nazionalisti. (13) In quest’orribile circolo vizioso, tuttavia, più le classi lavoratrici si volgono verso populismi e nazionalismo di destra, più la Sinistra intellettual-culturale moltiplica le sue fantasie liberali e cosmopolite, esacerbando ancora di più l’etnonazionalismo del proletariato.
Ciò è particolarmente evidente nel dibattito politico europeo in cui, nonostante gli effetti disastrosi di Unione Europea e unione monetaria, la Sinistra di governo – appellandosi spesso ai medesimi argomenti utilizzati più di una generazione addietro da Callaghan e Mitterand – resta aggrappata a simili istituzioni. A dispetto di ogni prova del contrario, la Sinistra di governo afferma che queste istituzioni possono essere riformate in chiave progressista, e rifiuta ogni argomentazione a favore di una nuova agenda progressista basata su una ritrovata sovranità nazionale, bollandola come un “arretramento su posizioni nazionaliste”, destinate inevitabilmente a far precipitare il continente in un fascismo stile anni 30. (14) Una tale posizione, per irrazionale che sia, non desta sorpresa, considerando che, dopotutto, l’unione monetaria europea è un’idea partorita dalla Sinistra europea. Tuttavia, questa posizione presenta numerosi problemi, che in definitiva hanno la loro radice nell’incapacità di comprendere l’autentica natura dell’Unione Europea e dell’unione monetaria. Per prima cosa, si ignora il fatto che la costituzione politica e l’economia dell’UE sono strutturate proprio per ottenere i risultati che abbiamo sotto gli occhi: l’erosione della sovranità popolare, il massiccio trasferimento della ricchezza dalle classi medie e basse a quelle dominanti, l’indebolimento della classe lavoratrice, e più in generale l’arretramento delle conquiste democratiche e socioeconomiche ottenute nel passato dalle classi subordinate. L’UE è progettata appositamente per impedire quel tipo di riforme radicali a cui aspirano i progressisti integrazionisti e federalisti.
Ancora più importante è il fatto che queste posizioni riducono la Sinistra al ruolo di difensore dello status quo, permettendo in tal modo alla Destra politica di monopolizzare le legittime rimostranze anti-sistema (e specificamente anti-UE) dei cittadini. Questo significa cedere alla Destra e all’estrema Destra la lotta discorsiva e politica per l’egemonia post-neoliberismo. Non è arduo accorgersi che se un cambiamento in chiave progressista si può attivare solo al livello globale o europeo – in altri termini, se l’alternativa offerta all’elettorato è tra un nazionalismo reazionario e un progressismo globalista – allora per la Sinistra la battaglia è persa in partenza.
Rivendicare lo Stato
Non dev’essere così per forza, tuttavia. Come spieghiamo in Reclaiming the State, una visione progressista, emancipazionista della sovranità nazionale radicalmente alternativa a quelle della Destra e dei neoliberisti – una visione basata sulla sovranità popolare, sul controllo democratico dell’economia, sul pieno impiego, la giustizia sociale, una redistribuzione dai ricchi verso i poveri, una politica di inclusione, e più in generale la trasformazione socio-ecologica della società e della produzione – una tale visione è possibile. È anzi indispensabile. Come scrive J. W. Mason:
“Qualsiasi ordinamento [sovranazionale] si possa immaginare in linea di principio, l’applicazione concreta degli apparati di sicurezza sociale, delle leggi sul lavoro, della protezione dell’ambiente e della redistribuzione della ricchezza avviene a livello nazionale, ed è perseguita da governi nazionali. Per definizione, ogni lotta mirante alla conservazione la democrazia sociale di oggi è una lotta per difendere le istituzioni nazionali.” (15)
In modo analogo, la lotta per difendere la sovranità democratica contro l’offensiva della globalizzazione neoliberista è l’unica base su cui si possa rifondare la Sinistra, sfidare la Destra nazionalista e ricucire lo strappo tra la Sinistra e la sua “naturale” base sociale – i diseredati. A questo fine, la Sinistra deve anche abbandonare la sua ossessione per le politiche identitarie e recuperare un “concetto di emancipazione più allargato, antigerarchico, egualitario, di classe e anticapitalistico” che un tempo era il suo marchio di fabbrica. Simili priorità, ovviamente, non sono in contraddizione con le lotte contro il razzismo, il patriarcato, la xenofobia e altre forme di oppressione e discriminazione. (16) Abbracciare una concezione progressista della sovranità significa anche lasciarsi alle spalle i tanti falsi miti macroeconomici che affliggono i pensatori progressisti e di sinistra. Come abbiamo già affermato, uno dei miti più diffusi e persistenti è il presupposto che i governi siano schiavi delle loro entrate. Dando credito a simili miti, la Sinistra è diventata incapace di concepire alternative radicali. E tuttavia, è proprio di alternative radicali che c’è bisogno. Come ha osservato di recente Perry Anderson: “Per i movimenti anti-sistema della Sinistra in Europa” – come altrove, del resto – “la lezione di questi ultimi anni è chiara. Se non vogliono farsi sorpassare dai movimenti di destra, non possono permettersi di essere meno radicali nell’attaccare il sistema, e in questa opposizione devono essere coerenti.” (17) In altre parole, la Sinistra deve tornare a essere radicale. In Reclaiming the State illustriamo quelli che riteniamo i requisiti necessari – in termini teorici, politici e istituzionali – per la creazione di una concezione all’interno della quale il perseguimento di un progetto socialmente ed economicamente progressista sia tecnicamente possibile. Questo è ciò che è necessario:
  1. Una concezione corretta delle capacità dei governi monetariamente sovrani (o comunque emittenti valuta), e più specificamente la consapevolezza che simili governi non sono mai vincolati alle entrate e alla solvibilità, dato che emettono la loro moneta con un atto legislativo e di conseguenza non possono “finire i soldi” o diventare insolventi. Questi governi hanno sempre una capacità illimitata di spendere la loro stessa valuta: cioè possono acquistare tutto ciò che vogliono, finché esistono beni e servizi acquistabili con la valuta da loro emessa, e possono utilizzare il loro potere di emettere moneta per finanziare massicci investimenti in infrastrutture sociali e materiali. Come minimo, possono reclutare i disoccupati e riutilizzarli produttivamente (ad esempio, con un Programma di Lavoro Garantito [job guarantee] [2] Questo, naturalmente, non si può applicare a paesi che facciano parte dell’Unione Monetaria Europea. La comprensione della realtà operativa delle moderne economie di emissione valutaria diviene quindi una conditio sine qua non per prefigurare una visione progressista ed emancipatoria della sovranità nazionale.
  2. Una drastica espansione del ruolo dello Stato – e un pari ridimensionamento del ruolo del settore privato – nel sistema di investimenti, produzione e distribuzione. Un progetto progressista per il XXI Secolo deve quindi di necessità comportare una larga ri-nazionalizzazione dei settori chiave dell’economia – incluso, cosa più importante, il settore finanziario – e un nuovo e aggiornato concetto di pianificazione, mirato a porre le leve della politica economica sotto controllo democratico.
Questi due elementi, a nostro avviso, forniscono la base su cui costruire un’alternativa progressista e radicale al neoliberismo, i cui dettagli dovrebbero risultare da un ampio dibattito tra pensatori progressisti, movimenti sociali e pariti politici, a livello nazionale e internazionali.
Per finire, è chiaro che il possesso di un programma socioeconomico convincente non basta per conquistare il cuore e la testa della gente. A parte la centralità dello Stato dal punto di vista politico-economico, la Sinistra deve farsi una ragione del fatto che la gran maggioranza della gente che non appartiene – e mai apparterrà – all’élite internazionale e giramondo, la loro idea di cittadinanza, di identità collettiva e di bene comune sono inestricabilmente legati al concetto di nazionalità. Alla fine dei conti, essere un cittadino vuol dire dibattere con altri cittadini all’interno di una comunità politica condivisa, e far sì che la classe dirigente risponda delle proprie decisioni [hold decision-makers accountable]. Oggi la Destra è vittoriosa perché è in grado di intessere un’efficace narrazione dell’identità collettiva in cui la sovranità nazionale viene sviluppata in chiave nativista o addirittura razzista. I progressisti quindi devono essere in grado di produrre narrazioni e miti altrettanto potenti, che riconoscano il bisogno di appartenenza e interconnessione degli esseri umani. In questo senso, una visione progressista della sovranità nazionale dovrebbe mirare alla ricostruzione e ridefinizione dello stato-nazione come luogo in cui i cittadini possano trovare rifugio nella “sicurezza nella democrazia [democratic protection], la legalità popolare, l’autonomia locale, i beni collettivi e le tradizioni egualitariste” piuttosto che in una società culturalmente ed etnicamente omogeneizzata, come dice Wolfgang Streeck. (18) Questo è anche il requisito indispensabile per la costruzione di un nuovo ordine internazionale, basato sull’interdipendenza, e tuttavia indipendenza degli stati nazionali.
Articolo apparso in origine su American Affairs, Volume I, Numero 3 (Autunno 2017), pagg. 75-91
Note
1 See Perry Anderson, “Why the System Will Still Win,” Le Monde diplomatique, Marzo 2017.
2 Ray Dalio et al., Populism: The Phenomenon, Bridgewater, 22 marzo 2017.
3 “Rose Thou Art Sick,” Economist, 2 aprile 2016.
4 Paolo Gerbaudo, “Post-Neoliberalism and the Politics of Sovereignty,” openDemocracy, 4 novembre 2016.
5 Marc Saxer, “In Search of a Progressive Patriotism,” Medium, 15 aprile 2017.
6 Adaner Usmani, “The Left in Europe: From Social Democracy to the Crisis in the Euro Zone: An Interview with Leo Panitch,” New Politics 14, no. 54 (Inverno 2013), http://newpol.org/content/left-europe-social-democracy-crisis-euro-zone-interview-leo-panitch.
7 Stuart Hall, “The Great Moving Right Show,” Marxism Today (Gennaio 1979): 18.
8 Colin Hay, “Globalisation, Welfare Retrenchment and ‘the Logic of No Alternative’: Why Second-Best Won’t Do,” Journal of Social Policy 27, no. 4 (Ottobre 1998): 529.
9 John Ardagh, France in the New Century: Portrait of a Changing Society (London: Penguin, 2000), 687–88.
10 Stephen Gill, “The Geopolitics of Global Organic Crisis,” Analyze Greece!, 5 giugno 2015, http://www.analyzegreece.gr/topics/greece-europe/item/231-stephen-gill-the-geopolitics-of-global-organic-crisis.
11 Richard Peet, “Contradictions of Finance Capitalism,” Monthly Review 63, no. 7 (Dicembre 2011), https://monthlyreview.org/2011/12/01/contradictions-of-finance-capitalism/.
12 Nancy Fraser, “The End of Progressive Neoliberalism,” Dissent, January 2, 2017, https://www.dissentmagazine.org/online_articles/progressive-neoliberalism-reactionary-populism-nancy-fraser.
13 Jonathan Haidt, “When and Why Nationalism Beats Globalism,” American Interest 12, no. 1 (Luglio 2016), https://www.the-american-interest.com/2016/07/10/when-and-why-nationalism-beats-globalism/.
14 Yanis Varoufakis e Lorenzo Marsili, “Varoufakis: ‘A un anno dall’Oxi, non rifugiamoci nei nazionalismi. Un’Europa democratica è possibile,’” La Repubblica, July 8, 2016, http://www.repubblica.it/esteri/2016/07/08/news/varoufakis_a_un_anno_dall_oxi_non_rifugiamoci_nei_nazionalismi_un_ europa_democratica_e_possibile_-143703316/.
15 J. W. Mason, “A Cautious Case for Economic Nationalism,” Dissent (Primavera 2017), https://www.dissentmagazine.org/article/cautious-case-economic-nationalism-global-capitalism.
16 Fraser, “The End of Progressive Neoliberalism.”
17 Anderson, “Why the System Will Still Win.”
18 Wolfgang Streeck et al., “Where Are We Now? Responses to the Referendum,” London Review of Books38, no. 14 (14 luglio 2016), https://www.lrb.co.uk/v38/n14/on-brexit/where-are-we-now.
note del traduttore
[1] Master frame: cfr. (a cura di) Nicola Montagna, I movimenti Sociali e le Mobilitazioni Globali, Franco Angeli 2007, pagg. 28 e sgg.

[2] Crf. qui.

La Ue e l’Italia dentro “la fine” della globalizzazione. Una replica

 di Mimmo Porcaro da sinistrainrete


Per dimostrare che la globalizzazione è viva e vegeta Franco Russo deve riconoscere che i processi di internazionalizzazione degli scambi, della finanza e della produzione sono sempre stati e sono ancor di più oggi il luogo di un aspro conflitto in cui i diversi stati usano tutti i mezzi, compreso il protezionismo e lo scontro militare, pur di difendere le proprie imprese. (vedi il saggio di Franco Russo)
Con il che, però, Franco Russo dichiara che la globalizzazione è morta (o meglio che essa, come il sottoscritto pensa da molto, in realtà non è mai nata). L’idea di globalizzazione contro cui polemizzano i critici non è infatti quella che prende atto dell’internazionalizzazione, ma quella secondo cui tale internazionalizzazione, rafforzando l’interconnessione dei mercati e della produzione, realizza una situazione di sostanziale autoregolazione del mercato che rende superflua o meramente ausiliaria la funzione degli stati nazionali. Lo stesso Russo ci da invece vari esempi di attivo intervento degli stati nazionali nella battaglia competitiva, intervento che può spingersi fino alla guerra: e questo, in sede di polemica spicciola, potrebbe bastare per dire che Franco dimostra il contrario di quello che afferma. Ma qui non si tratta di polemica spicciola, bensì di una discussione che ci accompagnerà a lungo. Bisogna quindi approfondire.
In realtà nel testo che esamino si insiste nel dire che il severo confronto tra entità politiche capitalistiche non è tanto un confronto fra stati, quanto fra “grandi spazi” (ed è chiaro che qui si suggerisce, per contrasto, che essendo l’Italia per definizione un “piccolo spazio” ogni progetto di autonomia nazionale le è precluso). Va però detto che questi “grandi spazi” sono tutti spazi statuali, dotati per di più di una spiccata identità nazionale: Usa, Russia, Cina, ecc. . La stessa Unione europea, se vuole contare qualcosa, deve presentarsi come vero e proprio stato unitario ed inventarsi una qualche “identità nazional-continentale”. E se non dovesse riuscire a farlo ciò avverrebbe a causa dell’incapacità di una determinata nazione ad esercitare la necessaria egemonia. Insomma: nation matters, lo dice anche il meno nazionalista tra noi.
Nella polemica non si possono però sottacere gli aspetti di verità sempre contenuti nelle posizioni di un avversario intelligente. La questione delle dimensioni ha il suo peso, anche se non si tratta tanto della dimensione, quanto della natura di uno spazio geopolitico. Mi spiego. Se l’Italia dovesse (e potesse) rompere con l’Ue da un punto di vista esclusivamente capitalistico, le sue limitate dimensioni non sarebbero necessariamente un ostacolo, anche perché la sua uscita dall’Unione rafforzerebbe automaticamente i suoi rapporti con gli Usa. Ma se la rottura dovesse avvenire secondo i nostri desideri, la costruzione di uno spazio politico economico extranazionale diverrebbe allora essenziale. Infatti non è possibile sviluppare appieno una politica tendenzialmente socialista se non in uno spazio che sia relativamente autosufficiente e relativamente chiuso nei confronti del capitale finanziario transnazionale, e l’Italia non possiede affatto tali caratteristiche. Se è quindi vero che la nostra rottura è inevitabilmente nazionale, è altrettanto vero che noi dobbiamo preparare già da ora le nuove relazioni di un concreto internazionalismo. Un internazionalismo che parta realisticamente dal riconoscimento delle caratteristiche peculiari delle diverse economie e società nazionali per giungere ad un comune modello di sviluppo progressivo.
Proseguo. Per dimostrare che la globalizzazione non è morta, Russo fa inoltre riferimento al fatto che gli Usa non si stanno per nulla isolando, ed anzi continuano a promuovere l’internazionalizzazione delle proprie imprese, ed al fatto che Unione europea e Cina continuano a promuovere libero mercato e, appunto, globalizzazione. Ma è assolutamente logico che una potenza imperialista continui a penetrare gli spazi economici mondiali, ed è egualmente logico che le due massime potenze esportatrici del mondo facciano l’elogio della globalizzazione. Così come, ad esempio, non possiamo dedurre dalla sola crescita (peraltro esponenziale) dei provvedimenti protezionistici il tramonto del libero mercato (anche se questi provvedimento sono un sintomo molto più serio di quanto Russo mostri di credere), egualmente non possiamo dedurre la forma delle relazioni mondiali dalla semplice considerazione della massa degli scambi e dell’entità dell’interdipendenza economica. Alla vigilia della prima guerra mondiale l’interscambio globale era tutt’altro che depresso. Alla vigilia della seconda guerra mondiale gli scambi economici tra Germania ed Inghilterra erano intensissimi (e, a guerra iniziata, i significativi investimenti inglesi in Germania non vennero né ritirati né confiscati…). E quanto all’interdipendenza, essa non conduce sempre e soltanto all’approfondimento dei rapporti economici, ma può sboccare in seri conflitti politici: se un paese dipende da un altro per l’approvvigionamento di una risorsa strategica, può ben essere indotto ad eliminare tale dipendenza sottomettendo il paese fornitore. Una cosa simile va detta anche a proposito delle catene del valore. E’ vero che le merci che un paese importa sono spesso prodotte all’estero dalle sue stesse imprese, parzialmente esternalizzate, e che questo rende più complicato il protezionismo e più costosi i conflitti interstatuali. Ma d’altra parte l’esternalizzazione è reversibile (come dimostra il fenomeno non rarissimo del reshoring dovuto al complicarsi delle condizioni dei paesi terzisti, all’aumento del costo del lavoro locale o ad innovazioni tecnologiche avvenute “in patria”), e se la logica economica o i conflitti politici lo impongono, si può rimpatriare buona parte del ciclo produttivo. Dall’altre, ed è la cosa più importante, la stessa esternalizzazione è frutto di conflitti vinti da alcuni stati a danno di altri (vedasi l’uso occidentale del mercato del lavoro dell’est dopo l’89) e può generare altri conflitti tesi alla stabilizzazione delle condizioni di profittabilità nei paesi terzi. Dunque né la dinamica degli scambi né quella delle interdipendenze possono dirci qualcosa di univoco sul nostro tema.
Per valutare la fase attuale non basta quindi riferirci ai dati empirici, che come in tutti i momenti di transizione possono essere molto contraddittori, ma dobbiamo dotarci di una teoria che ci aiuti a capire quali possono essere i fatti più significativi. Al riguardo credo che noi possiamo farci ispirare da tesi analoghe a quelle di Giovanni Arrighi, e considerare come a fasi di ampia finanziarizzazione, accompagnate da crescita vorticosa del commercio, da una tendenziale unità del fronte imperialista e dalla diretta funzionalità delle guerre all’espansione economica, si succedano fasi di ripoliticizzazione del conflitto in cui gli stati tornano ad avere funzione dominante e le scelte economiche tendono a rispondere anche ad una logica di tipo militare, nel contesto di tensioni crescenti nello stesso campo imperialista. E’ ciò che sta avvenendo sotto i nostri occhi dopo la crisi 2007-8: la stessa forma della globalizzazione (meglio: dell’internazionalizzazione) ha inevitabilmente prodotto gravi squilibri che da un lato hanno riportato al centro gli stati, facendoli divenire regolatori fondamentali del mercato nella perdurante incertezza delle capacità di pagamento private, e dall’altro hanno acuito le tensioni fra gli stati stessi, perché hanno acuito la contraddizione fra stati creditori e stati debitori. A mio avviso sono questi gli elementi macroeconomici e geopolitici che devono essere soprattutto considerati quando si valuta il rapporto tra regolazione “economico-politica” (quella della c.d. globalizzazione)  e regolazione “politico-economica” (quella verso cui tendiamo oggi). Se è vero che oggi la forma dominante del capitale è quella bancario-finanziaria e che la sopravvivenza di questa (in costante minaccia di crisi di solvibilità) in ultima istanza dipende direttamente dalle decisioni politiche degli stati, ne discende che è l’intreccio tra stato e capitale finanziario a dettare la musica, ben più delle dinamiche capitale-merce e del capitale produttivo. Ed in particolare sono soprattutto i rapporti credito/debito a dettare, a volte esplicitamente, a volte sottotraccia, la trama delle relazioni attuali. Da qui nascono le diverse guerre valutarie. Da qui l’ostilità strutturale degli Usa contro la Cina. Da qui il conflitto latente Usa/Germania, da qui le difficoltà dei Brics, da qui la gracilità dell’Unione europea, ecc. .
Dal punto di vista degli aumentati conflitti interstatuali inoltre, più della completa sostituzione degli accordi commerciali multilaterali con quelli bilaterali (processo che, come giustamente nota Russo, è senz’altro lungo e contrastato) conta il fatto che gli stessi accordi multilaterali sono fatti più per escludere che per includere: includono gli alleati per accerchiare i nemici: questa è la ratio geopolitica della TTIP (contro la Russia) e della TIP (contro la Cina), qualunque sia stato e sarà il destino dei due accordi. Non contraddice a questa ratio il recente accordo commerciale Usa/Cina, a cui Russo si riferisce come esempio pro-globalizzazione. Da un lato c’è il bisogno economico Usa di penetrare più decisamente nel territorio cinese. Ma dall’altro c’è il bisogno strategico Usa di interrompere il processo di avvicinamento Russia/Cina che è stato il peggior risultato della politica di Clinton/Obama.
E veniamo all’Europa. Sono senz’altro interessanti le dichiarazioni di intenti a cui Russo fa riferimento e, personalmente, penso che la partita dell’Unione europea sia (dal punto di vista di lorsignori) ancora tutta aperta, e che gli esiti non siano del tutto prevedibili. Continuo però a pensare che gli elementi di disgregazione siano in prospettiva superiori a quelli di unificazione. E penso che proprio tra gli esempi avanzati da Russo, per mostrare che l’Ue “fa sul serio” per rispondere unitariamente ed efficacemente agli Usa, stia nascosto un importante segnale di debolezza. Russo dice che l’Unione ha “risolto” il problema delle banche. Su questo punto esprimo un netto dissenso, non teorico ma fattuale. Si legga il recentissimo intervento di Giacché a proposito del sistema bancario europeo (lo trovate in Sinistrainrete): il punto su cui voglio concentrare l’attenzione non è tanto il fatto (importantissimo) che la “soluzione” aumenta gli squilibri, avvantaggiando enormemente gli istituti tedeschi, quanto il fatto che, ad oggi, non si è affatto invertita la balcanizzazione per linee nazionali del sistema bancario europeo (il fenomeno per cui il prestito interbancario e non solo funziona molto più all’interno dei singoli territori nazionali che all’interno dell’Unione), balcanizzazione che è stata inaugurata dalla crisi del 2007 e che che rende assai fragile l’integrazione economica Ue. Tanto che a mio avviso più che i motivi economici (pur importantissimi: ogni giorno, ogni ora di euro in più è una bazza per il capitale tedesco…) in questo momento a tenere in piedi l’Ue sono motivi geopolitici, ossia la necessità, pienamente avvertita da Francia e Germania, di far quadrato di fronte alla Brexit ed all’irrigidimento Usa (non attribuibile al solo Trump), salvando il più possibile la costruzione europea e rimandando il più possibile sia i conflitti franco-tedeschi (clamoroso quello relativo alla richiesta francese di protezione per i “campioni nazionali”, per ora respinta dalla Merkel alla faccia di Macron) sia il regolamento di conti con il sud Europa: da cui la modulazione in funzione delle scadenze elettorali delle richieste di ulteriori tagli all’Italia.
La stabilizzazione della situazione europea è quindi fragile. Ma pur sempre di una stabilizzazione si tratta, e questo in politica conta, soprattutto quando un atteggiamento antiunionista, come effettivo sentimento di massa organizzato politicamente, deve ancora nascere. E qui la mia riflessione converge parzialmente con quella di Franco Russo. Nessuna frazione del grande capitale europeo è per adesso intenzionata a rompere l’Ue. Nessuna frazione del piccolo capitale delle singole nazioni (aggiungo io) è per adesso seriamente intenzionata a rompere l’Ue, ed anche se lo fosse non avrebbe al momento la capacità egemonica per farlo: si vedano l’Olanda, la Francia e il probabile esito nullo delle sparate salviniane contro l’euro. Ma subito mi allontano di nuovo da Franco: da quanto sopra discende che la questione della nazione non è questione immediatamente interclassista, che noi dobbiamo obtorto collo fare nostra, ma è oggi questione immediatamente classista (della nostra classe) che noi dobbiamo imporre alle classi esitanti. La deflagrazione dell’Unione europea, strutturalmente resa assai probabile dagli squilibri debito/credito e dalla disintegrazione bancaria, viene evitata solo grazie al fatto che i sistemi politico-istituzionali rendono inefficace ogni opposizione popolare e, prima ancora, rendono difficile la formazione di un soggetto popolare capace di rompere il gioco. Per questo i lampi di rottura che baluginano ad ogni apertura delle urne non si trasformano, per ora, in un vero temporale. Questa trasformazione sta tutta sulle nostre spalle. La fine (assai probabile anche in Italia) del primo ciclo del populismo antiunionista di destra (fine che non avverrà senza sussulti e ripensamenti e che non  esclude un secondo ciclo, magari assai più pericoloso) e la contemporanea crisi verticale del socialismo europeo, aprono lo spazio non già per una forza “di sinistra”, ma per una forza democratico-costituzionale che sappia unire tutti i lavoratori, anche facendo appello ad un semplice e sobrio (ma potenzialmente dirompente) sentimento di appartenenza nazionale, inteso come richiamo alle lotte popolari che hanno prodotto, difeso e tentato di attuare la nostra Costituzione. E’ vero, come spesso ci ricorda Russo, che non esiste oggi in Italia una borghesia nazionale con la quale costruire un fronte patriottico (anche se è da ripetersi che esiste una piccola borghesia che potrebbe essere coinvolta in un progetto nazionale elaborato da noi), ma è altrettanto vero che il discorso nazionale (che inevitabilmente assume, nelle condizioni attuali, una forma populista), oggi, prima che ad unire altre classi attorno al proletariato, è essenziale ad unificare proletariato che si pensa ormai soprattutto come popolo. Quando lo capiremo fino in fondo inizieremo davvero il tragitto verso le nostre

Contro la sinistra globalista

di Carlo Formenti da Micromega


I teorici operaisti italiani di matrice “negriana”, che trovano spazio sulle colonne del giornale “Il Manifesto”, detestano la sinistra che scommette su quelle lotte popolari che mirano alla riconquista di spazi di autonomia e sovranità, praticando il “delinking”. Ma così facendo diventano l’ala sinistra del globalismo capitalistico.

Correva l’anno 1981 quando il Manifesto recensì il mio primo libro (“Fine del valore d’uso”). Era una stroncatura che non ne impedì il successo e, alla lunga, risultò più imbarazzante per il quotidiano che per l’autore. Quel breve saggio, uscito nella collana Opuscoli marxisti di Feltrinelli, analizzava infatti gli effetti delle tecnologie informatiche sull’organizzazione capitalistica del lavoro e, fra le altre cose, prevedeva – cogliendo con notevole anticipo alcune tendenze di fondo – che la nuova rivoluzione industriale avrebbe drasticamente ridotto il peso delle tute blu nei Paesi occidentali, favorendo i processi di terziarizzazione del lavoro, e avrebbe consentito un massiccio decentramento della produzione industriale nei Paesi del Terzo mondo. Il recensore (di cui non ricordo il nome) liquidò queste tesi come una ridicola profezia sulla fine della classe operaia. Sappiamo com’è andata a finire…
Si trattò di un incidente di percorso irrilevante rispetto al ruolo che il Manifesto svolgeva a quei tempi, ospitando un confronto alto fra le migliori intelligenze della sinistra italiana (e non solo). Oggi la sua capacità di assolvere a questo compito si è decisamente appannata, eppure una caduta di livello come quella della “recensione” che Marco Bascetta ha dedicato al mio ultimo lavoro (“La variante populista”, DeriveApprodi) fa ugualmente un certo effetto. Ho messo fra virgolette la parola recensione, perché – più che di questo – si tratta di una tirata ideologica contro i populismi – etichettati come protofascisti – che incarna il punto di vista d’una sinistra “globalista” schierata al fianco del liberismo “progressista” contro questo nemico comune.
Ma torniamo al libro: anche in questo caso l’intenzione è stroncatoria, ma la disarmante superficialità con cui ne vengono criticate le tesi stride con il notevole spazio dedicato all’impresa: una pagina intera per liquidare un saggio che viene definito confuso, contraddittorio e pretenziosamente ambizioso!? Non sarebbe bastato un colonnino o, meglio ancora, non era semplicemente il caso di ignorarlo? Evidentemente, c’è chi giudica le mie idee pericolose al punto da giustificare tanto impegno, peccato che il “killer” non si sia dimostrato all’altezza del compito, limitandosi a stiracchiare quattro ideuzze che avrebbero potuto stare comodamente in venti righe. Mi sono chiesto se valesse la pena di spendere energie per replicare visto che, da quando è uscito il libro, ho ricevuto tali e tanti attacchi –  e insulti – che ormai mi rimbalzano. Alla fine ho deciso di farlo, perché ritengo che le quattro ideuzze di cui sopra incarnino una visione che merita di essere duramente contrastata.
Prima ideuzza: Formenti è cattivo, insiste nell’adottare quello stile corrosivo della polemica politica che è sempre stato – da Marx in avanti – tipico di una certa sinistra anticapitalista, ma questa modalità reattiva (tornerò fra poco sul senso di tale aggettivo) “col passare del tempo” (stiamo parlando di mode letterarie?) ha finito per “prendere di aceto”. Analoga accusa mi era stata rivolta tre anni fa da Bifo, a proposito di un precedente lavoro (Utopie letali): Formenti è “antipatico”, fa le pulci a tutti e così via. È una critica che esprime bene la visione di quei seguaci della “svolta linguistica” che rifiutano apriori la possibilità/necessità di difendere la “verità” di un punto di vista di parte (di classe, politico, culturale): per costoro il conflitto non è mai ontologico, oppone solo opinioni, punti di vista soggettivi, “narrazioni” che non competono per il potere ma per “informare” di sé il mondo (è la concezione “debole” dell’egemonia gramsciana, tipica dei cultural studies angloamericani).
Seconda ideuzza: a questa modalità reattiva del discorso, corrisponde una pratica politica fondata sul rancore e sul risentimento che “sono il contrario esatto di ogni attitudine costituente”. Purtroppo Bascetta non ci illumina su quale dovrebbe essere questa “attitudine costituente”, in compenso ci fa capire: 1) che l’odio di classe e il rancore per i torti subiti sono incompatibili con qualsiasi progetto di trasformazione sociale; 2) che chi crede perfino di poter indicare i colpevoli dei torti in questione è destinato a finire nelle braccia dei demagoghi fascisti. Questo doppio passaggio è denso di significati impliciti: sul piano filosofico, implica l’abbandono della prospettiva marxista in favore di quella nietzschiana (da cui le pippe contro il risentimento e la natura reattiva dell’odio sociale), sul piano politico implica la negazione dell’esistenza stessa di un nemico di classe (effetto di un foucaultismo sui generis che neutralizza il conflitto fra soggettività antagoniste, sostituendolo con un percorso di autonomizzazione/autovalorizzazione).
Ma perché la visione antagonista del conflitto sarebbe destinata a portare acqua al mulino dei fascisti? Perché – terza ideuzza – chi ne è sedotto è portato ad affidare il proprio riscatto alla figura di un redentore, a un capo carismatico. Ergo, il populismo è un incubatore del fascismo. Nei giorni precedenti il Manifesto aveva pubblicato un interessante dossier su Podemos, seguito da un bell’articolo di Loris Caruso sul congresso di Vistalegre; invece nell’articolo di Bascetta non vengono fatte sostanziali distinzioni fra populismi di destra e di sinistra, al punto che, anche se ciò non viene esplicitamente detto, il lettore potrebbe dedurne che Trump e Sanders, Marine Le Pen e Podemos, Alba Dorata e M5S vanno considerati tutti sullo stesso piano, a prescindere dalle loro differenze (ivi compreso il ruolo diverso giocato dai rispettivi leader). Del resto, Bascetta si guarda bene dal discutere la mia analisi critica delle teorie sul populismo di Laclau e Mouffe, nonché il mio tentativo di reinterpretarle alla luce sia delle categorie gramsciane di egemonia, blocco sociale, guerra di posizione, ecc. sia delle esperienze pratiche della rivoluzione boliviana, di Podemos, e della campagna presidenziale di Sanders.
Insomma: i rancorosi e gli odiatori, quelli che oppongono alto e basso, popolo ed élite, che cercano a tutti costi il nemico (che se la prendono con le banche, con le multinazionali e con le caste politiche che ne gestiscono gli interessi), quelli che vogliono ricostruire comunità riunificando le disiecta membra di un corpo sociale fatto a pezzi dalla ristrutturazione e dalla finanziarizzazione capitalistiche, invece di godersi la libertà individuale e i diritti civili che la civiltà ordoliberista ci regala (o meglio, regala a un’esigua minoranza di “cognitari” e ai suoi intellettuali organici) non sono altro che una massa indifferenziata di bruti, un popolo bue (“demente” lo ha definito Bifo, riferendosi agli operai e alla classe media impoverita che ha votato Trump in America e Brexit in Inghilterra) pronto a militare sotto le insegne del “nazional operaismo” (altra definizione coniata da Bifo). A questo punto manca solo di prendere in esame la quarta e ultima ideuzza, quella relativa all’apologia del globalismo contro le mie tesi sul conflitto fra flussi e luoghi. Ma prima ritengo utile riprendere alcune recenti riflessioni di Nancy Fraser sulle responsabilità delle sinistre “sex and the city”.
Anche se differiscono per ideologia e obiettivi, scrive la Fraser riferendosi alle elezioni americane e alla Brexit, <>. Ma la vittoria di Trump, aggiunge, <progressista
>>. Ed ecco la definizione che dà di questo termine: <>. Attraverso questa alleanza, scrive ancora facendo eco alle tesi di Boltanski e Chiapello (“Il nuovo spirito del capitalismo”, Mimesis) , le prime prestano involontariamente il loro carisma ai secondi: <>.In questo modo l’assalto alla sicurezza sociale è stato nobilitato da una patina di significato emancipatorio e, mentre le classi subordinate sprofondavano nella miseria, il mondo brulicava di discorsi su “diversità”, “empowerment,” e “non-discriminazione.” L’”emancipazione” è stata identificata con l’ascesa di una élite di donne, minoranze e omosessuali “di talento” (la “classe creativa” celebrata da Richard Florida e dagli altri cantori della rivoluzione digitale) nella gerarchia dei vincenti. <>.
Ma nemmeno dopo che il Partito Democratico ha scippato la candidatura a Sanders, spianando la strada alla vittoria di Trump, questa sinistra ha aperto gli occhi: continua a cullarsi nel mito secondo cui avrebbe perso a causa di un “branco di miserabili” (razzisti, misogini, islamofobi e omofobi) aiutati da Vladimir Putin (sulle differenti interpretazioni delle cause della vittoria di Trump, vedi il corposo dossier curato da Infoaut). Nancy Fraser li invita invece a riconoscere la propria parte di colpa, che è consistita <>.
Invito inutile: Bascetta e soci sono ben lontani dal recitare un simile mea culpa. Se lo facessero, dovrebbero accettare l’invito di Nancy Fraser a riconoscersi nella campagna contro la globalizzazione capitalista lanciata dal populista/socialista Sanders. Vade retro! Per costoro i discorsi sulla necessità che popoli e territori lottino per riconquistare autonomia e sovranità praticando il “delinking” (ricordate Samir Amin: anche lui fascista?) dal mercato globale, sono eresie “rossobruniste”. Questo perché sono incapaci di distinguere fra mondializzazione dei mercati (che è una caratteristica immanente del capitalismo fin dalle sue origini) e globalizzazione, che è la narrazione legittimante (curioso errore per chi vede solo narrazioni…) su cui si fonda l’egemonia ordoliberista; per cui non riescono nemmeno a vedere la crisi della globalizzazione – della quale il vicepresidente boliviano Alvaro G. Linera invita a prendere atto  in un suo recente articolo mentre Toni Negri ne ha negato l’evidenza in una penosa intervista televisiva. Una cecità che arriva al punto di paragonare (vedi l’ultima parte del pezzo di Bascetta) l’apprezzamento di Sanders nei confronti del ripudio dei trattati internazionali TTIP e TTP da parte di Trump, e quello di Corbyn nei confronti della Brexit, al voto dei crediti di guerra da parte dei partiti socialisti della Prima Internazionale (sic!).
Che altro aggiungere? Mi aspetto a momenti la loro adesione al manifesto con cui Zuckerberg si candida a leader dell’opposizione liberal a Trump e a punto di riferimento del globalismo dal volto umano (a presidente dell’umanità ha ironizzato qualcuno). Un Impero del Bene hi tech e ordoliberista che non mancherà di piacere alle élite cognitarie. Viste le premesse, potremmo perfino vederli inneggiare all’annunciato ritorno di Tony Blair, che minaccia di sfidare Corbyn per rianimare il New Labour e, perché no, aderire alla campagna promossa da media mainstream, caste politiche ed élite finanziarie contro le fake news veicolate dalla Rete infiltrata dai populisti. Così il politically correct assurgerà definitivamente a neolingua e quelli che, come il sottoscritto, spargono l’aceto della polemica, verranno finalmente messi a tacere.

La globalizzazione è morta

di Carlo Formenti da Micromega

Il re è nudo. Finalmente una voce autorevole della sinistra mondiale – il vicepresidente boliviano Alvaro G. Linera – ha il coraggio di dirlo forte e chiaro: la globalizzazione è morta. Incapaci di interpretare i sintomi dell’evento (dalla Brexit alla vittoria elettorale di Trump, senza trascurare il no del popolo italiano alla “riforma” costituzionale renziana – ennesima sconfitta referendaria dopo quelle subite in Francia, Irlanda e Grecia dal fronte liberal-socialdemocratico europeista) la maggioranza degli intellettuali post e neomarxisti rifiutano di prendere atto di quello che appare un vero e proprio cambio d’epoca. Il paradosso consiste nel fatto che quanto sta avvenendo è l’esito inevitabile di processi che loro stessi hanno contribuito a mettere in luce: finanziarizzazione dell’economia, de-democratizzazione dei sistemi politici, ristrutturazione tecnologica, guerra di classe dall’alto contro sindacati, movimenti e ogni forma di resistenza organizzata delle classi subordinate, crescita oscena delle disuguaglianze, immiserimento di settori sempre più ampi della popolazione mondiale, ecc.
Dimenticano, fra le altre cose, di avere scritto e detto che la crisi è un fenomeno eminentemente politico, che si spiega a partire dai rapporti di forza fra classi sociali (e fra nazioni dominanti e nazioni dominate: urge rileggersi Samir Amin), e non dalle “leggi” dell’economia. Perché stupirsi, dunque, se la rottura si manifesta come brusco ritiro del consenso popolare alle élite che sfruttano e opprimono? Il fatto è che, a causa della totale insipienza politica, culturale e organizzativa delle sinistre “radicali” (quelle socialdemocratiche sono da tempo passate al nemico), tale rivolta avviene sotto le insegne del populismo di destra.
Scandalizzati dal “tradimento” delle masse, i suddetti intellettuali gridano al pericolo fascista e convergono nel “fronte unito contro il populismo” guidato da partiti, istituzioni, media che fino a ieri indicavano al pubblico disprezzo. Così assistiamo a performance imbarazzanti come quella dell’ex nemico pubblico numero uno dell’ordine capitalista, Toni Negri, che intervistato da La7, difende una globalizzazione che avrebbe diffuso benessere, uguaglianza e democrazia (su che pianeta vive?), con argomenti analoghi a quelli del “compagno” Xi Jimping (lo stesso che vende il proprio popolo allo sfruttamento selvaggio delle imprese multinazionali) il quale ha riscosso, con il suo discorso a Davos, il plauso delle élite liberiste dimentiche delle sue credenziali totalitarie.
Questa confusione mentale nasce dal fatto che post e neomarxisti non si sono mai emancipati da una visione della storia come un processo lineare e necessario verso il progresso: unificazione dei mercati mondiali= sviluppo delle forze produttive=creazione delle condizioni per la transizione al socialismo guidata – ça va sans dire – da lor signori (o, nella versione post operaista, autogestita dalle avanguardie del “lavoro cognitivo”). Invece la storia non è un processo lineare e, mentre la mondializzazione è associata al capitalismo dalle sue lontane origini mercantiliste, la globalizzazione nelle forme che ha assunto negli ultimi decenni è (o meglio è stata) una fase contingente destinata a esaurirsi come quella culminata e terminata fra fine Ottocento e primo Novecento. “La globalizzazione”, scrive Linera, “come meta-racconto, questo è, come orizzonte politico-ideologico capace di canalizzare le speranze collettive verso un unico destino che permettesse di realizzare tutte le possibili aspettative di benessere, è esplosa in mille pezzi”.
Laddove la subordinazione delle condizioni di esistenza dell’intero pianeta alla valorizzazione del capitale, scandita dai cicli egemonici delle nazioni che si sono succedute alla guida del processo, è sempre stata imposta con la forza delle armi, quella attuale si è fondata anche su un progetto ideologico, sulla costruzione di un senso comune legittimante (Gramsci docet) cui anche le sinistre hanno attivamente contribuito. L’egemonia, scrive ancora Linera, ha iniziato a incrinarsi dopo la nascita dei governi rivoluzionari che in America Latina hanno avviato il tentativo di una transizione, se non al socialismo, verso modelli politici, sociali e culturali post neoliberisti.
Altre cause di crisi si sono aggiunte in tutto il mondo – dagli Stati Uniti, all’Europa, al vicino e lontano Oriente – fino a determinare il crollo che oggi è sotto i nostri occhi: “Donald Trump non è il boia dell’ideologia trionfalista della libera impresa, bensì il medico legale al quale tocca ufficializzare una morte clandestina”. Viviamo un tempo di incertezza assoluta, conclude Linera, un tempo che può essere fertile nella misura in cui spazzerà via le certezze ereditarie, obbligandoci a costruire nuove certezze con le particelle del caos “che si lascia dietro la morte delle narrazioni passate”.
 

Toni Negri e i “post-operaisti”: l’utopia funzionale alla globalizzazione capitalista?

di Fabrizio Marchi da l’interferenza

“La globalizzazione è stata qualcosa di estremamente importante per i popoli del terzo mondo. Milioni e milioni di persone che attraverso la globalizzazione dei mercati sono state tirate fuori dalla miseria. Credo che anche l’Occidente ci abbia guadagnato molto”.

Non sono parole di economisti liberisti come Von Hayek o Milton Friedman, ma di Toni Negri, filosofo, comunista, padre dell’operaismo degli anni ’60 e ’70, leader dell’area cosiddetta “post-operaista” – come vengono appunto definiti coloro che provengono da quell’esperienza politica – intervistato dal giornalista Gianluigi Paragone a “La Gabbia” pochi giorni fa, in occasione del seminario “Comunismo 17” organizzato a Roma presso l’Atelier Autogestito Esc dal 18 al 22 gennaio:

Interessante notare che nella stessa trasmissione, subito dopo di lui, l’imprenditore e uomo politico di area liberale Franco De benedetti, canterà più o meno le stesse lodi della globalizzazione, aggiungendo che quest’ultima, oltre a migliorare le condizioni di vita di milioni e milioni di persone, ha contribuito anche a portare diritti e democrazia dove non c’erano.

I due, Negri e De Benedetti, partono da approcci diversi e hanno finalità e orizzonti diversi (per lo meno in teoria), ma la direzione di marcia, come vediamo, è esattamente la stessa.

Seguendo la loro logica è necessario quindi appoggiare il processo di globalizzazione e anzi fare quanto è nelle nostre possibilità per accelerarlo perché porterà (e ha già portato, dicono…) benessere, diritti e democrazia nel mondo – secondo l’opinione di De Benedetti (ma in fondo, indirettamente, anche di Negri) – e perché creerà – secondo Negri – le condizioni per il passaggio ad una società libera dalla schiavitù del lavoro salariato (magari, diciamo noi…), anche grazie alla Tecnica che “libera” e “libererà” masse sempre più crescenti dalla schiavitù del lavoro, e quindi, in ultima analisi, verso una società comunista, sia pure di là da venire. Un passaggio, questo, che non prevede mediazioni (lo Stato, la Politica, i Partiti o la conquista del Potere Politico) ma è il risultato di un processo di fatto inevitabile, anche se ovviamente non del tutto spontaneo. Spetterà ai nuovi “lavoratori salariati cognitivi”, cioè la punta più avanzata del mondo del lavoro perché situata nel punto più alto dell’organizzazione capitalista della produzione, condizionare e indirizzare tale processo nella direzione auspicata, anche mobilitando le cosiddette “moltitudini”, cioè tutta quella vasta gamma di nuovi soggetti, le donne, evidentemente considerate come una “categoria” oppressa e discriminata in quanto tale (nessuna novità rispetto alla narrazione femminista di sempre e da tempo uno dei mattoni fondamentali dell’ideologia dominante), i migranti e tutti coloro che in forme diverse sono sottoposti al rapporto di produzione capitalistico (mi scuso per la estrema semplificazione ma su un articolo di giornale non è possibile fare altrimenti).

Insomma, a parere del nostro, saremmo già in un mondo migliore rispetto a quello esistente fino ad una trentina di anni fa, immediatamente prima del crollo del muro di Berlino. Il fatto che da allora il processo di globalizzazione capitalista sia stato imposto attraverso la guerra imperialista permanente (con tutti gli effetti del caso…) sembra essere un particolare secondario e non influire sul giudizio complessivamente positivo dello stesso (e infatti, come noto, i centri sociali che fanno riferimento all’area “negriana” non si sono particolarmente distinti, per usare un eufemismo, nel sostegno alla Siria o al Donbass…). E che questa guerra totale abbia tentato di disintegrare e molto spesso disintegrato stati, nazioni, popoli, comunità, etnie, culture, identità, sembra esserlo ancor più (secondario). Ma questo non ha nessuna importanza per Negri e compagni, perché i concetti di stato e ancor più di nazione sono considerati come pura “barbarie”, come vicende tribali “che hanno causato solo disastri”. Cosa in gran parte vera, perché non c’è dubbio che certo nazionalismo, in particolare quello che ha dominato in Europa nel XIX e nella prima metà del XX secolo (ma anche nei secoli precedenti) abbia rappresentato la bandiera ideologica (falsa coscienza) per giustificare le guerre imperialiste e la dominazione coloniale. Non c’è però altrettanto dubbio che è esistito anche un nazionalismo “progressista” – penso proprio ai movimenti di liberazione nazionale anticolonialisti e antimperialisti di tutto il mondo (fra cui anche molti movimenti comunisti dove l’elemento di classe si sovrapponeva a quello nazionale, basti pensare al Vietnam o a Cuba) a partire da quelli arabi ma non solo – che proprio sulla rivendicazione dell’identità culturale e nazionale (e talvolta religiosa) dei popoli fondava la sua ragion d’essere, come è inevitabile che sia. Del resto è risaputo che per fiaccare la resistenza di un popolo sottomesso è necessario distruggere le sue radici e la sua storia, in altre parole la sua identità (una parolaccia, per i post-operaisti e per tutta la “sinistra” contemporanea, sia essa liberal o radical…), cosa che le varie dominazioni coloniali hanno sempre cercato di fare nel modo più lucido e sistematico. A poco o nulla serve ricordare che anche per Lenin e i bolscevichi la “questione nazionale” non era affatto sottovalutata (Lenin, in un suo scritto “Sulla questione delle nazionalità o della autonomizzazione” scrive, fra le altre cose, che “Ho già scritto nelle mie opere sulla questione nazionale che non bisogna assolutamente impostare in astratto la questione del nazionalismo in generale. E’ necessario distinguere il nazionalismo della nazione dominante dal nazionalismo della nazione oppressa, il nazionalismo della grande nazione da quello della piccola”). Ma tutto ciò rappresenta, al meglio, per i post-operaisti, solo zavorra se non peggio, un ostacolo sul cammino della liberazione totale dell’umanità e del “desiderio”.

In questa visione delle cose, è importante rilevarlo, il concetto di internazionalismo proletario, finisce inevitabilmente a confondersi e a sovrapporsi completamente con quello di “cosmopolitismo”, cioè con una sorta di neo universalismo (neo) kantiano, naturalmente distorto e piegato alle esigenze ideologiche e politiche delle elite capitaliste dominanti. L’orizzonte è appunto quello della distruzione di ogni identità culturale, statuale, nazionale (che non è detto che debba avere necessariamente un carattere reazionario; erano forse reazionari gli indiani americani, gli aborigeni australiani, gli algerini e tutti i popoli che hanno combattuto e talvolta vinto contro il dominio coloniale?) e l’abbattimento di ogni ostacolo, sia esso di ordine politico o culturale, che possa essere di impedimento al processo di globalizzazione capitalista, che significa di fatto la globalizzazione dei mercati ma niente affatto dei diritti (il capitalismo convive allegramente con le monarchie semifeudali saudite, con la società divisa in caste indiana, con lo stato-partito cinese, e gli stati occidentali stanno gradualmente adeguando il loro sistema di garanzie sociali sul modello di quelli asiatici per poter essere competitivi con questi ultimi ). Ma quello che non si capisce, a questo punto, è quale possa essere il terreno e anche lo spazio politico e fisico per poter sviluppare una conflittualità antagonista (di classe) dal momento che si esclude, per coerenza, l’ipotesi di una rottura e di una uscita dal sistema. Le ricadute concrete, infatti, in termini politici, di questa concezione, si traducono nella scelta di rimanere all’interno delle strutture del dominio capitalista, cioè l’UE e l’eurozona, escludendo a priori la possibilità che un processo politico e sociale all’interno di uno degli stati membri (ad esempio l’affermazione politica ed elettorale di un fronte democratico, popolare e socialista) possa portare quello stesso stato a recuperare la sua autonomia politica e sottrarsi, sia pure parzialmente, ai diktat delle elite capitaliste globaliste dominanti. Viceversa – sostengono i nostri amici – il sistema dovrebbe essere cambiato dal “di dentro”, cioè attraverso quel processo cui facevo cenno in apertura. La qual cosa, dal mio punto di vista, è quanto meno contraddittoria. Come si può infatti pensare di esercitare una egemonia e addirittura cambiare radicalmente una istituzione che è strutturalmente un progetto capitalista e imperialista? La vicenda greca è significativa da questo punto di vista (e non a caso Negri difende le scelte politiche sia di Tsipras che di Varoufakis) e in tal senso rimando ad un mio vecchio articolo: http://www.linterferenza.info/editoriali/la-necessita-della-mediazione-e-il-coraggio-della-rottura/

Come dicevo, la globalizzazione, attraverso la guerra e il saccheggio sistematico delle risorse dei paesi del terzo mondo ha portato alla distruzione e alla spoliazione di intere aree, creando il fenomeno, non certo nuovo, della migrazione di grandi masse, che in moltissimi casi hanno perso anche quel poco che avevano, verso le “metropoli” occidentali.

Naturalmente questa massa di manodopera costituita dagli immigrati va a premere sui lavoratori occidentali e a fungere come da arma di ricatto su questi ultimi, con due ricadute, entrambe funzionali al capitale:
l’abbassamento del costo del lavoro, con conseguente riduzione dei salari, la precarizzazione del lavoro, la distruzione o la riduzione ai minimi termini del welfare e dei diritti sociali e ultimamente (vedasi l’attacco delle oligarchie finanziarie europee alle Costituzioni democratiche dei vari stati scaturite dalla guerra contro il nazifascismo e considerate obsolete), anche di quelli civili;
la competizione fra i lavoratori autoctoni e quelli immigrati, la cosiddetta “guerra fra poveri” che, ovviamente, viene alimentata ad arte dalla variante neo populista di destra del sistema capitalista (Trump, Le Pen, Salvini e neo destre sia dell’ovest che dell’est europeo).

Nello stesso tempo, la globalizzazione ha provocato il fenomeno della cosiddetta delocalizzazione: le imprese dei paesi sviluppati vanno a produrre nei paesi del terzo mondo dove il costo del lavoro è bassissimo, i lavoratori sono completamente privi di diritti (e di certo le imprese e le multinazionali occidentali non fanno nulla per portarglieli, alla faccia di chi sostiene che la globalizzazione capitalista avrebbe portato diritti e democrazia…), non esistono sindacati, e ci sono governi “amici” che alla bisogna chiudono tutti e due gli occhi e che sono complici di questo processo di sfruttamento complessivo dei lavoratori e dei “loro” stessi popoli.

Ma – si dice – la globalizzazione ha migliorato le condizioni di vita di milioni e milioni di persone. E grazie al cavolo, mi verrebbe da dire, non faccio certo fatica a crederlo. Perché è evidente che questo processo ha visto la crescita in taluni contesti, ma non in tutti, di una nuova classe borghese che prima era molto ridotta e in taluni casi non esisteva neanche. Il problema è che – se la teoria del valore (e del plusvalore) di Marx non è una fantasia dell’autore – se c’è qualcuno che si arricchisce, logica vuole che ci sia qualcun altro che si impoverisce o che comunque venga sfruttato da coloro che si arricchiscono sul suo lavoro e alle sue spalle. Che sia dunque un liberale e un liberista a sostenere che il processo di globalizzazione capitalista ha migliorato, in termini assoluti, le condizioni di vita di una parte, comunque minoritaria, della popolazione mondiale, è del tutto normale, logico e comprensibile. Non lo è per nulla se a sostenere tale tesi è un comunista.

Negri non può non accorgersene, ma ovviamente cade in contraddizione. Al minuto 1,25 dell’intervista, Paragone osserva che la globalizzazione è stata dominata dal neoliberismo che ha “livellato” (nonché ridotto…) i diritti dei lavoratori, e naturalmente Negri non può che confermare. Ora però la vedo dura sostenere che la globalizzazione è stata un fatto assolutamente positivo e contestualmente riconoscere (né potrebbe essere altrimenti…) che questa ha portato ad una riduzione e ad un livellamento (in basso…) dei diritti dei lavoratori in tutto il mondo. Anche in questo, nulla da dire se a sostenere tale tesi fosse un pensatore liberale-liberista, ma non dovrebbe essere questo il caso di Negri.

Veniamo ora ad un’altra questione fondamentale sulla quale mi pare che ci sia, forse, e sottolineo forse, una divergenza di opinioni all’interno dell’area post-operaista (per lo meno restando alla sua intervista a “La Gabbia”, non ho ascoltato il suo intervento al seminario) e gli altri due maggiori esponenti e intellettuali di quell’area, cioè Paolo Virno e Franco Berardi (Bifo) che invece ho ascoltato in diretta.

Negri sostiene che la classe operaia occidentale, o ciò che resta di essa, sia ormai un ceto sociale residuale, pervaso da pulsioni egoiste, ridotta in queste condizioni dai padroni e dalle socialdemocrazie (e su questo ha in larghissima parte ragione se non fosse che, a mio parere, anche una certa “sinistra” “radical, antagonista e femminista”, cioè quella che anche lui rappresenta, ci ha messo del suo…) che difende in modo corporativo le proprie posizioni (cioè il posto di lavoro e una certa sicurezza sociale…). Bifo ci va giù in modo molto più pesante (forse perché non era in televisione…) e parla espressamente di “classe operaia “nazionalistizzata” e nazificata”, e per questo facile preda del populismo. Il quale populismo – spiega Virno – è “il fascismo postmoderno”. Anche in questo c’è sicuramente del vero, però mi sembrerebbe un grave errore liquidare la questione in questo modo e affidarsi alle sorti magnifiche e progressive dei lavoratori cognitivi della Silicon Valley (ripetutamente evocati e individuati da Bifo come la possibile avanguardia del processo rivoluzionario…) e delle cosiddette “moltitudini desideranti” (che siano desideranti non c’è alcun dubbio, si tratta di capire se questo desiderio prenderà spontaneamente una strada rivoluzionaria o comunque di rottura rispetto all’ordine sociale esistente oppure sarà fagocitato dal capitale, molto abile, anche e soprattutto dal punto di vista ideologico/psicologico, a “giocare” la sua partita proprio su quella naturale e legittima aspirazione alla soddisfazione del desiderio…).

Ora, se è da lodare il tentativo di individuare in alcuni settori di lavoratori, quelli più “avanzati” perché si trovano – come dicevo – nel punto più alto dell’organizzazione e della divisione capitalista del lavoro (e quindi sono provvisti di “know how”, di un differenziale di sapere che li pone in una condizione “privilegiata”, in termini di capacità cognitive, rispetto ad altri), l’avanguardia o comunque i possibili soggetti di un altrettanto possibile processo di trasformazione, mi sembra un gravissimo errore liquidare tutti gli altri (anche con un certo malcelato disprezzo, che si avverte chiaramente e che non dovrebbe appartenere a chi si professa comunista), dandoli per perduti e regalandoli di fatto al neo populismo di destra.

E a questo punto ci sono altri due gravissimi errori che vengono a mio parere commessi. Intanto non è affatto detto che quel differenziale di sapere di cui sono provvisti quei “lavoratori cognitivi” si trasformi necessariamente in coscienza di classe. E’ anzi, purtroppo, assai più probabile il contrario, e cioè che proprio per la loro condizione “privilegiata” vengano ideologicamente fagocitati dal capitale. Del resto, non sarebbe la prima volta che accade. Abbiamo visto l’ “evoluzione” di quel ceto giovanile e intellettuale che nel ’68 era stato individuato come la possibile avanguardia di un processo rivoluzionario e che ha finito per essere completamente o quasi assorbito dal capitale che addirittura ha fatto sue, sia pure rivisitandole pro domo sua, le rivendicazioni e le aspirazioni di cui si faceva portatore.

Oltre a quei “lavoratori cognitivi”, sia pure ormai molto diffusi e cresciuti esponenzialmente di numero, esistono ancora larghe masse di lavoratori generici, non qualificati e sottoccupati, accanto a quei settori di vecchia classe operaia e di piccola e piccolissima borghesia che una volta avremmo detto “proletarizzata” o in via di “proletarizzazione” (proprio a causa della globalizzazione celebrata anche da Negri…). Le periferie e le grandi aree metropolitane di tutte le grandi città europee, ma anche delle province profonde, sono popolate da questa gente che si sente, a ragione, sempre più esclusa e che in gran parte vota in massa per le forze politiche neo populiste di destra (ma non solo di destra).

Ora il problema, a mio parere, è in questa fase quello di lavorare alla costruzione di un blocco sociale in senso gramsciano, che sappia unificare tutti quei settori sociali, i “lavoratori cognitivi” con la classe operaia tradizionale, il “proletariato intellettuale” con i lavoratori generici e meno qualificati e le masse popolari e piccolo e piccolissimo borghesi “periferiche” (in tutti i sensi), e naturalmente superare il conflitto fra lavoratori autoctoni e immigrati (lavoro, quest’ultimo, di una grandissima difficoltà, e pur fondamentale). Se non si fa questo lavoro, se non gli si prosciuga il brodo di coltura, il neo populismo di destra continuerà a crescere e ad aumentare in misura esponenziale i suoi consensi. In una parola: ad essere egemone. E’ quindi anche e soprattutto in quel “brodo” che oggi i comunisti devono lavorare, senza avere timore di sporcarsi le mani, perché quella gente, anche quella ormai completamente priva di una coscienza politica e di classe, che straparla contro gli immigrati ritenendoli responsabili del loro disagio, è la loro gente, la nostra gente, non dimentichiamolo mai, altrimenti siamo destinati a deragliare, e in larga parte è purtroppo già avvenuto.

Mi pare, quindi, che l’atteggiamento dei post-operaisti, in tal senso, e in particolare quello di Virno e Bifo, sia profondamente sbagliato e, mi sento di dire forse presuntuosamente, assai poco socialista e comunista.

Per la verità Negri nella sua intervista a Paragone assume una posizione diversa perché al giornalista che gli chiede perché in tutto questo contesto non esplodano delle ribellioni, Negri risponde (minuto 7) che “Non è vero, che le ribellioni ci sono, almeno dal 2011 ad oggi, e che vengono chiamate “populismi”, ma che in realtà – spiega sempre Negri – sono ribellioni”.

Mi pare (e mi auguro) che qui ci sia una diversa interpretazione rispetto alle posizioni molto nette di Bifo e Virno che invece bollano senza possibilità di appello i populismi come fenomeni apertamente neofascisti e razzisti. Però, come ripeto, questa è una mia personale interpretazione sulla base di quello che ho ascoltato (cioè gli interventi di Bifo e Virno e l’intervista di Negri) e che mi auguro abbia un riscontro effettivo.

Un’ultima nota, questa volta solo parzialmente critica, perché sono del tutto d’accordo con Negri relativamente al suo giudizio sulla Sinistra storica quando dice:” La Sinistra ha fallito quando nel 1914 ha votato il debito di guerra per fare la prima guerra mondiale, ha fallito nel ‘39 e poi nel ’53 quando si è allontanata dal Marxismo. E’ un corpo ormai defunto ma questo non significa che non ci sia una forte, continua, solida ribellione nella vita di tutti i giorni”.

Manca però un punto fondamentale: l’autocritica. Di cantonate, oltre che di brillanti intuizioni, Negri e compagni ne hanno prese, e a mio parere quelle che stanno prendendo oggi sono assai più pericolose di quelle prese nel passato, per le ragioni che ho tentato di spiegare. Forse un pizzico di umiltà (che non hanno mai avuto), ma soltanto un pizzico, potrebbe essere di aiuto per tutti, anche per loro stessi.

L’Economia Politica dell’Apartheid di Israele e lo Spettro del Genocidio

di William I. Robinson (da Truthout, 19 settembre 2014)
traduzione per Doppiocieco di Domenico D’Amico


Pochi giorni prima delle sette settimane di assedio di Gaza degli scorsi luglio e agosto, che ha prodotto 2.000 palestinesi morti, 11.000 feriti e 100.000 senza casa, il deputato israeliano Ayelet Shaked, membro di alto livello del Jewish Home Party [HaBayit HaYehudi,La Casa Ebraica], parte della coalizione al governo, ha scritto su Facebook che “il nemico è l’intera popolazione palestinese (…) inclusi vecchi e donne, città e villaggi, edifici e infrastrutture.” Il post prosegue affermando che “dietro ogni terrorista ci sono dozzine di uomini e donne, senza i quali non potrebbe compiere atti di terrorismo. Sono tutti combattenti nemici, e il loro sangue ricadrà su di essi [1]. E questo include anche le madri dei martiri, che li spediscono all’inferno con fiori e baci. Dovrebbero seguire i loro figli, niente sarebbe più giusto. Dovrebbero sparire, insieme al luogo fisico in cui hanno cresciuto quei serpenti. Altrimenti, quella casa farà da nido ad altri piccoli rettili.”
Il post di Shaked è stato condiviso più di mille volte, e ha ricevuto quasi cinquemila like. Qualche settimana dopo, il primo di agosto, The Times of Israelha pubblicato un editoriale di Yochanan Gordan intitolato “Quando il Genocidio È Ammissibile.” Gordan afferma che “dovrà pur giungere il momento in cui Israele si senta abbastanza minacciato da non aver altra scelta che sfidare i moniti internazionali.” E prosegue così: “In quale altro modo è possibile trattare con un nemico di tale natura, se non eliminandolo totalmente [obliterate them completely]? All’inizio di questa incursione, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha detto chiaramente che il suo obbiettivo è quello di ristabilire un’accettabile tranquillità per i cittadini di Israele. (…) Se politici ed esperti militari giungono alla conclusione che il raggiungimento di questa tranquillità si possa ottenere con un genocidio [is through genocide], non diventa forse ammissibile raggiungere quegli obbiettivi ragionevoli?”
Gli appelli alla pulizia etnica e al genocidio sono sempre più frequenti
Facendo eco a sentimenti analoghi, il vicepresidente del parlamento israeliano Moshe Feiglin, membro del partito Likud di Netanyahu, ha incitato l’esercito israeliano all’uccisione indiscriminata dei palestinesi di Gaza, e all’impiego di ogni mezzo possibile per cacciarli via. “Se ne possono andare, il Sinai non è molto lontano da Gaza. Sarà questo il massimo sforzo umanitario di Israele,” ha affermato Feiglin. “L’IDF [esercito israeliano] conquisterà tutta Gaza, utilizzando ogni mezzo necessario a minimizzare il danno per i nostri soldati, ogni altra considerazione esclusa, (…) La popolazione nemica che non avrà compiuto atti di aggressione [innocent of wrong-doing] e che si sarà separata dai terroristi armati verrà trattata in accordo con il diritto internazionale, e gli sarà permesso di andare via.” [2]
Questi appelli alla pulizia etnica e al genocidio stanno aumentando di frequenza. In questi anni in Israele il clima politico ha continuato a svoltare talmente a destra, che ormai un’atmosfera fascista è percepibile nella vita di tutti i giorni. A tel Aviv, in agosto, alcuni dei dimostranti di destra che hanno picchiato i manifestanti di sinistra contrari all’assedio di Gaza indossavano magliette con simboli e foto neonaziste, incluse alcune con la scritta “Good Night Left Side” [Buonanotte Sinistra], uno slogan neonazista popolare nei concerti europei di band di estrema destra, replica all’originale slogan antifascista “Good Night White Pride” [Buonanotte Orgoglio Bianco]. Quasi metà della popolazione ebraica di Israele approva la politica di pulizia etnica per i palestinesi, e secondo un sondaggio del 2012, ampie parti del pubblico approverebbero l’annessione completa dei territori occupati e l’instaurazione di uno stato di apartheid.
Il timore per un fascismo in ascesa in Israele ha spinto 327 sopravvissuti e discendenti di sopravvissuti al genocidio nazista a pubblicare una lettera aperta sul New York Timesdel 25 agosto, manifestando allarme per “l’estrema, razzista disumanizzazione dei palestinesi nella società israeliana, che ha raggiunto il parossismo.” Così continua la lettera: “Dobbiamo levare la nostra voce collettiva e usare le nostre forze per porre fine a ogni forma di razzismo, incluso il genocidio in corso del popolo palestinese [the ongoing genocide of Palestinian people].”
Quali sono le radici economiche sottese alla politica economica israeliana che portano a simili tendenze genocide?
Il progetto sionista è probabilmente fondato [may have been founded] – come sappiamo da studi storici emersi di recente – sulla sistematica pulizia etnica e sul terrorismo inferti ai palestinesi. L’articolo II della Convenzione delle Nazioni Unite del 1948 [3] definisce il genocidio come “ciascuno degli atti (…) commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale.” Non c’è dubbio che stiamo assistendo, in Israele-Palestina, a un’attività che prelude al genocidio [pre-genocidal activity]. Quali sono le radici economiche sottese alla politica economica israeliana che portano a simili tendenze genocide?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo fare un passo indietro di qualche anno, per concentrarci sui mutamenti di più larga scala associati alla globalizzazione capitalista e sull’integrazione di Israele e del Medio Oriente nel nuovo ordine globale. La globalizzazione del Medio Oriente, a partire dalla fine del XX Secolo, ha portato cambiamenti fondamentali nella struttura sociale di Israele e nell’economia politica del suo progetto coloniale. La ristrutturazione causata dalla globalizzazione capitalistica è stata portatrice di un importante cambiamento delle relazioni tra quel progetto e i palestinesi, e ha generato condizioni che rendono più agevole per la destra israeliana evocare lo spettro del genocidio.
Oslo e la Globalizzazione di Israele
La rapida globalizzazione di Israele, iniziata alla fine degli anni 80, coincise con due intifada palestinesi e con gli Accordi di Oslo, dibattuti dal 1991 al 1993 e demoliti negli anni successivi. Mentre la Guerra Fredda esalava l’ultimo respiro, le élite transnazionali ritenevano che l’emergente economia capitalistica globale non si sarebbe potuta stabilizzare, e rendersi sicura per l’accumulazione transnazionale di capitale, in un contesto di violenti conflitti regionali, e iniziarono quindi a fare pressione per una politica di “risoluzione dei conflitti,” o di una composizione negoziale dei conflitti regionali in corso, dall’America Centrale all’Africa meridionale. Sostenuti e persuasi dagli Stati Uniti e dalle élite transnazionali, nonché da potenti gruppi capitalistici israeliani, negli anni 90 i governanti di Israele intrapresero negoziati con le controparti palestinesi soprattutto come reazione alla crescente resistenza palestinese, manifestatasi con la prima intifada (1987-1991). Si possono vedere i negoziati di Oslo come un’importante tessera del puzzle politico dovuto all’integrazione del Medio Oriente nel sistema capitalistico globale emergente (un’integrazione che fa anche da sfondo strutturale alla Primavera Araba, ma è tutta un’altra storia).
Gli Accordi di Oslo, sottoscritti nel 1993, attribuirono all’Autorità Palestinese (PA) un’autonomia in stile bantustan [4] nei territori occupati, per un periodo che sarebbe dovuto essere un interim di cinque anni, durante il quale i negoziati avrebbero continuato a trattare questioni chiave per arrivare a una “situazione definitiva” [final status], questioni come lo stato dei rifugiati (e il loro diritto al ritorno), quello di Gerusalemme, dell’acqua, dei confini e del completo ritiro di Israele dai territori occupati. Eppure, durante gli anni di Oslo (dal 1991 al 1993, quando il processo fallì definitivamente) l’occupazione israeliana della West Bank e di Gaza conobbe una grande intensificazione. Perché il “processo di pace” fallì?
Fino alla metà degli anni 80, quando la globalizzazione prese il volo, la relazione tra Israele e i palestinesi rifletteva i caratteri del colonialismo classico, nel quale la potenza coloniale sottrae ai colonizzati territorio e risorse, per poi utilizzarli, i colonizzati, come forza lavoro.
Per prima cosa, il processo non era inteso a rimediare al dramma della maggioranza diseredata dei palestinesi, ma all’integrazione nel nuovo ordine globale di un’élite emergente palestinese, offrendo a questa élite una motivazione per mantenere l’ordine e per assumersi l’onere di gestire le masse palestinesi all’interno dei territori occupati. È stato rilevato, infatti, che la formazione delle classi palestinesiin questo periodo coinvolgeva capitalisti palestinesi di orientamento transnazionale, già in sintonia con le capitali del Golfo, speranzosi di fare del nuovo stato palestinese la piattaforma per il proprio consolidamento. La PA avrebbe dovuto gestire l’accumulazione del capitale transnazionale nei territori occupati, e al contempo mantenere il controllo sociale su una popolazione recalcitrante.
Seconda cosa, l’economia israeliana si stava globalizzando tramite un complesso militare-securitario ad alto contenuto tecnologico, la cui importanza chiariremo subito.
La compenetrazione tra il capitale israeliano e il capitale aziendale di America del Nord, Europa, Asia eccetera, è diventata sempre più profonda. Difatti, il capitale israeliano si è inestricabilmente integrato nel circuito del capitale globale. Oslo ha accompagnato il processo, agevolando l’attività dei capitalisti transnazionali israeliani in tutto il Medio Oriente e oltre, in parte permettendo la revoca dei boicottaggi verso Israele da parte dei regimi arabi conservatori, in parte favorendo l’apertura di un negoziato per la creazione di una Middle East Free Trade Area (MEFTA) che ha inserito Israele nella rete economica regionale (inclusi, ad esempio, Egitto, Turchia e Giordania) e ha integrato l’area ancora più profondamente nel capitalismo globale.
Terza cosa, intimamente connessa con le precedenti, negli anni 90 Israele ha conosciuto un grande aumento di immigrazione transnazionale, contando anche un milione circa di immigrati ebrei, che ha diminuito il bisogno di manodopera palestinese, anche se le cose, nel XXI Secolo, sarebbero cambiate. Fino alla metà degli anni 80, quando la globalizzazione prese il volo, la relazione tra Israele e i palestinesi rifletteva i caratteri del colonialismo classico, nel quale la potenza coloniale sottrae ai colonizzati territorio e risorse, per poi utilizzarli, i colonizzati, come forza lavoro. Ma l’integrazione del Medio Oriente nell’economia e società globale, sulle basi di una ristrutturazione economica neoliberista, che includeva la stranota litania di misure (privatizzazioni, liberalizzazione del commercio, austerità gestita dal Fondo Monetario Internazionale e prestiti dalla Banca Mondiale), quest’integrazione contribuì alla diffusione delle istanze di democratizzazione da parte di lavoratori, movimenti sociali e organizzazioni di base, il che portò alle intifada palestinesi, ai movimenti dei lavoratori nel Nord Africa e a crescenti agitazioni sociali – fino alle eclatanti sollevazioni arabe del 2011. Simili ondate di resistenza costrinsero i governanti israeliani e i loro sponsor statunitensi a reagire.
La Globalizzazione Trasforma i Palestinesi in “Umanità in Esubero”
L’economia israeliana, dalla sua integrazione nel capitalismo globale, ha attraversato due fasi di ristrutturazione, come viene mostrato nello studio Nitzan e Bichler, The Global Political Economy of Israel.
La prima, tra gli anni 80 e 90, ha visto la transizione da un’economia tradizionale di tipo agricolo-manifatturiero a una basata su computer e informatica (CIT), telecomunicazioni high-tech, tecnologia della Rete, eccetera. Tel Aviv e Haifa sono diventate gli “avamposti mediorientali” di Silicon Valley. A tutto il 2000, un buon 15% del PIL israeliano e metà delle esportazioni derivavano dal settore dell’alta tecnologia.
Israele si è globalizzata proprio attraverso la militarizzazione tecnologica della sua economia.
In seguito, dal 2001 in poi, e specialmente in seguito allo scoppio della bolla delle società dot-com e a una recessione globale, seguita dagli eventi dell’11 settembre 2001 e dalla rapida militarizzazione della politica mondiale, Israele ha conosciuto un ulteriore spinta verso un “complesso globale di tecnologie militari, securitarie, di intelligence, sorveglianza, antiterrorismo.” Le aziende tecnologiche israeliane sono state all’avanguardia nella cosiddetta industria della sicurezza interna. In effetti, Israele si è globalizzata proprio attraverso la militarizzazione tecnologica della sua economia. Le agenzie di export israeliane stimano che nel 2007 ci fossero 350 aziende transnazionali dedite alla sicurezza, all’intelligence e ai sistemi di controllo sociale, aziende al centro della nuova politica economica israeliana.
Le esportazioni di Israele in prodotti e servizi associati all’antiterrorismo sono aumentate del 15% nel solo 2006, con in prospettiva per il 2007 di un ulteriore aumento del 20%, per un ammontare di 1,2 miliardi di dollari all’anno,” osserva Naomi Klein nel suo studio Shock Doctrine. “Le esportazioni nel settore difesa hanno raggiunto nel 2006 un record di 3,4 miliardi di dollari (in confronto agli 1,6 del 1992), facendo di Israele il quarto commerciante d’armi del mondo, superando anche il Regno Unito. Israele ha molti più titoli tecnologici nel listino Nasdaq di qualsiasi altro paese non statunitense, titoli in larga parte legati alla sicurezza, e ha registrato negli USA più brevetti tecnologici di Cina e India messe insieme. Il suo settore tecnologico, per lo più nel campo della sicurezza, copre oggi il 60% di tutte le esportazioni.”
L’accumulazione militarizzata volta al controllo e contenimento degli oppressi e degli esclusi, volta al mantenimento dell’accumulazione in tempi di crisi, porta con sé tendenze politiche di tipo fascista, o, con termini usati da alcuni di noi, a un “fascismo del XXI Secolo.”
In altri termini, l’economia israeliana è giunta a trarre sostentamento dalla violenza locale, regionale e globale, dai conflitti e le disuguaglianze. Le sue aziende più importanti sono diventate dipendenti dalla guerra e dal conflitto, in Palestina, in Medio Oriente e nel mondo, e favoriscono questi conflitti utilizzando la loro influenza sul sistema politico e sullo stato d’Israele. Si tratta di un’accumulazione militarizzata che riguarda in egual modo gli Stati Uniti e l’intera economia globale.
Viviamo sempre di più in un’economia di guerra globale, e alcuni paesi, come Stati Uniti e Israele, sono componenti fondamentali di questo meccanismo. L’accumulazione militarizzata volta al controllo e al contenimento degli oppressi e degli esclusi, volta al mantenimento dell’accumulazione in tempi di crisi, porta con sé tendenze politiche di tipo fascista, o, con termini usati da alcuni di noi, a un “fascismo del XXI Secolo.”
Fino agli anni 90 la popolazione palestinese dei territori occupati forniva a Israele forza lavoro a basso prezzo. Ma negli ultimi anni, con gli incentivi per l’immigrazione ebraica da ogni parte del mondo e il collasso dell’Unione Sovietica, si è verificato un notevole aumento degli insediamenti ebraici, riguardante anche un milione di ebrei ex-sovietici, spesso essi stessi messi in fuga dalla ristrutturazione neoliberista post-sovietica. Inoltre, l’economia israeliana ha cominciato ad attirare un’immigrazione transnazionale dall’Africa, dall’Asia e altrove, dato che neoliberismo e crisi hanno spinto milioni di persone fuori dai paesi del Terzo Mondo.
I nuovi sistemi di mobilità e reclutamento del lavoro hanno permesso ai gruppi dominanti di tutto il mondo di riorganizzare il mercato del lavoro e ingaggiare lavoratori migranti privi di diritti e facili da controllare.
È un fenomeno globale, ma particolarmente appetibile per Israele, perché gli permette di fare a meno della forza lavoro palestinese, politicamente problematica. Oggi sono i più di 300.000 lavoratori immigrati da Tailandia, Cina, Nepal e Sri Lanka a costituire la maggior parte della forza lavoro impiegata nell’agricoltura israeliana, allo stesso modo con cui vengono utilizzati gli immigrati messicani o centro-americani nel settore agricolo statunitense, e nelle medesime condizioni di precariato, sfruttamento intensivo e discriminazione. Il razzismo che molti israeliani manifestavano nei confronti dei palestinesi – prodotto specifico della condizione coloniale – si è adesso mutata in una crescente ostilità verso gli immigrati in generale, favorendo l’evoluzione verso una società diffusamente razzista.
Dato che l’immigrazione ha eliminato il bisogno da parte di Israele di forza lavoro palestinese a basso prezzo, i palestinesi sono diventati una popolazione marginalizzata, in eccedenza. “Prima dell’arrivo dei rifugiati sovietici, Israele non avrebbe mai potuto recidere a lungo i rapporti con la popolazione palestinese di Gaza o della West Bank, perché la sua economia non sarebbe sopravvissuta senza di loro, non più di quanto quella californiana reggerebbe senza messicani,” come scrive Klein. “Circa 130.000 palestinesi lasciavano le loro case di Gaza o della West Bank e si recavano in Israele per costruire strade o fare gli spazzini, mentre altri palestinesi, contadini e commercianti, riempivano i camion di merci da vendere in Israele o in altre parti dei territori occupati.”
Dal punto di vista dei settori dominanti del capitale militarizzato, radicati nell’economia israeliana e internazionale, una simile situazione non costituisce la tragica perdita di opportunità per la risoluzione dei conflitti, ma piuttosto un’occasione d’oro per espandere l’accumulazione capitalistica – di sviluppare un mercato mondiale per armi e sistemi di sicurezza, tramite l’utilizzo dell’occupazione e della popolazione palestinese soggetta come terreno di prova e bersagli.
Non c’è da meravigliarsi, perciò, che esattamente nel 1993 – l’anno in cui gli accordi di Oslo sono stati firmati e attuati – Israele abbia imposto la sua nuova politica, nota con il nome di “closure” [chiusura], cioè il confinamento dei palestinesi dentro i territori occupati, la pulizia etnica e un forte incremento degli insediamenti coloniali. Nel 1993, l’anno d’inizio della politica di “closure”, la percentuale pro capite di Prodotto Nazionale Lordo dei territori occupati è diminuita del 30%. Arrivati al 2007, i tassi di povertà e disoccupazione arrivavano al 70%. Dal 1993 al 2000 – gli anni in cui veniva implementato un accordo “di pace” che avrebbe dovuto porre fine all’occupazione israeliana e vedere la nascita di uno stato palestinese – i coloni israeliani nella West Bank sono raddoppiati, arrivando a quota 400.000, a quota mezzo milione nel 2009, e il numero continua a crescere. Il tasso di grave malnutrizione a Gaza è simile a quello di alcune delle nazioni più povere del mondo, con più di metà delle famiglie che consuma solo un pasto al giorno. Mentre da una parte i palestinesi venivano espulsi dall’economia israeliana, dall’altra parte la politica di chiusura e di espansione dell’occupazione distruggeva la loro economia.
Il fallimento degli accordi di Oslo e la farsa di trattative “di pace” che vanno avanti mentre l’occupazione israeliana non conosce soste, potrebbe costituire un dilemma politico per le élite transnazionali (e alcune loro controparti israeliane) desiderose di coltivare e cooptare le élite palestinesi e altre entità capitalistiche. Tuttavia, dal punto di vista dei settori dominanti del capitale militarizzato, radicati nell’economia israeliana e internazionale, una simile situazione non costituisce la tragica perdita di opportunità per la risoluzione dei conflitti, ma piuttosto un’occasione d’oro per espandere l’accumulazione capitalistica – di sviluppare un mercato mondiale per armi e sistemi di sicurezza, tramite l’utilizzo dell’occupazione e della popolazione palestinese soggetta come terreno di prova e poligono di tiro.
Una volta dissipata la cortina fumogena di ideologia e retorica, sono questi i potenti interessi economici che sono giunti ad avere un’influenza decisiva sulla politica statale di Israele. “La rapida espansione di un’economia basata sull’alta tecnologia securitaria ha generato tra gli israeliani più ricchi e potenti un forte desiderio di accantonare la pace e intraprendere invece una ‘guerra al terrore’ in continua espansione,” osservava Klein vari anni fa, “insieme a una netta strategia volta a ridefinire il proprio conflitto con i palestinesi, non come una battaglia contro un movimento nazionalista con obbiettivi territoriali e sociali, ma come parte di una guerra globale contro il terrorismo – cioè contro forze fanatiche e irrazionali dedite solo alla distruzione.”
In un editoriale del 2009 intitolato “Israel Knows that Peace Just Doesn’t Pay” [Israele Sa che la Pace Proprio Non Paga], pubblicato su Haaretz, autorevole quotidiano israeliano, Amira Hass – una delle poche, coraggiose voci critiche nei media israeliani, osservava che “l’industria della sicurezza costituisce un settore importante per le esportazioni – armi, munizioni e migliorie che vengono testate quotidianamente a Gaza e nella West Bank. (…) La protezione degli insediamenti necessita di un continuo sviluppo di tecnologie di sicurezza, sorveglianza e strutture di deterrenza quali recinzioni, posti di blocco, video sorveglianza e droni.” Inoltre, “Nel mondo industrializzato, si tratta delle tecnologie di massima eccellenza, offerte a banche, industrie e quartieri di lusso che sorgono accanto a baraccopoli ed enclave etniche dove la ribellione dev’essere soppressa,”
La Sociologia di Razzismo e Genocidio: da Ferguson ai Territori Occupati
La sociologia delle relazioni etnico-razziali identifica tre generi distinti di strutture razziste, vale a dire, di relazioni strutturali tra gruppi dominanti e gruppi minoritari. Una è quella che prende nome dalle “minoranze intermediarie” [middle men minorities]. In questo tipo di struttura, il gruppo minoritario riveste un ruolo di mediazione tra il gruppo dominante e gli altri gruppi subordinati. Questa è l’esperienza storica dei commercianti cinesi d’oltremare nel Sud Est Asiatico, dei libanesi e siriani nell’Africa Occidentale, degli indiani in Africa Orientale, dei meticci in Sud Africa, e degli ebrei in Europa. Quando le “minoranze intermediarie” perdono il loro ruolo col mutamento della struttura, esse possono essere assorbite nel nuovo ordine, oppure ritrovarsi nel ruolo di capri espiatori, se non addirittura essere vittime di genocidio.
Il sistema dominante ha bisogno della manodopera dei gruppi subordinati – in pratica i loro corpi, la loro esistenza – anche se questi gruppi subiscono una marginalizzazione sociale e culturale, e la privazione dei diritti civili.
Storicamente, a svolgere questo ruolo di “minoranza intermediaria” nell’Europa feudale e protocapitalista erano gli ebrei. La struttura dell’Europa feudale affidava agli ebrei determinati ruoli vitali per la riproduzione della società feudale europea. Ciò includeva il commercio a lunga distanza e il prestito di denaro. Simili attività erano proibite dalla Chiesa Cattolica e non avevano un ruolo prestabilito all’interno del rapporto servo-signore, cardine del feudalesimo, eppure erano indispensabili al mantenimento del sistema. Con lo sviluppo capitalistico di XIX e XX Secolo, le nuove classi capitaliste si appropriarono delle funzioni commerciali e bancarie, rendendo così il ruolo degli ebrei irrilevante per gli interessi della nuova classe dominante. Come conseguenza, mentre il capitalismo si sviluppava la pressione sugli ebrei d’Europa aumentava, finché si giunse al genocidio, per via di una serie nefasta di condizioni: gli ebrei che fanno da capro espiatorio per le privazioni causate dal capitalismo, la perdita del loro indispensabile ruolo economico, la crisi degli anni 30 e l’ideologia e i programmi dei nazisti.
Un secondo genere di struttura razzista è quella che chiamiamo “supersfruttamento/divisione [super-exploitation/disorganization] della classe lavoratrice.” Ciò si verifica quando, all’interno di un’economia o società che ha una classe di lavoratori stratificata razzialmente o etnicamente, un gruppo oppresso che fa parte della classe lavoratrice sfruttata si ritrova a occuparne il gradino più basso. L’essenziale qui è che la manodopera di questo gruppo subordinato – cioè corpi ed esistenze – è indispensabile al sistema dominante perfino se esso subisce la marginalizzazione sociale e la privazione dei diritti civili. Questa è stata l’esperienza degli degli africani-americani negli Stati Uniti dopo lo schiavismo, come quella degli irlandesi in Gran Bretagna, quella attuale dei latinos negli Stati Uniti, degli indios maya in Guatemala, degli africani durante l’apartheid in Sud Africa, eccetera. Questi gruppi sono spesso subordinati socialmente, culturalmente e politicamente, o de facto o de iure. Essi rappresentano il settore supersfruttato e discriminato delle classi popolari e lavoratrici divise etnicamente e razzialmente. Questa è stata l’esperienza dei palestinesi nell’economia politica israeliana fino ad anni recenti, e nel contesto unico di Israele e Palestina nel XX Secolo.
È la situazione in cui il sistema dominante ha bisogno delle risorse del gruppo subordinato, ma non della sua forza lavoro – non ha bisogno dei corpi dei suoi membri, della loro esistenza fisica. Questa è la struttura razzista che ha maggior probabilità di arrivare al genocidio.
L’ultima struttura razzista comporta l’esclusione e l’appropriazione delle risorse naturali. È la situazione in cui il sistema dominante ha bisogno delle risorse del gruppo subordinato, ma non della sua forza lavoro – non ha bisogno dei corpi dei suoi membri, della loro esistenza fisica. Questa è la struttura razzista che ha maggior probabilità di arrivare al genocidio. È quello che hanno subito i Nativi Americani nell’America del Nord. I gruppi dominanti avevano bisogno della terra dei nativi, ma non della loro forza lavoro o dei loro corpi – dato che gli schiavi africani e gli immigrati europei fornivano la manodopera necessaria al nuovo sistema – di conseguenza i nativi subirono un genocidio. È stata anche l’esperienza dei gruppi indigeni dell’Amazzonia – vaste riserve minerali ed energetiche sono state scoperte nelle loro terre, ma i loro corpi ostacolano letteralmente l’accesso a queste risorse da parte del capitale transnazionale, e di questi corpi non c’è bisogno, di conseguenza oggi in Amazzonia sono in atto spinte verso il genocidio [there are today genocidal pressures in Amazonia].
Si tratta della condizione recente degli africani-americani negli Stati Uniti. Molti africani-americani sono caduti dalla condizione di settore supersfruttato della classe lavoratrice a quella di marginali, dato che i datori di lavoro sono passati dalla manodopera dei neri a quella degli immigrati latinos, a loro volta divenuti manodopera supersfruttata. Diventati strutturalmente marginali in grande quantità, gli africani-americani subiscono un aggravamento del processo di perdita dei diritti civili, la criminalizzazione, una spuria “guerra alla droga,” l’incarcerazione di massa e un terrorismo statale e poliziesco, visti dal sistema come mezzi necessari per controllare una popolazione superflua e potenzialmente ribelle.
I sionisti e i difensori dello stato di Israele si mostrano mortalmente offesi da ogni accostamento tra il nazismo e le azioni dello stato israeliano, inclusa l’accusa di genocidio, in parte perché l’Olocausto ebraico viene utilizzato dallo stato d’Israele e dal progetto politico sionista come un meccanismo di legittimazione, di modo che evocare simili analogie significa mettere in discussione il discorso di legittimazione di Israele.
Oggi, come con i nativi americani prima di loro – e a differenza dei Sudafricani neri – i corpi dei palestinesi non servono più, sono solo ostacoli sul percorso dello stato sionista, delle classi dominanti, dei coloni e aspiranti tali, che hanno bisogno delle risorse palestinesi, in particolare della terra, ma non dei palestinesi. A onor del vero, anche se i lavoratori palestinesi vengono gradualmente espulsi dall’economia israeliana, migliaia di palestinesi della West Bank lavorano ancora in Israele. I russi e gli altri immigrati ebrei che hanno rimpiazzato i lavoratori palestinesi negli anni 90, negli anni successivi hanno continuato a contare sul loro privilegio razziale per essere cooptati nella classe media israeliana, dato che non volevano lavorare insieme agli arabi. Ma mentre accadeva tutto questo, immigrati asiatici, africani (e in genere del sud del mondo) hanno continuato ad arrivare in Israele. Questo passaggio verso la condizione di “umanità in esubero” è in uno stadio più avanzato per gli abitanti di Gaza, che rimangono imprigionati e relegati in quel campo di concentramento che è ormai diventata Gaza. I palestinesi di Gaza sembrano essere il primo gruppo ad affrontare azioni genocide. I sionisti e i difensori dello stato di Israele si mostrano mortalmente offesi da ogni accostamento tra il nazismo e le azioni dello stato israeliano, inclusa l’accusa di genocidio, in parte perché l’Olocausto ebraico viene utilizzato dallo stato d’Israele e dal progetto politico sionista come un meccanismo di legittimazione, di modo che evocare simili analogie significa mettere in discussione il discorso di legittimazione di Israele. Sottolinearlo è cruciale, perché quel discorso è giunto a legittimare politiche di Israele, già in atto o allo stato di proposta, che manifestano una sempre maggiore somiglianza con altri storici esempi di genocidio.
Il noto storico israeliano Benny Morris, professore all’Università Ben Gurion del Negev, il quale si identifica fortemente con Israele, nel 2004 ha rilasciato una lunga intervista ad Haaretz, nella quale ha fatto riferimento al genocidio dei nativi americani allo scopo di suggerire la possibilità che il genocidio sia accettabile. Nell’intervista afferma che “perfino la grande democrazia americana non si sarebbe potuta creare senza la distruzione degli Indiani. Ci sono casi in cui il bene generale ottenuto alla fine giustifica gli atti duri e crudeli che vengono commessi nel corso della storia.” [ There are cases in which the overall, final good justifies harsh and cruel acts that are committed in the course of history] Egli poi prosegue reclamando la pulizia etnica per i palestinesi, affermando che “bisogna pur costruire per loro un qualche tipo di gabbia. So che suona orribile. È davvero crudele. Ma non c’è altra scelta. Lì c’è un animale selvaggio che bisogna rinchiudere, in un modo o nell’altro.”
Le opinioni di Morris non sono generalmente accettate in Israele, men che meno a livello internazionale, e ci sono molte divergenze, contraddizioni e motivi di tensione tra Israele e le élite transnazionali. Esiste anche un crescente movimento globale che chiede il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni [boycott, divestiment and sanctions] (BDS), per esercitare una pressione che spinga le classi dominanti a raggiungere un compromesso in difesa dei loro stessi interessi economici. I futuri sviluppi sono imprevedibili. Che la pressione strutturale a favore di un genocidio si materializzi davvero in un progetto del genere, questo dipenderà dalla congiuntura storica dei momenti di crisi, da condizioni politiche e ideologiche che rendano il genocidio una possibilità, e da un soggetto statale con i mezzi e la volontà di metterlo in atto. Un genocidio al rallentatore sembra già in corso a Gaza, dove, a intervalli di qualche anno, ci sono già stati assedi israeliani della durata di mesi, che hanno causato molte migliaia di morti, decine di migliaia di feriti, centinaia di migliaia di sfollati e un’intera popolazione privata del minimo necessario per vivere, con uno stupefacente consenso del pubblico israeliano per queste campagne. Le condizioni generali per l’avvio di un progetto di genocidio sono lontane dall’essersi manifestate, ma di certo al presente stanno lentamente emergendo [they are certainly percolating at this time]. Sta alla comunità internazionale intraprendere una lotta al fianco dei palestinesi e degli israeliani per bene [5] per prevenire una simile eventualità.
Vorrei ringraziare Yousef Baker e Maryam Griffin per i suggerimenti e i commenti a una precedente stesura di quest’articolo.
William I. Robinson è professore di Sociology, Global Studies and Latin American Studies presso la University of California, Santa Barbara. La sua opera più recente è Global Capitalism and the Crisis of Humanity.
note del traduttore
[1] È una frase ricorrente in Levitico 20, come formula che conchiude il decreto di messa a morte di chi maltratta i genitori, commette adulterio, va a letto con la matrigna, con la nuora, con la zia, fa sesso con animali, fa sesso con un uomo (se uomo), eccetera eccetera. Le lesbiche non erano contemplate, perché vennero inventate molti secoli dopo dalle femministe.
[2] Trovo ammirevole il coup de maître logico-legale che permette di operare una pulizia etnica “in accordance with international law”.
[3] Più precisamente, si tratta della “Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Delitto di Genocidio” (New York, 9 dicembre 1948).
[4] “Il termine bantustan si riferisce ai territori del Sudafrica e della Namibia assegnati alle etnie nere dal governo sudafricano nell’epoca dell’apartheid. (…) Negli anni del regime dell’apartheid voluto dal National Party allora al governo, le diverse etnie nere furono costrette a trasferirsi nei bantustan loro assegnati, e le loro possibilità di spostarsi sul territorio sudafricano furono fortemente limitate. I bantustan erano ufficialmente regioni autogovernate, ma di fatto erano dipendenti dall’autorità del governo sudafricano bianco.” [Wikipedia]
[5] Traduco così “decent”, che indica (più che il corrispettivo italiano “decente”) ciò che è corretto, accettabile, in breve ciò che raggiunge un minimo di rispettabilità.

La ‘Fine della Crescita’ Scatena il Malcontento Globale

Le false promesse delle élite mondiali sull’economia liberista, presentata come panacea per tutti i mali grazie al suo elisir di crescita perenne, aiutano a spiegare i movimenti nazionalisti arrabbiati che stanno mandando in pezzi la politica occidentale, pensa l’ex diplomatico britannico Alastair Crooke.
di Alastair Crooke

da Io Non Sto Con Oriana (fonte
Consortium News, 14 ottobre 2016)


Raul Ilargi Meijer è un esperto editorialista economico ed ha scritto, in modo stringato e provocatorio, che

E’ finita. Il modello su cui le nostre società si sono basate almeno per tutto il tempo in cui siamo vissuti è arrivato alla fine. Ecco perché esistono i Trump.Non c’è nessuna crescita. Non c’è da anni una vera crescita. Ci sono soltanto i vuoti ed insignificanti, ottimistici numeri dei mercati borsistici di Standard and Poor, drogati da uno stracciato costo del denaro e dai buyback, e datori di lavoro che nascondono ai lavoratori indicibili quantità di denaro. E soprattutto esiste il debito, pubblico o privato che sia, che è servito a mantenere in vita una crescita illusoria; le possibilità di ricorrervi sono sempre meno, adesso.
I falsi dati sulla crescita servono ad una cosa soltanto; servono a far sì che la massa lasci i potenti in carica sulle lore comode poltrone. Solo che sono sempre riusciti ad opporre il velo di Oz agli occhi altrui tante e tante volte; ora, quelle tante volte sono finite.
Ecco il perché dei Trump, delle Brexit, dei Le Pen e di tutto il resto. Basta, fine. Tutto quello che ci ha fatto da guida per tutta la nostra esistenza ha perso la direzione e ha perso potenza.

Meijer scrive poi:

Siamo nel bel mezzo del più importante mutamento globale degli ultimi decenni, per certi aspetti addirittura degli ultimi secoli; una rivoluzione vera e propria, che continuerà a rappresentare il più importante fattore impattante sul mondo nei prossimi anni. Nonostante quello, non mi pare che nessuno ne faccia parola. La cosa mi ha sorpreso. Il mutamento di cui sto parlando è la fine della crescita economica mondiale, che porterà inesorabilmente alla fine dei processi centralizzati, globalizzazione compresa. Comporterà anche la fine della maggior parte delle istituzioni internazionali, soprattutto di quelle più potenti.
Sarà la fine anche per quasi tutti i partiti politici tradizionali, rimasti per decenni al governo nei rispettivi paesi e già oggi ai livelli record di impopolarità. Se non avete idea di cosa sta succedendo, date un’occhiata qui in Europa!
Non è questione di cosa vogliono questo o quello, o questo o quel gruppo. Sono in gioco forze ben al di là del nostro controllo, la cui grandezza e la cui portata va oltre la nostra opinione, nonostante si possa trattare di fenomeni costruiti dall’uomo.
Un sacco di persone più o meno intelligenti si stanno rompendo la testa per cercare di capire da dove vengano Trump e la Brexit e Le Pen e tutti questi spaventosi individui e fenomeni e partiti nuovi. Arrivano a formulare teorie incerte e di piccola portata che chiamano in causa gente anziana, gente impoverita razzista e bigotta, gli stupidi, quelli che alle elezioni si sono sempre astenuti, ogni genere di individui.
Solo che nessuno sembra capire o comprendere davvero. E questo lascia stupiti perché non è che la questione sia così difficile. Tutto questo succede perché la crescita è finita. E se finisce la crescita finiscono anche l’espansione e la centralizzazione, in tutta la loro miriade di varietà e di forme.

Più avanti Meijer scrive:

La dimensione globale intesa come prima forza trascinante è finita, il paneuropeismo è finito, e il fatto che gli Stati Uniti continueranno a rimanere tali è tutt’altro che un dato scontato. Stiamo andando verso un movimento di massa favorevole a decine di paesi e di stati separati, e di società che guardano al passato. E tutte si trovano ad affrontare un qualche problema incombente di un qualche genere. Quello che rende la situazione così difficile da affrontare per chiunque è che nessuno vuol prendere atto di nulla di tutto questo. Esattamente dagli stessi luoghi da cui vengono i Trump, la Brexit e i Le Pen arrivano storie di amara povertà.
Il fatto che il baraccone politico, economico e mediatico sforni ventiquattr’ore su ventiquattro e sette giorni su sette messaggi positivi sulla crescita può anche costituire una parziale spiegazione del perché manchino consapevolezza e riflessione, ma si tratta di una spiegazione parziale. Il resto è dovuto a come siamo fatti noi stessi: pensiamo di meritarla, la crescita a tempo indeterminato.

La fine della crescita
Insomma, la crescita economica globale è finita? Raul Ilargi parla un po’ all’ingrosso perché ci sono anche esempi di crescita economica in cui non c’è stata alcuna contrazione, ma è chiaro che gli investimenti basati sul debito e sulle politiche di bassi tassi di interesse si stanno rivelando sempre meno efficacinel risultare in crescita economica o in aumento degli scambi, e a volte non lo sono per niente. Tyler Durden di ZeroHedge scrive:
“Dopo quasi due anni di programmi centrati sul quantitative easing i dati economici nella zona euro rimangono molto deboli. Come spiega il GEFIRA l’inflazione è ancora attorno allo zero e il PIL della zona euro ha iniziato a rallentare invece di accelerare. Secondo i dati della Banca Centrale Europea, per creare un euro di crescita di PIL occorrono diciotto euro e mezzo di quantitative easing… Quest’anno la BCE ha emesso quasi seicento miliardi nell’ambito del programma per l’acquisto di titoli (il quantitative easing).”
Le banche centrali possono anche produrre e stampare denaro, ma questo non significa creare ricchezza o acquisire potere d’acquisto. Incanalando il credito creato verso gli intermediari delle banche a garanzia dei prestiti verso i loro clienti di favore le banche centrali garantiscono potere d’acquisto ad un determinato gruppo di soggetti; questo potere d’acquisto deve per forza venire da un altro gruppo di soggetti europei (nel caso della BCE, arriva dai cittadini) che vedranno ridurre il proprio potere d’acquisto e la discrezionalità con cui potranno spendere il proprio reddito.
L’erosione del potere d’acquisto non è del tipo più ovvio: non esiste una grossa inflazione e tutte le principali valute si stanno svalutando più o meno di pari passo; inoltre le autorità intervengono periodicamente abbassando il prezzo dell’oro, cosicché non esiste alcun segnale evidente per cui le persone possano capire fino a che punto arriva la perduta di valore di tutte le valute.
Anche il commercio mondiale sta soffrendo, come spiegain termini piuttosto eleganti Lambert Strether di Corrente. “Si torna alle spedizioni. Mi sono messo a seguire le spedizioni… un po’ perché è divertente, ma soprattutto perché le spedizioni hanno a che fare con beni concreti, e seguire i percorsi delle merci mi è sembrato un modo molto più interessante di toccare con mano il funzionamento dell’economia; senz’altro più delle statistiche economiche, per tacere di tutti i libri di cui quelli di Wall Street parlano un giorno sì e l’altro pure. E non mi fate parlare di Larry Summers.
Quello che ho notato è che c’era un declino. E non si trattava di piccoli passi indietro seguiti da balzi in avanti, ma di un declino vero e proprio andato avanti per mesi e alla fine per un anno intero. Declina il trasporto ferroviario, persino quando le merci sono grano e carbone, e declina la domanda di vagoni. Declina il trasporto su ruota, e con esso la domanda di camion. Il trasporto aereo se la passa male. I porti del Pacifico non saranno affollati di merci sotto Natale. E adesso è arrivato anche il fallimento di HanJin, con tutti quei capitali fermi nelle navi alla fonda e coperto per solo dodici miliardi di dollari o qualcosa del genere, e l’ammissione generale che forse noi abbiamo investito un pochettino troppo in grandi navi e grandi imbarcazioni, il che significa -credo- che dobbiamo spedire molte meno merci di quello che pensavamo, almeno via mare.
Nel frattempo, in apparente contraddizione rispetto al lento collassare del commercio mondiale ed anche all’opposizione ai “trattati commerciali” uno dei pochi settori trainanti dell’immobiliare è quello dei magazzini, e la gestione delle catene di distribuzione è un campo esaltante. Un campo pieno di sociopatici fuori da ogni limite, e dunque dinamico ed in crescita!
Ecco, le statistiche economiche sembra dicano che non c’è nulla che non va. I consumatori sono il motore dell’economia e sono fiduciosi. Ma alla fin fine le persone hanno bisogno di beni perché si vive in un mondo materiale, anche se si è convinti di star vivendo a modo proprio. Un bel rompicapo. Io vedo una contraddizione: si muovono meno merci, ma i numeri dicono che va bene così. Ho ragione su questo? Allora, devo pensare che i numeri non sono significativi, ma le merci sì.”
Un elisir fasullo
In altre parole, se vogliamo essere ancor più falsamente empirici come notaBloomberg in A Weaker Currency is no longer the Elixir, It Once Was, “le banche centrali di tutto il mondo hanno tagliato i tassi di interesse per 667 volte dal 2008 in poi, secondo Bank of America. Nel corso di questo periodo le prime dieci valute agganciate al dollaro sono crollate del quattordici per cento e le economie del G8 sono cresciute in media dell’uno per cento appena. Secondo Goldman Sachs dalla fine degli anni Novanta un deprezzamento del dieci per cento al netto dell’inflazione nelle valute di ventitré economie avanzate ha spinto le esportazioni nette soltanto dello zero virgola sei per cento del PIL. Come raffronto, c’è l’uno virgola tre per cento del PIL dei due decenni precedenti. Gli scambi commerciali tra gli USA e gli altri paesi sono passati a tremilasettecento miliardi di dollari l’anno nel 2015 dai tremilanovecento che erano nel 2014.”
Fine della crescita, fine della globalizzazione. Su questo è d’accordo persino il Financial Times, il cui editorialista Martin Wolf scrive in The tide of Globalisation is turning: “Il meno che si possa dire è che la globalizzazione si è fermata. Si potrebbe tornare perfino indietro? Certamente. Occorre che le grandi potenze siano in pace… E’ importante che la globalizzazione si sia fermata. Certamente.”
La globalizzazione si è davvero fermata. Ma non a causa delle tensioni politiche, che sono un comodo giustificativo, ma perché la crescita è fiacca e questa debolezza è il risultato di una provata concatenazione di fattori che ne hanno causato l’arresto, oltre che del fatto che siamo entrati in una fase di deflazione che sta drasticamente contraendo quanto è rimasto del reddito disponibile al consumo per le spese a discrezione. Wolf ha comunque ragione. Inasprire le tensioni con Russia e Cina non risolverà i problemi del sempre più debole controllo ameriKKKano sul sistema finanziario mondiale, anche se la fuga dei capitali verso il dollaro potrebbe far passare un fugace momento di rialzo al sistema finanziario statunitense.
Cala il sipario sulla globalizzazione. Ma cosa significa realmente questa espressione? Indica la fine del mondo finanziarizzato costruito dal neoliberismo? Difficile dirlo. Ma nessuno si aspetti rapidi dietrofront, e tantomeno delle scuse. La grande crisi finanziaria del 2008 all’epoca fu vista da molti come ultimo atto del neoliberismo. Ma le cose non sono andate così: anzi, il periodo di tagli e di austerità che seguì inasprì la sfiducia nello status quo ed aggravò la crisi che ha le sue radici nella diffusa opinione che “la società” in generale stia andando nella direzione sbagliata.
Il neoliberismo dispone di solide basi, non da ultimo nella troika europea e nell’eurogruppo che fanno gli interessi dei creditori e che grazie alle regole dell’Unione Europea sono arrivati a dominare la politica finanziaria e fiscale dell’Unione.
E’ troppo presto per capire da dover arriverà la sfida all’ortodossia prevalente sul piano economico, ma in Russia esiste un aggregato di eminenti economisti che si sono riuniti nel gruppo Stolypine che sta levando un nuovo interesse verso Friedrich List, il vecchio avversario di Adam Smith morto nel 1846, che sviluppò un “sistema nazionale di politica economica.” List antepose gli interessi della nazione a quelli dell’individuo. Mise in risalto l’idea di nazione ed enfatizzò le particolari necessità di ogni nazione secondo le circostanze in cui essa si trova, soprattutto in rapporto al suo grado di sviluppo. List è noto per aver dubitato della sincerità delle invocazioni al libero mercato che arrivavano dai paesi sviluppati, con particolare riguardo al Regno Unito. In sostanza fu il primo no global.
Il dopo globalizzazione
Il pensiero di List potrebbe ben adattarsi alla corrente tendenza post-globalizzazione. La presa d’atto di List della necessità di una strategia industriale a livello nazionale e il suo ribadire il ruolo dello stato come garante finale della coesione sociale non sono cose cui sta flebilmente dietro soltanto una manciata di economisti russi. Si tratta di concetti che stanno facendo il loro ingresso nel discorso politico corrente. Proprio il governo May, nel Regno Unito, sta rompendo con il modello neoliberista che ha guidato la politica britannica dagli anni Ottanta in avanti; ed è una rottura che va verso un approccio alla List.
Sia come sia, che questo modo di vedere le cose torni in auge o meno, il docente e filosofo politico britannico molto attento ai fenomeni contemporanei John Gray ipotizzache la cosa stia in questi termini:

Il riaffermarsi dello stato è uno dei punti su cui il tempo presente si distanzia dai “tempi nuovi” pronosticati da Martin Jacques e da altri osservatori negli anni Ottanta. All’epoca sembrava che le frontiere nazionali stessero liquefacendosi e che si fosse prossimi all’instaurazione di un mercato libero globale. Io non ho mai trovato credibile questa prospettiva. Esisteva un’economia globalizzata prima del 1914, ma si basava sulla mancanza di democrazia. La mobilità di capitali e di forza lavoro priva di qualsiasi controllo può anche impennare la produttività e produrre ricchezza su una scala senza precedenti, ma ha anche un impatto fortemente distruttivo sulla vita dei lavoratori, specie quando il capitalismo entra in una delle sue crisi periodiche. Quando il mercato globale attraversa un brutto quarto d’ora il neoliberismo finisce nella spazzatura perché si deve venire incontro ad una diffusa richiesta di certezze. Oggi, questo è quanto sta accadendo.
Se la tensione fra capitalismo globale e stato nazionale è stata una delle contraddizioni del thatcherismo, il conflitto tra globalizzazione e democrazia è stato la nemesi della sinistra. Da Bill Clinton a Tony Blair in poi il centrosinistra ha abbracciato il progetto del libero mercato globale con lo stesso ardente entusiasmo dimostrato dalla destra. Se la globalizzazione colpisce la coesione sociale, occorre riplasmare la società perché faccia da puntello al mercato. Il risultato? Ampi settori della popolazione sono stati abbandonati a marcire nella stagnazione o nella povertà, in qualche caso senza alcuna prospettiva di trovare un ruolo produttivo nella società.

Se Gray ha ragione ad affermare che quando l’economia globalizzata passa un brutto momento la gente esige che lo stato presti attenzione alla situazione economica dei loro paraggi, del loro paese e non alle utopistiche preoccupazioni della élite accentratrice, se ne deve concludere che la fine della globalizzazione comporta anche la fine della concentrazione della ricchezza in tutte le sue manifestazioni.
Ovviamente l’Unione Europea, che è un simbolo di questa asociale concentrazione, dovrebbe fermarsi un momento e riflettere. ScriveJason Cowley, editorialista del New Statesmanorientato a sinistra: “In ogni caso… comunque lo si voglia chiamare, [l’arrivo dei “tempi nuovi”] non porterà ad una rinascita della socialdemocrazia: sembra che in parecchi paesi occidentali stiamo invece entrando in un periodo in cui i partiti di centrosinistra non riescono a formare maggioranze di governo perché hanno perso suffragi in favore di nazionalisti, populisti e di alternative più radicali.”
Il problema della delusione
Torniamo adesso all’affermazione di Ilargi secondo cui “Siamo nel bel mezzo del più importante mutamento globale degli ultimi decenni… non mi pare che nessuno ne faccia parola. La cosa mi ha sorpreso”, cui Ilargi stesso risponde che in fin dei conti questo silenzio è dovuto a noi stessi, che “pensiamo di meritarla, la crescita a tempo indeterminato.”
Ilargi ha ragione a pensare che in qualche modo questo costituisca una risposta alla visione, cara al cristianesimo, del progresso inteso come processo lineare (in questo caso materiale, più che spirituale). Ma in termini più pragmatici, la crescita non è il fondamento di tutto il sistema globale finanziarizzato dell’Occidente? Non è la crescita economica che doveva “liberare gli ‘altri’ dalla loro condizione di povertà”?
Si ricorderà che Stephen Hadley, ex consigliere per la Sicurezza Nazionale del presidente degli USA George W. Bush, ha detto chiaramenteche gli esperti di politica estera dovrebbero prestare molta attenzione al crescente risentimento diffuso, che “la globalizzazione è stata un errore”, e che “le élite hanno condotto [gli USA] come dei sonnambuli verso una situazione pericolosa”.
Hadley ha affermato che “queste elezioni presidenziali non sono soltanto un referendum su Donald Trump; riguardano i motivi di scontento verso il nostro sistema democratico e il modo in cui intendiamo affrontarli… Chiunque vinca, dovrà affrontare questa situazione.”
In poche parole, se la globalizzazione apre la strada allo scontento, la mancanza di crescita economica rischia di minare tutto il progetto finanziarizzato globale. Secondo Stiglitz tutto questo era evidente già da una quindicina d’anni; appena un mese faha scritto che già allora aveva individuato “una crescente opposizione, nei paesi in via di sviluppo, verso le riforme favorevoli alla globalizzazione. All’apparenza era un fenomeno strano, perché alla gente dei paesi in via di sviluppo era stato raccontato che la globalizzazione avrebbe fatto aumentare il benessere generale; perché in così tanti si mostravano ostili nei suoi confronti? Come può un fenomeno che a detta dei nostri leader politici e di molti economisti avrebbe fatto vivere tutti meglio incontrare un tale disprezzo? A volte si sente dire da qualche economista neoliberista, paladino di queste politiche, che le persone vivono davvero meglio, solo che non lo sanno. Questo loro scontento è materia per psichiatri, non per economisti.”
Ora, questo scontento di nuovo genere a detta di Stiglitz si è esteso anche alle economie avanzate. Forse è a questo che Hadley si riferisce quando afferma che “la globalizzazione è stata un errore.” La globalizzazione sta oggi minacciando l’egemonia finanziaria ameriKKKana, e dunque anche la sua egemonia politica.
DOPPIOCIECO

Per una Razionalità Moderatamente Pluralista